IL PRETORE Ha emesso la seguente ordinanza ex art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87. A. - Esaminati gli atti del presente procedimento, dai quali emerge la seguente situazione processuale: 1) che in data 10 aprile 1998, in Roma, la polizia di Stato ha arrestato in flagranza di tentato furto pluriaggravato due stranieri sprovvisti di qualsivoglia documento di identificazione, che dichiaravano chiamarsi Soudani Salah, nato in Algeria il 24 ottobre 1967 ed Ali' Mohamed, nato il 5 febbraio 1975, e la cui identita' fisica quello stesso giorno veniva accertata con rilievi identificativi ex art. 349 c.p.p. presso il Centro Interregionale di polizia scientifica della polizia di Stato (verificandosi come in occasione di precedenti arresti e controlli di p.g. gli stessi fossero gia' stati identificati con rilievi e dattiloscoplici e fotosegnaletici piu' volte, dopo aver rilasciato generalita' sempre diverse, sino a collezionare Soudani nove, Ali' dodici alias: si veda la nota informativa in atti 11 aprile 1998 polizia di Stato); 2) che il p.m. li presentava al pretore il giorno successivo per la convalida dell'arresto ed il giudizio direttissimo, quali imputati "del reato di cui agli artt. 56, 110, 624-625 nn. 4 e 6 c.p, perche' in concorso tra loro ed al fine di trarne profitto compivano atti idonei diretti in modo non equivoco ad impossessarsi con destrezza del portafoglio di Fioro Mara, commettendo il fatto davanti alla biglietteria FF.SS. di Roma Termini; in Roma, 10 aprile 1998"; 3) che ad esito della udienza di convalida - nel corso della quale gli arrestati ammettevano di avere tentato di rubare "per mangiare", entrambi dichiarandosi nati in Algeri (Algeria), e confermando le date di nascita in precedenza fornite agli operanti; Ali' altresi' dichiarandosi non sposato e senza figli - con ordinanza 11 aprile 1998 gli arresti venivano convalidati, senza applicazione di misure cautelari, non richieste dal p.m.,con conseguente liberazione dei due imputati, che chiedevano i termini a difesa; 4) che all'udienza del 22 aprile 1998 perveniva nota questura di Roma 18 aprile 1998, attestante come entrambi gli imputati non risultino titolari di alcun permesso di soggiorno, al contrario risultando gia' espulsa dal prefetto di Roma il 4 giugno 1993 persona identificata come Mahfoud Toufik nato in Marocco il 5 febbraio 1975 con rilievi identificativi che la fanno corrispondere alla persona dell'attuale imputato Ali' Mohamed; 5) che nella medesima udienza del 22 aprile 1994, l'imputato Ali' Mohamed presentava richiesta ex art. 444 c.p.p. di applicazione della pena di mesi due di reclusione e L. 200.000 di multa (con attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, pena base, gia' calcolata la riduzione per il tentativo, di mesi tre di reclusione e L. 300.000 di multa, ridotta di un terzo per il rito), con richiesta dei benefici ex artt. 163 e 175 c.p.p. ma espresamente non subordinandosi l'istanza "di patteggiamento" alla loro concessione. E che il p.m. prestava il proprio consenso; 6) che l'esito dei riscontri sui rilievi fotografici e dattiloscopici operati sulla e nei confronti della medesima pesona fisica nell'occasione dell'arresto per cui si procede qualificatasi come Ali' Mohamed evidenzia come in una trentina di diverse occasioni - delle quali 20 per arresto in flagranza, quasi sempre per furto - lo stesso si sia sempre qualificato con generalita' diverse; e che l'esame dei certiticati penali e dei carichi pendenti parimenti per restare ai soli dati che paiono per gli alias certamente riferibili ad Ali', una condanna definitiva con sentenza pretore Savona 13 agosto 1993 a dodici mesi di reclusione e L. 300.000 di multa (per fatto commesso 12 agosto 1993), un procedimento pendente per rapina/lesioni/resistenza (per commesso 9 novembre 1994), due recenti sentenze di primo grado non definitive del 14 luglio e del 4 dicembre 1997 del pretore di Roma per complessivi ulteriori mesi sette di reclusione e L. 700.000 di multa (per fatti commessi in entrambi i casi il giorno prima): precedenti giudiziari e penali, in relazione ai quali, nonche' in relazione al pluriennale tentativo di sottrarsi a controlli e responsabilita' mediante rilascio di generalita' diverse in occasione di ogni fermo, arresto o contro per identificazione, deve ritenersi che non vi sia possibilita' di presumere che l'Ali' si asterra' in futuro dal commettere ulteriori reati per cui si procede, nei suoi confronti essendosi dimostrato non avere alcuna deterrenza alla commissione di reati ne' le precedenti condanne, e per alcune la loro esecuzione, ne' la pendenza dei procedimenti per reati anche gravi, ne' lo status di espulso; con la conseguenza che deve ritenersi sia non concedibile la sospensione condizionale della pena; 7) ritenuto - con Cass. ss.uu. 11 giugno 1993, n. 5882 - che, non essendo la richiesta ex art. 444 c.p.p. stata subordinata alla concessione del beneficio di cui all'art. 163 c.p.. essa possa essere accolta anche non disponendosi la concessione della sospensione condizionale; nel merito ritenendosi per altro verso: 1) di non dover pronunciare sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 129 c.p.p. (in dipendenza della flagranza, constatata nel verbale di arresto, e riferita dall'operante Trovalusci nel corso dell'udienza di convalida; nonche' della confessione, pure intevenuta in sede di convalida); 2) che la qualificazione giuridica del fatto per il quale vi e' richiesta ex art. 444 c.p.p. sia corretta, cosi' come l'applicazione e la comparizione delle attenuanti generiche (strumento legislativo messo a disposizione del giudice per proporzionare la pena all'effettivo rilievo criminale del reato quando - come nel caso - non sia grave ed il reato steso non abbia leso in modo incisivo, dal punto di vista dell'interesse generale, beni costituzionalmente protetti); 3) che, avuto riguardo ai parametri ex art. 133 c.p., e tenuto conto della natura dell'episodio, espressione piu' che di capacita' a delinquere di estrema marginalita' sociale se non di disperazione ("ho rubato per mangiare", ha affermato Ali' e non sono invero emersi dati che facciano ritenere di maniera tale dichiarazione), le pene di cui le parti chiedono l'applicazione siano correttamente determinate e quantificate, e siano adeguate alle finalita' descritte dall'art. 27/3 della Costituzione; 8) rilevato in fatto che il richiedente pena in applicazione ex art. 444 c.p. Ali' Mohamed non ha allegato cittadinanza di Stato dell'Unione europea, ne' di essere apolide, ne' la sussistenza di alcuna delle situazioni ostative all'espulsione in Algeria, di cui all'art. 17, legge n. 40/1998; che lo stesso Ali' - a prescindere dal decreto di espulsione nei suoi confronti gia' emessosi, di cui sopra - si trova nella condizione personale per essere espulso ai sensi dell'art. 11, comma 2, cit. legge 40/1998; che non risulta ricorrano in fatto le cause ostative all'espulsione di cui all'art. 12, comma 1, stessa legge; che Ali' Mohamed non ha richiesto l'espulsione; Rilevato come in tale situazione processuale sia dato al giudice, accogliendo la richiesta di "patteggiamento", di utilizzare la discrezionale possibilita' di sostituire la pena detentiva con la misura dell'espulsione offertagli dall'art. 14 legge 6 marzo 1998, n. 40; e ritenuto di poter e dover nel caso di disporre tale sostituzione; B. - Osservato quanto segue in ordine all'art. 14, legge 6 marzo 1998, n. 40. La legge 6 marzo 1998, n. 40 - in vigore dal 27 marzo 1998 - costituisce, come si evidenzia nel suo titolo, la nuova generale ed organica "disciplina dell'immigrazione" e della "condizione dello straniero", definito come "il cittadino di Stato non appartenente all'Unione europea" o l'"apolide" (art. 1, comma 1). La legge "non si applica ai cittadini degli Stati membri dell'Unione europea, se non in quanto si tratti di norme piu' favorevoli" (art. 1, comma 2, che fa salvo il contenuto del futuro decreto delegato di cui al successivo art. 45, che dovra' contenere la disciplina organica dell'ingresso, del soggiorno e dell'allontanamento dei cittadini dell'Unione europea). Posti in via generale i "diritti e doveri dello straniero", in attuazione e a volte in pleonastica ripetizione di principi costituzionali (art. 2: tra i diritti, "la parita' di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi"), istituito il quadro normativo procedurale delle future "politiche migratorie" (art. 3), regolati i termini fondamentali della disciplina in tema di ingresso e soggiorno dell'extracomunitario nel territorio della Repubblica, che il regolamento di attuazione dovra' dettagliare (artt. da 4 a 7), la legge passa a regolare il potenziamento e coordinazione dei controlli alle frontiere ed il "respingimento" dalle stesse dello straniero che tenti l'ingresso in Italia senza i requisiti da essa previsti (artt. 8 e 9), per poi istituire una serie di fattispecie penali "contro le immigrazioni clandestine" (art. 10), e diversi generi di espulsione. La legge all'art. 11 regola innanzitutto l'espulsione amministrativa, istituendone due figure: l'espulsione amministrativa per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato (art. 11, comma 1, disposta dal Ministro dell'interno, figura residuale e "politica" di alta amministrazione, palesemente concepita come strumento di governo per casi particolari se non eccezionali) e l'espulsione amministrativa dello straniero entrato nel territorio senza i requisiti previsti dalla legge e non respinto alla frontiera, dello straniero trattenutosi nel territorio che non ha richiesto nel termine prescritto il permesso di soggiorno o che non ha chiesto il rinnovo del permesso annullato, revocato o scaduto da oltre sessanta giorni, dello straniero appartenente a talune delle categorie di cui agli artt. 1, legge 27 dicembre 1956, n. 1423, o 1, legge 31 maggio 1965, n. 575. Regolate le modalita' esecutive di tali forme di espulsione nonche' le procedure di impugnazione dei decreti che le dispongono (artt. 11, commi da 3 a 16, art. 12), la legge istituisce infine l'espulsione a titolo di misura di sicurezza dello straniero condannato per taluno dei delitti previsti dagli artt. 380 e 381 c.p.p.che risulti altresi' "socialmente pericoloso" (art. 13), ed infine l'espulsione "a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione" (cosi' la rubrica dell'art. 14). E' quest'ultima forma di espulsione che viene in questa sede in rilievo. Statuisce dunque l'art. 14 della legge in esame: "il giudice, nel pronunciare sentenza di condanna per un reato non colposo o nell'applicare la pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p. nei confronti dello straniero che si trovi in taluna delle situazioni indicate nell'art. 11, comma 2, quando ritiene di dover irrogare la pena detentiva entro il limite di due anni e non ricorrono le condizioni per ordinare la sospensione condizionale della pena ai sensi dell'art. 163 c.p. ne' le cause ostative indicate nell'art. 12, comma 1, della presente legge, puo' sostituire la medesima pena con la misura dell'espulsione per un periodo non inferiore a cinque anni (comma 1). L'espulsione e' eseguita dal questore anche se la sentenza non e' irrevocabile, secondo le modalita' di cui all'art. 11, comma 4." (comma 2) (vale a dire: "dal questore, con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica"). L'art. 17 successivo, con norma "di chiusura" del capitolo della legge dedicato alle espulsioni, che idealmente integra la serie dei presupposti di legge dei diversi generi delle stesse e quindi anche dell'espulsione di cui all'art. 14, aggiunge poi che "in nessun caso puo' disporsi l'espulsione o il respingimento" - oltre che della donna in stato di gravidanza o nei sei mesi dal parto, dello straniero convivente con parenti entro il quarto grado o con coniuge di nazionalita' italiana, dello straniero in possesso della carta di soggiorno (salvo il disposto dell'art. 7, commi 5 e 9), del minore di anni 18 che non debba seguire il genitore o l'affidatario espulsi, e salva la possibilita' dell'espulsione "politica" ex art. 11, comma 1, - "verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione". Se l'ampiezza di tale ultimo presupposto - di per se' espressione di una nel sistema irrinunciabile applicazione di principi fondamentali della nostra Costituzione oltre che in ogni Stato democratico e non confessionale - appare potenzialmente in grado di paralizzare la pratica applicazione dei vari tipi di espulsione in presenza anche solo dalla semplice allegazione da parte dell'interessato di un mero rischio di discriminazione ad es. per ragioni "sociali" (le meno facilmente distinguibili tra quelle elencate: non si vede infatti come il prefetto od il giudice possa in concreto escludere la sussistenza anche del solo rischio di una delle tante discriminazioni nominate: forse preferibile sarebbe stato oggettivare maggiormente il presupposto, e legarlo al rischio documentato per il soggetto di subire nel Paese di destinazione pena capitale o altre sanzioni o limitazioni contrarie al senso di umanita' o a convenzioni internazionali), deve osservarsi come l'espulsione di cui all'art. 14 obblighi, per la sua novita' nel sistema, ad un accertamento sulla sua natura giuridica e ad una deliberazione di conformita' a Costituzione. Primo accertamento da compiersi e' evidentemente quello in ordine alla natura giuridica dell'espulsione istituita dal riportato art. 14: se si tratti di un nuovo genere di pena criminale sostitutiva, che va ad aggiungersi a quelle tradizionali di cui agli artt. da 53 a 61, legge 689/1981, o se si tratti di una misura amministrativa, seppure disposta dal giudice penale. Ove si ritenga che le definizioni date dal legislatore nelle rubriche degli articoli di legge siano fonte decisiva di ricostruzione della sua intenzione normativa, l'indagine finisce prima ancora di iniziare: la rubrica dell'art. 14 titola infatti "espulsione a titolo di sanzione sostitutiva della detenzione", e non lascia dubbi, anche considerandosi l'utilizzo di espressione - "sanzione sostitutiva" - che nell'ordinamento ha significato normativo definito e tecnicamente pregnante (v. cit. legge 698/1981 o, ad es., art. 444 c.p.p.). Ove invece - come per chi scrive - si ritenga che le definizioni di rubrica siano solo un dato indiziario della reale intenzione del legislatore, utilizzabile per chiarirla ove interpretazione letterale e sistematica delle disposizione di legge non permettano di individuare con sicurezza la norma che esprime, l'indagine e' piu' complessa, ma a sommesso avviso di questo pretore la conclusione cui si giunge e' identica: l'art. 14 istituisce non la possibilita' per il giudice penale di disporre una misura amministrativa, ma una nuova figura di sanzione sostitutiva della pena detentiva. Infatti. Vero e' che la lettera della disposizione definisce l'espulsione "misura" che puo' sostituire "pena". Ma il dato pare frutto di scarso tecnicismo del linguaggio legislativo, nessun altro elemento della disposizione autorizzando la conclusione che di misura amministrativa si tratti. Puo' infatti osservarsi: 1) rimanendo sul dato letterale, come non si dica che il giudice "in luogo di applicare una pena, dispone la misura dell'espulsione", bensi' che con l'espulsione il giudice puo' "sostituire" la pena detentiva, con cio' utilizzandosi verbo ed espressione come detto tecnicamente nel sistema a significato definito e pregnante, che si riferisce a punizioni di diverso tipo ma appunto appartenenti all'unico genere delle pene criminali; 2) a differenza dell'espulsione gia' regolata dall'art. 7, commi 12-bis e 12-ter, legge 28 febbraio 1990, n. 39, (nel testo introdotto dall'art. 8, comma 1, d.-l. 14 giugno 1993, n. 187 convertito con modificazioni nella legge 12 agosto 1993, n. 296, ed ora abrogato dall'art. 46, comma 1, lett. e), legge 40/1998 in esame) - espulsione decisa con ordinanza e solo su richiesta dello straniero o del suo difensore - quella di cui si discute puo' essere dal giudice applicata in luogo della detenzione solo con sentenza (anche magari con sentenza ex art. 444 c.p.p.): sentenza, che nel nostro ordinamento e' l'atto per definizione di esercizio della giurisdizione e non dell'amministrazione, l'atto dello juris dicere, con cui appunto si dichiara qual e' il diritto, con cui in penale si accertano le responsabilita' e si applicano le pene, e non l'atto con cui si amminisra. Cosi' che ove si voglia in ogni caso leggere nell'espressione "puo' sostituire la pena con la misura" un modo magari sbrigativo ed atecnico dal punto di vista del lessico di istituire in capo al giudice la discrezionale possibilita' nella ampia generalita' di casi considerata dalla disposizione di disporre la rinuncia dello Stato italiano alla esecuzione della pena detentiva nei confronti dello straniero che ha commesso reati sul suo territorio in favore di una espulsione in via amministrativa, per quanto eccezionalmente disposta dal giudice, deve ritenersi credibile un fenomeno di schizofrenia legislativa: deve ritenersi plausibile che il legislatore, dopo aver titolato la rubrica dell'articolo con espresso riferimento all'istituto della sanzione sostitutiva della detenzione, abbia voluto poi prevedere in forma invece implicita ed involuta, con norma ricostruibile solo in via interpretativa - e non in una "leggina" di modifica di preesistenti normative ma in una legge organica e di generale riordino della materia come quella in esame - una serie di rivoluzionarie novita' per l'ordinamennto italiano non solo penale quali l'irrompere del giudice penale della giurisdizione alla amminisrtrazione diretta di un settore ormai delicatissimo della vita pubblica, la rinuncia dello Stato alla esecuzione carceraria in una serie amplissima di fattispecie in base ad una condizione personale del condannato, l'applicabilita' di misure amministrative con sentenza, e, con esse nuove serie procedimentali processuali di applicazione generale; 3) infatti, sul piano processuale, sempre tenendo presente come l'atto con cui tale espulsione da parte del giudice puo' essere disposta e' la sentenza, anche ex art. 444 c.p.p., ove si ritenga che di misura amministrativa si tratti, deve ritenersi che in via altrettanto rivoluzionaria ed eccezionale si sia voluto creare uno speciale patteggiamento in cui in alternativa o si prevede che p.m. ed imputato possano accordarsi in ipotesi non su di una pena o su di una sanzione sostitutiva (art. 444 c.p.p.) ma su di una pena e sulla sua sostituzione con un provvedimento amministrativo, oppure si prevede che p.m. ed imputato possano accordarsi ex art. 444 c.p.p. come da regola generale sull'applicazione di una sanzione penale e che il giudice, non richiesto e a sua discrezionalita', possa porre nel nulla il loro accordo, inerente e a sua discrezionalita', possa porre nel nulla il loro accordo, inerente sanzione, sostituendolo con una misura amministrativa; 4) l'analisi dell'art. 14 nel sistema della legge 40/1998 fa poi eslcudere che la espulsione regolata dall'art. 14 sia la medesima espulsione dell'art. 11, solo disposta dal giudice anziche' dal prefetto: l'espulsione in esame infatti ha, come uno dei suoi presupposti di fatto, il trovarsi lo straniero "in taluna delle situazioni indicate nell'art. 11, comma 2", sopra sintetizzate, vale a dire presupposto che, a prescindere da vicende giudiziarie e commissione di reati, ed in presenza delle altre condizioni di legge, gia' legittima l'espulsione disposta dal prefetto, provvedimento istituito non come discrezionale ma come obbligatorio (art. 11/2: l'espulsione non "puo' essere" ma "e'" disposta), soggetto a nulla osta giudiziario per i soli ed e' facilmente prevedibile rari casi di "inderogabili esigenze processuali" (art. 11, comma 3): sostenendosi che l'art. 14 regoli in realta' sempre e comunque misura amministrativa, razionale ragione per spiegare per quale motivo si sarebbe voluto affiancare il giudice al prefetto nella possibilita' di decretarla puo' essere quella del ritenere essersi residualmente voluta prevedere, per economia procedimentale, la competenza del giudice nell'adozione del medesimo tipo di espulsione di cui all'art. 11 per quei casi in cui l'espulsione per qualsiasi motivo non sia stata in fatto disposta dal prefetto: in tal modo opinandosi, diventa pero' non comprensibile, nell'identita' del presupposto amministrativo e del tipo di provvedimento, per quale motivo che cio' che e' obbligatorio per il prefetto diventi discrezionale per il giudice (tantopiu' dopo la commissione di un reato accertato con sentenza pur non irrevocabile), per quale motivo il giudice non possa immediatamente decretarla con ordinanza o decreto - magari salve "inderogabili esigenze processuali" - e per poterla disporre debba accertare prima la responsabilita' penale, per quale motivo il giudice non possa disporla quando assolve, perche' infine il giudice non possa disporla per il solo fatto che il reato che accerta e' colposo o per il solo fatto che e' applicabile la condizionale. La conclusione si crede evidente e' che la espulsione in esame e' di natura diversa da quella dell'art. 11 legge 40 cit; 5) la lettera dell'art. 14 offre poi un ulteriore argomento alla tesi che si sostiene. Che il legislatore, scritta frettolosamente ed in modo irriflesso la rubrica, abbia poi voluto istituire, accanto alle espulsioni amministrative, una autonoma e diversa figura di espulsione a natura amministrativa (per quanto discrezionalmente ordinabile dal giudice penale) dello straniero irregolare condannato per reato doloso o preterintenzionale ad oltre due anni di pena detentiva non sospendibile puo' anche sostenersi ritenendosi che con il nuovo istituto molto semplicemente si sia voluta creare la possibilta' per il giudice penale di valutare, come prioritaria ed assorbente su quelle inerenti l'esecuzione della pena detentiva, l'esigenza pubblicisticamente apprezzabile dal punto di vista dell'amministrazione penitenziaria di evitare con l'espulsione i costi sociali nel senso piu' ampio intesi dell'esecuzione carceraria, nei confronti di soggetto passibile di espulsione e nei confronti del quale scemano le esigenze punitive e di un reinserimento senza possibile concreto significato. Una siffatta intenzione politica e' con ogni probabilita' vicina alle posizioni delle forze che hanno sostenuto la legge, ma si e' trasfusa in un testo dal quale tale intenzione non e' ricavabile in alcun modo con le regole di una corretta interpretazione: oltre che gli argomenti di cui sopra sub 1), 2), 3), di ostacolo alla ricostruzione di una simile "intenzione del legislatore" e' infatti la limitazione della possibile operativita' dell'istituto ai soli reati non colposi: la ratio di espellere lo straniero irregolare anziche' eseguire nei suoi confronti la pena detentiva e' infatti scelta legislativa che evidentemente puo' estendersi ai casi di chi debba espiare pena detentiva per responsabilita' penale colposa. La limitazione impedisce di "leggere" nella norma l'esposta possibile intezione di politica giudiziaria e penitenziaria. Che si argomenti dalla lettera e quindi anche dal lessico usato nella disposizione, dalla natura dell'atto con cui il provvedimento puo' essere preso, dall'inserirsi del nuovo istituto nell'ordinamento non solo penale, ed in quello processuale, dalla collocazione dell'art. 14 nell'ambito della legge n. 40/1988, o dalla rubrica della disposizione, la conclusione a sommesso avviso di questo pretore e' la stessa: l'espulsione ordinabile dal giudice ai sensi dell'art. 14, legge n. 40/1988 e' sanzione penale, sostitutiva della pena detentiva in concreto irrogata entro il limite di due anni e non sospendibile, e non e' misura amministrativa. Con norma da ritenersi nella piu' parte dei casi piu' favorevole al reo (in un sistema come il nostro, che vede la liberta' personale bene inviolabile dell'uomo, artt. 2, 13, Cost., l'essere detenuti se non per brevissimo periodo appare trattamento comunque deteriore rispetto all'essere espulsi, liberi, in Paese in cui non si rischiano le persecuzioni descritte dall'art. 17 della legge: norma piu' favorevole, da ritenersi pero' in ogni caso non applicabile ai cittadini degli Stati membri dell'Unione europea, nonostante il disposto dell'art. 1, comma 2, legge n. 40, solo per l'espresso rinvio ivi contenuto alla futura organica regolamentazione tra l'altro dei casi di allontanamento dei cittadini U.e.), puo' dirsi qundi si sia introdotto un nuovo tipo di sanzione sostitutiva, applicabile con sentenza anche ex art. 444 c.p.p., in presenza delle condizioni di cui all'art. 14, nei casi di condanna per ogni genere di reato doloso o preterintenzionale anche contravvenzionale, non applicabile - oltre che nei casi previsti dall'art. 17, necessariamente riferibile a tutti i tipi di espulsione previsti dalla legge - altresi' ai casi di condanna per reati colposi a prescindere dalla loro gravita' e dalla pena per essi irrogata, di durata stabilita solo nel minimo - "non inferiore a cinque anni" -, a contenuto non organicamente regolato come per semidetenzione e liberta' controllata dagli artt. 55 e 56, legge n. 689/1981 ma certo ricavabile dalla legge n. 40 (v. ad es. artt. 11/4 e 11/13), eseguibile infine "anche se la sentenza non e' irrevocabile", con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica. C. - Ritenuta la non manifesta infondatezza delle seguenti questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 14, legge 6 marzo 1998, n. 40. Accertata la natura di sanzione penale, sostitutiva della pena detentiva, dell'espulsione introdotta dall'art. 14, legge n. 40/1998, puo' analizzarsi la legittimita' costituzionale del nuovo istituto; si profilano diverse questioni: 1) dell'art. 14, legge 6 marzo 1998, n. 40, in riferimento all'art. 3 della Cost., laddove istituisce, per le fattispecie ed alle condizioni ivi previste e per i soli stranieri ivi considerati, la sanzione sostitutiva dell'espulsione senza subordinare la possibilita' di applicazione alla richiesta dell'imputato: con disparita' di trattamento in relazione alla condizione personale di apolide o di persona non appartenente a Stato membro dell'Unione europea. La Corte costituzionale - con sentenza n. 62 del 1994 - ha ritenuto non fondate le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 7, commi 12-bis e 12-ter, d.-l. 30 dicembre 1989, n. 416, convertito in legge n. 39/1990, nel testo introdotto dall'art. 8, comma 1, del d.-l. 14 giugno 1993, n. 187, convertito in legge 12 agosto 1993, n. 296, sollevate in riferimento all'art. 3 Cost. Tali norme - sospettate di illegittimita' costituzionale per disparita' di trattamento tra cittadini e stranieri ed ora abrogate dall'art. 46, comma 1, lett. e), legge n. 40/1998 - prevedevano, a richiesta dello straniero o del suo difensore, "l'immediata espulsione nello Stato di appartenenza o di provenienza", salva la sussistenza di "inderogabili esigenze processuali" o di "gravi ragioni personali di salute" o di "gravi pericoli per la sicurezza e l'incolumita' in conseguenza di eventi bellici o di epidemie", nei confronti degli stranieri in custodia cautelare per uno o piu' delitti consumati o tentati, diversi da quelli indicati dall'art. 407, comma 2, lett. a), nn. da 1 a 6, c.p.p., ovvero condannati con sentenza passata in giudicato ad una pena che, anche se costituente parte residua di maggior pena, non fosse superiore ai tre anni di reclusione. In tale occasione, la Corte - sostenendo con riguardo all'espulsione del condannato in via definitiva che trattavasi di misura di sospensione dell'esecuzione della pena e non di estinzione della stessa, solo in concreto valutabile come maggiormente afflittiva o meno rispetto all'esecuzione carceraria; e pur ribadendo che il principio costituzionale di eguaglianza in generale non tollera discriminazioni fra straniero e cittadino quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo - ha affermato la "peculiarita' e non comparabilita'", anche nella Costituzione, della posizione dello straniero rispetto a quella del cittadino, al quale la Carta riserva (art. 16) rispetto al primo "in relazione alle possibilita' di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, una posizione assolutamente opposta, connotata da un generale status libertatis", il cittadino essendo parte del popolo, lo straniero non avendo invece tale "legame ontologico" con la Comunita' nazionale e tale "nesso giuridico costitutivo con lo Stato italiano", e rimanendo cosi' soggetto a discipline legislative e amministrative che possono arrivare a comportare l'espulsione, nell'ambito di una "ponderazione di svariati interessi pubblici, quali ad es. la sicurezza e la sanita' pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale", che "spetta in via primaria al legislatore, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalita', limitata, sotto il profilo della conformita' a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli". Argomentava ancora la Consulta che la subordinazione dell'espulsione alla richiesta dell'interessato o del suo difensore non costituiva "un arbitrario elemento di favore nei confronti dello straniero", essendo "un requisito diretto ad armonizzare la condizione dello straniero", essendo "un requisito diretto ad armonizzare la condizione dello straniero ai valori costituzionali cui il legislatore deve riferirsi nel prevedere una misura pur sempre incidente sulla liberta' personale, cioe' su di un diritto inviolabile dell'uomo". E concludeva ritenendo "non arbitraria, ne' palesemente irragionevole, la scelta del legislatore di permettere la sospensione dell'esecuzione della misura custodiale, o della pena, contestualmente all'allontanamento definitivo dello straniero dal territorio dello Stato". Pur non sviluppandosi l'argomento, affermandosi in tal modo da un lato che il principio costituzionale di eguaglianza, quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo quale la liberta' personale, non tollera discriminazioni, e dall'altro che la necessaria richiesta dell'interessato e' requisito di armonizzazione della condizione dello straniero ai principi costituzionali cui il legislatore "deve" riferirsi "nel prevedere" una misura quale l'espulsione "incidente su un diritto inviolabile dell'uomo", sufficientemente chiara appare in tale sentenza l'affermazione che sia stata la previsione della necessita' della richiesta dell'interessato prevista dall'art. 7, 12-ter cit. a "salvare" la legittimita' costituzionale dell'espulsione ivi prevista, ad incorporare il punto di equilibrio tra principi ed interessi pubblici, enucleato dalla "non arbitraria ne' palesemente irragionevole" ponderazione del legislatore. L'art. 14, legge n. 40/1998 non prevede la necessita' della richiesta dell'interessato per sostituire, nei casi ivi previsti, la pena detentiva con l'espulsione. E cio', nel regolare non una misura di sospensione dell'esecuzione della pena, ma l'applicabilita' di una sanzione criminale per quanto sostitutiva, piu' favorevole o meno dipende effettivamente dall'entita' della pena detentiva sostituita, ma la cui irrogabilita' discende primariamente dalla condizione di straniero o di cittadino, anche dell'Unione europea. Per un primo ed assorbente profilo, se non certamente fondato - potendo in ipotesi la Corte chiarire che il combinato disposto degli artt. 3 e 16 Cost., a prescindere dalla previsione della richiesta, giustifichi una simile sanzione penale di esclusiva applicabilita' agli stranieri - almeno non manifestamente infondata appare, applicando le motivazioni della citata sentenza, la questione di costituzionalita' in riferimento all'art. 3 Cost., per disparita' di trattamento derivante da condizione personale dell'imputato; 2) dell'art. 14, comma 2, legge 6 marzo 1998, n. 40, in riferimento all'art. 127, comma 2 Cost., nella parte in cui prevede che l'espulsione di cui al comma 1, dello stesso art. 14 debba essere eseguita "anche se la sentenza non e' irrevocabile" per violazione del principio secondo il quale "l'imputato non e' considerato colpevole sino alla condanna definitiva". Essendo per quanto detto sanzione penale, applicabile solo in funzione sostitutiva di pena detentiva non superiore ai due anni, irrogabile - oltre che in sede di "patteggiamento" - con sentenza penale a seguito di giudizio ordinario od abbreviato (senza che sia necessaria peraltro richiesta dell'imputato o del difensore, come gia' per l'art. 7/12-bis, 12-ter, cit. legge n. 39/1990), non puo' revocarsi in dubbio che l'espulsione di cui all'art. 14 in esame debba avere tra i suoi necessari presupposti l'accertamento definitivo di responsabilita' penale: cio', quantomeno nei casi in cui l'espulsione e' disposta con sentenza non ex art. 444 c.p.p., ed altresi' in tali casi ove si ritenga - come per chi scrive - che anche la sentenza di c.d. "patteggiamento" contenga implicitamente una affermazione di responsabilita' (v., infra). La Corte costituzionale, con numerose sentenze, ha piu' volte affermato che il principio costituzionale per cui "l'imputato non e' considerato colpevole sino alla condanna definitiva", implicando che anteriormente alla data di irrevocabilita' della sentenza di condanna l'imputato non possa essere considerato dalla legge come sicuramente responsabile della commissione di un reato, e' leso ogniqualvolta vi sia previsione di misure, applicabili anteriormente al giudicato, che presuppongano accertata la colpevolezza ed abbiano la funzione di anticipare l'effettiva applicazione della pena criminale (principi espressi nelle sentenze 64/1970, 89/1970, 1/1980, 15/1982, 342/1983; come pure, si vedano sentenze 23/1964 e 78/1969, che argomentano la legittimita' delle misure di prevenzione di cui all'art. 1, legge 1423/19565 e della applicazione provvisoria delle pene accessorie di cui all'abrogato art. 140 c.p. a partire dal fatto che tali misure tutte non si fondano su di un accertamento definitivo di resonsabilita' penale). L'anticipazione dell'esecuzione della sanzione ad epoca antecendente il giudicato e' invece proprio l'evidente funzione della disposizione di cui all'art. 14/2 in esame, nel quale l'espulsione immediata e' regolata addirittura come obbligatoria (vi e' uso dell'indicativo: "e' eseguita"), senza neanche che possano venire in considerazione l'attuale applicazione di misure cautelari o, per altro verso, quelle "inderogabili esigenze processuali" invece gia' valutate come ostative all'espulsione dell'abrogato e piu' volte citato art. 7, comma 12-bis, legge 39/1990, oltre che dall'art. 11/3 della stessa legge 40/1998. Per tali ragioni, la questione appare in ogni caso non manifestamente infondata, a prescindere dal tipo di sentenza con la quale l'espulsione viene irrogata. La norma presenta pero' un profilo ulteriore, in relazione alla possibilita' che l'espulsione venga applicata con sentenza ex art. 444 c.p.p. Questo pretore ritiene di dover aderire all'autorevole e non certo isolato orientamento giurisprudenziale, piu' aderente al sistema e alla ratio per la quale l'istituto fu introdotto, per il quale la richiesta di "patteggiamento" - essendo funzionalmente volta ad ottenere l'emissione di sentenza "equiparata ad una sentenza di condanna" perche' applicativa di sanzioni nell'ordinamento costituzionale legittimamente irrogabili solo in presenza di provata responsabilita' penale personale - sia nel sistema istanza normativamente configurata e disciplinata come una forma di oggettiva volontaria quanto implicita ammissione di responsabilita' da parte dell'imputato, con rinuncia ad avvalersi del diritto di contestare l'accusa e di far valere eccezioni e difese incompatibili con l'applicazione di una pena criminale, con accettazione della piena valenza probatoria degli elementi raccolti da p.g. e p.m., con rinuncia, ancora - oltre che al diritto di difendersi provando - altresi' ad un grado di giudizio di merito, in appello; con la conseguenza, che la sentenza ex art. 444 c.p.p., se non e' necessario secondo il suo modello legale che contenga motivazione sulla responsabilita' dell'imputato e dichiarazione espressa della stessa in dispositivo, sia sentenza necessariamente contenente implicita affermazione di responsabilita' (diversamente opinandosi, ed in tal modo allora prevedendosi la possibilita' ex art. 444 e ss. c.p.p. di applicare e poi in ipotesi eseguire pene criminali in difetto di una provata responsabilita' penale, l'istituto del "patteggiamento" venendo ad essere costituzionalmente illegittimo, per violazione quantomeno all'art. 27 Cost.). D'altra parte, e' noto come sia prevalente ormai la diversa opinione, secondo cui la sentenza ex art. 444 c.p.p. non contiene e non puo' nella parte dispositiva dichiarare alcun accertamento di responsabilita' dell'imputato in ordine al reato addebitatogli. Partendosi da una tale concezione della sentenza di patteggiamento, ancora piu' gravi appariranno le conseguenze della previsione della immediata obbligatoria esecuzione, prima del giudicato, della sanzione dell'espulsione, a quel punto eseguibile non solo in assenza di una sentenza irrevocabile ma addirittura in assenza di una sentenza che accerti la responsabilita' (ogni dubbio di costituzionalita' per questo profilo coinvolgendo peraltro evidentemente prima la qui rifiutata interpretazione della natura e del valore della sentenza ex art. 444 c.p.p. che non direttamente l'art. 14 in esame). In relazione al patteggiamento ed alla eseguibilita' prima del giudicato emerge peraltro un diverso ed autonomo profilo di possibile incostituzionalita' (v., di seguito, sub 3)), corollario di quello sub 1) e da esso in ogni caso assorbito; 3) dell'art. 14, commi 1 e 3, legge 6 marzo 1998, n. 40, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui, prevedendo che l'espulsione ivi regolata sia irrogabile del tutto discrezionalmente dal giudice con sentenza emessa ex art. 444 c.p.p. anche nei casi in cui la sanzione sostitutiva non sia parte della richiesta di applicazione pena da parte dell'imputato, e prevedendo al contempo che l'esplusione debba essere anche in tale caso se disposta immediatamente eseguita prima dell'irrevocabilita' della sentenza e debba avere una durata minima di cinque anni, rende interamente eseguibile la sanzione sostitutiva dell'espulsione irrogata per delitto in ogni caso per data anteriore al decorso del termine ex art. 445, comma 2, c.p.p. e quella irrogata per contravvenzione addirittura per il periodo successivo al positivo decorso di tale termine, in tal modo svuotando di ogni significato concreto il maturarsi del beneficio da tale disposizione previsto nell'estinzione del reato e quindi nella non eseguibilita' della pena, beneficio quest'ultimo dall'imputato perseguito con la richiesta ex art. 444 di applicazione di pena detentiva da non sostituirsi: per disparita' di trattamento nell'accesso al beneficio della non esecuzione della pena tramite "patteggiamento", in dipendenza della condizione personale di straniero.. Dai logicamente pregiudiziali profili di incostituzionalita' sub 1) e 2) deriva come corollario l'ulteriore questione qui rubricata. Se l'espulsione dell' art. 14 e sanzione sostitutiva, essa potra' essere direttamente richiesta dall'imputato con l'istanza di applicazione pena ex art. 444 c.p.p., come per ogni altra sanzione sostitutiva. E' il caso in cui forse puo' ritrovarsi il punto di equilibrio delle diverse esigenze pubbliche e costituzionali implicate ritenuto da Corte cost. 62/1994 nella previsione della necessita' della richiesta di cui all'art 7, comma 12-ter, legge n. 39/1990. Per la lettera dell'art 14, il giudice del patteggiamento, nella sua non regolata discrezionalita', bene puo' pero' altresi' disporre l'espulsione in presenza di una richiesta dell'imputato che si limiti a chiedere l'applicazione della pena detentiva, contando sull'effetto estintivo di reato e pena di cui all'art. 445, comma 2 c.p.p. Il carattere eccezionale della disposizione fa del resto escludere che si sia voluto implicitamente far riferimento ai caratteri generali del procedimento per patteggiamento, nella parte - di creazione giurisprudenziale - in cui si esclude che il giudice possa adottare decisioni su cui non sia intervenuto il consenso-accordo tra imputato e p.m. Anche in tale caso, l'espulsione dovra' essere immediatamente eseguita, e non potra' avere durata inferiore a cinque anni. Con l'effetto che, se e' stata irrogata in relazione ad un delitto, essa sara' stata gia' interamente scontata al maturarsi dell'effetto estintivo del reato per decorso del termine di cinque anni di cui all'art 445, comma 2. E che se e' stata irrogata invece per contravvenzione, l'espulsione sara' ultrattiva all'estinzione del reato avvenuta nei due anni sempre ex art. 445, comma 2, cit. In entrambi i casi, svuotandosi di ogni significato concreto il maturarsi dell'estinzione del reato e quindi del diritto alla non esecuzione della pena, che aveva determinato l'imputato a richiedere l'applicazione di pena detentiva, senza sostituzione con l'espulsione; 4) dell'art. 14, comma 1, legge 6 marzo 1998, n. 40, in riferimento all'art. 25, comma 2 Cost., nella parte in cui prevedendo che l'espulsione quale sanzione sostitutiva ivi regolata sia irrogabile "per un periodo non inferiore a cinque anni", senza previsione di un massimo edittale, puo' essere interpretata quale norma che non statuisce pena in misura fissa ma pena senza limite di durata, con violazione del principio di tassativita' della sanzione penale. L'art. 14, comma 1, legge n. 40/1998 stabilisce l'espulsione quale sanzione sostitutiva puo' essere diposta dal giudice "per un periodo non inferiore a cinque anni". L'utilizzo di tale espressione, anziche' di quella "per un periodo di cinque anni", rende innegabilmente possibile argomentare da tale dato letterale che l'espulsione possa essere disposta - ad arbitrio del giudicante - per un periodo anche superiore ai cinque anni, ed anche sensibilmente superiore: anche, in ultima analisi, in via definitiva e perpetua. A differenza che per le pene della reclusione, dell'arresto, della multa e dell'ammenda (artt. 23 e 26 c.p. ), non esiste d'altro canto una disciplina generale del tipo di pena, che in via altrettanto generale stabilisca la sua durata massima. Ne' viene posto un parametro di ragguaglio tra la pena detentiva da sostituirsi e la sanzione sostitutiva, come per le sanzioni sostitutive previgenti dagli artt. 135 c.p. e 57/3, legge n. 689/1981. Il principio di tassativita' della pena incluso nell'art. 25, comma 2, Cost. - integrato dalla necessita', al fine di escludere ogni possibile arbitrio del giudice, della predetermiazione della sanzione penale in un minimo ed un massimo irrogabile nell'ambito di una serie data di istituti generali utilizzabili nella concreta configurazione della pena (attenuanti, recidiva ecc. ) - appare leso da una interpretazione della disposizione che ne ricavi la statuizione di una pena regolata nel minimo ma non nel massimo. Unico modo di salvare la legittimita' costituzionale della disposizione in esame - in presenza della nota giurisprudenza costituzionale sulla legittimita' della previsione di pene fisse - e' allora quello di darne una interpretazione conforme a Costituzione, e di ritenere, forzandone pero' la lettera, che l'art. 14 abbia istituito una sanzione sostitutiva dalla misura fissa di cinque anni. La diversa e sopra esposta interpretazione atteso il dato letterale e' in ogni caso del tutto possibile ed in ogni caso corretta, e puo' portare a gravi arbitrii ed alle piu' diverse applicazioni concrete della norma. Ed e' per tale ragione - pur conoscendosi il principio piu' volte affermato dalla Corte costituzionale secondo cui, tra piu' possibili interpretazioni della norma, si deve scegliere l'interpretazione ritenuta conforme a Costituzione ( v. ad es. sentenza 171/1986, ordinanze 491-584/1987, 63/1989) - che la questione di legittimita' costituzionale, superabile dando alla disposizione il visto significato normativo conforme a Costituzione, non appare manifestamente infondata, si' da far ritenere in ogni caso utile una pronuncia interpretativa della Corte Costituzionale a validita' erga omnes. 5) dell'art.14 comma 1, legge 6 marzo 1998, n. 40, in riferimento agli artt. 3 e 27 comma terzo, Corte Costituzionale, nella parte in cui, prevedendo la possibilita' di sostituire, nei casi e nelle forme ivi previste, la pena detentiva con la sanzione sostitutiva fissa di anni cinque di esplusione, senza istituire un parametro di ragguaglio tra giorno di pena detentiva sostituita e durata dell'espulsione, rende possibile al giudice punire in modo identico condotte di gravita' ed offensivita' la piu' diversa, anche in concreto punite dal giudice con pene detentive di entita' molto diversa, con irragionevole ed arbitrario utilizzo della discrezionalita' spettante al legislatore, determinante disparita' nel trattamento sanzionatorio identico di casi di rilievo criminale diverso; con lesione della funzione di prevenzione generale e difesa sociale della pena. Si e' gia espressa l'opinione che unica interpretazione conforme a Costituzione dell'art. 14, comma primo - in esame - laddove stabilisce che l'espulsione-sanzione sia irrogabile "per un periodo non inferiore a cinque anni" - sia quella di ritenere che si sia in realta' istituita una sanzione a misura fissa, appunto di anni cinque. Quindi, nella sussistenza di tutti i presupposti previsti dall' art. 14, il giudice si trova a poter discrezionalmente ridurre alla pena fissa di anni cinque di espulsione sia la pena di anni due di reclusione, infiitta in ipotesi per una rapina, un sequestro di persona ex art. 605 c.p., uno spaccio di stupelacenti o altro reato di rilevante gravita', sia la pena di giorni cinque di arresto irrogata per turpiloquio in luogo pubblico. L'art. 14 non istituisce infatti alcun parametro di ragguaglio tra pena detentiva e pena sostitutiva, come per la pena pecuniaria, la semidetenzione e la liberta' controllata fanno gli artt. 135 c.p. e 57/3 legge 689/1981. Ora. Se la legittimita' costituzionale della previsione di una sanzione sostitutiva quale l'espulsione applicabile solo allo straniero puo' forse ancora fondarsi, come sopra si e' visto con le motivazioni della sentenza Corte costituzionale 62/1994, in presenza di una non irragionevole ponderazione di diversificati interessi di natura pubblica, sulla natura "peculiare e non comparabile" in Costituzione della posizione del cittadino e dello straniero (potrebbe aggiungersi: extracomunitario) in ordine al diritto di entrare ed uscire dal territorio della Repubblica, e se tale ponderazione puo' portare a valutare favorevolmente la misura dell'espulsione in luogo dell'esecuzione carceraria della pena detentiva per esigenze di politica penitenziaria, francamente non pare sufficientemente ponderata la scelta di ancorare l'applicabilita' della espulsione/sanzione sostitutiva tra gli altri presupposti alla natura non colposa del reato per cui e' condanna, anziche' ad una data pena edittale o unicamente ad un dato limite di pena irrogata in concreto. Non si vede infatti per quale ragione l'esigenza di sfoltire le carceri e di evitare i costi sociali dell'esecuzione di pena detentiva non debba essere operante quando due anni di reclusione eseguibile vengano irrogati allo straniero per un reato colposo e debba invece essere operativa se si tratta di cinque giorni di arresto per contravvenzione dolosa. Inoltre, tale scelta del legislatore - ove si consideri l'espulsione trattamento di favore - puo' finire per creare sostanziali iniquita', sol che si pensi al caso di chi venga espulso libero dopo aver riportato condanna per delitto doloso a due anni di reclusione e a quello parallelo di chi invece debba scontare un mese di arresto per reato colposo. Tale scelta, pur non essendo coerente con le evidenti premesse di politica penitenziaria e criminale della norma, discendendo tuttavia dalla valutazione di rendere possibile la sanzione dell'espulsione solo a carico di chi si sia reso responsabile di violazioni alla legge penale italiana dolose o preterintenzionali, assunte evidentemente in via generale ed astratta quali violazioni indice di maggiore capacita' a delinquere perche' poste in essere, da chi non puo' piu' usufruire della condizionale, con volonta' non colposa, non appare sindacabile in sede di giudizio di legittimita' costituzionale, essendo per quanto discutibile non manifestamente irragionevole o arbitraria. Al contrario, non manifestamente infondato appare invece il dubbio circa la rispondenza o meno a criterio di ragionevolezza e ai principi costituzionali inerenti la funzione della pena - nonche' al principio di uguaglianza - della scelta di rendere possibile in concreto il trattamento sul piano sanzionatorio, con espulsione di durata identica, di situazioni di rilievo penale le piu' diverse, con creazione di disparita' di trattamento: in assenza di parametro di ragguaglio tra durata della pena detentiva sostituita e durata dell'espulsione tale ultima sanzione con il sistema istituito finendo con l'essere trattamento piu' favorevole per chi sia condannato a pena detentiva di due anni o vicina ai due anni, per condotte evidentemente di una rilevante gravita', ed innegabilmente invece trattamento in concreto incommensurabilmente piu' rigido e deteriore per chi, magari dopo anni in Italia, essendo autore di una lieve contravvenzione di minimo se non irrilevante rilievo dal punto di vista "della concreta offensivita' del reato" (v. espressione usata dall'art 227 d.lgs. 19 febbraio 1998 n.51), venga punito con alcuni giorni di arresto. Con trattamento penale in concreto irragionevolmente identico per situazioni diversissime, altrettanto irragionevolmente tanto piu' favorevole tanto piu' grave e' il reato commesso. Con conseguente e parallela lesione - per tale appiattimento sanzionatorio - delle funzioni di intimidazione e difesa sociale/prevenzione generale della pena, certo secondarie e deteriori rispetto a quella di risocializzazione del colpevole, ma pur sempre coessenziali all'articolato concetto di sanzione criminale accolto - anche secondo la giurisprudenza costituzionale: v., tra le altre, Corte cost. 313/1990 - dall'art. 27, terzo comma, Cost. 6) dell'art. 14, comma primo, legge 6 marzo 1998, in riferimento all'art. 25, secondo comma della Costituzione, nella parte in cui prevede che il giudice, nella sussistenza dei presupposti ivi indicati, possa discrezionalmente sostituire la pena detentiva con la sanzione sostitutiva dell'espulsione senza specificazione e predeterminazione di condizioni oggettive soggettive di applicabilita' ed in genere di parametri per il concreto utilizzo di tale discrezionalita': con violazione del principio di tassativita' delle pene; nonche', in riferimento all'art. 24, comma secondo, nella parte in cui, in tal modo non predeterminando i presupposti di applicabilita' dell'espulsione, e prevedendo che tale misura possa essere sostituita alla pena principale anche nei casi in cui la pena detentiva sia richiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p. senza contemporanea richiesta di sostituzione, impedisce all'imputato di difendersi appieno, utilizzando in un quadro certo gli istituti processuali comuni al fine di perseguire i benefici da questi previsti. Principio fondamentale del diritto penale moderno e di ogni ordinamento penale democratico e' quello della tassativita' della pena, gia' descritto dall'art. 1 c.p. e costituzionalizzato dall' art. 25, secondo comma Costituzione. Nella sua funzione garantista di certezza ed uguaglianza giuridica volta ad impedire arbitrii del giudice nell'applicazione della legge, e' integrato dalla norma per cui "nessuno", - e quindi certo neanche l'apolide, lo straniero o comunque il non cittadino - puo' essere punito con pene che - oltre ad essere prevedute da legge entrata in vigore prima del fatto commesso - non siano dal legislatore predeterminate oltre che nel tipo e nella misura quantomeno massima, nei presupposti oggettivi e soggettivi di applicazione. Come si e' visto, l'art. 14 in esame istituisce, per tutti i reati non colposi, nella sussistenza delle condizioni ivi previste, un nuovo tipo di sanzione sostitutiva della pena detentiva non superiore a due anni: l'espulsione "non inferiore a cinque anni". Per le sanzioni sostitutive gia' in via generale presenti nel nostro ordinamento, gli artt. 58-60 legge 689/ 1981 disciplinano analiticamente e limitano drasticamente la discrezionalita' del giudice nella scelta di sostituire la pena detentiva, stabilendo una serie di condizioni soggettive relative alla persona del condannato, una serie di esclusioni oggettive in relazione al titolo di reato per cui e' condanna, stabilendo ancora come la sanzione sostitutiva non sia applicabile se si presume che le prescrizioni inerenti la pena sostitutiva non saranno adempiute e che in presenza di tutte le condizioni di legge la sostituzione debba essere decisa "tenuto conto dei criteri indicati nell' art. 133 c.p.". Con tale assetto, pur lasciandosi una notevole discrezionalita' al giudice, si realizza un punto di equllibrio e di incontro tra le esigenze di legalita' e tassativita' della pena, le esigenze di adeguamento della stessa alla gravita' del caso concreto, le esigenze di individualizzazione della sanzione inerenti al suo finalismo rieducativo ("tra le pene sostitutive il giudice sceglie quella piu' idonea al reinserimento sociale del condannato"). Nulla di tutto questo per l'art. 14 in questione, si' che si profilano due ulteriori questioni di legittimita' costituzionale. 1. - La norma si limita a stabilire che il giudice "puo'" sostituire con l'espulsione la pena detentiva. Non pone condizioni soggettive, ne' esclusioni oggettive. Nulla stabilisce in ordine ai parametri da utilizzarsi nella scelta tra esecuzione carceraria della pena detentiva non sospendibile ed espulsione dal territorio dell' Unione europea. Neanche puo' ritenersi che sia applicabile alla nuova sanzione sostitutiva la disciplina generale di cui agli artt. da 58 a 60, legge 689/1981. E non tanto per il pur solido argomento letterale del mancato richiamo a tali criteri (ubi lex voluit dixit), quanto per la natura eccezionale della disposizione, in riferimento sia al dato soggettivo (si tratta di sanzione sostitutiva applicabile solo allo straniero extracomunitario o apolide che si trovi in taluna delle condizioni personali di cui all'art. 11/2, legge 40), sia alla natura della sanzione sostitutiva (che connotandosi appunto nell'espulsione dal territorio e quindi dalla Comunita' residente in Italia si sostanzia in misura che per definizione evidentemente non tende "al reinserimento sociale del condannato", finalita' comune alle sanzioni sostitutive "generali"). L'art. 14 avrebbe potuto stabilire che in presenza delle condizioni ivi descritte il giudice sia obbligato a decidere l'espulsione, in dipendenza di una valutazione di politica criminale e penitenziaria operata una volta per tutte dal legislatore: ed il quadro sanzionatorio sarebbe stato sufficientemente predeterminato e quindi rispettoso del principio di tassativita' della pena. Ha invece stabilito che in quei casi "possa" adottare quella sanzione. L'assoluta assenza di regolamentazione della discrezionalita' con cui il potere di sostituzione della pena detentiva e' istituito ridonda in incertezza del quadro sanzionatorio predeterminato per tutti i reati che con l'intervento di attenuanti e diminuenti possono permettere in concreto l'irrogazione di pena non superiore ai due anni di reclusione e arresto, in puro arbitrio del giudice, in impossibilita' di verificare la correttezza della motivazione sul punto, per rispetto o meno di parametri legali (motivazione che non puo' non essere ritenuta necessaria, pur non essendo espressamente richiesta dall'art. 14, pena un ulteriore profilo di possibile incostituzionalita', questo certamente manifestamente infondato, con l'art. 111, primo comma, Cost. - atteso che l'espulsione in parola viene irrogata con sentenza). Neanche e' previsto, inoltre, come si e' visto, a superare i dubbi di legittimita' costituzionale che si espongono - che - predeterminato con le pene usuali essendo il quadro sanzionatorio - l'espulsione possa poi solo essere richiesta dall'extracomunitario condannato, in alternativa al carcere: cosi' come gia' per l'ora abrogato art. 7, commi 12-bis e 12-ter, d.-l. 30 dicembre 1989 n. 416, conv. in legge 39/1990, nel testo introdotto dall'art. 8, comma 1, d.-l. 187/1993 conv. in legge 12 agosto 1993 n. 296. A tutto cio' puo' aggiungersi che tra i presupposti di applicabilita' della sanzione sostitutiva in parola vi e' la "non ricorrenza delle cause ostative indicate nell'art. 12, comma 1", vale a dire la non esistenza di situazioni di fatto (tipica la indisponibilita' di vettore o altro mezzo di trasporto idoneo) che possono sussistere o non sussistere per i piu' svariati motivi, tutti estrinsechi al reato. Presupposto che aggiunge ulteriore indeterminatezza al quadro sanzionatorio applicabile alle fattispecie che possono venire "toccate" in concreto dall' art. 14. 2. - In relazione alla indeterminatezza dei presupposti per la sostituzione, si profila poi la seconda questione sopra rubricata, questa volta in riferimento al diritto di difesa. Si e' visto sub 3) come l'imputato possa limitarsi a chiedere l'applicazione della pena detentiva, senza al contempo richiedere l'applicazione della sanzione sostitutiva della espulsione, come si ritiene sia abilitato a fare. E come anche in tal caso la lettera dell'art. 14 non vieti che il giudice possa, accogliendo il patteggiarnento, anziche' applicare la pena detentiva, disporre l'espulsione. Evidente come l'indeterminatezza dei presupposti per la sostituzione impedisca all'imputato di detenninarsi alla richiesta di "patteggiamento" in un quadro certo delle conseguenze sostanziali e processuali delle sue iniziative, e finisca con il ledere - come sempre ogni violazione del principio di tassativita' di pene e reati - il diritto di difendersi. Tale questione naturalmente resta non impostabile ove si ritenga che in caso di richiesta di patteggiamento l'espulsione sia applicabile solo in presenza di richiesta dell'imputato. Ma come si e' detto, non pare ne' dalla lettera della disposizione, ne' dal contesto della legge che il legislatore abbia voluto statuire una tale limitazione. 7) dell'art. 14, comma 1, legge 6 marzo 1998, n. 40, in riferimento all'art. 27, terzo comma della Costituzione, nella parte in cui, prevedendo la possibilita' per il giudice, alle condizioni ivi previste, di sostituire alla pena detentiva non superiore ai due anni la sanzione sostitutiva dell'espulsione non inferiore ad anni cinque istituisce pena che per la sua connotazione non puo' "tendere alla rieducazione del condannato". Per l'art. 27, terzo comma Cost. "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita'" e "devono tendere alla rieducazione del condannato". Viene istituito da tale norma un finalismo rieducativo della pena criminale, in cui - come dottrina e giurisprudenza anche costituzionale hanno spiegato nei decenni - "rieducazione" non significa personale emenda morale, correzione politico ideologica o anche solo imposi'zione di modelli comportamentali socialmente adeguati, bensi' opportunita' di reinserimento sociale, e incide sul piano dell'attuazione costituzionale non certo solo sulle modalita' di esecuzione delle pene, inanzitutto detentive, ma altresi' sul momento della individualizzazione prima legislativa e poi giudiziaria delle sanzioni applicabili. La stessa Corte costituzionale, dopo avere a lungo sostenuto la non sindacabilita' in sede di legittimita' costituzionale dell'efficacia rieducativa del tipo di pena - in termini diversi, v. sentt. 167/1973, 143 e 264/1974, 119/1975, 1023/1988, 102 e 169/1985 - ha afferamato - sent. 4 luglio 1990, n. 313 - che il finalismo rieducativo della pena non e' confinabile nella fase esecutiva del trattamento penitenziario, ma che, oltre alle modalita' di esecuzione, anche il tipo di pena e la sua la misura o durata sono elementi da determinarsi in sede legislativa e giudiziario-applicativa in relazione al prevalente parametro costituzionale della finalita' risocializzante della pena, il cui rispetto rende la conformita' a Costituzione, violata invece da ogni concezione ed applicazione della pena che strumentalizzi l'individuo a fini di prevenzione generale e che sia orientata prevalentemente verso le altre funzioni della sanzione criminale. L'evoluzione del nostro ordinamento penale e penitenziario, seppure con qualche marcia indietro, puo' dirsi abbia tenuto la rotta dell'attuazione costituzionale del principio del finalismo rieducativo della pena. Cio' - venendo alla materia in questa sede in parola - e' avvenuto anche, nella enucleazione, conformazione e statuizione delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, la cui introduzione e' stata anzi storicamente uno dei momenti di piu' incisiva ricerca di pene alternative alla detenzione, maggiormente idonee, piu' che a reinserire socialmente, a mantenere l'inserimento sociale di quei colpevoli per i quali, al di la' della commissione di un reato e di ogni costruzione teorica al riguardo, tale inserimento non possa all'atto pratico dirsi mai venuto meno. ll piu' volte citato art. 58 legge 689/1981, espressamente, dopo aver richiesto al giudice uno sforzo di individualizzazione del trattamento sanzionatorio, art. 133 c.p. alla mano, tra pene principali e sostitutive, richiede che si scelga tra le pene sostitutive possibili "quella piu' idonea al reinserimento sociale del condannato". L'art. 14, legge 40/1998 appare un punto di cesura di tale evoluzione normativa. E' infatti del tutto evidente che l'espulsione dal territorio dello straniero o dell'apolide irregolarmente presente in Italia, ivi prevista come sanzione sostitutiva irrogabile in presenza di date condizioni, sostanziandosi in un ostracistico allontanamento dalla comunita' molto simile al bando per secoli applicato da tanti ordinamenti, non puo' avere tra le sue finalita', per definizione, il reinserimento sociale del soggetto, proponendosi l'esatto contrario. L'obiezione, possibile, che argomenti dal dato per cui presupposto primo che rende applicabile l'istituto in esame e' la condizione ex art. 11/2, legge 40/1998 del soggetto, e quindi la condizione di soggetto che, essendo entrato o essendosi trattenuto nel territorio irregolarmente, non puo' ritenersi sia mai stato socialmente inserito ed in riferimento al quale il concetto di reinserimento non puo' avere alcun concreto significato, non terrebbe conto ne' del fatto che in ogni caso tale argomento non e' utilizzabile per chi invece si trovi nella condizione di cui all'art. 11/3, legge 40 - terza possibile condizione soggettiva di applicabilita' della misura in questione - ne' della circostanza per cui irregolarita' ammistrativa in riferimento all'ingresso in Italia non e' sinonimo e non e' situazione che necessariamente coincida con un non inserimento sociale: come per l'imputato Ali' Mohamed - in Italia almeno dal 28 maggio 1993 - in Italia vi sono ormai centinaia di migliaia di persone irregolari dal punto di vista del permesso di soggiorno ma di fatto (magari in posizioni di poverta' e marginalita') socialmente inserite. L'obiezione pero', sottolineando la palese logica di politica criminale e penitenziaria sottesa all'espulsione dell'art. 14, e' utile ad evidenziare come l'introduzione dell'istituto risponda nella sostanza ad una esigenza amministrativa, a quella stessa esigenza cui presiede l'espulsione ammistrativa in senso proprio, con appena "l'addizione" di qualche preoccupazione di politica penitenziaria: vale a dire alla esigenza di allontanare l'irregolare dal territorio nazionale e U.e.: nonche' ad evidenziare la sostanziale irriducibilita' di una misura come l'espulsione alla logica costituzionale della pena, alla sua assorbente funzione: quella, avente ad oggetto il consociato anche non cittadino, di risocializzare il reo dopo la devianza: logica e funzione costituzionale della pena, che rendono l'illegittimita' costituzionale della espulsione quale sanzione penale anche sostitutiva. D. - Ritenuto in punto di rilevanza. che in presenza della situazione processuale descritta sub A, e ben potendosi e dovendosi nel caso disporre l'espulsione in sostituzione della pena detentiva - Ali' Mohamed risultando oltretutto a suo tempo gia' espulso in via amministrativa -, il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione delle questioni di leggittimita' costituzionale evidenziate; che nel caso, attesa la brevita' della pena della reclusione chiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p. (due mesi), l'espulsione per cinque anni costituisca nei confronti dell'imputato sanzione in concreto certamente piu' rigorosa: con la conseguenza che la norma dell'art. 14 in questione che rende applicabile tale sanzione sostitutiva vada ritenuta in concreto piu' sfavorevole della normativa che residuerebbe come applicabile ad una dichiarazione d'incostituzionalita' dell'art. 14, con la conseguenza anche per tale via della piena "rilevanza" delle questioni che si sollevano (secondo i principi espressi dalle sentt. n. 15/1982, 1/1980, 88/1976, 146/1975, 74 e 147/1973, citate dalla stessa n. 62/1994).