ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 303, comma 4,
 del codice procedura penale, promosso  con  ordinanza  emessa  il  22
 novembre  1996  dal Tribunale di Reggio Calabria, iscritta al n.  756
 del registro ordinanze 1997 e  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale
 della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 1997.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio  del  22  aprile  1998  il  giudice
 relatore Giuliano Vassalli.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -    Il  Tribunale  di Reggio Calabria - adito quale giudice di
 appello de libertate - premette  in  fatto  che,  nell'ambito  di  un
 procedimento regredito al pubblico ministero a seguito di sentenza di
 incompetenza  per  territorio pronunciata dal Tribunale di Milano, il
 difensore di due imputati ha proposto domanda  di  scarcerazione  per
 decorso  dei  termini  massimi di custodia cautelare, in quanto dalla
 data dell'arresto  (giugno  1994)  alla  pronuncia  del  decreto  che
 dispone  il  giudizio  (luglio  1996)  erano gia' decorsi piu' di due
 anni, termine, questo, superiore al doppio  del  termine  di  fase  -
 nella  specie pari ad anni uno, a norma dell'art. 303, comma 1, lett.
 a) n. 3, cod. proc. pen.   - e dunque eccedente  il  limite  previsto
 dall'art. 304, comma 6, del codice di rito. A seguito della reiezione
 di  tale  domanda,  veniva interposto gravame, oggetto del giudizio a
 quo, nel corso del quale la difesa degli appellanti eccepiva in linea
 subordinata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 304,  comma  6,
 cod.  proc.  pen.,  per  violazione  degli artt. 3, 24 e 76 Cost., in
 quanto  disciplina  limitata  al  solo  caso  di  sospensione  e  non
 estensibile  alle  ipotesi  previste  dall'art.    303,  comma 2, del
 medesimo  codice,  con  conseguente   irragionevole   disparita'   di
 trattamento delle due situazioni.
   A   parere  del  giudice  a  quo,  tuttavia,  il  riferimento  alla
 disciplina  dettata  dall'art.  304  cod.  proc.  pen.   risulterebbe
 inconferente,  in  quanto relativa all'istituto della sospensione dei
 termini di custodia cautelare ed ai conseguenti  limiti  cronologici.
 Trattandosi  nella  specie di processo regredito, le uniche questioni
 che rilevano sarebbero infatti quelle  relative  al  superamento  dei
 termini  di  fase  e  di  quelli  complessivi, che, invece, risultano
 entrambi rispettati.
   Cio' posto, ritiene peraltro il giudice a quo di  dover  sollevare,
 in   riferimento   all'art.   3   della  Costituzione,  questione  di
 legittimita' costituzionale dell'art. 303, comma 4, cod. proc.  pen.,
 nella  parte in cui non prevede che, oltre al superamento del termine
 complessivo, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento
 del doppio del termine di fase, allorche' si verifichi la  situazione
 prevista  nel  comma  2  del  medesimo  art.  303. A tal proposito il
 rimettente  individua,  quale  termine   di   raffronto   dal   quale
 scaturirebbe una ingiustificata disparita' di trattamento, proprio la
 disciplina introdotta dall'art. 304, comma 6, come novellata ad opera
 della  legge  8  agosto  1995,  n.  332.  A parere del giudice a quo,
 infatti,  la  materia  che  attiene  al  verificarsi   degli   eventi
 interruttivi  del  corso dei termini massimi della custodia cautelare
 (art. 303, comma 2: ripristino del dies a quo del termine di fase per
 ogni evento interruttivo), presenterebbe una evidente omogeneita'  di
 contenuto  e  di  effetti  rispetto  a  quella  della sospensione dei
 termini  medesimi  (art.  304),  in  quanto  entrambi  gli   istituti
 rappresentano  degli  accidenti  che  si  verificano  nel cammino del
 procedimento, perlopiu' indipendenti dalla volonta'  -  eventualmente
 ostruzionistica o defatigatoria - dell'imputato.
   La  omogeneita'  degli  istituti,  osserva  ancora  il  rimettente,
 sarebbe pure confermata dalle modifiche apportate all'art.  304  cod.
 proc.   pen. dalla legge n. 332 del 1995, essendo stati introdotti un
 limite ragguagliato (nel doppio) al termine massimo  di  fase  ed  un
 limite  rapportato (con l'aumento della meta') al termine complessivo
 previsto  dall'art.  303,  comma   4,   c.p.p.   Da   cio',   dunque,
 l'irragionevole  disparita'  di  disciplina,  in  quanto mentre nelle
 ipotesi previste dall'art.  303, comma 2, e' stato mantenuto il  solo
 riferimento  al termine complessivo indicato nel comma 4 dello stesso
 articolo,  nelle  situazioni  "sostanzialmente  omogenee"   descritte
 dall'art.  304  i  limiti  temporali  di  legittimita' della custodia
 cautelare sono ora riferiti anche ai termini della fase in corso.
   2. - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura generale dello
 Stato, chiedendo che la  questione  sia  dichiarata  non  fondata.  A
 parere  dell'Avvocatura, pur essendo condivisibile "il giudizio sulla
 sostanziale  identita'  di ratio tra le ipotesi disciplinate all'art.
 304 e quelle di cui all'art. 303,  comma  2",  non  e'  "praticabile"
 l'estensione  di  disciplina sollecitata dal giudice a quo, attese le
 peculiarita' che caratterizzano il caso del regresso del procedimento
 o del rinvio ad altro giudice, posto che "la fase cui  il  rimettente
 vorrebbe  riferito  il termine di custodia e', per legge, tamquam non
 esset". Estendere, dunque, la disciplina prevista per la  sospensione
 dei  termini  di  custodia  cautelare alla ipotesi di regressione del
 processo, equivarrebbe ad operare una scelta tra diverse opzioni  che
 spetta alla esclusiva discrezionalita' del legislatore.
                        Considerato in diritto
   1.  -    Il  Tribunale  di  Reggio Calabria solleva, in riferimento
 all'art.     3  della   Costituzione,   questione   di   legittimita'
 costituzionale  dell'art.  303, comma 4, cod. proc. pen., nella parte
 in cui non prevede che, oltre al superamento del termine  complessivo
 di  durata  massima  della  custodia cautelare, possa essere causa di
 scarcerazione anche il superamento del doppio del  termine  di  fase,
 allorche'  si  verifichi  la  situazione  descritta  nel  comma 2 del
 medesimo articolo. Dopo  aver  disatteso  l'eccezione  della  difesa,
 volta  a coinvolgere nel dubbio di legittimita' costituzionale l'art.
 304, comma 6, cod. proc. pen., trattandosi di disciplina inconferente
 nella specie in quanto riferita all'istituto  della  sospensione  dei
 termini  di  custodia  cautelare  ed  ai  suoi limiti cronologici, il
 giudice a quo ritiene, tuttavia, che sia proprio quella disciplina  a
 dover  fungere  da  termine di comparazione sulla cui base apprezzare
 l'irragionevole  diversita'  di  trattamento  prevista  dalla   norma
 impugnata, nella parte in cui non prevede l'identico limite di durata
 della  custodia  nei casi previsti dall'art. 303, comma 2, cod. proc.
 pen. Infatti, osserva  il  rimettente,  la  materia  che  attiene  al
 verificarsi  degli  eventi  interruttivi  del corso dei termini della
 custodia cautelare, quale disciplinata dal menzionato art. 303, comma
 2, del codice di rito, presenta una evidente omogeneita' di contenuto
 e di effetti con quella della sospensione dei termini di durata delle
 misure prevista dall'art. 304 dello stesso  codice,  trattandosi,  in
 entrambi  i casi, di istituti che rappresentano degli "accidenti" che
 si verificano nel corso del procedimento, "per lo  piu'  indipendenti
 dalla  volonta'  -  eventualmente  ostruzionistica  o defatigatoria -
 dell'imputato", ed aventi incidenza sul computo dei termini di durata
 massima della custodia. Il nuovo testo dell'art.  304, comma 6,  cod.
 proc.  pen.,  il  quale ha indicato, come parametro temporale, il cui
 superamento determina la scarcerazione dell'imputato, il  doppio  del
 termine  massimo della fase in cui si sono verificate le sospensioni,
 ha dunque finito per rendere - ad avviso del giudice rimettente - non
 solo  differenziato,  ma  anche  eterogeneo,  il  trattamento   delle
 situazioni regolate dall'art. 303, comma 2, cod. proc. pen., giacche'
 mentre  per  queste e' stato mantenuto il solo riferimento al termine
 complessivo previsto dal quarto comma dello stesso articolo,  per  le
 situazioni  sostanzialmente  omogenee  descritte  dall'art.  304  del
 codice di rito, i limiti di legittimita' della durata della  custodia
 sono  ora  riferiti  anche  ai termini della fase in corso. Da qui il
 denunciato contrasto con l'art. 3 della Carta fondamentale.
   La  questione di legittimita' che il tribunale rimettente sottopone
 all'esame di  questa  Corte,  si  radica,  dunque,  su  un  composito
 reticolo  di  disposizioni  ed  istituti  che il giudice a quo pone a
 raffronto,  per  evidenziare   la   sopravvenuta   incoerenza   della
 disciplina   che   presidia  la  durata  complessiva  della  custodia
 cautelare nell'ipotesi prevista dall'art. 303, comma 2, del codice di
 procedura penale. Tale disposizione,  infatti,  stabilisce  che,  nel
 caso  di  regressione  del procedimento o di rinvio ad altro giudice,
 dalla data del provvedimento che dispone  il  regresso  o  il  rinvio
 ovvero  dalla  sopravvenuta  esecuzione  della custodia, decorrono ex
 novo i termini cosiddetti intermedi o di fase previsti  dal  comma  1
 relativamente a ciascuno stato e grado del procedimento.  A fronte di
 tale  nuova  decorrenza  "che  evidentemente incide in senso negativo
 sullo  status  libertatis  della  persona   sottoposta   a   custodia
 cautelare"  opererebbe,  dunque, come unico sbarramento temporale, il
 termine di durata complessiva previsto dal comma 4 dello stesso  art.
 303,  giacche'  la  previsione  sancita  dal  nuovo testo del comma 6
 dell'art. 304, in base alla quale "la durata della custodia cautelare
 non puo' comunque superare il doppio dei termini  previsti  dall'art.
 303, commi 1, 2 e 3", rinverrebbe il suo confine applicativo nei soli
 casi  in  cui  i  termini di custodia cautelare siano stati sospesi a
 norma dello stesso art. 304.
   2. - La questione e' infondata, nei sensi che  qui  di  seguito  si
 illustreranno,  dovendosi  nella  specie  pervenire  ad  una  diversa
 ricostruzione dell'intricato quadro normativo di riferimento, secondo
 una prospettiva che privilegi quella che, a parere di  questa  Corte,
 e'  l'unica  soluzione  ermeneutica  enucleabile dal sistema e che si
 appalesa in linea con i valori della Carta fondamentale.
   3. - La materia  dei  termini  di  durata  massima  della  custodia
 cautelare,  sulla  quale  questa  Corte  e'  stata  in piu' occasioni
 chiamata  ad  intervenire,  ha  ormai   raggiunto   un   livello   di
 complessita'  tale  da  rendere  opportuna  qualche  breve  notazione
 ricostruttiva   che   tenga   conto,   anche,   delle   numerosissime
 stratificazioni  e interpolazioni che il sistema ha subito, fino alla
 piu' recente legge n. 332 dell'agosto 1995. Sono note, anzitutto,  le
 ragioni per le quali il legislatore ebbe ad introdurre in epoca ormai
 lontana  (1984)  la  previsione  di termini di fase in aggiunta ad un
 termine di durata complessiva della custodia cautelare:    con  essi,
 infatti,  si  intendeva  impedire  ai  giudici  di  gradi  diversi di
 "utilizzare", quanto ai tempi della rispettiva fase del procedimento,
 la  maggiore  celerita'  della  fase  istruttoria.  Col  tempo,  vari
 istituti,  al  cui  conio  ed alla cui variegata disciplina hanno non
 poco  contribuito   singole   ma   purtroppo   ricorrenti   emergenze
 succedutesi  negli  anni,  sono  venuti  ad  incidere sul computo dei
 termini di durata massima della custodia cautelare:  fra  questi,  in
 particolare, la "sterilizzazione" dei termini di fase per i giorni di
 udienza  e  per quelli impiegati per la deliberazione della sentenza;
 la proroga, incidente anch'essa sui termini di fase; la  sospensione,
 infine,  operante  sia  per  i  termini  di  fase  che  per la durata
 complessiva. E' evidente,  quindi,  che  proprio  con  riferimento  a
 quest'ultimo  istituto  -  ma non certo con portata circoscritta allo
 stesso -  fosse  necessaria  la  previsione  di  un  "limite  finale"
 invalicabile,  giacche',  altrimenti,  la  quiescenza  sine  die  del
 decorso dei termini si sarebbe posta in palese contrasto  con  l'art.
 13  della  Costituzione.  Da  qui  la  previsione che la durata della
 custodia  cautelare  non  potesse "comunque superare" i due terzi del
 massimo della pena temporanea prevista  per  il  reato  contestato  o
 ritenuto  in  sentenza,  introdotta nel nuovo testo dell'art. 272 del
 codice abrogato dall'art. 3 della legge 28 luglio 1984, n. 398.   Una
 espressione,  quella  di "limite", il cui valore semantico di confine
 estremo della custodia e' stato non a caso usato, nell'art. 1,  comma
 2,  dal  d.-l.  1 marzo 1991, n. 60, convertito dalla legge 22 aprile
 1991, n. 133, dedicato proprio alla interpretazione  autentica  degli
 artt. 297 e 304 del nuovo codice.
   4.  -  L'intera  cadenza  dell'art.  272 del codice abrogato era di
 lettura sufficientemente agevole e il sistema, prescindendo da alcune
 variabili, come la proroga dei termini di fase per taluni reati e  la
 "sterilizzazione"  degli  stessi  termini  per  i  giorni di udienza,
 poteva cosi' sinteticamente svilupparsi:  termini  di  fase  (con  la
 decorrenza  ex  novo  nei  casi  di regressione), durata complessiva,
 sospensione di tutti  i  termini  (di  fase  e  complessivi),  limite
 finale.    Quest'ultimo  seguiva,  nel  testo dell'articolo, il comma
 dedicato alla sospensione, ma nessuno ha mai dubitato del  fatto  che
 quella  previsione  avesse  portata  autonoma,  nel  senso che la sua
 applicazione non poteva in  alcun  modo  ritenersi  condizionata  dal
 fatto che la custodia avesse o meno subito un periodo di sospensione.
 Nei  casi  di  regressione del processo, dunque, il nuovo decorso dei
 termini di fase non poteva "comunque" determinare il superamento  del
 limite  dei  due  terzi della pena prevista per il reato contestato o
 ritenuto   in   sentenza,   comportando   l'obbligo   di    immediata
 scarcerazione  ove  quel  limite  fosse risultato piu' favorevole dei
 termini di durata complessiva previsti dal sesto comma  dello  stesso
 art. 272 del codice abrogato.
   La  previsione  di  tale limite, mantenuta intatta nel nuovo codice
 (anche se, con scelta assai discutibile, iscritta nel testo dell'art.
 304, dedicato alla sospensione), rappresenta una evidente  attuazione
 del  canone di proporzionalita', nel senso che, come la custodia puo'
 essere imposta soltanto se risulti  proporzionata  alla  entita'  del
 fatto  e  alla  sanzione  che  si ritiene possa essere irrogata (art.
 275, comma 2), allo stesso modo  la  durata  della  misura  non  puo'
 eccedere  lo stesso parametro, perche' non si corra il rischio di una
 consumazione della  pena  in  fase  custodiale.  Il  carattere  della
 proporzionalita'  deve  ora  riflettersi anche sulla nuova previsione
 dettata dall'art.   304,  comma  6,  cod.  proc.  pen.,  giacche'  la
 circostanza  che  il  legislatore  abbia  fatto  regredire ad ipotesi
 residuale, operante solo  "se  piu'  favorevole"  rispetto  ai  nuovi
 limiti  (il  doppio  dei  termini di fase e l'aumento della meta' dei
 termini di durata complessiva) il vecchio termine ragguagliato ai due
 terzi del massimo della pena  prevista  per  il  reato  contestato  o
 ritenuto in sentenza, dimostra all'evidenza l'identico ed alternativo
 valore che i tre limiti assumono nel sistema.  Ne deriva, quindi, che
 il limite del doppio dei termini di fase, proprio perche' rispondente
 a  quel  principio,  aderisce anch'esso alla funzione che la norma e'
 chiamata a svolgere: individuare il limite estremo, superato il quale
 il  permanere   dello   stato   coercitivo   si   presuppone   essere
 sproporzionato   in   quanto   eccedente   gli   stessi   limiti   di
 tollerabilita' del sistema.  Fungendo,  pertanto,  da  meccanismo  di
 "chiusura"  della disciplina dei termini, la previsione di cui qui si
 tratta era e resta "autonoma" rispetto  al  corpo  dell'articolo  nel
 quale  si  trova inserita, al punto che la stessa - una volta che nel
 nuovo codice venivano scissi i vari contenuti del precedente articolo
 272 c.p.p. in una pluralita'  di  articoli  -  sarebbe  stata  meglio
 collocata in una disposizione a se' stante.
   L'avverbio  "comunque",  che contrassegna la disciplina sancita dal
 comma 6 dell'art. 304  cod.  proc.  pen.,  vale,  del  resto,  a  far
 superare  ogni residuo dubbio in proposito: ritenere, infatti, che il
 limite finale operi solo per i casi  di  sospensione  equivarrebbe  a
 tradire  non  soltanto  la  storia  e  la funzione di quel limite, ma
 anche, e innanzi tutto, il piu' che esplicito dettato  normativo.  Se
 il legislatore del 1995 ha inteso costruire quel limite come riferito
 anche  ai fenomeni che comunque possono interferire con la disciplina
 dei  termini  di  fase,  l'interprete  ne  deve   trarre   le   ovvie
 conseguenze,  specie  quando,  come  nel  caso in esame, la soluzione
 ermeneutica si appalesi come l'unica conforme a Costituzione.
   Cade quindi la premessa stessa della tesi sostenuta dal  giudice  a
 quo  e,  con  essa,  il  fondamento  del  dubbio di costituzionalita'
 devoluto alla attenzione della Corte. Ma v'e' di  piu'.  L'art.  304,
 comma 6, come si e' gia' accennato, introduce un limite massimo per i
 termini  di  fase, stabilendo che "la durata della custodia cautelare
 non puo' comunque superare il doppio dei termini  previsti  dall'art.
 303,  comma  1,  2  e  3".  Ebbene,  la  portata  del  richiamo e' di
 essenziale rilievo ai fini  di  una  corretta  interpretazione  della
 norma.  Occorre  osservare, infatti, che, mentre il comma 1 dell'art.
 303 disciplina effettivamente la durata della  custodia  nelle  varie
 fasi  e  gradi  sino  alla  sentenza  irrevocabile, i commi 2 e 3 non
 attengono alla durata in se', ma alla decorrenza ex novo dei  termini
 nella  ipotesi  di regressione del processo o di evasione. Cio' sta a
 significare che se fosse valido il ragionamento del  giudice  a  quo,
 sarebbe  bastato  per  il legislatore richiamare il comma 1 dell'art.
 303, giacche' in quella  prospettiva  i  commi  2  e  3  non  vengono
 assolutamente  in  discorso.  Argomenti testuali e logico-sistematici
 impongono pertanto di assegnare a quel richiamo l'unico senso che  ad
 esso  puo'  essere  attribuito:  vale a dire che il superamento di un
 periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la  fase
 presa  in  considerazione,  determina  la  perdita di efficacia della
 custodia, anche se quei termini sono stati sospesi, prorogati o - per
 stare al caso  che  qui  interessa  -  sono  cominciati  a  decorrere
 nuovamente a seguito della regressione del processo. Interpretazione,
 questa, d'altra parte aderente alla ratio di favor che ha ispirato il
 legislatore  del  1995,  ad  un  effettivo  recupero  della scelta di
 introdurre uno sbarramento finale ragguagliato anche alla durata  dei
 termini  di  fase  comunque  modulata,  e, infine, alla stessa logica
 dell'art.  13  della  Carta  fondamentale,   la   quale   impone   di
 individuare, fra piu' interpretazioni, quella che riduca al minimo il
 sacrificio per la liberta' personale.
   Accedere  alla  interpretazione  del  giudice a quo, d'altra parte,
 indurrebbe a conclusioni paradossali  anche  sul  piano  sistematico.
 Mentre,  infatti,  e  per  stare  agli stessi rilievi del rimettente,
 l'eventuale condotta ostruzionistica e  defatigatoria  dell'imputato,
 comportante  la sospensione a norma dell'art. 304, comma 1, lett.  a)
 cod. proc. pen.,  consentirebbe  allo  stesso  di  "beneficiare"  del
 limite  previsto dal comma 6 del medesimo articolo, l'identico limite
 non opererebbe, invece, nei casi di regressione o di rinvio ad  altro
 giudice  che  l'imputato  (del  tutto  "incolpevole")  e' costretto a
 subire, derivando di regola la regressione o il rinvio da un "errore"
 in cui e' incorsa la  stessa  autorita'  giudiziaria.  Un  paradosso,
 questo,  che  il legislatore non puo' certo aver inteso assecondare e
 che il testo normativo non legittima in alcun modo.