IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE
   Ha pronunziato la  seguente  ordinanza  sul  ricorso  n.  3686/1996
 proposto  da  Bargi  Alfredo,  rappresentato e difeso dall'avv. prof.
 Salvatore Raimondi, presso il cui  studio  in  Palermo,  via  Nicolo'
 Turrisi n.  59, e' elettivamente domiciliato;
   Contro l'Universita' degli studi di Palermo, in persona del rettore
 pro-tempore,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  distrettuale
 dello  Stato  di  Palermo,  domiciliataria,  per  l'annullamento  del
 decreto  rettorale  del  10  giugno  1996, con il quale si dispone la
 sospensione cautelare dal servizio del ricorrente;
   Visto il ricorso con i relativi allegati;
   Visti l'atto di costituzione in  giudizio  e  la  memoria  prodotta
 dall'Avvocatura dello Stato per l'Amministrazione intimata;
   Visti  gli  atti  tutti  della causa, relatore il consigliere dott.
 Nicolo' Monteleone;
   Uditi  alla  pubblica  udienza  del  7  aprile  1998  l'avv.  prof.
 Salvatore  Raimondi  per  il  ricorrente e l'avv. dello Stato Filippo
 Bucalo per l'amministrazione resistente;
   Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
                               F a t t o
   Con ricorso notificato il 30 settembre  1996  e  depositato  il  10
 ottobre  successivo,  il  prof.  Bargi  Alfredo, avvocato in Napoli e
 professore associato di  diritto  de1l'esecuzione  penale  presso  la
 facolta'  di  giurisprudenza dell'Universita' degli studi di Palermo,
 ha impugnato il decreto 10 giugno  1996  (notificatogli  in  data  15
 giugno  1996),  con  il quale il rettore dell'Universita' dispone, ai
 sensi dell'art. 15, comma 4-septies, della legge 19  marzo  1990,  n.
 55,  la  sospensione  cautelare  dal  servizio del ricorrente perche'
 rinviato a giudizio dal g.i.p. presso il  tribunale  di  Salerno  con
 decreto 8 maggio 1996 per i reati di corruzione e concorso esterno in
 associazione mafiosa.
   Il ricorrente ha chiesto l'annullamento dell'atto impugnato, previa
 sospensiva  e  col favore delle spese, deducendo i seguenti motivi di
 gravame:
     1) violazione e falsa applicazione dell'art. 15, comma 4-septies,
 della legge 19 marzo 1990, n. 55, come sostituito dall'art.  1  della
 legge 18 gennaio 1992, n. 16.
   La sospensione automatica dalla funzione o dall'ufficio prevista da
 tale   disposizione  e'  applicabile  soltanto  ai  dipendenti  delle
 pubbliche amministrazioni svolgenti un  lavoro  di  tipo  burocratico
 collegato con gli eletti alle cariche pubbliche e non gia' a coloro i
 quali,  pur  essendo  legati  da  un  rapporto  di  pubblico impiego,
 svolgono funzioni del tutto diverse, come i professori universitari e
 gli insegnanti di ogni ordine e grado.
     2) In  subordine:  illegittimita'  costituzionale  dell'art.  15,
 comma  4-septies,  della  legge 19 marzo 1990, n. 55, come sostituito
 dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16, per contrasto con gli
 artt.  3,  24,  secondo  comma,  27,  secondo  comma,  e   97   della
 Costituzione.
   Secondo il ricorrente, la norma citata si pone in contrasto:
     a)  con  i  criteri  di  coerenza  e di ragionevolezza desumibili
 dall'art.  3 Cost., in quanto irrazionalmente  colloca  sullo  stesso
 piano  amministratori  elettivi  (o  nominati)  e pubblici dipendenti
 soprattutto se  non  svolgenti,  in  concreto,  alcuna  attivita'  di
 "amministrazione" come il ricorrente per le cui funzioni, trattandosi
 di  docente  universitario,  non  puo'  sussistere  alcun pericolo di
 infiltrazione mafiosa;
     b) con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.),  in  quanto
 si  fonda  sul  criterio dell'automatismo che comporta l'applicazione
 della stessa  misura  cautelare  a  comportamenti  di  assai  diversa
 natura,  sebbene  si  registri ormai un trend giurisprudenziale della
 Corte costituzionale decisamente contrario agli automatismi  disposti
 dal legislatore in ordine a provvedimenti di carattere sanzionatorio;
     c)  con  il  principio  della  presunzione  di  innocenza  di cui
 all'art.    27,  secondo  comma,  Cost.,  in  quanto  stabilisce   la
 sospensione  automatica  solo  sulla  base del decreto che dispone il
 rinvio a giudizio (o della sola richiesta di  rinvio  a  giudizio)  e
 cioe'  sulla  base  di  una valutazione in sede giudiziaria attinente
 soltanto alla legittimita' della domanda di  giudizio  formulata  dal
 pubblico ministero;
     d) con l'art. 21, secondo comma, Cost., che garantisce il diritto
 di  difesa, dato che con l'automatismo viene tolta all'interessato la
 possibilita'  di  esercitare,  in  sede  amministrativa,  il  proprio
 diritto di esporre e di far valere le proprie ragioni, come invece e'
 previsto  dall'art.  91,  t.u.  n.  3 del 1957, il quale contempla la
 sospensione  cautelare  facoltativa  come  provvedimento   irrogabile
 dall'amministrazione  sulla  base  di una valutazione, caso per caso,
 della gravita' del reato e della sua  attinenza  con  lo  svolgimento
 delle prestazioni del pubblico dipendente;
     e)  con  il  principio  di  imparzialita'  e  del  buon andamento
 dell'amministrazione di cui all'art. 97 Cost., che postula,  come  e'
 stato  piu' volte affermato dalla Corte costituzionale, la necessita'
 che  la  misura  sanzionatoria  o  cautelare  sia  adeguata  al  caso
 specifico.
   L'Avvocatura    dello   Stato,   costituitasi   in   giudizio   per
 l'amministrazione intimata, con memoria nei termini, ha contestato la
 fondatezza del ricorso, chiedendone il rigetto; vinte le spese.
   Con ordinanza n. 2408 del 30 ottobre 1996,  e'  stata  respinta  la
 domanda  incidentale di sospensione dell'esecuzione del provvedimento
 impugnato.
   Alla pubblica udienza del 7 aprile 1998 i patroni delle parti hanno
 insistito nelle rispettive tesi ed  il  ricorso  e'  stato  posto  in
 decisione.
                             D i r i t t o
   Con  il  primo  motivo  di  gravame (dedotto in via principale), il
 ricorrente, nel dedurre violazione  e  falsa  applicazione  dell'art.
 15,  comma  4-septies,  della  legge  19  marzo  1990,  n.  55,  come
 sostituito dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n.  16,  sostiene
 che  la sospensione automatica dalla funzione o dall'ufficio prevista
 da tale disposizione e'  applicabile  soltanto  ai  dipendenti  delle
 pubbliche  amministrazioni  svolgenti  un  lavoro di tipo burocratico
 collegato con gli eletti alle cariche pubbliche e non gia' a coloro i
 quali, pur  essendo  legati  da  un  rapporto  di  pubblico  impiego,
 svolgono funzioni del tutto diverse, come i professori universitari e
 gli insegnanti di ogni ordine e grado.
   La  censura  e'  infondata,  in  quanto, come ha avuto occasione di
 rilevare la Corte costituzionale con sentenza n. 184  del  16  maggio
 1994,  il  riferimento al "personale dipendente delle amministrazioni
 pubbliche"  senza  alcuna  limitazione  appare  comprensivo  di  ogni
 categoria  di  pubblici dipendenti (cfr. altresi', t.a.r. Lazio, Sez.
 II, 25 giugno 1996, n. 1143).
   L'impossibilita' di aderire  alla  tesi  di  merito  sostenuta  dal
 ricorrente rende apprezzabile e rilevante la subordinata questione di
 costituzionalita'  della  norma  suddetta, in quanto decisiva ai fini
 dell'accoglimento o del rigetto del ricorso.
   Sotto il primo  profilo  dedotto  (irrazionale  collocazione  sullo
 stesso  piano  degli  amministratori elettivi e pubblici dipendenti),
 l'eccezione si appalesa  manifestamente  infondata  alla  stregua  di
 quanto  in proposito ritenuto dalla Corte costituzionale nella citata
 sentenza  n.  184/1994,  ove  si  afferma  che  la  diversita'  delle
 posizioni   e   delle   funzioni  non  comporta  necessariamente  una
 diversita'  di  disciplina,  ove  occorra   salvaguardare   interessi
 fondamentali dello Stato.
   L'eccezione,  ad  avviso del collegio, coglie, viceversa, nel segno
 laddove,   richiamando   il   costante   orientamento   della   Corte
 costituzionale  in  tema  di automatismi in ordine a provvedimenti di
 decadenza e di  sospensione  dei  pubblici  dipendenti  condannati  o
 sottoposti  a  procedimento  penale,  argomenta  che  la disposizione
 citata si pone contrasto con gli artt.  3,  24,  secondo  comma,  27,
 secondo comma, e 97 della Costituzione.
   Ed  invero,  non  puo'  non  rilevarsi  come, fin dalla sentenza 14
 ottobre  1998,  n.  971,  con  la   quale   sono   stati   dichiarati
 costituzionalmente  illegittimi  gli artt. 85, lett. a) del d.P.R. 10
 gennaio 1957, n.  3 (statuto degli impiegati civili  dello  Stato)  e
 236  delle norme della regione siciliana di cui al d.-l.p. 29 ottobre
 1955, n.  6  (ordinamento  amministrativo  degli  enti  locali  nella
 regione  siciliana),  nella  parte in cui non contemplavano, in luogo
 del  provvedimento  di  destituzione  di  diritto,  l'apertura  e  lo
 svolgimento  del  procedimento disciplinare, la Corte costituzionale,
 considerato che l'ordinamento si va orientando verso l'esclusione  di
 sanzioni  rigide,  sia  rimasta  ferma  nel  ritenere  non conformi a
 Costituzione varie disposizioni  normative  che  prevedevano  in  via
 automatica  sfavorevoli  incidenze  sul  rapporto  di  impiego  o  su
 attivita' professionali di procedimenti penali pendenti o di sentenze
 ancorche' divenute definitive.
   E cosi', sono stati dichiarati costituzionalmente illegittimi:
     l'art. 247 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (t.u. legge  comunale  e
 provinciale), nel testo sostituito con legge 27 giugno 1942, n.  851;
     l'art.  66,  lett.  a)  del  d.P.R.  15  dicembre  1959,  n. 1229
 (ordinamento degli ufficiali giudiziari e  degli  aiutanti  ufficiali
 giudiziari);
     l'art.  1,  secondo  comma,  della  legge  13 maggio 1975, n. 157
 (estensione delle norme dello statuto degli  impiegati  civili  dello
 Stato agli operai dello Stato;
     l'art.  57,  lett.  a) del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (stato
 giuridico del personale delle Unita' sanitarie locali);
     l'art. 8, lett. a) del d.P.R. 25 ottobre 1981, n.  737  (sanzioni
 disciplinari   per  il  personale  dell'amministrazione  di  pubblica
 sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti)  nelle  parti
 in  cui  (nell'ipotesi  di condanna per taluni delitti specificamente
 elencati) non prevedevano, in luogo del provvedimento di destituzione
 di   diritto,   l'apertura   e   lo   svolgimento   del  procedimento
 disciplinare, stante che "l'indispensabile gradualita' sanzionatoria,
 ivi  compresa  la  misura  massima  destitutoria,  importa   che   le
 valutazioni  relative siano ricondotte, ognora, alla naturale sede di
 valutazione: il procedimento disciplinare, in  difetto  di  che  ogni
 relativa   norma  risulta  incoerente,  per  il  suo  automatismo,  e
 conseguentemente irrazionale ex art. 3 Cost." (v. la citata  sentenza
 14 ottobre 1988, n. 971);
     l'art.  15  quarto-octies  della  legge  19  marzo  1990,  n. 55,
 introdotto dall'art. 1, legge 18 gennaio 1992, n. 16, nella parte  in
 cui   prevede  la  decadenza  dall'impiego  dei  pubblici  dipendenti
 condannati con sentenza  passata  in  giudicato  per  uno  dei  reati
 previsti  dalla  legislazione  sulla prevenzione della delinquenza di
 tipo  mafioso,  (per  violazione  dell'art.  3  Cost.),   in   quanto
 sostanzialmente   reintroduce   nell'ordinamento   l'istituto   della
 destituzione di diritto gia' dichiarato dalla Corte costituzionale in
 contrasto con la Costituzione negando l'applicazione del procedimento
 disciplinare, ora previsto dall'art. 9, legge 7 febbraio 1990, n.  19
 (Corte cost. 27 aprile 1993, n. 197);
     dell'art.  110 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (istituzione del
 servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato  e
 di  altri  enti  pubblici)  che,  con disposizione avente la medesima
 struttura della norma ora in  questione,  prevedeva  a  carico  degli
 ufficiali  addetti alla riscossione tributi e dei messi notificatori,
 una volta sottoposti a procedimento  penale  per  falsa  attestazione
 nelle relazioni di notifica, la sospensione automatica dall'impiego e
 dall'abilitazione, in base alla precipua considerazione che se, da un
 lato,  "non  puo'  negarsi la facolta' del legislatore di contemplare
 misure cautelari che interdicano l'esercizio  di  pubblici  uffici  o
 servizi o di determinate attivita' professionali o imprenditoriali da
 parte  di chi sia sottoposto a procedimento penale per reati connessi
 ad esse funzioni o attivita' o comunque suscettibili di  incidere  su
 di   esse   o   sulla   posizione  del  loro  titolare",  dall'altro,
 "collegandosi la misura non gia' ad una condanna definitiva, ma  alla
 pendenza  del  procedimento  penale, e' necessario, per rispettare il
 principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza,  che  la
 misura medesima sia disposta in base ad effettive esigenze cautelari,
 sia  congrua e proporzionata rispetto a queste ultime, e comunque non
 abbia presupposti di tale indeterminata ampiezza e caratteristiche di
 tale automatismo, da configurarsi piuttosto come una vera  e  propria
 anticipata  sanzione  in  assenza  di  accertamento  di colpevolezza"
 (Corte cost. 9  luglio  1996,  n.  239,  ove  vengono  richiamate  le
 precedenti  pronunce  con  le quali sono state censurate le norme che
 imponevano  il  mantenimento  di  misure  cautelari  di   sospensione
 dall'esercizio di funzioni o attivita' professionali anche dopo che i
 provvedimenti  restrittivi  della  liberta'  personale fossero venuti
 meno: sentt. n. 766 del 1988 relativa alla sospensione dall'esercizio
 della professione di dottore  commercialista;  n.  40  del  1990  con
 riguardo   alla   "inabilitazione"  di  diritto  all'esercizio  delle
 funzioni di notaio; n. 595 del 1990 concernente la sospensione  dello
 spedizioniere doganale).
   Il  collegio,  al  riguardo,  non  puo'  certamente  trascurare  di
 considerare che, con la gia' richiamata sentenza n. 184 del 1994,  la
 Corte  costituzionale  ha  ritenuto che la sospensione cautelare e le
 sanzioni  disciplinari  sono  figure  non  comparabili,  per  cui  ha
 dichiarato  infondata la questione di legittimita' costituzionale del
 piu' volte citato art. 15, comma 4-septies, della legge  n.  55/1990,
 sollevata  con  riferimento all'art.  97 della Costituzione, sotto il
 profilo che il  citato  articolo  prevede  la  sospensione  cautelare
 obbligatoria  dei  pubblici impiegati, condannati per reati di stampo
 mafioso,  senza  valutazione  caso  per  caso,  dell'opportunita'  di
 allontanare  il  dipendente  dal servizio, in relazione alla gravita'
 delle imputazioni, a differenza di quanto invece la legge prevede nel
 caso di applicazione di sanzioni disciplinari. Nel  particolare  caso
 di  specie,  nel  quale  peraltro  trattasi di sospensione disposta a
 causa del procedimento penale cui e' stato sottoposto il  ricorrente,
 ritiene  tuttavia  di  risottoporre al vaglio di costituzionalita' la
 norma medesima sotto  i  profili  di  seguito  esposti,  parzialmente
 coincidenti con quelli individuati dal ricorrente.
   In  primo  luogo,  considerando  che  il  fine  che caratterizza il
 provvedimento sospensivo  cautelare  e'  quello  di  allontanare  dal
 servizio  l'impiegato  quando  vi  sia  pericolo che la sua ulteriore
 permanenza nell'organizzazione dell'ente possa  arrecare  danni  agli
 interessi  dell'ente  medesimo  che  ne  resterebbe  pregiudicato, ad
 avviso di questa sezione (a parte il caso peculiare della sospensione
 prevista come obbligatoria dall'art.   91, primo comma,  pt.  II  del
 t.u.   10   gennaio   1957,   n.   3,   con   esclusivo   riferimento
 all'impossibilita' per il pubblico dipendente privato della  liberta'
 personale  di  prestare la propria attivita'), come in tutte le altre
 ipotesi disciplinate dallo stesso art. 91 e dal  successivo  art.  92
 viene  rimesso  alla  valutazione  discrezionale dell'amministrazione
 l'esame circa l'opportunita' di sospendere dal  servizio  l'impiegato
 che  sia sottoposto a procedimento penale o disciplinare, allo stesso
 modo - sussistendo, peraltro, la  medesima  ratio  decidendi  sottesa
 alle  sopra  elencate pronunce di incostituzionalita' anche l'opotesi
 di  assoluto  automatismo  ad  effetto  interdittivo   della   misura
 cautelare  contemplata  dall'art.  15, comma 4-septies della legge n.
 55/1990, non puo' non ritenersi non confliggente con  i  principi  di
 ragionevolezza  e  di proporzionalita' (art. 3 Cost.) tanto piu' che,
 come  evidenziato  nella  citata  sentenza  n.  239  del   1996,   la
 sospensione  in esame opera in base al "presupposto meramente formale
 della pendenza del procedimento penale, qualunque sia la fase in  cui
 esso si trova".
   Come  acutamente rilevato dalla piu' avveduta dottrina, non possono
 essere facilmente eliminati i consistenti problemi di  compatibilita'
 derivanti   dalla  "forzata  coesistenza"  di  una  misura  cautelare
 automatica ed  obbligatoria,  costituita  dalla  sospensione  di  cui
 trattasi,  ed  un  provvedimento  sanzionatorio (la destituzione) non
 piu' improntato a criteri di automaticita',  con  conseguente  vulnus
 dei  principi  costituzionali  di  uguaglianza  (art.  3)  e  di buon
 andamento della p.a. (art. 97).
   Sembra al collegio  che,  sul  piano  squisitamente  giuridico,  le
 giustificazioni  al  riguardo  addotte  nelle  sentenze  della  Corte
 costituzionale n.  407 del 1992 e n. 184 del 1994  e  correlate  alla
 ratio  legis individuata in una "sorta di difesa avanzata dello Stato
 contro la criminalita'  organizzata  e  dell'infiltrazione  dei  suoi
 esponenti  negli  enti  locali"  al  fine quindi di "fronteggiare una
 situazione di grave emergenza ... che coinvolge interessi ed esigenze
 dell'intera collettivita' nazionale, connessi a valori costituzionali
 di primario rilievo, in quanto  strettamente  collegati  alla  difesa
 dell'ordine   e   della   sicurezza  pubblica",  non  possono  essere
 condivise.
   A  parte,  infatti,  ogni  considerazione  in  ordine  al   "canone
 normativo  dell'emergenza"  (ripetutamente criticato dalla dottrina e
 gia' ritenuto dalla stessa Corte non idoneo a "superare lo  specifico
 rilevato  profilo  di incostituzionalita' della norma in esame, sulla
 base,  ripetesi,  dell'enunciato  costante  orientamento  di   questa
 Corte":  v.  sentenza  n.  197  del  1993),  non puo' farsi a meno di
 rilevare l'incoerenza del sistema derivante dalla permanenza  di  una
 sospensione  cautelare  (provvedimento, in thesi, di minore incidenza
 sulla posizione del dipendente) di applicazione  automatica  anche  a
 seguito  di semplice rinvio a giudizio (e cioe', come affermato dalla
 Corte costituzionale nelle ordinanze nn. 24 e  232  del  1996,  sulla
 base   di   "attivita'   processuali  anteriori  o  propedeutiche  al
 giudizio", dato che  "il  giudice  dell'udienza  preliminare  non  e'
 chiamato  ad  esprimere  valutazioni sul merito dell'accusa, bensi' a
 valutare la legittimita' della  domanda  di  giudizio  formulata  dal
 pubblico   ministero")   a  fronte  del  provvedimento  sanzionatorio
 (decadenza) che, sebbene correlato al "passaggio in  giudicato  della
 sentenza  di  condanna"  (e  quindi  ad un accertamento definitivo di
 colpevolezza), in esito alla suddetta sentenza n. 197 del 1993,  puo'
 essere disposto soltanto previa "valutazione della compatibilita' del
 comportamento  del  pubblico dipendente con le specifiche funzioni da
 lui svolte nell'ambito del rapporto  di  impiego";  valutazione  che,
 secondo  il giudice delle leggi, deve essere ricondotta - "al fine di
 garantire la necessaria adeguatezza e  gradualita'  sanzionatoria  in
 rapporto  al  caso  concreto  e  quindi il rispetto dell'art. 3 della
 Costituzione - alla naturale sede del procedimento disciplinare",  da
 considerarsi,  quindi,  come  sede  elettiva  per  l'accertamento  di
 responsabilita' del dipendente.
   Ne' la rilevata incongruenza puo' essere  superata  dalla  ritenuta
 diversita'    di    configurazione    giuridica   della   sospensione
 (provvedimento cautelare) rispetto al provvedimento  destitutivo  (di
 natura  sanzionatoria),  stante che, come sopra posto in risalto, non
 sembra avere senso una  sospensione  necessaria  in  pendenza  di  un
 procedimento  penale  al cui esito tali provvedimenti devono comunque
 essere  rimessi,  in  base  alla  normativa  ordinaria,  all'autonoma
 valutazione dell'amministrazione.
   In   questo   modo,   la  doverosita'  viene  a  caratterizzare  la
 sospensione come vera e propria "pena anticipata", la cui prevedibile
 lunga durata non puo' non avere gravi  ed  irreversibili  conseguenze
 sul  soggetto  interessato,  costretto, a subire l'allontanamento dal
 servizio pur consapevole che la propria posizione potrebbe in  futuro
 essere  chiarita  con un esito favorevole o con l'applicazione di una
 sanzione molto piu' lieve.
   Giova, al riguardo, osservare che la circostanza che l'ordinamento,
 ove ne ricorrano i presupposti, appresti istituti e  misure  di  tipo
 ripristinatorio  non  toglie il carattere della irreparabilita' della
 sospensione in esame, la quale, pur nella  sua  interinale  efficacia
 (che,  peraltro,  puo'  protrarsi  per  ben  cinque  anni: v. art. 9,
 secondo  comma,  della  legge  7  febbraio  1990,  n. 19), per la sua
 "carica" psicologicamente e socialmente afflittiva,  e'  suscettibile
 di compromettere ogni possibilita' di ricostruire ex post la carriera
 del  pubblico  dipendente,  ivi  compresa  la  tutela di posizioni di
 natura non patrimoniali quali il  diritto  all'effettivo  svolgimento
 dell'attivita'   lavorativa,   costituito,   nel   caso   di  specie,
 dall'insegnamento universitario,  quando  non  comporta,  nei  fatti,
 addirittura   la   trasformazione  della  fase  di  quiescenza  della
 posizione  del  pubblico  dipendente  in  definitiva  cessazione  del
 rapporto  di  impiego nel caso di soggetto prossimo al raggiungimento
 del limite massimo di eta' previsto per la permanenza in servizio.
   Per le suesposte considerazioni, la disposizione in esame appare in
 contrasto:
     a)  con  i  criteri  di  coerenza  e  ragionevolezza   desumibili
 dall'art.    3  della  Costituzione,  in  quanto  si fonda sul rigido
 criterio dell'automatismo (reiteratamente stigmatizzato  dalla  Corte
 costituzionale)  che  comporta  l'applicazione  della  stessa  misura
 cautelare a comportamenti di assai diversa natura e  gravita',  senza
 la  possibilita',  in base ai tradizionali principi sul bilanciamento
 degli  interessi  nelle  misure  cautelari,   di   alcun   flessibile
 apprezzamento  in  ordine  alla  entita'  del  reato  per il quale si
 procede ed alla sua connessione con il servizio al fine di ricondurre
 il  provvedimento  di  sospensione  ad  un  confacente  rapporto   di
 adeguatezza  al  caso concreto come, viceversa, ora e' imposto per il
 provvedimento definitivo di destituzione al  quale  non  puo'  essere
 coordinato il momento cautelare;
     b)  con  il  principio  di  imparziabilita'  e del buon andamento
 dell'amministrazione di  cui  all'art.  97  della  Costituzione,  che
 postula,   come  e'  stato  piu'  volte  affermato  dalla  Corte,  la
 necessita' che la misura sanzionatoria o cautelare  sia  adeguata  al
 caso  specifico  ponendo  in  correlazione  i  fatti  commessi  e  la
 posizione  attualmente  rivestita  dall'interessato,  dato  che,   in
 concreto,  dal mantenimento in servizio dell'imputato, avuto riguardo
 ai  compiti  ai  quali  lo  stesso  e'  assegnato,  potrebbe  mancare
 qualsiasi  fattore  di turbamento sull'attivita' dell'amministrazione
 la quale, anzi, con  negative  implicazioni  organizzative,  potrebbe
 subire  un  pregiudizio  (riferibile  anche  alla  collettivita'  che
 fruisce  dello  specifico   servizio)   dalla   mancata   prestazione
 lavorativa  che,  peraltro,  la  medesima  pubblica  amministrazione,
 dovrebbe successivamente remunerare ex art. 97 d.P.R. n.  3/1957  nel
 caso in cui il procedimento penale si dovesse concludere con sentenza
 di proscioglimento o di assoluzione;
     c)  con  il  principio  della  presunzione  di  non  colpevolezza
 racchiuso nell'art. 27, secondo comma, della Costituzione, in  quanto
 stabilisce   la   sospensione   automatica   ex   lege  (con  effetti
 equiparabili a quelli derivanti  da  una  sanzione  anticipata)  solo
 sulla base del decreto che dispone il rinvio a giudizio (o della sola
 richiesta di rinvio a giudizio) e cioe' sulla base di una valutazione
 in  sede  giudiziaria  attinente  soltanto  alla  legittimita'  della
 domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero.
   Altri profili di non manifesta infondatezza possono ravvisarsi  nel
 contrasto percepibile tra la norma de qua e:
     l'art.  21,  secondo  comma,  della  Costituzione,  dato  che con
 l'automatismo,  in   dispregio   al   principio   del   c.d.   giusto
 procedimento,   viene   tolta   all'interessato  la  possibilita'  di
 esercitare, in sede amministrativa, il proprio diritto di  esporre  e
 di  far valere le proprie ragioni, come e' previsto dall'art. 91 t.u.
 n.  3  del  1957,  il  quale  contempla  la   sospensione   cautelare
 facoltativa  come provvedimento irrogabile dall'amministrazione sulla
 base di una valutazione, caso per caso, della gravita'  del  reato  e
 della sua attinenza con lo svolgimento delle prestazioni del pubblico
 dipendente;  ed al riguardo non puo' farsi a meno di fare riferimento
 al capo III "Partecipazione  al  procedimento  amministrativo"  della
 legge  8  giugno 1990, n. 241, il cui art. 7 impone, in via generale,
 la comunicazione dell'avvio  del  procedimento  al  destinatario  del
 provvedimento  finale,  ove  non  sussistano  ragioni  di impedimento
 derivanti da esigenze di celerita';
     gli artt. 4, 35 e 36 della  Costituzione  (tutela  del  lavoro  e
 diritto   del  lavoratore  ad  una  retribuzione  proporzionata  alla
 quantita' e qualita' del suo lavoro), in quanto, come gia' visto,  la
 prolungata  sospensione dell'attivita' lavorativa viene a tradursi in
 una implicita,  anticipata  e,  sotto  certi  aspetti,  irreversibile
 sanzione a carico del pubblico dipendente.
   In  conclusione,  va  riconosciuta  la  rilevanza,  ai  fini  della
 decisione  del  ricorso,  e  la  non  manifesta  infondatezza   della
 questione di legittimita' sopra indicata.
   Deve,   conseguentemente,  disporsi  la  sospensione  del  presente
 giudizio, rimettendo, a norma  dell'art.  23,  secondo  comma,  della
 legge 11 marzo 1953, n. 87, gli atti alla Corte costituzionale per la
 risoluzione  della  questione incidentale di costituzionalita' di cui
 trattasi.