IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza per  decidere  sulla  questione  di
 legittimita'   costituzionale  degli  art.  513  c.p.p.,  cosi'  come
 modificato dalla legge 7 agosto 1997, n.  267,  e  art.  6,  legge  7
 agosto  1997,  n.  267, sollevata dal pubblico ministero alla udienza
 del  25  febbraio  1998  nel  procedimento  penale  n.  514/1997 r.g.
 tribunale  a  carico  di  Bettinardi  Alberto,  Cendeloro  Antonella,
 Chiappone  Salvatore,  D'Este  Claudio,  Dimitri  Nicholas,  Gioppato
 Mauro,  Guariento  Alberto,  Iannantuono  Massimo,  Licata   Giovanni
 Battista,   Melchiorrre  Pina,  Miani  Marcella,  Micheletto  Sandro,
 Petteno' Ariella, Pistolato Luciano, Torres Garcia Maria  del  Pilar,
 Venturelli Fabio, eccezione sollevata limitatamente alle posizioni di
 D'Este  Claudio e Melchiorre Pina e con specifico riferimento ai soli
 capi 10 e 15 del capo di imputazione;
   Sentite le parti;
   Sciogliendo la riserva formulata alla udienza del 31 marzo 1998.
   La istruttoria dibattimentale relativa al procedimento indicato  in
 epigrafe prendeva l'avvio il 12 novembre 1997.
   In  detta  udienza il Tribunale, preliminarmente, sentite le parti,
 disponeva lo stralcio della posizione degli imputati Melchiorre  Pina
 e Licata Giovanni Battista per legittimo impedimento del difensore.
   Dopo la esposizione introduttiva, il pubblico ministero chiedeva di
 essere  ammesso  a  provare  il  fondamento  dell'accusa  mediante la
 produzione di una serie di atti e documenti (elencati a verbale),  la
 escussione   dei   testimoni  indicati  nella  lista  tempestivamente
 depositata, l'esame degli imputati e l'esame di  alcuni  imputati  in
 reato connesso tra i quali Spinozzi Mariano e Maniero Felice.
   Il  tribunale,  sentite  le parti, decideva con ordinanza in ordine
 alla  ammissione  di  tutte  le  prove  richieste  dalle  parti.   In
 particolare,  tra  l'altro, ammetteva l'esame degli imputati in reato
 connesso sopra menzionati.
   In data 26 novembre 1997, il procedimento veniva avviato anche  nei
 confronti  degli  imputati Melchiorre e Licata. Il pubblico ministero
 formulava le istanze istruttorie poste a fondamento della accusa  nei
 confronti dei predetti imputati e il tribunale decideva con ordinanza
 ammettendo,   tra  l'altro,  anche  l'esame  dell'imputato  in  reato
 connesso Maniero Felice. Veniva quindi disposta la riunione  dei  due
 procedimenti.
   Alla  udienza del 10 febbraio 1998 Spinozzi Mariano, sentito con le
 garanzie di cui all'art. 210 c.p.p., dichiarava  di  avvalersi  della
 facolta' di non rispondere.
   Il  pubblico  ministero chiedeva di poter produrre il verbale delle
 dichiarazioni precedentemente rese. La difesa si opponeva.
   Analogamente, alla udienza del 17 febbraio  1998,  Maniero  Felice,
 esaminato  con  le garanzie di cui all'art. 210 c.p.p., dichiarava di
 avvalersi  della  facolta'  di  non  rispondere.  Preso  atto   della
 opposizione  della  difesa,  anche  in  questo  caso il tribunale non
 disponeva la acquisizione - richiesta dal pubblico  ministero  -  del
 verbale  delle dichiarazioni rese da Maniero nel corso delle indagini
 preliminari.
   Alla udienza del 25 febbraio 1998, dichiarata chiusa la istruttoria
 dibattimentale,  il  pubblico  ministero   sollevava   la   eccezione
 ricordata  in  epigrafe con specifico riferimento alle sole posizioni
 di D'Este Claudio e Melchiorre Pina in relazione  ai  capi  10  e  15
 della imputazione.
                            Sulla rilevanza
   Ritiene   questo   tribunale   che  non  possano  essere  sollevati
 ragionevoli dubbi in ordine alla rilevanza, nel presente procedimento
 e con specifico riferimento ai capi 10 e 15 della imputazione,  delle
 dichiarazione rese da Spinozzi Mariano e Maniero Felice.
   Il pubblico ministero nella sua esposizione introduttiva gia' aveva
 posto in evidenza come la attivita' di indagine volta alla ricerca di
 riscontri alle dichiarazioni di Camuffo Moreno e Zanchetta Giusepppe,
 avesse  trovato,  in  relazione  agli  episodi  di  cui ai capi sopra
 citati, un significativo  impulso  nelle  dichiarazioni  di  Spinozzi
 Mariano e Felice Maniero.
   Lo  stesso  tribunale, peraltro, ha potuto autonomamente apprezzare
 la rilevanza delle predette dichiarazioni nel procedimento in  esame.
 In  particolare, per quanto concerne l'episodio di cui al capo 10, e'
 di palmare evidenza la rilevanza delle dichiarazioni  dello  Spinozzi
 che,  arrestato in flagranza di reato proprio per il fatto contestato
 al capo menzionato, il 9 dicembre 1995, risulta essere  il  solo  che
 abbia narrato la vicenda avendone personalmente preso parte ed avendo
 pertanto  una  conoscenza  diretta  degli  accadimenti.    Per quanto
 concerne, invece, l'episodio di cui al capo 15 della imputazione,  la
 rilevanza  delle dichiarazioni di Maniero e' emersa in modo del tutto
 indiscutibile alla luce delle dichiarazioni  rese  in  questo  stesso
 procedimento,  il  6 febbraio 1998, da Pastore Giuseppe che, appunto,
 in detta occasione, ha delineato con chiarezza il ruolo rivestito  da
 Maniero  nella  vicenda  di  cui  al  capo  che ci occupa, si' che le
 dichiarazioni di quest'ultimo si pongono come riscontro essenziale di
 quanto dal primo riferito in ordine alla attivita'  delittuosa  posta
 in  essere  -  secondo  la  impostazione accusatoria - della imputata
 Melchiorre.  Ne consegue che affatto rilevante  deve  ritenersi,  nel
 processo   in   esame,   la   dedotta   questione   di   legittimita'
 costituzionale dell'art.   513,  comma  2,  c.p.p.    Preme  altresi'
 precisare  che  non  pare assolutamente ragionevole ritenere che alla
 fattispecie in esame sia applicabile il comma 1, dell'art.  6,  della
 legge  n. 267/1997; disposizione indiscutibilmente legata ad una fase
 processuale oramai superata, e che, quindi, propone uno strumento non
 piu' utilizzabile nel caso di  specie.    Nondimeno,  e  proprio  con
 riferimento  alla  lacuna  ora  posta  in  evidenza,  la questione di
 legittimita'  dedotta  dal  Pubblico  Ministero  anche  in  relazione
 all'art.  6,  della  legge  7  agosto  1997,  n.  267, appare affatto
 rilevante.
                   Sulla non manifesta infondatezza
   Riformulando l'art. 513 c.p.p. il legislatore ha inteso riaffermare
 con forza i principi dell'oralita' nella formazione della prova e del
 contraddittorio ai quali deve ispirarsi il processo  penale  di  tipo
 accusatorio  vigente  e, nel caso di specie, cio' ha fatto attraverso
 lo  strumento  del  depotenziamento  del  valore   probatorio   delle
 acquisizioni  avvenute in assenza di contraddittorio.  Ritiene questo
 Collegio  che  della  chiara  ed   inequivoca   scelta   legislativa,
 sicuramente  ispirata  ad  un  principio  di  parita' sostanziale tra
 accusa e difesa, ci si debba limitare a prendere atto, non  emergendo
 profili  evidenti  di incompatibilita' con la Carta costituzionale se
 non nei limiti,  circoscritti,  che  si  andranno  a  precisare,  con
 specifico  riferimento  ai processi in corso al momento di entrata in
 vigore della novella, e non  essendo  comunque  questa  la  sede  per
 analizzare  la scelta del legislatore di escludere qualsiasi sanzione
 a carico di coloro che, senza ragione alcuna, rifiutino di  reiterare
 al  dibattimento dichiarazioni etero-accusatorie rese nel corso delle
 indagini  preliminari.    Giova  peraltro  ricordare che il principio
 della oralita'  al  quale  il  nostro  sistema  si  ispira  non  puo'
 rappresentare  il solo principio informatore delle norme che regolano
 la assunzione e formazione delle prove.  In diverse occasioni infatti
 (sentt. n. 111 del 1993, n. 255 del 1992, n. 258 del 1991)  la  Corte
 costituzionale  ha ribadito che, sempre e comunque, "fine primario ed
 ineludibile del processo penale non puo' che  rimanere  quello  della
 ricerca  delle  verita'",  sicche':  "l'oralita'  assunta a principio
 ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella  disciplina  del
 codice  vigente,  il veicolo esclusivo di formazione della prova, nel
 dibattimento ... di guisa che in taluni casi  in  cui  la  prova  non
 possa,  di  fatto,  prodursi oralmente e' dato rilievo, nei limiti ed
 alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti  formatisi  prima
 ed  al di fuori del dibattimento" (Corte costituzionale n. 255/1992).
 E, ancora, sempre con riguardo al fine primario ed ineludibile di cui
 sopra, la Corte ha sottolineato che "... ad un ordinamento improntato
 al principio di legalita'  che  rende  doverosa  la  punizione  delle
 condotte  penalmente  sanzionate  nonche'  al  connesso  principio di
 obbligatorieta'  della  azione  penale  non  sono  consone  norme  di
 metodologia  processuale  che  ostacolino  in  modo  irragionevole il
 processo di accertamento del fatto storico necessario a pervenire  ad
 una   giusta  decisione"  (Corte  costituzionale  n.  255/1992  e  n.
 111/1993).  E' a tutti noto come, in forza di  siffatti  principi  la
 Corte abbia confermato la compatibilita' al dettato costituzionale di
 norme  nelle  quali la formazione della prova deroga il principio del
 contraddittorio dibattimentale, o prescinde  dall'immediato  contatto
 del  giudice  con  la  prova  nel momento della sua formazione (ci si
 riferisce agli artt.  392, 431, 500, comma 4, 503, commi 5 e 6,  512,
 c.p.p.  e  lo  stesso  513,  c.p.p.)  ed abbia individuato la ragione
 d'essere di tali  "eccezioni"  nella  necessita'  di  non  disperdere
 elementi  di  prova  non compiutamente o non genuinamente acquisibili
 con il metodo orale: necessita' che la stessa  Corte  ha  elevato  al
 rango   di   principio   costituzionalmente  garantito  e  denominato
 "principio di non dispersione delle prove" (Corte  costituzionale  n.
 255/1992).    Da  questa  sintetica  premessa - e cioe' dai ricordati
 principi costituzionali - ritiene questo Collegio che  non  si  possa
 prescindere nell'affrontare la questione di legittimita' dedotta.  E'
 pero'  opinione  di  questo Collegio che la questione - sollevata dal
 pubblico ministero con riferimento  all'art.  513  c.p.p.  nella  sua
 nuova  formulazione  -  meriti  invece  di essere affrontata sotto un
 altro aspetto o, meglio, con riferimento ad altra norma  di  rito  al
 cui   contenuto   anche   l'art.   513  c.p.p.  deve  necessariamente
 rapportarsi.  Ci si riferisce all'art. 210, comma 4, c .p.  p.  nella
 parte  in cui prevede che l'imputato di reato connesso che abbia reso
 dichiarazioni direttamente o indirettamente accusatorie a  carico  di
 terze   persone   non   presenti  all'atto  di  assunzione  di  dette
 dichiarazioni davanti al  pubblico  ministero,  possa  poi  avvalersi
 della  facolta' di non rispondere nel dibattimento a carico di quelle
 stesse persone. (E' appena il caso di porre in evidenza  che  analogo
 discorso vale per l'imputato che nel corso delle indagini preliminari
 abbia  reso  dichiarazioni indizianti nei confronti di altri imputati
 del  medesimo  procedimento:      ipotesi   che   non   si   affronta
 specificatamente  in  quanto, nel caso di specie, non rileva).  E' di
 tutta evidenza infatti che la disposizione  dettata  dalla  norma  la
 ultimo  citata  (art.  210,  comma  4,  c.p.p.)  costituisce  il nodo
 centrale  del  sistema  e   che   il   sospetto   di   illegittimita'
 costituzionale che circonda norme che da esso direttamente discendono
 non  e'  che  una  conseguenza  immediata  e  diretta  del  dubbio di
 illegittimita' costituzionale che attinge la norma in esame,  laddove
 consente  agli  imputati  di  reato connesso, nelle circostanze sopra
 indicate, la facolta' di tacere.  La necessita' di tale  impostazione
 emerge  in  modo  affatto  evidente  anche  dal  semplice esame delle
 conseguenze che la novella ha di fatto determinato,  conseguenze  che
 tradiscono  quello  che si ritiene essere stato lo scopo primario del
 legislatore.  Se infatti quest'ultimo, con  la  attuata  riforma,  ha
 inteso  riaffermare  la necessita' di subordinare la introduzione nel
 dibattimento di dichiarazioni accusatorie etreo-processuali al vaglio
 del contraddittorio, di fatto, si deve constatare che, nella realta',
 cio' si verifica assai raramente: sicche' quella che doveva essere la
 regola e' in realta' la eccezione, mentre la regola e'  rappresentata
 dalla  assoluta  sottrazione  delle  dichiarazioni dell'accusatore al
 vaglio dibattimentale per effetto  della  totale  eliminazione  dalla
 realta'  processuale  delle dichiarazioni da quello a suo tempo rese.
 Ritiene quindi questo Collegio che  debba  essere  preliminarmente  e
 principalmente affrontata la questione di legittimita' costituzionale
 dell'art.  210,  comma  4,  c.p.p. nei termini sopra delineati.   Nel
 nostro ordinamento l'imputato ha facolta' di scegliere  se  tacere  o
 parlare e, ove scelga di parlare, ha facolta' di mentire.  Orbene, se
 e'  vero  che  la  facolta'  di  tacere,  il diritto dell'imputato di
 rifiutarsi di collaborare con  gli  inquirenti,  e'  espressione  del
 diritto  di  difesa  e  come tale merita ampia tutela, tuttavia, tale
 tutela,  non  puo'  spingersi  fino  al  punto  da  ledere  altri  ed
 altrettanto  rilevanti principi garantiti dalla Carta costituzionale.
 E' evidente che qui non si fa riferimento semplicemente alla  lesione
 di  principi  di  ordine  etico  e  morale  che imporrebbero a chi fa
 determinate dichiarazioni di assumersi poi la  responsabilita'  delle
 conseguenze  del  suo  operare, bensi' ad un vero e proprio legittimo
 sospetto di incompatibilita' di  tale  diritto  -  nei  limiti  sopra
 delineati   -   con  i  principi  dettati  dalla  Costituzione.    La
 irrazionalita' del sistema attuale appare affatto  manifesta  ove  si
 consideri  che:  da  un  lato,  il  mancato ingresso di dichiarazioni
 accusatorie rese nelle indagini preliminari da un imputato  di  reato
 connesso  lede  i  principi  di  obbligatorieta' dell'esercizio della
 azione penale e di indefettibilita' della giurisdizione e vanifica lo
 scopo del processo che e' quello della  ricerca  e  dell'accertamento
 della verita' storica; dall'altro, viceversa, la introduzione di tali
 dichiarazioni   lede  il  diritto  di  difesa  della  parte  accusata
 impedendole, attraverso il contro esame, di accertare la credibilita'
 e la attendibilita' dell'accusatore.  Giova esaminare partitamente  i
 singoli punti.
   Si  e  gia'  ricordato  e  si  sono  specificatamente richiamate le
 relative pronuncie sul punto, che la  Corte  costituzionale  ha  piu'
 volte  sottolineato  come  lo scopo primo ed ineludibile del processo
 debba essere  quello  dell'accertamento  della  verita'  storica,  in
 quanto  solo  tale accertamento potra' poi portare il giudicante alla
 emanazione di una sentenza giusta.  Se cosi' e', non  puo'  ritenersi
 ragionevole  un  sistema  che  consenta  al  giudice  una  conoscenza
 parziale, alla quale potra' conseguire  solo  un  accertamento  della
 verita' formale/processuale, ma certamente non della verita' storica;
 non  puo'  essere  giudicato  razionale un sistema che impedisca alla
 pubblica accusa di portare efficacemente a compimento quell'esercizio
 della azione penale che, pure, la stessa era obbligatoriamente tenuta
 ad esercitare e che, di fatto, viene ora  ad  essere  subordinata  al
 consenso di altri.
   Ma vi e' un altro profilo di cui e' necessario tenere conto.
   Nel  nostro  sistema  il  pubblico  ministero e' organo giudiziario
 pubblico e indipendente, deputato alla applicazione imparziale  della
 legge.  Quest'ultima  conferisce  piena utilizzabilita' agli elementi
 raccolti  dal  Pubblico  Ministero   nella   fase   delle   indagini:
 utilizzabilita'   che   si   estende  fino  alla  legittimazione  del
 compimento di atti che possono incidere significativamente  anche  su
 diritti  costituzionali  primari  dei  cittadini.    Sia  sufficiente
 considerare che il pubblico ministero  sulla  base  di  dichiarazioni
 accusatorie  rese  da  un  imputato  in  reato connesso e debitamente
 riscontrate, puo' chiedere ed ottenere dal g.i.p. la emissione di una
 misura cautelare personale.  Non solo, ma  l'esercizio  della  azione
 penale  sulla base di dichiarazioni di coimputati o imputati di reato
 connesso e delle risultanze emergenti dalle indagini che alle  stesse
 sono  seguite,  non  e'  attivita' meramente facoltativa del pubblico
 ministero ma e' attivita' obbligatoria ai sensi dell'art.  112  della
 Costituzione.      Ad   avviso   di  questo  Collegio  il  dubbio  di
 compatibilita' con la Carta costituzionale non va posto in  relazione
 al diverso regime di utilizzabilita' dei mezzi di prova nelle diverse
 fasi  processuali  (dubbio  che,  in verita', non si ravvisa), quanto
 piuttosto sulla irrazionalita' di un sistema che, da un lato,  impone
 al  pubblico ministero la raccolta e l'utilizzo di prove sul fatto da
 accertare e, dall'altro, condiziona poi l'effettivo  esercizio  della
 azione  penale  nel  raggiungimento  dello scopo, che e' quello della
 ricerca della verita', alla  volonta'  meramente  potestativa  di  un
 soggetto  controinteressato.  Parimenti, irragionevole e contraria al
 dettato costituzionale  risulta  la  sottoposizione,  di  fatto,  del
 giudice  non  gia'  solo  alla  legge  (cosi'  come  stabilito  dalla
 Costituzione) ma alla volonta' di una parte  che,  a  suo  piacimento
 (ne'  delle  ragioni  del suo operare e' tenuta a dare conto alcuno),
 potra' consentire o meno la introduzione nel  processo  di  materiale
 probatorio.    E'  indispensabile  sul punto ricordare gli interventi
 della Corte costituzionale  volti  ad  evitare  la  introduzione  nel
 nostro  ordinamento di un preteso principio dispositivo in materia di
 prova.  Argomentando in ordine alla  prospettata  eccezionalita'  del
 potere  istruttorio  conferito  al  giudice  dall'art. 507 c.p.p., la
 Corte ha infatti a sottolineato come il preteso principio dispositivo
 della prova non trovi riscontro "ne' nei principi della  delega,  ne'
 nel  tessuto  normativo  concretamente  designato  nel codice". E per
 fugare ogni dubbio ha precisato: "E' per  la  verita',  incontroverso
 che  sarebbe  contrario  ai principi costituzionali di legalita' e di
 obbligatorieta' della azione concepire  come  disponibile  la  tutela
 giurisdizionale  assicurata al processo penale" (Corte costituzionale
 n. 111/1993).  Principio che la Corte aveva gia' esplicitato  laddove
 aveva  riconosciuto  la  illegittimita'  costituzionale dell'art. 444
 c.p.p. nella parte in  cui  non  prevedeva  che  il  giudice  potesse
 valutare  non  congrua  la  pena  richiesta  dalle  parti  e, quindi,
 rigettare la richiesta di applicazione pena (Corte costituzionale  n.
 313/1990;  ovvero laddove ha consentito il cosi' detto "recupero" del
 rito abbreviato al dibattimento, ove il giudice abbia  giudicato  non
 giustificato  il dissenso del pubblico ministero, argomentando che in
 un sistema come quello del nuovo codice imperniato sul  principio  di
 partecipazione della accusa e della difesa su basi di parita' ... non
 dovrebbe  essere  consentito  che i rapporti tra pubblico ministero e
 imputato si sbilanciano al punto che il primo, con un  semplice  atto
 di  volonta'  immotivato e percio' incontrollabile, si trovi in grado
 di privare il secondo  di  un  rilevante  vantaggio  sostanziale  (n.
 81/1991).  E  da  ultimo, solo per completezza, giova citare anche la
 sentenza n. 92/1992 ove la Corte ha  inequivocabilmente  sottolineato
 la  incompatibilita'  con  un  ordinamento  costituzionale fondato su
 principi di uguaglianza e legalita' della pena, di una disciplina che
 affidi a scelte discrezionali, immotivate  e,  quindi,  insindacabili
 del  pubblico ministero, l'accesso dell'imputato ad un rito dal quale
 scaturiscono automaticamente rilevanti effetti  sulla  determinazione
 della pena.
   Non  meno  grave e rilevante appare altresi' la evidente violazione
 del diritto di difesa  che  la  applicazione  della  norma  in  esame
 comporta.
   Non  puo'  infatti  sfuggire  come  la  scelta di non consentire ad
 essere esaminato e, quindi, di  non  sottoporsi  al  contraddittorio,
 operata  da  colui  che,  in sede di indagini preliminari, abbia reso
 dichiarazioni accusatorie nei confronti di un terzo, leda grandemente
 il diritto di difesa dell'accusato, al quale deve essere riconosciuto
 il diritto di vedere affermata la propria innocenza, non  solo  quale
 conseguenza  del  venir  meno  ex  lege  di una fonte di prova e solo
 perche' l'accusatore ha deciso (e di tale decisione - lo si ribadisce
 - non e' tenuto in alcun  modo  ad  illustrare  le  ragioni)  di  non
 parlare, ma, invece, come conseguenza dell'accertamento della verita'
 storica.
   Solo  cosi', infatti, l'accusato potra' vedere dissolto ogni dubbio
 sulle accuse mosse nei suoi confronti, evitando di essere per  sempre
 circondato  di un alone di sospetto che la persona innocente non puo'
 e non deve tollerare.
   Per  altro  verso,  se  il  contraddittorio  e'  senza  dubbio  uno
 strumento  di difesa, e' altresi' innegabile la sua primaria funzione
 di  accertamento  della  verita',  sicche'  il  condizionare  la  sua
 esistenza   ad  una  scelta,  che  puo'  essere  anche  arbitraria  e
 immotivata,  dell'accusatore,  suscita  un  ragionevole   e   fondato
 sospetto  di illegittimita' costituzionale dell'art. 210 c.p.p. anche
 in  relazione  all'art.  25  della  Costituzione  laddove  impone  la
 punizione dei colpevoli.
   Da  quanto  esposto  si evince altresi' una evidente violazione del
 principio di uguaglianza.  L'imputato di reato connesso  che  con  la
 sua  condotta  diventa arbitro delle sorti del processo, puo' infatti
 inopinatamente scegliere in quale processo parlare ed in quale invece
 avvalersi della facolta', che la  legge  gli  ha  accordato,  di  non
 rispondere,  determinando  cosi',  a  seconda  dei  casi, conseguenze
 affatto diverse per gli imputati la cui sorte viene in larga a  parte
 a  dipendere  dagli umori del loro accusatore. (Per non parlare, poi,
 di come siffatto sistema si presti a favorire forme di  intimidazione
 dirette  o  indirette  senza  che  il  legislatore  abbia  pensato di
 predisporre un qualche rimedio  nel  caso  in  cui  il  silenzio  sia
 conseguenza  di  una accertata intimidazione).   Nei medesimi termini
 deve porsi la questione della irragionevolezza  di  un  sistema  che,
 consentendo   un   uso  arbitrario  del  diritto  al  silenzio,  puo'
 determinare situazioni di disparita' di trattamento nei confronti  di
 quegli  imputati nei cui confronti, per ragioni del tutto contingenti
 come possono  essere,  ad  esempio,  quelle  legate  alla  competenza
 funzionale (si pensi agli imputati minorenni) il processo deve essere
 separato.     Infine,  la  questione  prospettata  merita  di  essere
 esaminata anche alla luce del principio di non dispersione dei  mezzi
 di  prova  sul  quale gia' ci si e' soffermati.  Per tutte le ragioni
 anzidette ritiene questo Tribunale che la questione  di  legittimita'
 costituzionale    dell'art.  210,  comma  4,  c.p.p. meriti di essere
 sollevata in  quanto  non  manifestamente  infondata.    E'  peraltro
 evidente   che   la   questione   involge   anche   la   legittimita'
 costituzionale   dell'art.   513   c.p.p.,   sicche'      l'eventuale
 accoglimento della prospettata questione non potra' non travolgere la
 menzionata  norma.    Se cosi' non fosse, se cioe' la Corte ritenesse
 infondata la questione, questo Tribunale, che pure, come gia'  detto,
 prende atto della scelta legislativa operata con la legge n. 267/1997
 e  la  valuta  non  incompatibile  con  la Carta costituzionale per i
 procedimenti futuri, non puo' non porsi  un  dubbio  di  legittimita'
 costituzionale con riferimento ai procedimenti gia' avviati alla data
 di  entrata  in  vigore  della legge n. 267/1997 e per i quali, avuto
 riguardo alla fase nella quale si trovano,  non  sia  piu'  possibile
 ricorrere al "rimedio" predisposto dal legislatore all'art. 6 comma 1
 della  menzionata  novella;  ovvero  nei  casi in cui non sia neppure
 applicabile la disciplina dei cui al comma 5 per il  semplice  motivo
 che  le  dichiarazioni dell'imputato di reato connesso non erano gia'
 state acquisite alla data di entrata  in  vigore  della  disposizione
 che,  viceversa, tale avvenuta acquisizione pacificamente presuppone.
 (Per  completezza  si  pone  altresi'  in  rilievo  la  irragionevole
 disparita'  di  trattamento tra imputati che si potrebbe, in ipotesi,
 verificare in un procedimento se, prima della entrata in vigore della
 novella, vi fosse stata la acquisizione al fascicolo del dibattimento
 del verbale delle dichiarazioni di  un  imputato  di  reato  connesso
 coinvolgenti,  ad  esempio,  la  posizione  di  alcuni soltanto degli
 imputati).
   Per quanto riguarda invece il primo comma dell'art. 6  della  legge
 n.  267/1997,  non ci si puo' nascondere che, se anche il legislatore
 colmasse  la  lacuna  sopra  rilevata,  ugualmente   non   potrebbero
 ritenersi  superati  i  dubbi  legati  alla facolta', conferita dalla
 legge a colui che aveva reso dichiarazioni  indizianti  a  carico  di
 altri,  di  non rispondere anche nel corso dell'incidente probatorio:
 rilievo questo dal quale non puo' che trarsi ulteriore  conferma  che
 il   nodo   centrale   di  tutto  il  sistema  attuale  riposa  nella
 compatibilita' al dettato costituzionale della norma che consente  il
 diritto  al  silenzio  anche  a coloro che abbiano reso dichiarazioni
 etero-accusatorie.
   In ogni caso,  poiche'  anche  il  solo  dubbio  di  non  manifesta
 infondatezza,  legittima la rimessione degli atti alla Corte, ritiene
 questo tribunale che sia  opportuno  provocare  una  pronuncia  della
 Corte  costituzionale  anche  con riferimento all'art. 513 c.p.p. nei
 limiti sopra indicati.