IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA
   Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nel procedimento chiamato
 all'udienza del 18 marzo 1998, instaurato ai sensi degli  artt.  666,
 678 c.p.p. sulle istanze di rinvio dell'esecuzione della pena a sensi
 dell'art.  147  c.p.  e di detenzione domiciliare, art. 47-ter  o.p.,
 proposte da Mannino Vincenzo  nato  a  Palermo  il  12  agosto  1951,
 detenuto nella C.C. di Alessandria.  Considerato in fatto
    Mannino  Vincenzo e' collaboratore di giustizia ammesso a speciale
 programma di protezione. Venne condannato con sentenza 29 maggio 1995
 dalla Corte d'appello di Milano ad anni 5 e mesi 10 di reclusione per
 detenzione armi da  guerra  e  altro;  ed  ha  numerosi  procedimenti
 pendenti.
   Dopo   un   primo   periodo   di  carcerazione  e  un  differimento
 dell'esecuzione della pena, in  data  15  ottobre  1996  otteneva  da
 questo  tribunale  la  concessione  della  detenzione domiciliare, ai
 sensi degli art.  47-ter, o.p. e 13-ter, legge n. 82/1991,  e  quindi
 preso  in  carico  dal  Servizio centrale di protezione per localita'
 protetta. Il 4 aprile  1997  veniva  sospeso  cautelativamente  dalla
 misura  e,  l'11  luglio  1997, acquisito il parere della Commissione
 centrale ex art.   10, legge n. 82/1991,  il  tribunale  revocava  la
 detenzione  domiciliare.    Il Mannino il 12 luglio 1997 rientrava in
 carcere e, dal 19 agosto 1997, nella C.C. di Alessandria.
   Tanto premesso, si perviene all'attuale procedimento.
   Con atto del 20 novembre 1997, il difensore del  Mannino  proponeva
 istanza  di  sospensione  dell'esecuzione  della pena e di detenzione
 domiciliare per gravi condizioni di salute.
   Il processo veniva trattato all'udienza camerale del 18 marzo  1998
 e riservata la decisione.
   Con una prima ordinanza, depositata il 9 aprile 1998, il tribunale,
 ritenuto  che  la competenza del tribunale di sorveglianza di Roma, a
 termini dell'art. 1-ter, legge n. 82/1991 come modificata dalla legge
 n. 356/1992, nei confronti delle persone ammesse a speciale programma
 di protezione, e'  riferita  soltanto  alle  misure  trattamentali  e
 alternative   previste   dall'ordinamento   penitenziario,  rimanendo
 estranee al disposto di tale norma  le  misure  previste  dal  codice
 penale  o da altre leggi, come appunto l'art. 147 c.p., e considerato
 che l'art. 13-ter, terzo comma e' norma di carattere  eccezionale  di
 stretta   interpretazione,   dichiarava   la   propria   incompetenza
 territoriale a conoscere  della  domanda  di  rinvio  dell'esecuzione
 della  pena,  e  rimetteva,  previo  stralcio degli atti relativi, il
 procedimento per tale domanda al tribunale di Torino  competente  per
 essere  l'istante detenuto nel carcere di Alessandria (vedi ordinanza
 n. 10943/1997, in atti).
   Resta dunque da esaminare la domanda di detenzione domiciliare,  su
 cui  la  difesa  ha  insistito  e  che  ha  una  propria autonomia ed
 efficacia, non avendo tale misura le limitazioni temporali del rinvio
 dell'esecuzione della pena e consentendo la detenzione nella  propria
 abitazione con espiazione della pena
                             D i r i t t o
   Pregiudiziale ad ogni esame, anche attinente alla graduazione della
 domanda,  alla  ammissibilita'  e  al merito, e' la sussistenza della
 competenza territoriale a conoscere della domanda.
   Stima il tribunale che l'art. 13-ter, ritenuto attributivo  di  una
 competenza  territoriale  esclusiva  al  tribunale di sorveglianza di
 Roma per tutti  i  collaboratori  di  giustizia  ammessi  a  speciale
 programma  di  protezione,  ovunque si trovino, presenta elevatissimi
 dubbi di legittimita' costituzionale, si' che va sollevata  eccezione
 di illegittimita' costituzionale della norma, siccome pregiudiziale e
 rilevante.    La  motivazione  che  segue si sviluppa dapprima in una
 disamina della  interpretazione  della  norma  data  dalla  Corte  di
 cassazione; e quindi in un raffronto della norma, cosi' come e' stata
 interpretata, con il dettato e i principi della Carta costituzionale.
   1.  -  L'art.  13-ter prevede, nel comma 1, che nei confronti delle
 persone ammesse a speciale programma di protezione l'assegnazione  al
 lavoro  all'esterno,  i  permessi premio e le misure alternative alla
 detenzione sono disposti sentita l'autorita'  che  ha  deliberato  il
 programma;  e,  nel comma 2, che dette misure possono essere adottate
 anche in deroga alle vigenti disposizioni, comprese  quelle  relative
 ai limiti di pena previsti.
   Il  comma  3 dispone che "per i provvedimenti di cui ai commi 1 e 2
 la competenza appartiene al tribunale e al magistrato di sorveglianza
 del luogo in cui  la  persona  ammessa  allo  speciale  programma  di
 protezione ha il domiciliato".
   Il  comma  3  dell'art.  12  della stessa legge n. 82/1991 dispone:
 "All'atto della sottoscrizione del programma l'interessato elegge  il
 proprio  domicilio  nel  luogo  in  cui ha sede la commissione di cui
 all'art. 10".
   Ebbene la suprema Corte con sentenza n. 4977 del 18 novembre 1993-7
 gennaio 1994, emessa su conflitto di competenza sollevato  da  questo
 Tribunale  (causa Randazzo) nei confronti del trib. sorv. Venezia, ha
 interpretato il comma 3 dell'art.  13-ter,  in  correlazione  con  il
 comma  3  dell'art.  12 relativo all'elezione di domicilio, nel senso
 che a seguito dell'elezione di domicilio nel luogo  ove  ha  sede  la
 Commissione,  cioe'  presso detta Commissione a Roma, deve intendersi
 che "il luogo in cui la persona ha il domicilio" e'  Roma.  Seguivano
 altre   sentenze  conformi.    Siffatta  interpretazione,  appare  al
 tribunale erronea e senza fondamento,  e  comunque  comporta  che  la
 norma   di   cui   all'art.   13-ter,   cosi'   intesa,  si  appalesa
 incostituzionale.
   2. - Una prima indagine utile e'  la  ricostruzione  storica  della
 formazione  della  norma  e  quindi  della  sua interpretazione.   La
 protezione di coloro che collaborano con la giustizia, in  precedenza
 attuata   di   fatto   e  utilizzando  le  possibilita'  che  offriva
 l'ordinamento, comincia ad  avere  una  normativa  specifica  con  il
 d.lgs.  29  marzo  1993,  n.  119 sul cambiamento di generalita', cui
 segue il d.m. 24 novembre 1994,  n.  687  recante  norme  dirette  ad
 individuare i criteri di formulazione del programma di protezione dei
 collaboratori.      Si  avvertiva  pero'  l'esigenza  di  dare  veste
 legislativa e strumenti  giuridici  nella  materia,  gia'  ampiamente
 esistenti  in altri Stati con un piu' forte sviluppo della lotta alla
 criminalita' organizzata.  E cosi' viene emanato il d.-l. 15  gennaio
 1991,  n. 8, convertito, con modificazioni nella legge 15 marzo 1991,
 n. 82.  Gli artt. da 3 a 15 dispongono, in  sintesi,  l'adozione  nei
 confronti  delle  persone  esposte  a  grave  pericolo  per  la  loro
 collaborazione  di  "misure  di  protezione  idonee  ad   assicurarne
 l'incolumita'".     Qualora  le  misure  adottabili  dagli  organismi
 antimafia,   dalla   polizia   e,   nei   confronti   di    detenuti,
 dall'amministrazione penitenziaria non appaiono adeguate "puo' essere
 definito  uno speciale programma di protezione".  Viene istituita una
 Commissione centrale per la  definizione  del  programma  e  regolati
 contenuto,  durata  e  sottoscrizione  di esso; istituito un Servizio
 centrale di protezione nell'ambito del  Dipartimento  della  pubblica
 sicurezza; altre modalita' attuative delle esigenze di sicurezza.  Di
 rilievo, ai fini che interessano, sono il trasferimento della persona
 a  rischio in comuni diversi da quello di residenza, l'autorizzazione
 del proc. della rep. o del  giudice  alla  custodia  cautelare  della
 persona   arrestata   in   luoghi   diversi   dal  carcere,  la  loro
 autorizzazione al soggetto esaminato "ad  eleggere  domicilio  presso
 persona  di  fiducia  o  presso  un ufficio di polizia, anche ai fini
 delle necessarie comunicazioni e notificazioni" (art. 13,  comma  3).
 Una  legge  che  realizza  un  avanzamento restando nell'ambito delle
 misure di sicurezza  e  di  protezione  a  cura  degli  organismi  di
 polizia,  della  Commissione  centrale e con le autorizzazioni citate
 del  p.g.    o  del  giudice.  Null'altro  che  investa   l'autorita'
 giudiziaria,  ne'  particolari  misure  da  deliberarsi  dagli organi
 giudicanti,   fermo    quanto    gia'    previsto    dall'ordinamento
 penitenziario.    Dopo la strage di Capaci e l'assassinio del giudice
 Borsellino, il Governo emana il decreto-legge  8 giugno 1992, n. 306,
 recante modifiche al codice di procedura penale  e  provvedimenti  di
 contrasto  alla criminalita' organizzata.  Il titolo III del decreto,
 relativo ai collaboratori di giustizia, e' costituito  dall'art.  13,
 che  introduce  nella legge n. 82/1991 gli art. 13-bis, 13-ter,  e un
 comma 3 dell'art. 12; mentre il titolo IV, apporta  alcune  modifiche
 all'o.p. (art. 58-quater, art. 4-bis).
   3.  - Data l'interpretazione della Cassazione, in punto competenza,
 del combinato disposto dell'art. 13-ter,  comma  3,  e  del  comma  3
 dell'art.    12,  si  e'  proceduto all'esame dei lavori parlamentari
 sulla conversione in legge del decreto  onde  rinvenire  elementi  di
 riscontro  e  di  chiarificazione  della  volonta' e dell'intento del
 legislatore.
   La lettura dei tre volumi, che riportano le relazioni, la  disamina
 delle norme, emendamenti, dibattito e deliberazioni, fatti dal Senato
 in  prima  lettura  poi  dalla  Camera e quindi dal Senato in seconda
 lettura,   non   ha    offerto    alcun    elemento    di    supporto
 all'interpretazione  in  esame  ma  piuttosto ragionevoli conclusioni
 contrarie.
   Gia' il relatore, sen. Pinto, puntuale nel sottolineare i punti  di
 maggiore  interesse  del  decreto  in conversione, e pur dedicando un
 consistente spazio ai titoli III e IV, in ordine all'art. 13-ter dice
 che esso  "consente  in  particolare  che  le  persone  ammesse  allo
 speciale  programma  di  protezione  godano  dei  benefici  carcerari
 addirittura in deroga ai limiti di pena previsti" e che "il godimento
 e' stato subordinato ad una procedura  rigorosa  affidata  ad  organi
 particolarmente  qualificati  e centralizzati" (Commissione centrale,
 Servizio centrale di protezione).  Dunque, un'annotazione del rilievo
 che ha la deroga ai limiti di pena; un'annotazione sul godimento  dei
 benefici;   ma   nessun   cenno   in   punto   competenza:  omissione
 incomprensibile se fosse stata prevista una norma cosi' straordinaria
 da accentrare la cognizione e l'irrogazione  delle  misure  nel  solo
 tribunale  e  ufficio di Roma, della quale il relatore non poteva non
 parlare.  Il dibattito che segue e' significativo nello stesso senso.
 Si nota una diffusa  e  attenta  sensibilita'  per  il  rispetto  dei
 principi  costituzionali  e  delle  regole  e  principi  generali che
 informano il nostro ordinamento, pur nell'urgenza di  norme  che  non
 vogliono  essere  di  emergenza  ma tuttavia altamente incisive nella
 lotta alla  criminalita'.    Gli  interventi  dei  sottosegretari  De
 Cinque,  Castiglione  e  altri,  a  nome  del Governo, sono precisi e
 frequenti nel sostenere  e  chiarire  fondamento  e  finalita'  delle
 norme,  ma  nulla  dicono  dell'art. 13-ter, comma 3.   Vari senatori
 fanno menzione degli importanti contributi (prima auspicati,  poi  in
 vario modo acquisiti) attraverso incontri con le componenti del mondo
 giudiziario  forense  e penitenziario interessate al provvedimento; e
 ancora non emerge  l'innovazione  di  una  competenza  accentrata  ed
 esclusiva.       Nella   Commissione   giustizia   si   illustra   un
 maxi-emendamento presentato dal Governo volto a  introdurre  numerose
 modifiche  e  norme  di  piu' chiara interpretazione, e anche qui non
 v'e' nulla sull'art. 13-ter, comma 3.  Tra gli emendamenti presentati
 dai parlamentari, quattro riguardano il titolo III. I primi due  sono
 "sopprimere  l'art. 13, cioe' tutto quanto, gli artt. 13-bis, 13-ter,
 e comma 2 lett. d) e comma 3, art.    12,  lasciando  la  legge  come
 prima.  Il  terzo  e'  "all'art.  13,  comma 2, sopprimere il punto 2
 dell'art. 13-ter": cioe' mantenere  l'art.    13-ter  sopprimendo  la
 parte relativa alla deroga alle vigenti disposizioni dell'ordinamento
 penitenziario e ai limiti di pena. Il quarto apporta una integrazione
 formale del testo.
    Ancora  una  volta  si deve annotare che nella sede piu' diretta e
 specifica, in sede di emendamenti all'art. 13 del decreto, si tende a
 conservare la legge sui collaboratori n.  82/1991  senza  particolari
 modifiche dell'ordinamento penitenziario in loro favore, o al piu' si
 consente  l'introduzione  dell'art.  13-ter  ma  senza  deroghe  alle
 disposizioni e ai limiti di pena, mentre nulla viene osservato  sulla
 competenza  territoriale.    Peraltro, tali emendamenti, ripresentati
 anche in  sede  assembleare  al  Senato  e  alla  Camera,  alla  fine
 restarono  assorbiti  dall'approvazione  del  maxi-emendamento  e del
 decreto, gia' modificato in varie parti, su cui il  Governo  pose  la
 fiducia.      Ritiene  in  definitiva  il  collegio  che  dai  lavori
 parlamentari risulta di tutta evidenza che qualora il  decreto  legge
 avesse  voluto  una  competenza  cosi'  innovativa  ed eccezionale da
 essere  accentrata  ed  esclusiva  in  Roma,  cio'   sarebbe   emerso
 ampiamente  nell'esame  e  nel  dibattito  parlamentare, ad opera dei
 relatori, dei sottosegretari, nello specifico esame dell'articolato e
 presentazione degli emendamenti, nei contatti con esponenti del mondo
 giudiziario forense e penitenziario, nell'attenzione di  parlamentari
 esperti  di  problemi penitenziari come i senatori Salvato, Molinari,
 l'on. Taradash e altri, che presentarono gli emendamenti indicati,  e
 in genere dei parlamentari delle Commissioni giustizia.
   Come   sarebbe  emersa  e  di  certo  non  lasciata  passare  senza
 discussione,  tanto  piu'  da  quei  parlamentari   che   addirittura
 chiedevano  di  sopprimere  ogni  modificazione  che  incidesse sulla
 normale applicazione dell'ordinamento penitenziario, una forma  cosi'
 involuta e indiretta per indicare una competenza in capo al tribunale
 e  al  magistrato di sorveglianza di Roma, quando peraltro sono stati
 apportati numerosi emendamenti solo di chiarezza e di perfezionamento
 formale.    Conclusione:  nessuna conferma dai lavori parlamentari di
 una competenza territoriale accentrata a Roma,  e  massicci  elementi
 che depongono per la sua esclusione.
   4.  -  Intanto,  dalla  data  del  decreto-legge 8 giugno 1992, poi
 convertito nella legge 1992, n. 356, iniziarono subito i giudizi e le
 concessioni delle misure trattamentali e alternative ai soggetti  con
 programma  di protezione.  Questo, tribunale emise la prima ordinanza
 in Italia il 26 giugno 1992 concedendo la detenzione  domiciliare  in
 deroga  alle  disposizioni  vigenti  a Epaminonda Angelo, detenuto in
 Roma, con pena da espiare fino al 2011.  Seguirono  altre  ordinanze:
 Contorno  Salvatore,  detenzione  domiciliare  per  la pena di anni 5
 (ord. n. 5465/1992  del  22  gennaio  1993);  Lauro  Giacomo  Ubaldo,
 detenzione domiciliare per pene fino al 2006 (ord. n 6152/1992 del 14
 maggio  1993).    Quest'ultima  e'  particolarmente  significativa ed
 esplicita sui punti in  esame  perche'  da'  atto  che  il  Lauro  e'
 "elettivamente  domiciliato  presso  la  Commissione  centrale", "che
 nulla  quaestio  in  ordine  alla  competenza  risultando   custodito
 nell'ambito  del  distretto  di questa autorita' giudiziaria (come da
 attestazione della D.I.A.)";  perche'  nel  fissare  le  prescrizioni
 precisa   "che   potranno   essere   modificate   dal  magistrato  di
 sorveglianza territorialmente competente".
   E  cosi'  via  con  provvedimenti  di  questo  e  altri  uffici  di
 sorveglianza, operando secondo il criterio di una competenza diffusa.
 Si apri' poi il conflitto indicato tra i tribunali di sorveglianza di
 Venezia e Roma, e la Cassazione emise la nota citata sentenza n. 4977
 del  18  novembre  1993-7 gennaio 1994.   Per la Corte "la simultanea
 introduzione" nella  legge  n.  82/1991  del  comma  3  dell'art.  12
 (elezione  di  domicilio  nel  luogo  in  cui  ha sede la Commissione
 centrale)  e  dell'art.  13-ter  (competenza  del  tribunale  o   del
 magistrato  del  luogo in cui il collaboratore ha il domicilio) rende
 evidente la voluntas legis di individuare la competenza dove ha  sede
 la  Commissione  centrale  presso la quale il collaboratore ha eletto
 domicilio, pur nella imperfezione della norma dell'art.   13-ter  che
 richiama solo il termine domicilio senza riferimento a quello eletto,
 e  tenuto  conto  che per i frequenti spostamenti del collaboratore a
 rischio, che non devono essere portati a conoscenza con atti formali,
 sarebbe impossibile stabilire nel momento della  presentazione  delle
 istanze  quale  sia  il  suo  domicilio (sicĀ³).   Una motivazione non
 condivisibile per le confuse e poco  consistenti  argomentazioni,  di
 certo  non  proporzionate alla portata dell'innovazione che si andava
 ad introdurre.
   In contrario va chiarito:
     a) e' stato gia' menzionato al  punto  2)  che  precede,  tra  le
 disposizioni  di  rilievo  della  legge  n. 82/1991 vecchio testo, il
 trasferimento della persona a rischio in comuni diversi da quello  di
 residenza;  l'autorizzazione  a  custodire  le  persone  arrestate in
 luoghi diversi dal carcere; l'autorizzazione "ad  eleggere  domicilio
 presso  persona  di  fiducia o presso un ufficio di Polizia, anche ai
 fini delle necessarie comunicazioni e notificazioni".  Orbene, sembra
 chiaro che quando si passa dalle prime fasi  ancora  precarie  e  non
 definite di protezione all'ammissione a completi e precisi programmi,
 non  sono  piu'  adeguati domicili eletti presso persone di fiducia o
 uffici di polizia, ma occorre  un  luogo  stabile  ove  venga  eletto
 domicilio  dalle  persone  ammesse  al  programma,  magari di diretta
 pertinenza di un organo centrale e unico per tutti onde non dover far
 capo  a  varie centinaia di domicili eletti da ogni parte.  Ne deriva
 che l'elezione di domicilio nel luogo ove  ha  sede  la  Commissione,
 vale  a dire, come afferma anche la Cassazione, presso la Commissione
 stessa - poiche' elezione di domicilio in un luogo non  ha  senso  se
 non  sia  presso un domiciliatario in quel luogo (art.  62 disp. att.
 c.p.p.) - viene a colmare una carenza della legge n.  82/1991; e tale
 elezione di domicilio assolve esattamente al  fine  e  alla  funzione
 dell'istituto  consentendo  un  punto  di riferimento necessario, ove
 vengono effettuate anche le comunicazioni e le notificazioni di  atti
 provenienti  da ogni parte (p.m., i giudici, autorita' amministrative
 e di polizia, parti processuali, ecc.).
   Quindi un'elezione di domicilio giustamente prevista  e  realizzata
 con una formula corretta, al di la' di ipotetici altri intendimenti o
 effetti  piuttosto  celati, ragionevolmente non voluti e non messi in
 atto dal legislatore.
     b) "luogo in cui la persona ha  il  domicilio".  La  norma,  art.
 13-ter,   comma   3  non  presenta  l'imperfezione  menzionata  dalla
 Cassazione indicando solo il termine domicilio  senza  riferimento  a
 quello   eletto:     imperfezione  sussisterebbe  piuttosto  in  caso
 contrario.
   Trattasi  invero   di   un   ordinario   criterio   di   competenza
 territoriale,  corrispondente  alla previsione generale dell'art. 677
 c.p.p., "residenza o domicilio", per i soggetti non detenuti.  Qui il
 legislatore,  esclusa  la  residenza   caratterizzata   da   maggiore
 incertezza  e  spesso  collegata ad atti formali incompatibili con le
 esigenze di sicurezza, ha indicato il domicilio che  aderisce  ad  un
 reale  centro  dei propri interessi, economici affettivi e familiari,
 che puo' trasferirsi come si sposta o viene per ragioni di  sicurezza
 trasferito  il  soggetto collaboratore in altra localita', spesso con
 la famiglia e con il reperimento di un impiego lavorativo.  Il  luogo
 di domicilio non diventa necessariamente noto dagli atti processuali,
 avendo  il giudice ritenuto sufficiente certificazione dell'autorita'
 preposta alla protezione che il  soggetto  ha  domicilio  nell'ambito
 della  sua giurisdizione.   Trattasi allora di una formulazione della
 norma piana e lineare su  un  ordinario  criterio  di  determinazione
 della competenza.
   E proprio questa linearita' spiega perche' non c'era ragione che la
 norma  dovesse richiamare l'attenzione nei lavori parlamentari per la
 sua approvazione.
   5. - Resta comunque il fatto che l'interpretazione della  Corte  e'
 ormai ampiamente consolidata, seppure senza il conforto delle Sezioni
 Unite,  sicche'  costituisce diritto vivente.   Cio' che legittima il
 riscontro della sua aderenza ai precetti costituzionali.  La norma in
 esame, come cristallizzata in una competenza esclusiva per  tutto  il
 territorio  nazionale di un solo tribunale e giudice di sorveglianza,
 in una certa misura ratione materiae ma soprattutto ratione  personae
 sulla   base  dei  soggetti  giudicabili,  si  configura  come  norma
 eccezionale  come  nessun'altra;  sotto   l'aspetto   strutturale   e
 tecnico-giuridico  assolutamente  anomala  e  di rottura del sistema;
 priva di un fondamento di ragionevolezza; clamorosamente al di  fuori
 in    modo    singolare   dalle   previsioni   e   dalla   disciplina
 dell'ordinamento giudiziario che regola numero, sedi e circoscrizioni
 territoriali  degli  uffici  giudiziari  e  cosi'  dei  tribunali   e
 magistrati   di   sorveglianza;   introduttiva   di   una  competenza
 suscettibile di essere modificata da atto non legislativo.
   Sono  le  ragioni   del   contrasto   con   precetti   e   principi
 costituzionali.
     a)  l'esaminata competenza territoriale esclusiva del tribunale e
 del magistrato di sorveglianza di  Roma  costituisce  una  previsione
 unica  e  senza  precedenti  nel  nostro ordinamento.   Un giudice di
 merito di primo grado -  salvo  rari  casi  d'appello  -  in  materia
 penale,  regolarmente  inserito  dall'Ordinamento  giudiziario in una
 distribuzione  territoriale  su  base  distrettuale   (tribunale)   e
 circondariale  o  pluricircondariale (magistrato di sorveglianza) per
 la trattazione di misure attinenti all'esecuzione della  pena,  delle
 misure   di   sicurezza   e   altro,   previste  dal  codice  penale,
 dall'ordinamento penitenziario e da altre leggi, e preminentemente di
 misure trattamentali e alternative alla detenzione previste dal  capo
 VI,  titolo  I  dell'o.p.,  che  diviene, nell'applicazione di queste
 stesse misure nei confronti di una determinata categoria  di  persone
 giudicabili  un  giudice  unico  ed esclusivo per tutto il territorio
 nazionale.  Cio' contrasta con piu' norme della Costituzione.   Sotto
 un   primo   profilo,  con  l'art.  102,  comma  1,  che  attribuisce
 l'esercizio della  funzione  giurisdizionale  a  magistrati  ordinari
 istituiti  e  regolati  dalle norme dell'ordinamento giudiziario, che
 stabilisce sedi e circoscrizioni territoriali di ogni  ufficio  (art.
 5,  in  relaz.  art. 1, ord. giud.).  E l'art. 102 della Costituzione
 non fa richiamo semplicemente alla  legge  ordinaria,  ma  nella  sua
 prima  norma  sulla  funzione  giurisdizionale,  anche  di  una certa
 solennita',  fa  richiamo   specifico   all'ordinamento   giudiziario
 (richiamato  ancora  dai  successivi  art.  105, 106, 107 e 108 della
 Costituzione)  quale  legge  fondamentale  che  regola  la  struttura
 organica   e  l'articolazione  dei  giudici,  operante  a  mezzo  del
 Consiglio  superiore  della   magistratura,   organo   di   rilevanza
 costituzionale,  che  ne  assicura  l'applicazione nel rispetto delle
 finalita' di giustizia, di indipendenza, di corretto esercizio  della
 giurisdizione,  di  efficienza.    Ordinamento giudiziario che non e'
 stato modificato.
     b) un giudice unico nel territorio che  ha  competenza  esclusiva
 per  i procedimenti riguardanti una certa categoria di giudicabili, i
 collaboratori  di  giustizia  titolari  di  speciale   programma   di
 protezione,   si   configura   per   cio'   stesso   quale   "giudice
 straordinario"  la  cui  istituzione  e'  espressamente  vietata  dal
 secondo comma dell'art.  102 della Costituzione.
   Il carattere di straordinarieta' e' rafforzato ove si consideri che
 accanto  alla  competenza  ratione  personae c'e' anche una, sia pure
 sfumata,  competenza  per  materia,  non   essendo   dubitabile   che
 l'applicazione  delle  misure  alternative  e  trattamentali  a detti
 collaboratori  si  caratterizza  per  una  specifica  carenza  e  una
 diversita'  di  elementi sostanziali; per la deroga ai limiti di pena
 (illimitata);  la  deroga  a   carattere   generale   alle   "vigenti
 disposizioni"   relative  ai  requisiti  e  ad  ogni  altro  elemento
 ordinariamente richiesto per la concedibilita' della misura;  per  la
 stessa  condizione del soggetto giudicabile di collaborante esposto a
 rischio e con protezione speciale che qualifica in  modo  particolare
 il  giudizio;  per  l'intervento di merito della Commissione centrale
 attraverso il previsto parere  obbligatorio  e  altre  indicazioni  e
 determinazioni che puo' inviare al giudice.
   Sotto  certi  profili  un  siffatto giudice puo' qualificarsi anche
 "giudice speciale", essendo spesso il confine molto tenue e  incerto,
 come  evidenziato  dalla  maggiore dottrina: giudice, speciale la cui
 istituzione e' parimenti vietata dall'art. 102, secondo  comma  della
 Costituzione,  che  riconosce  soltanto  quelli  gia' esistenti per i
 quali la VI disposizione transitoria della Costituzione prevedeva una
 revisione, salvo quelli contemplati dalla stessa Costituzione.  Ed in
 effetti  v'e'  stata  tutta  una  serie  di  decisioni  della   Corte
 costituzionale che ha fatto cadere molte giurisdizioni speciali.
   Il  divieto  di  istituzione  di  giudici straordinari - al pari di
 quelli  speciali  -  ha  carattere  assoluto,  in  quanto   viene   a
 contraddire  -  assieme  allo  specifico  precetto costituzionale - i
 principi basilari  della  nostra  civilta'  giuridica,  dal  generale
 divieto  di discriminazioni alle regole proprie del "processo giusto"
 al rispetto dell'unita' della giurisdizione.
   Non e'  peraltro  ipotizzabile  che  trattasi  non  di  un  giudice
 straordinario  o  speciale  ma  di  una sezione specializzata per una
 determinata materia, la cui istituzione presso gli organi  giudiziari
 ordinari   e'  consentita  dal  secondo  comma  dell'art.  102  della
 Costituzione. Non occorrono molte parole per  evidenziare  l'assoluta
 diversita' sia per ragioni strutturali e ordinamentali che per quelle
 attinenti   alla  materia.     Le  sezioni  specializzate  che  hanno
 previsione legislativa sono proprie del ramo civile, inserite  in  un
 maggiore  e  ordinario ufficio giudiziario, generalmente prive di una
 normativa che le disciplina, costituite da giudici  di  quell'ufficio
 per  la  trattazione  della  specifica  materia,  e non danno luogo a
 questioni di competenza ma al piu' a  questioni  di  composizione  di
 carattere   tabellare.      In   materia   penale,   l'unica  sezione
 specializzata puo' ravvisarsi nelle sezioni per i reati ministeriali,
 con sede distrettuale, previste dalla legge costituzionale 16 gennaio
 1995, n. 1.  Quanto al tribunale e  magistrato  di  sorveglianza  non
 sussistono   gli   elementi   strutturali  -  organizzativi  ne'  una
 specialita' di  "materia"  perche'  si  possa  configurare  come  una
 sezione    specializzata.    I   procedimenti   nei   confronti   dei
 collaboratori, pur con alcuni menzionati elementi di diversita',  non
 si  differenziano dai procedimenti per le stesse misure nei confronti
 degli altri soggetti  giudicabili;  tant'e'  che  non  sono  previsti
 appositi collegi o giudici ne' dalla legge ne' in sede tabellare, non
 richiedendo tali giudizi una particolare specializzazione.  E sarebbe
 davvero singolare configurare un tribunale come sezione specializzata
 per  materia soltanto in funzione di una competenza allargata a tutto
 il territorio nei confronti di determinati soggetti giudicabili.
     c) contrasto della norma col principio della ragionevolezza della
 scelta legislativa.
   La Corte costituzionale ha  ampiamente  sviluppato  il  tema  della
 incompatibilita' di una norma con i principi costituzionali quando la
 scelta  del  legislatore  sia  priva  di  ragionevolezza  e contrasti
 percio' con la buona tutela dell'interesse protetto, in  questo  caso
 con il buon andamento della giustizia.
   Nella  scelta  che  ci occupa non e' ravvisabile alcuna ragione che
 giustifichi una  deroga  cosi'  rivoluzionante  e  totalizzante  agli
 ordinari    criteri   di   competenza   e   agli   assetti   previsti
 dall'ordinamento giudiziario.
   Esponendo  in  sintesi,  manca  una  particolare  specificita'  dei
 giudici di sorveglianza di Roma perche' sia demandato soltanto a loro
 il giudizio sulle misure da irrogare ai collaboratori.
   Il restringere la cognizione di tali giudizi  ad  un  solo  giudice
 limita  l'evolversi  della giurisprudenza ed elimina i pur produttivi
 contrasti, con danno  all'elaborazione  del  diritto  e  quindi  alla
 giustizia,  cui  si  accompagna il rischio di sclerotizzare le prassi
 procedimentali.
   Puo' determinare, piu' o meno inconsapevolmente  e  indirettamente,
 un  particolare  centro  di  potere  e di rapporti con alte autorita'
 centrali, con potenziale lesione della indipendenza  e  dell'immagine
 del giudice.
   Non  realizza  una  maggiore protezione del collaboratore a rischio
 rispetto  ad  altre  possibili   soluzioni,   neppure   determinando,
 attraverso  la  designazione  di  un  solo  giudice  competente,  una
 apprezzabile maggiore difficolta' di  individuare  il  luogo  ove  il
 collaboratore  vive  ed e' tenuto. A parte il fatto che ormai e' dato
 verificare  che  molti  collaboratori  protetti  conducono  una  vita
 regolare  e  aperta,  in  regime  di  misura alternativa o non, nella
 localita' di origine o dove sono stati trasferiti; cosi'  come  molti
 altri  sono  ristretti  in istituti carcerari quand'anche titolari di
 programmi di protezione.
   E' allora esigibile che, tra le tante possibili,  venisse  adottata
 una scelta adeguata al fine da realizzare, senza intaccare i principi
 fondamentali dell'ordinamento.
     d)   dagli  elementi  sopra  indicati,  e  tanto  piu'  dal  loro
 combinarsi, derivano o possono attendibilmente derivare da parte  dei
 giudici diversita' di soluzioni e quindi di trattamento nei giudizi e
 nell'applicazione  delle  misure  rispetto  ai  giudizi  svolti in un
 assetto non "turbato" dalla competenza  esclusiva,  e  rispetto  alle
 soluzioni   senza  turbative  dagli  altri  tribunali  e  giudici  di
 sorveglianza. E cio' sia nei confronti dei  collaboratori  che  degli
 altri condannati.
   Cosa che comporta disparita' di trattamento in violazione dell'art.
 3 della Costituzione.
     e)  una  ulteriore  situazione anomala, collegabile al tema della
 ragionevolezza e della congruita', e' l'orientamento da qualche tempo
 adottato dalla Commissione centrale e in progressiva accentuazione di
 fare  espiare  in  carcere  consistenti  periodi  di  pena  anche  ai
 collaboratori con programma di protezione.
   E  cio'  anche in correlazione al noto dibattito che c'e' stato nel
 Paese a seguito di eclatanti inammissibili  comportamenti  tenuti  da
 alcuni   pentiti,   e   sui   trattamenti   "d'oro"   fatti  a  tanti
 collaboratori.
   Ne consegue che, sempre di piu', le misure richieste e adottate  da
 questo  tribunale e magistrato riguardano collaboratori con programma
 in stato di detenzione carceraria.
   Anche il presente procedimento per l'applicazione della  detenzione
 domiciliare  attiene  a  un  collaboratore detenuto nel    carcere di
 Alessandria.
   Viene allora da considerare che senso ha che questo tribunale debba
 avere competenza a giudicare i detenuti che trovansi  in  un  carcere
 del  Piemonte,  delle  Venezie, delle Puglie, quando non sussiste una
 ragione di segretezza sul luogo in cui il collaboratore si trova, ne'
 alcuna altra ragione che giustifichi una deroga agli ordinari criteri
 di competenza; ed una deroga al criterio fondamentale che il detenuto
 va  giudicato  dal  magistrato  che  ha  giurisdizione  e esercita la
 sorveglianza sull'istituto carcerario in cui egli si trova, che  puo'
 seguirne    l'osservazione   della   personalita'   e   i   progressi
 trattamentali, che spesso ne ha conoscenza  personale  e  intrattiene
 con  lui  colloqui,  e  quanto altro attiene all'opera sostanziale di
 trattamento  e  risocializzazione.    Elementi  sui  quali  la  Corte
 costituzionale  si  e'  sempre  pronunziata per la loro essenzialita'
 nella funzione rieducativa della pena, dando con le sue pronunzie  un
 indirizzo di continua maggiore evoluzione in questo senso.
   Tutto  cio'  viene  irrazionalmente  tralasciato  e "tradito" dalla
 norma in esame; la quale poteva quanto meno essere congegnata in modo
 da escludere dalla competenza territoriale di questo giudice di  Roma
 coloro che fossero detenuti al di fuori della sua giurisdizione, e in
 modo  che  non  fossero  "distolti"  dalla  ordinaria  competenza del
 giudice del luogo di detenzione,  che  e'  il  suo  giudice  naturale
 precostituito  per legge. Ne consegue, per questa parte, un ulteriore
 profilo di incostituzionalita' per violazione degli artt. 25, secondo
 comma, e 27, terzo comma della Costituzione.
     f) infine, un rilievo di grande importanza che inverte ancora  il
 precetto   del  giudice  naturale  precostituito  per  legge.  L'art.
 13-ter,  comma  3,  come  interpretato,  attribuisce  la   competenza
 territoriale nei confronti dei collaboratori titolari di programma di
 protezione  al  giudice  di  sorveglianza  del  luogo  ove ha sede la
 Commissione centrale.
   Tale norma, con la sua formulazione,  e'  di  per  se'  inidonea  a
 determinare  la  precostituzione di un giudice "per legge" e soltanto
 attraverso la legge.
   La legge, invero, non indica il luogo ove ha sede  la  Commissione,
 ne'  tale  luogo  e'  desumibile  da altre disposizioni di legge; ne'
 ancora alcuna disposizione di legge dispone che tale sede  non  possa
 essere cambiata e trasferita altrove.
   Sicche'  la  legge  non  indica  quale  sia  il giudice stabilmente
 competente per territorio.
   La Commissione centrale attualmente ha di fatto  sede  a  Roma;  di
 fatto siede presso il Ministero dell'interno.
   Nulla  esclude che di fatto, o per atto amministrativo, trasferisca
 altrove la sua sede, per le piu' svariate ragioni che non spetta  qui
 esaminare.
   In   tal  caso,  il  giudice  fornito  di  competenza  territoriale
 esclusiva nei confronti dei collaboratori  cesserebbe  di  essere  il
 giudice di Roma passando tale competenza al giudice della nuova sede,
 in ipotesi Firenze, Perugia, e cosi' via.
   Sussiste allora violazione della riserva di legge in materia, e del
 dettato del giudice naturale precostituito per legge.
   E  il  criterio  di  collegamento  attraverso  cui  si determina la
 competenza e' inidoneo in quanto non contiene collegamento su un dato
 stabile, ma su un dato  variabile.    Peraltro,  che  la  Commissione
 centrale  possa  mutare  sede non e' un'astrazione; e' un accadimento
 umano del tutto possibile. E le ragioni organizzative, gestionali, di
 scelta politica per le piu' svariate ragioni,  come  per  le  ragioni
 dirette  a  volere  proprio trasferire la competenza da un giudice ad
 altro,  sono  tutte qui irrilevanti.  Rileva solo che la norma di cui
 all'art. 13-ter, comma 3, si pone in contrasto con il  principio  del
 giudice  naturale  precostituito per legge sancito dall'art. 25 della
 Costituzione.
   Per queste ragioni il  tribunale  solleva  d'ufficio  questione  di
 legittimita' costituzionale come in dispositivo.