IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunziato la seguente ordinanza sul ricorso n. 3686/1996 proposto da Bargi Alfredo, rappresentato e difeso dall'avv. prof. Salvatore Raimondi, presso il cui studio in Palermo, via Nicolo' Turrisi n. 59, e' elettivamente domiciliato; Contro l'Universita' degli studi di Palermo, in persona del rettore pro-tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo, domiciliataria, per l'annullamento del decreto rettorale del 10 giugno 1996, con il quale si dispone la sospensione cautelare dal servizio del ricorrente; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visti l'atto di costituzione in giudizio e la memoria prodotta dall'Avvocatura dello Stato per l'Amministrazione intimata; Visti gli atti tutti della causa, relatore il consigliere dott. Nicolo' Monteleone; Uditi alla pubblica udienza del 7 aprile 1998 l'avv. prof. Salvatore Raimondi per il ricorrente e l'avv. dello Stato Filippo Bucalo per l'amministrazione resistente; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: F a t t o Con ricorso notificato il 30 settembre 1996 e depositato il 10 ottobre successivo, il prof. Bargi Alfredo, avvocato in Napoli e professore associato di diritto de1l'esecuzione penale presso la facolta' di giurisprudenza dell'Universita' degli studi di Palermo, ha impugnato il decreto 10 giugno 1996 (notificatogli in data 15 giugno 1996), con il quale il rettore dell'Universita' dispone, ai sensi dell'art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, la sospensione cautelare dal servizio del ricorrente perche' rinviato a giudizio dal g.i.p. presso il tribunale di Salerno con decreto 8 maggio 1996 per i reati di corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa. Il ricorrente ha chiesto l'annullamento dell'atto impugnato, previa sospensiva e col favore delle spese, deducendo i seguenti motivi di gravame: 1) violazione e falsa applicazione dell'art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, come sostituito dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16. La sospensione automatica dalla funzione o dall'ufficio prevista da tale disposizione e' applicabile soltanto ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni svolgenti un lavoro di tipo burocratico collegato con gli eletti alle cariche pubbliche e non gia' a coloro i quali, pur essendo legati da un rapporto di pubblico impiego, svolgono funzioni del tutto diverse, come i professori universitari e gli insegnanti di ogni ordine e grado. 2) In subordine: illegittimita' costituzionale dell'art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, come sostituito dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, per contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, 27, secondo comma, e 97 della Costituzione. Secondo il ricorrente, la norma citata si pone in contrasto: a) con i criteri di coerenza e di ragionevolezza desumibili dall'art. 3 Cost., in quanto irrazionalmente colloca sullo stesso piano amministratori elettivi (o nominati) e pubblici dipendenti soprattutto se non svolgenti, in concreto, alcuna attivita' di "amministrazione" come il ricorrente per le cui funzioni, trattandosi di docente universitario, non puo' sussistere alcun pericolo di infiltrazione mafiosa; b) con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto si fonda sul criterio dell'automatismo che comporta l'applicazione della stessa misura cautelare a comportamenti di assai diversa natura, sebbene si registri ormai un trend giurisprudenziale della Corte costituzionale decisamente contrario agli automatismi disposti dal legislatore in ordine a provvedimenti di carattere sanzionatorio; c) con il principio della presunzione di innocenza di cui all'art. 27, secondo comma, Cost., in quanto stabilisce la sospensione automatica solo sulla base del decreto che dispone il rinvio a giudizio (o della sola richiesta di rinvio a giudizio) e cioe' sulla base di una valutazione in sede giudiziaria attinente soltanto alla legittimita' della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero; d) con l'art. 21, secondo comma, Cost., che garantisce il diritto di difesa, dato che con l'automatismo viene tolta all'interessato la possibilita' di esercitare, in sede amministrativa, il proprio diritto di esporre e di far valere le proprie ragioni, come invece e' previsto dall'art. 91, t.u. n. 3 del 1957, il quale contempla la sospensione cautelare facoltativa come provvedimento irrogabile dall'amministrazione sulla base di una valutazione, caso per caso, della gravita' del reato e della sua attinenza con lo svolgimento delle prestazioni del pubblico dipendente; e) con il principio di imparzialita' e del buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost., che postula, come e' stato piu' volte affermato dalla Corte costituzionale, la necessita' che la misura sanzionatoria o cautelare sia adeguata al caso specifico. L'Avvocatura dello Stato, costituitasi in giudizio per l'amministrazione intimata, con memoria nei termini, ha contestato la fondatezza del ricorso, chiedendone il rigetto; vinte le spese. Con ordinanza n. 2408 del 30 ottobre 1996, e' stata respinta la domanda incidentale di sospensione dell'esecuzione del provvedimento impugnato. Alla pubblica udienza del 7 aprile 1998 i patroni delle parti hanno insistito nelle rispettive tesi ed il ricorso e' stato posto in decisione. D i r i t t o Con il primo motivo di gravame (dedotto in via principale), il ricorrente, nel dedurre violazione e falsa applicazione dell'art. 15, comma 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55, come sostituito dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, sostiene che la sospensione automatica dalla funzione o dall'ufficio prevista da tale disposizione e' applicabile soltanto ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni svolgenti un lavoro di tipo burocratico collegato con gli eletti alle cariche pubbliche e non gia' a coloro i quali, pur essendo legati da un rapporto di pubblico impiego, svolgono funzioni del tutto diverse, come i professori universitari e gli insegnanti di ogni ordine e grado. La censura e' infondata, in quanto, come ha avuto occasione di rilevare la Corte costituzionale con sentenza n. 184 del 16 maggio 1994, il riferimento al "personale dipendente delle amministrazioni pubbliche" senza alcuna limitazione appare comprensivo di ogni categoria di pubblici dipendenti (cfr. altresi', t.a.r. Lazio, Sez. II, 25 giugno 1996, n. 1143). L'impossibilita' di aderire alla tesi di merito sostenuta dal ricorrente rende apprezzabile e rilevante la subordinata questione di costituzionalita' della norma suddetta, in quanto decisiva ai fini dell'accoglimento o del rigetto del ricorso. Sotto il primo profilo dedotto (irrazionale collocazione sullo stesso piano degli amministratori elettivi e pubblici dipendenti), l'eccezione si appalesa manifestamente infondata alla stregua di quanto in proposito ritenuto dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 184/1994, ove si afferma che la diversita' delle posizioni e delle funzioni non comporta necessariamente una diversita' di disciplina, ove occorra salvaguardare interessi fondamentali dello Stato. L'eccezione, ad avviso del collegio, coglie, viceversa, nel segno laddove, richiamando il costante orientamento della Corte costituzionale in tema di automatismi in ordine a provvedimenti di decadenza e di sospensione dei pubblici dipendenti condannati o sottoposti a procedimento penale, argomenta che la disposizione citata si pone contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, 27, secondo comma, e 97 della Costituzione. Ed invero, non puo' non rilevarsi come, fin dalla sentenza 14 ottobre 1998, n. 971, con la quale sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi gli artt. 85, lett. a) del d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 (statuto degli impiegati civili dello Stato) e 236 delle norme della regione siciliana di cui al d.-l.p. 29 ottobre 1955, n. 6 (ordinamento amministrativo degli enti locali nella regione siciliana), nella parte in cui non contemplavano, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l'apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare, la Corte costituzionale, considerato che l'ordinamento si va orientando verso l'esclusione di sanzioni rigide, sia rimasta ferma nel ritenere non conformi a Costituzione varie disposizioni normative che prevedevano in via automatica sfavorevoli incidenze sul rapporto di impiego o su attivita' professionali di procedimenti penali pendenti o di sentenze ancorche' divenute definitive. E cosi', sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi: l'art. 247 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (t.u. legge comunale e provinciale), nel testo sostituito con legge 27 giugno 1942, n. 851; l'art. 66, lett. a) del d.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 (ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari); l'art. 1, secondo comma, della legge 13 maggio 1975, n. 157 (estensione delle norme dello statuto degli impiegati civili dello Stato agli operai dello Stato; l'art. 57, lett. a) del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (stato giuridico del personale delle Unita' sanitarie locali); l'art. 8, lett. a) del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (sanzioni disciplinari per il personale dell'amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti) nelle parti in cui (nell'ipotesi di condanna per taluni delitti specificamente elencati) non prevedevano, in luogo del provvedimento di destituzione di diritto, l'apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare, stante che "l'indispensabile gradualita' sanzionatoria, ivi compresa la misura massima destitutoria, importa che le valutazioni relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di valutazione: il procedimento disciplinare, in difetto di che ogni relativa norma risulta incoerente, per il suo automatismo, e conseguentemente irrazionale ex art. 3 Cost." (v. la citata sentenza 14 ottobre 1988, n. 971); l'art. 15 quarto-octies della legge 19 marzo 1990, n. 55, introdotto dall'art. 1, legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte in cui prevede la decadenza dall'impiego dei pubblici dipendenti condannati con sentenza passata in giudicato per uno dei reati previsti dalla legislazione sulla prevenzione della delinquenza di tipo mafioso, (per violazione dell'art. 3 Cost.), in quanto sostanzialmente reintroduce nell'ordinamento l'istituto della destituzione di diritto gia' dichiarato dalla Corte costituzionale in contrasto con la Costituzione negando l'applicazione del procedimento disciplinare, ora previsto dall'art. 9, legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Corte cost. 27 aprile 1993, n. 197); dell'art. 110 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (istituzione del servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici) che, con disposizione avente la medesima struttura della norma ora in questione, prevedeva a carico degli ufficiali addetti alla riscossione tributi e dei messi notificatori, una volta sottoposti a procedimento penale per falsa attestazione nelle relazioni di notifica, la sospensione automatica dall'impiego e dall'abilitazione, in base alla precipua considerazione che se, da un lato, "non puo' negarsi la facolta' del legislatore di contemplare misure cautelari che interdicano l'esercizio di pubblici uffici o servizi o di determinate attivita' professionali o imprenditoriali da parte di chi sia sottoposto a procedimento penale per reati connessi ad esse funzioni o attivita' o comunque suscettibili di incidere su di esse o sulla posizione del loro titolare", dall'altro, "collegandosi la misura non gia' ad una condanna definitiva, ma alla pendenza del procedimento penale, e' necessario, per rispettare il principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza, che la misura medesima sia disposta in base ad effettive esigenze cautelari, sia congrua e proporzionata rispetto a queste ultime, e comunque non abbia presupposti di tale indeterminata ampiezza e caratteristiche di tale automatismo, da configurarsi piuttosto come una vera e propria anticipata sanzione in assenza di accertamento di colpevolezza" (Corte cost. 9 luglio 1996, n. 239, ove vengono richiamate le precedenti pronunce con le quali sono state censurate le norme che imponevano il mantenimento di misure cautelari di sospensione dall'esercizio di funzioni o attivita' professionali anche dopo che i provvedimenti restrittivi della liberta' personale fossero venuti meno: sentt. n. 766 del 1988 relativa alla sospensione dall'esercizio della professione di dottore commercialista; n. 40 del 1990 con riguardo alla "inabilitazione" di diritto all'esercizio delle funzioni di notaio; n. 595 del 1990 concernente la sospensione dello spedizioniere doganale). Il collegio, al riguardo, non puo' certamente trascurare di considerare che, con la gia' richiamata sentenza n. 184 del 1994, la Corte costituzionale ha ritenuto che la sospensione cautelare e le sanzioni disciplinari sono figure non comparabili, per cui ha dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale del piu' volte citato art. 15, comma 4-septies, della legge n. 55/1990, sollevata con riferimento all'art. 97 della Costituzione, sotto il profilo che il citato articolo prevede la sospensione cautelare obbligatoria dei pubblici impiegati, condannati per reati di stampo mafioso, senza valutazione caso per caso, dell'opportunita' di allontanare il dipendente dal servizio, in relazione alla gravita' delle imputazioni, a differenza di quanto invece la legge prevede nel caso di applicazione di sanzioni disciplinari. Nel particolare caso di specie, nel quale peraltro trattasi di sospensione disposta a causa del procedimento penale cui e' stato sottoposto il ricorrente, ritiene tuttavia di risottoporre al vaglio di costituzionalita' la norma medesima sotto i profili di seguito esposti, parzialmente coincidenti con quelli individuati dal ricorrente. In primo luogo, considerando che il fine che caratterizza il provvedimento sospensivo cautelare e' quello di allontanare dal servizio l'impiegato quando vi sia pericolo che la sua ulteriore permanenza nell'organizzazione dell'ente possa arrecare danni agli interessi dell'ente medesimo che ne resterebbe pregiudicato, ad avviso di questa sezione (a parte il caso peculiare della sospensione prevista come obbligatoria dall'art. 91, primo comma, pt. II del t.u. 10 gennaio 1957, n. 3, con esclusivo riferimento all'impossibilita' per il pubblico dipendente privato della liberta' personale di prestare la propria attivita'), come in tutte le altre ipotesi disciplinate dallo stesso art. 91 e dal successivo art. 92 viene rimesso alla valutazione discrezionale dell'amministrazione l'esame circa l'opportunita' di sospendere dal servizio l'impiegato che sia sottoposto a procedimento penale o disciplinare, allo stesso modo - sussistendo, peraltro, la medesima ratio decidendi sottesa alle sopra elencate pronunce di incostituzionalita' anche l'opotesi di assoluto automatismo ad effetto interdittivo della misura cautelare contemplata dall'art. 15, comma 4-septies della legge n. 55/1990, non puo' non ritenersi non confliggente con i principi di ragionevolezza e di proporzionalita' (art. 3 Cost.) tanto piu' che, come evidenziato nella citata sentenza n. 239 del 1996, la sospensione in esame opera in base al "presupposto meramente formale della pendenza del procedimento penale, qualunque sia la fase in cui esso si trova". Come acutamente rilevato dalla piu' avveduta dottrina, non possono essere facilmente eliminati i consistenti problemi di compatibilita' derivanti dalla "forzata coesistenza" di una misura cautelare automatica ed obbligatoria, costituita dalla sospensione di cui trattasi, ed un provvedimento sanzionatorio (la destituzione) non piu' improntato a criteri di automaticita', con conseguente vulnus dei principi costituzionali di uguaglianza (art. 3) e di buon andamento della p.a. (art. 97). Sembra al collegio che, sul piano squisitamente giuridico, le giustificazioni al riguardo addotte nelle sentenze della Corte costituzionale n. 407 del 1992 e n. 184 del 1994 e correlate alla ratio legis individuata in una "sorta di difesa avanzata dello Stato contro la criminalita' organizzata e dell'infiltrazione dei suoi esponenti negli enti locali" al fine quindi di "fronteggiare una situazione di grave emergenza ... che coinvolge interessi ed esigenze dell'intera collettivita' nazionale, connessi a valori costituzionali di primario rilievo, in quanto strettamente collegati alla difesa dell'ordine e della sicurezza pubblica", non possono essere condivise. A parte, infatti, ogni considerazione in ordine al "canone normativo dell'emergenza" (ripetutamente criticato dalla dottrina e gia' ritenuto dalla stessa Corte non idoneo a "superare lo specifico rilevato profilo di incostituzionalita' della norma in esame, sulla base, ripetesi, dell'enunciato costante orientamento di questa Corte": v. sentenza n. 197 del 1993), non puo' farsi a meno di rilevare l'incoerenza del sistema derivante dalla permanenza di una sospensione cautelare (provvedimento, in thesi, di minore incidenza sulla posizione del dipendente) di applicazione automatica anche a seguito di semplice rinvio a giudizio (e cioe', come affermato dalla Corte costituzionale nelle ordinanze nn. 24 e 232 del 1996, sulla base di "attivita' processuali anteriori o propedeutiche al giudizio", dato che "il giudice dell'udienza preliminare non e' chiamato ad esprimere valutazioni sul merito dell'accusa, bensi' a valutare la legittimita' della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero") a fronte del provvedimento sanzionatorio (decadenza) che, sebbene correlato al "passaggio in giudicato della sentenza di condanna" (e quindi ad un accertamento definitivo di colpevolezza), in esito alla suddetta sentenza n. 197 del 1993, puo' essere disposto soltanto previa "valutazione della compatibilita' del comportamento del pubblico dipendente con le specifiche funzioni da lui svolte nell'ambito del rapporto di impiego"; valutazione che, secondo il giudice delle leggi, deve essere ricondotta - "al fine di garantire la necessaria adeguatezza e gradualita' sanzionatoria in rapporto al caso concreto e quindi il rispetto dell'art. 3 della Costituzione - alla naturale sede del procedimento disciplinare", da considerarsi, quindi, come sede elettiva per l'accertamento di responsabilita' del dipendente. Ne' la rilevata incongruenza puo' essere superata dalla ritenuta diversita' di configurazione giuridica della sospensione (provvedimento cautelare) rispetto al provvedimento destitutivo (di natura sanzionatoria), stante che, come sopra posto in risalto, non sembra avere senso una sospensione necessaria in pendenza di un procedimento penale al cui esito tali provvedimenti devono comunque essere rimessi, in base alla normativa ordinaria, all'autonoma valutazione dell'amministrazione. In questo modo, la doverosita' viene a caratterizzare la sospensione come vera e propria "pena anticipata", la cui prevedibile lunga durata non puo' non avere gravi ed irreversibili conseguenze sul soggetto interessato, costretto, a subire l'allontanamento dal servizio pur consapevole che la propria posizione potrebbe in futuro essere chiarita con un esito favorevole o con l'applicazione di una sanzione molto piu' lieve. Giova, al riguardo, osservare che la circostanza che l'ordinamento, ove ne ricorrano i presupposti, appresti istituti e misure di tipo ripristinatorio non toglie il carattere della irreparabilita' della sospensione in esame, la quale, pur nella sua interinale efficacia (che, peraltro, puo' protrarsi per ben cinque anni: v. art. 9, secondo comma, della legge 7 febbraio 1990, n. 19), per la sua "carica" psicologicamente e socialmente afflittiva, e' suscettibile di compromettere ogni possibilita' di ricostruire ex post la carriera del pubblico dipendente, ivi compresa la tutela di posizioni di natura non patrimoniali quali il diritto all'effettivo svolgimento dell'attivita' lavorativa, costituito, nel caso di specie, dall'insegnamento universitario, quando non comporta, nei fatti, addirittura la trasformazione della fase di quiescenza della posizione del pubblico dipendente in definitiva cessazione del rapporto di impiego nel caso di soggetto prossimo al raggiungimento del limite massimo di eta' previsto per la permanenza in servizio. Per le suesposte considerazioni, la disposizione in esame appare in contrasto: a) con i criteri di coerenza e ragionevolezza desumibili dall'art. 3 della Costituzione, in quanto si fonda sul rigido criterio dell'automatismo (reiteratamente stigmatizzato dalla Corte costituzionale) che comporta l'applicazione della stessa misura cautelare a comportamenti di assai diversa natura e gravita', senza la possibilita', in base ai tradizionali principi sul bilanciamento degli interessi nelle misure cautelari, di alcun flessibile apprezzamento in ordine alla entita' del reato per il quale si procede ed alla sua connessione con il servizio al fine di ricondurre il provvedimento di sospensione ad un confacente rapporto di adeguatezza al caso concreto come, viceversa, ora e' imposto per il provvedimento definitivo di destituzione al quale non puo' essere coordinato il momento cautelare; b) con il principio di imparziabilita' e del buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97 della Costituzione, che postula, come e' stato piu' volte affermato dalla Corte, la necessita' che la misura sanzionatoria o cautelare sia adeguata al caso specifico ponendo in correlazione i fatti commessi e la posizione attualmente rivestita dall'interessato, dato che, in concreto, dal mantenimento in servizio dell'imputato, avuto riguardo ai compiti ai quali lo stesso e' assegnato, potrebbe mancare qualsiasi fattore di turbamento sull'attivita' dell'amministrazione la quale, anzi, con negative implicazioni organizzative, potrebbe subire un pregiudizio (riferibile anche alla collettivita' che fruisce dello specifico servizio) dalla mancata prestazione lavorativa che, peraltro, la medesima pubblica amministrazione, dovrebbe successivamente remunerare ex art. 97 d.P.R. n. 3/1957 nel caso in cui il procedimento penale si dovesse concludere con sentenza di proscioglimento o di assoluzione; c) con il principio della presunzione di non colpevolezza racchiuso nell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, in quanto stabilisce la sospensione automatica ex lege (con effetti equiparabili a quelli derivanti da una sanzione anticipata) solo sulla base del decreto che dispone il rinvio a giudizio (o della sola richiesta di rinvio a giudizio) e cioe' sulla base di una valutazione in sede giudiziaria attinente soltanto alla legittimita' della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero. Altri profili di non manifesta infondatezza possono ravvisarsi nel contrasto percepibile tra la norma de qua e: l'art. 21, secondo comma, della Costituzione, dato che con l'automatismo, in dispregio al principio del c.d. giusto procedimento, viene tolta all'interessato la possibilita' di esercitare, in sede amministrativa, il proprio diritto di esporre e di far valere le proprie ragioni, come e' previsto dall'art. 91 t.u. n. 3 del 1957, il quale contempla la sospensione cautelare facoltativa come provvedimento irrogabile dall'amministrazione sulla base di una valutazione, caso per caso, della gravita' del reato e della sua attinenza con lo svolgimento delle prestazioni del pubblico dipendente; ed al riguardo non puo' farsi a meno di fare riferimento al capo III "Partecipazione al procedimento amministrativo" della legge 8 giugno 1990, n. 241, il cui art. 7 impone, in via generale, la comunicazione dell'avvio del procedimento al destinatario del provvedimento finale, ove non sussistano ragioni di impedimento derivanti da esigenze di celerita'; gli artt. 4, 35 e 36 della Costituzione (tutela del lavoro e diritto del lavoratore ad una retribuzione proporzionata alla quantita' e qualita' del suo lavoro), in quanto, come gia' visto, la prolungata sospensione dell'attivita' lavorativa viene a tradursi in una implicita, anticipata e, sotto certi aspetti, irreversibile sanzione a carico del pubblico dipendente. In conclusione, va riconosciuta la rilevanza, ai fini della decisione del ricorso, e la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' sopra indicata. Deve, conseguentemente, disporsi la sospensione del presente giudizio, rimettendo, a norma dell'art. 23, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, gli atti alla Corte costituzionale per la risoluzione della questione incidentale di costituzionalita' di cui trattasi.