IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
   Emette la seguente ordinanza nei confronti del detenuto  Zappavigna
 Rosario,  nato  a  Taurianova  l'11 maggio 1951, in ordine al reclamo
 avverso diniego di permesso premio dallo stesso avanzato;
   Visti gli atti relativi al rigetto dell'istanza di permesso  premio
 adottato   dal   magistrato   di  sorveglianza  di  Alessandria,  con
 provvedimento in data 20 marzo 1998;
   Visto il reclamo tempestivamente presentato dal detenuto stesso  il
 4 aprile 1998;
                             O s s e r v a
   Il  detenuto  reclamante  venne  arrestato  il  12  ottobre 1988 in
 esecuzione della sentenza del 24 giugno 1992 della Corte  di  appello
 di  Torino,  successivamente  assorbita  nel  provvedimento di cumulo
 della procura generale di Torino del 2  aprile  1993,  ricomprendente
 anche  la successiva condanna della Corte di appello di Torino del 10
 maggio 1985.
   Con  le  suddette condanne lo Zappavigna era riconosciuto colpevole
 di gravi reati in tema di traffico di sostanze stupefacenti e la  sua
 responsabilita' era ritenuta anche per lo svolgimento di un ruolo non
 marginale  nell'ambito  di una organizzazione criminale dedita a tale
 illecita attivita'.
    Lo stesso al momento dell'arresto aveva gia'  sofferto  oltre  tre
 anni di custodia cautelare.
    In  data  11 marzo 1998, dopo oltre tredici anni di detenzione, il
 gruppo di osservazione e trattamento del carcere di Alessandria,  nel
 quale  l'interessato  e'  attualmente recluso, formulava una positiva
 relazione di sintesi dell'osservazione sul  detenuto,  esprimendo  un
 programma  di trattamento che esplicitamente valutava favorevolmente,
 sotto il profilo trattamentale, l'eventuale concessione  di  permessi
 premiali.
   Il   programma   di   trattamento,   approvato  dal  magistrato  di
 sorveglianza il 16  marzo  1998,  costituiva  esito  di  una  vicenda
 penitenziaria  in  parte  espressamente  descritta  e  valutata nella
 stessa  relazione  di  sintesi  in  parte  comunque   deducibile   da
 precedenti  relazioni e dalla disamina della documentazione giuridica
 sul detenuto.
    Lo stesso risultava infatti aver serbato per tutto il  periodo  di
 reclusione  ultradecennale patito una condotta corretta e rispettosa,
 senza aver riportato alcuna nota disciplinare, ed  aver  fattivamente
 partecipato ad attivita' lavorativa inframuraria, sino a che cio' era
 stato compatibile con le sue condizioni di salute, riportando percio'
 anche  un  encomio  nel  carcere di Vercelli. Aveva inoltre coltivato
 interessi culturali  durante  la  detenzione  e  cosi',  stando  alla
 sintesi   "incrementato   le   proprie   risorse   psichiche",  aveva
 beneficiato complessivamente di 675 giorni di liberazione anticipata,
 costituenti  evidente  riconoscimento  della   lunga   partecipazione
 all'opera di rieducazione.
   Con  decreto  del  20  marzo  1998 il magistrato di sorveglianza di
 Alessandria dichiarava  pero'  inammissibile  l'istanza  di  permesso
 presentata dal detenuto richiamando quanto gia' piu' volte esposto in
 diversi   provvedimenti   negativi   anche  di  altri  magistrati  di
 sorveglianza.
    Essendo entrambi i titoli del cumulo in esecuzione  nei  confronti
 del  detenuto  relativi a condanne per violazione di norma ricompensa
 nell'ambito  di   applicazione   dell'art.   4-bis   dell'ordinamento
 penitenziario  (l'associazione  finalizzata  allo spaccio di sostanze
 stupefacenti) non poteva ritenersi ammissibile l'istanza  in  assenza
 di  una  collaborazione  processuale  valutabile  ai  sensi dell'art.
 58-ter dell'Ordinamento penitenziario.
   Come stabilito  anche  da  questo  tribunale  di  sorveglianza  con
 ordinanza  del  21 ottobre 1995 allo Zappavigna non possono adattarsi
 le ipotesi della collaborazione oggettivamente  impossibile,  ne  per
 completo   acclaramento   dei  fatti,  ne  per  ruolo  oggettivamente
 marginale nell'associazione, poiche'  la  natura  dell'organizzazione
 criminale  emergente  dalle  sentenze  di  condanna  e  la  posizione
 dell'interessato lasciano  legittimamente  ritenere  la  presenza  di
 margini  di possibile collaborazione persino dopo l'entrata in vigore
 della legge n. 356/1992.
   Contro  la  dichiarazione  di inammissibilita' interpone reclamo il
 detenuto rifacendosi alla autorita' della Corte  costituzionale  come
 espressa nella sentenza del 16 dicembre 1997 in tema di semiliberta'.
   Il  detenuto  richiede  in  sostanza, sia pure con la comprensibile
 sommarieta'  dell'espressione   giuridica,   che   sia   direttamente
 applicato  al  suo  caso  il  principio,  che  ritiene espresso nella
 suddetta pronunzia, in forza del quale, se la condizione  per  essere
 ammesso  ad  un  determinato  beneficio  risulta maturata prima della
 entrata in vigore del d.-l.  8 giugno del 1992, n. 306,  introduttivo
 della  inammissibilita'  per i non collaboranti di cui all'art. 4-bis
 dell'ordinamento penitenziario la stessa inammissibilita'  (assumente
 carattere sopravvenuto) deve ritenersi incostituzionale.
   Poiche'  il caso attuale e' del tutto diverso da quello interessato
 dalla  menzionata  pronunzia,  trattandosi   di   maturazione   delle
 condizioni  per  l'ammissione  al permesso premio, e non al beneficio
 della  semiliberta',  il  tribunale  non  puo',  naturalmente,   fare
 applicazione   diretta   del   principio   superando   una   espressa
 disposizione  di  legge,  ma,  non  ritenendo  priva  di   fondamento
 l'analogia  prospettata  dal  detenuto,  ritiene  di  dover sollevare
 d'ufficio l'eccezione di costituzionalita' dell'art.  4-bis O.P.  nei
 termini sotto meglio detti.
   Con  la  sentenza  n.  306  del 1993 la Corte costituzionale sanci'
 l'illegittimita' della revoca di misure alternative in  corso  per  i
 detenuti   con   posizione   giuridica   riportabile   all'ambito  di
 applicazione   dell'art.   4-bis    dell'ordinamento    penitenziario
 introdotto  dal  13  maggio 1991 nel caso non vi fosse la prova della
 sussistenza dei collegamenti attuali con la criminalita' organizzata.
   Con la sentenza n. 504 del 1995 (in tema  di  permessi  premio)  la
 Corte  costituzionale  chiari' come non potesse considerarsi conforme
 al  dettato  costituzionale  un  intervento  legislativo  inteso   ad
 interrompere  in  modo  assoluto,  o  comunque  a  subordinare ad una
 condizione non certo inconsistente (la collaborazione)  un  programma
 di  trattamento  gia'  in  atto,  comprensivo  della  concessione  di
 permessi premio, e cio' indipendentemente dal  collegamento  di  tale
 effetto   limitativo-ablatorio   con  qualsiasi  condotta  involutiva
 regressiva o deviante del detenuto.
    Infine con il suo piu' recente intervento (15  dicembre  1997)  il
 giudice  delle  leggi ha ravvisato la incostituzionalita' della norma
 discriminante suddetta nella parte in cui preclude a detenuti che  si
 trovassero  prima  della  novellazione  del 1992 nelle condizioni per
 ottenere una misura alternativa (la semiliberta' nel caso  specifico)
 di esservi ammessi anche successivamente al mutamento normativo.
   Pare al tribunale che la disamina della giurisprudenza della Corte,
 che  si  e'  esposta sommariamente proprio al fine di sottolineare la
 successione logico-giuridica delle  pronunzie,  evidenzi  una  chiara
 linea  evolutiva fondata sulla valorizzazione del contenuto dell'art.
 27, primo e terzo comma, della Costituzione, e  che  lo  sviluppo  di
 tale   linea   conduca   a   formulare   un  principio  di  "relativa
 costituzionalizzazione"  della  tutela  delle  posizioni   giuridiche
 acquisite nel corso del trattamento penitenziario.
   Alla  luce  di  tale principio dovrebbero considerarsi contrastanti
 con la funzione rieducativa della pena tutte le modifiche legislative
 produttive  dell'effetto  di  una  regressione   nelle   possibilita'
 premiali  connesse  al trattamento penitenziario quando quest'ultimo,
 di fatto, abbia gia' avuto uno sviluppo tale, sotto il profilo  della
 rilevata  evoluzione  della  personalita' del detenuto, da consentire
 l'accesso  a  determinati  benefici.  Una   volta   verificata   tale
 situazione  i  suddetti  benefici  non  potrebbero  essere  negati, o
 pesantemente condizionati, senza che cio' sia dovuto ad una  condotta
 deviante  effettivamente  rilevabile,  ne all'effettivo persistere di
 una pericolosita' sociale liberamente apprezzabile dal legislatore.
   Mentre appare costante la connessione  delle  menzionate  pronunzie
 con   i   principi   costituzionali  guida  in  tema  di  trattamento
 penitenziario, non altrettanto chiarito risulta quale sia il  momento
 in   cui   l'adesione  al  trattamento  penitenziario  determina  una
 aspettativa  legittima,  in  merito  ai  benefici  penitenziari,  non
 comprimibile  dal  legislatore  pena  lo  snaturamento delle funzioni
 costituzionalmente assegnate alla pena.
   Per quanto il primo aspetto, ossia il  collegamento  del  principio
 che  il  tribunale  ritiene di poter dedurre dalle pronunzie suddette
 della Corte nei termini sopra detti con il dettato costituzionale  si
 possono svolgere le seguenti considerazioni.
   Il   principio   di   rieducativita'   della   pena  si  estrinseca
 nell'ordinamento attuale in un  continuo  rapporto  tra  i  progressi
 compiuti  dal  detenuto  sulla  via  della  revisione  delle  proprie
 attitudini  devianti  e  la  risposta  dell'ordinamento  in  tema  di
 graduale allentamento delle modalita' di espiazione della pena.
   Ai  miglioramenti nella condotta, ed al crescere dell'attitudine al
 reinserimento, corrisponde  la  concessione,  a  mezzo  dei  benefici
 penitenziari,  di  spazi  di liberta' crescenti se non l'interruzione
 del percorso penitenziario.
    Appare  ovvio  che  tale  rapporto  possa  essere  modificato  dal
 legislatore per soggetti che non hanno ancora iniziato alcun percorso
 trattamentale,   essendo  materia  di  discrezionalita'  politica  la
 concreta configurazione del rapporto  tra  le  varie  funzioni  della
 pena.  Nel  caso  pero'  in  cui  tale  rapporto abbia gia' avuto uno
 sviluppo concreto, e sicuramente dimostrabile, si  puo'  rilevare  un
 grave  urto tra la funzione rieducativa che lo stesso garantisce alla
 pena ed un intervento legislativo che paralizzi ulteriori sviluppi di
 un percorso gia' iniziato e consolidato nella vigenza di  determinate
 regole.
   Non  si  puo' ignorare, infatti, che sia l'agire del detenuto, sia,
 soprattutto, l'operato degli addetti al trattamento, sono scanditi  e
 concretamente  orientati,  con  riferimento ai momenti di fruibilita'
 dei diversi benefici (benefici intramurali,  liberazione  anticipata,
 fruizione  di  permessi,  ammissione  al lavoro all'esterno ecc.) che
 tali istituti costituiscono allo stesso tempo stimolo all'azione  del
 detenuto e ricompensa per la stessa.
   La  variazione  "in  corso  d'opera" dei momenti caratterizzanti il
 percorso penitenziario rieducativo non  ne  determina  unicamente  un
 rallentamento,  cosa  non  vietata  alla  legge,  ma  compromette  il
 percorso gia' compiuto. Lo stesso  infatti  viene  a  dimostrarsi  "a
 posteriori"  inadeguato  ai suoi possibili sbocchi. Si pensi a titolo
 di  esempio  ai  corsi  di  studio  per  i  quali  potrebbe  divenire
 impossibile  sostenere  i  programmati  esami,  ai rapporti familiari
 riallacciati  attraverso  i  colloqui  la  cui  intensita'   potrebbe
 risultare  controproducente senza lo sbocco dei permessi premio, alle
 capacita' professionali acquisite  in  vista  di  una  ammissione  al
 lavoro   all'esterno   destinate   a  disperdersi  con  il  protrarsi
 dell'inattivita'.
   La   modifica   della  soglia  della  ammissibilita'  dei  benefici
 penitenziari in peius contrasta quindi sicuramente  con  la  funzione
 rieducativa  della  pena  poiche'  compromette  non solo gli sviluppi
 futuri del trattamento, ma anche i percorsi gia' compiuti.
   Posto che in ogni caso la pena assolve a diverse funzioni  oltre  a
 quella   rieducativa   tale  contrasto  non  parrebbe  sufficiente  a
 determinare l'illegittimita' costituzionale di una norma  innovatrice
 se  la  stessa  ancorasse  la  preclusione  a  precisi  parametri  di
 pericolosita' sociale, come la sussistenza  di  collegamenti  attuali
 con  la  criminalita'  organizzata, ma nel caso dell'art. 4-bis O.P.,
 comma 1, la preclusione ai benefici opera automaticamente, sulla sola
 base della considerazione del tipo di reato per cui si  e'  riportato
 condanna,  e di conseguenza il pregiudizio del percorso trattamentale
 non  si  giustifica  con  null'altro  che   con   una   rivalutazione
 legislativa  della  gravita'  del reato fatta a posteriori, che pero'
 non puo' legittimamente incidere in senso negativo sulle norme intese
 ad assicurare la funzione  rieducativa  della  pena  per  tali  reati
 inflitta.
   In  conseguenza  dei  principi  sopra espressi pare al tribunale di
 poter ravvisare, in via generale, un profilo  di  incostituzionalita'
 nelle  norme  che  comprimono  la possibilita' per chi da detenuto ha
 gia' raggiunto un determinato  status  penitenziario  di  accedere  a
 benefici che ne sono espressione.
   Permane  un dubbio circa quale debba considerarsi il momento in cui
 l'evoluzione del trattamento penitenziario  consolida  una  posizione
 che il legislatore non puo' piu' comprimere senza il sacrificio della
 funzione rieducativa della pena.
   Su  questo punto si e' registrata l'evoluzione nelle pronunce della
 Corte sopra indicata.
   Mentre con la prima sentenza si tutelava la posizione di  chi  gia'
 fruisse  di  misure alternative in atto (essendosi quindi tradotto il
 trattamento penitenziario in una ben definita variazione del rapporto
 giuridico penale in sede esecutiva) con la seconda,  la  n.  504  del
 1995,  la  tutela  era  estesa  ad una condizione di fatto (quella di
 abituale  beneficiario  di  permessi  premio),  se  pur   qualificata
 dall'elemento   formale   di   "riconoscibilita'"   della   reiterata
 ammissione al beneficio da parte del magistrato.
   Con l'ultima pronuncia (n.  445  del  1997)  veniva  esplicitamente
 tutelata  dall'intervento  legislativo ablatorio la posizione di chi,
 pur non  godendo  di  misura  alternativa,  si  trovasse  al  momento
 dell'introduzione    dell'inammissibilita',    per   lo   stadio   di
 rieducazione raggiunto, nelle condizioni per goderne.
    La logica  conclusione  di  tale  iter  evolutivo  pare  a  questo
 tribunale  la  individuazione  del  momento  in  cui la condizione di
 aspettativa concernente la concessione di benefici  penitenziari  non
 puo'  piu'  essere  incisa  nel  giorno  in  cui gli stessi divengono
 ammissibili  secondo  la  legislazione  in  vigore,  sussistendo   al
 contempo le condizioni soggettive per la loro concessione.
    In tale momento infatti l'ordinamento riconnette alla progressione
 del  trattamento  penitenziario  un  effetto  tale  che  non puo' poi
 rinnegare senza contraddire  nel  modo  che  si  e'  prima  detto  la
 funzione rieducativa della pena.
   Alla  luce  del suddetto principio puo' ravvisarsi contrasto con la
 carta fondamentale dell'art. 4-bis nella misura in cui  non  consente
 che   un   detenuto,  che  abbia  gia'  goduto  del  beneficio  della
 liberazione  anticipata   e   serbato   una   condotta   corretta   e
 partecipativa,  avendo maturato il limite di pena per l'ammissione al
 godimento dei permessi premio alla data dell'entrata in vigore  della
 del  d.-l.  8  giugno del 1992, non possa essere ammesso al beneficio
 dei permessi  premio  se  non  alle  condizioni  restrittive  di  cui
 all'art. 4-bis medesimo.
   La questione appare rilevante per la decisione del caso di specie.
   Il  magistrato di sorveglianza di Alessandria ha infatti dichiarato
 l'inammissibilita'  della  richiesta  di  permesso  formulata   dallo
 Zappavigna  e  questo  tribunale in sede di reclamo non potrebbe fare
 null'altro che confermare tale decisione negativa salvo denunciare la
 possibile incostituzionalita' della norma indicata.
    La  condotta  penitenziaria  dell'istante   e'   descritta   molto
 positivamente  dalla relazione di sintesi del 1993 che riguarda anche
 periodi antecedenti l'entrata in vigore della disciplina  restrittiva
 rimessa  all'esame  della  Corte  ed  ugualmente la concessione della
 liberazione anticipata al detenuto copre i periodi che  precedono  la
 maturazione  del  limite  ammissibilita'  del  beneficio, maturazione
 anch'essa precedente l'estate del 1992.
   Non vi e' in atti alcun elemento da cui  dedurre  che,  per  motivi
 attinenti all'arresto dell'iter trattamentale l'interessato non fosse
 nella condizione per godere dei permessi prima dell'agosto del 1992 e
 successivamente  lo  stesso  non risulta essersi mai discostato dalla
 partecipazione attiva al trattamento penitenziario.
   La natura di "giudizio allo stato degli atti" del  procedimento  di
 sorveglianza  ed  il carattere preliminare della valutazione in punto
 di  ammissibilita'  del  beneficio,  non  consentono   di   formulare
 attualmente   una   sorta   di  anticipato  giudizio  di  concessione
 ostacolato unicamente dal disposto della norma denunziata, ma non  si
 ritiene  che  cio' escluda la rilevanza della questione sollevata per
 il caso di specie che, come gia' detto potrebbe essere deciso  in  un
 solo  modo  nella  vigenza  attuale  dell'art. 4-bis dell'ordinamento
 penitenziario.
    Si ritiene pertanto di sottoporre all'esame della Corte il  dubbio
 circa  il contrasto con l'art. 27, commi 1 e 3, dell'art. 4-bis della
 legge 26 luglio del 1975, n.  354,  come  modificato  dalla  legge  7
 agosto  1992,  n.  504,  nella  parte  in  cui  preclude l'accesso al
 benefico di cui all'art. 30-ter, ord. pen. ai detenuti che,  pur  non
 trovandosi nelle condizioni di cui all'art. 58-ter ord. pen., abbiano
 comunque  maturato  i  termini di ammissibilita' della concessione di
 tale beneficio prima dell'entrata in vigore del d.-l.  8  giugno  del
 1992,  ed a tale data risultassero nelle condizioni per l'ottenimento
 del beneficio stesso.