IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento chiamato all'udienza del 18 marzo 1998, instaurato ai sensi degli artt. 666, 678 c.p.p. sulle istanze di rinvio dell'esecuzione della pena a sensi dell'art. 147 c.p. e di detenzione domiciliare, art. 47-ter o.p., proposte da Mannino Vincenzo nato a Palermo il 12 agosto 1951, detenuto nella C.C. di Alessandria. Considerato in fatto Mannino Vincenzo e' collaboratore di giustizia ammesso a speciale programma di protezione. Venne condannato con sentenza 29 maggio 1995 dalla Corte d'appello di Milano ad anni 5 e mesi 10 di reclusione per detenzione armi da guerra e altro; ed ha numerosi procedimenti pendenti. Dopo un primo periodo di carcerazione e un differimento dell'esecuzione della pena, in data 15 ottobre 1996 otteneva da questo tribunale la concessione della detenzione domiciliare, ai sensi degli art. 47-ter, o.p. e 13-ter, legge n. 82/1991, e quindi preso in carico dal Servizio centrale di protezione per localita' protetta. Il 4 aprile 1997 veniva sospeso cautelativamente dalla misura e, l'11 luglio 1997, acquisito il parere della Commissione centrale ex art. 10, legge n. 82/1991, il tribunale revocava la detenzione domiciliare. Il Mannino il 12 luglio 1997 rientrava in carcere e, dal 19 agosto 1997, nella C.C. di Alessandria. Tanto premesso, si perviene all'attuale procedimento. Con atto del 20 novembre 1997, il difensore del Mannino proponeva istanza di sospensione dell'esecuzione della pena e di detenzione domiciliare per gravi condizioni di salute. Il processo veniva trattato all'udienza camerale del 18 marzo 1998 e riservata la decisione. Con una prima ordinanza, depositata il 9 aprile 1998, il tribunale, ritenuto che la competenza del tribunale di sorveglianza di Roma, a termini dell'art. 1-ter, legge n. 82/1991 come modificata dalla legge n. 356/1992, nei confronti delle persone ammesse a speciale programma di protezione, e' riferita soltanto alle misure trattamentali e alternative previste dall'ordinamento penitenziario, rimanendo estranee al disposto di tale norma le misure previste dal codice penale o da altre leggi, come appunto l'art. 147 c.p., e considerato che l'art. 13-ter, terzo comma e' norma di carattere eccezionale di stretta interpretazione, dichiarava la propria incompetenza territoriale a conoscere della domanda di rinvio dell'esecuzione della pena, e rimetteva, previo stralcio degli atti relativi, il procedimento per tale domanda al tribunale di Torino competente per essere l'istante detenuto nel carcere di Alessandria (vedi ordinanza n. 10943/1997, in atti). Resta dunque da esaminare la domanda di detenzione domiciliare, su cui la difesa ha insistito e che ha una propria autonomia ed efficacia, non avendo tale misura le limitazioni temporali del rinvio dell'esecuzione della pena e consentendo la detenzione nella propria abitazione con espiazione della pena D i r i t t o Pregiudiziale ad ogni esame, anche attinente alla graduazione della domanda, alla ammissibilita' e al merito, e' la sussistenza della competenza territoriale a conoscere della domanda. Stima il tribunale che l'art. 13-ter, ritenuto attributivo di una competenza territoriale esclusiva al tribunale di sorveglianza di Roma per tutti i collaboratori di giustizia ammessi a speciale programma di protezione, ovunque si trovino, presenta elevatissimi dubbi di legittimita' costituzionale, si' che va sollevata eccezione di illegittimita' costituzionale della norma, siccome pregiudiziale e rilevante. La motivazione che segue si sviluppa dapprima in una disamina della interpretazione della norma data dalla Corte di cassazione; e quindi in un raffronto della norma, cosi' come e' stata interpretata, con il dettato e i principi della Carta costituzionale. 1. - L'art. 13-ter prevede, nel comma 1, che nei confronti delle persone ammesse a speciale programma di protezione l'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione sono disposti sentita l'autorita' che ha deliberato il programma; e, nel comma 2, che dette misure possono essere adottate anche in deroga alle vigenti disposizioni, comprese quelle relative ai limiti di pena previsti. Il comma 3 dispone che "per i provvedimenti di cui ai commi 1 e 2 la competenza appartiene al tribunale e al magistrato di sorveglianza del luogo in cui la persona ammessa allo speciale programma di protezione ha il domiciliato". Il comma 3 dell'art. 12 della stessa legge n. 82/1991 dispone: "All'atto della sottoscrizione del programma l'interessato elegge il proprio domicilio nel luogo in cui ha sede la commissione di cui all'art. 10". Ebbene la suprema Corte con sentenza n. 4977 del 18 novembre 1993-7 gennaio 1994, emessa su conflitto di competenza sollevato da questo Tribunale (causa Randazzo) nei confronti del trib. sorv. Venezia, ha interpretato il comma 3 dell'art. 13-ter, in correlazione con il comma 3 dell'art. 12 relativo all'elezione di domicilio, nel senso che a seguito dell'elezione di domicilio nel luogo ove ha sede la Commissione, cioe' presso detta Commissione a Roma, deve intendersi che "il luogo in cui la persona ha il domicilio" e' Roma. Seguivano altre sentenze conformi. Siffatta interpretazione, appare al tribunale erronea e senza fondamento, e comunque comporta che la norma di cui all'art. 13-ter, cosi' intesa, si appalesa incostituzionale. 2. - Una prima indagine utile e' la ricostruzione storica della formazione della norma e quindi della sua interpretazione. La protezione di coloro che collaborano con la giustizia, in precedenza attuata di fatto e utilizzando le possibilita' che offriva l'ordinamento, comincia ad avere una normativa specifica con il d.lgs. 29 marzo 1993, n. 119 sul cambiamento di generalita', cui segue il d.m. 24 novembre 1994, n. 687 recante norme dirette ad individuare i criteri di formulazione del programma di protezione dei collaboratori. Si avvertiva pero' l'esigenza di dare veste legislativa e strumenti giuridici nella materia, gia' ampiamente esistenti in altri Stati con un piu' forte sviluppo della lotta alla criminalita' organizzata. E cosi' viene emanato il d.-l. 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni nella legge 15 marzo 1991, n. 82. Gli artt. da 3 a 15 dispongono, in sintesi, l'adozione nei confronti delle persone esposte a grave pericolo per la loro collaborazione di "misure di protezione idonee ad assicurarne l'incolumita'". Qualora le misure adottabili dagli organismi antimafia, dalla polizia e, nei confronti di detenuti, dall'amministrazione penitenziaria non appaiono adeguate "puo' essere definito uno speciale programma di protezione". Viene istituita una Commissione centrale per la definizione del programma e regolati contenuto, durata e sottoscrizione di esso; istituito un Servizio centrale di protezione nell'ambito del Dipartimento della pubblica sicurezza; altre modalita' attuative delle esigenze di sicurezza. Di rilievo, ai fini che interessano, sono il trasferimento della persona a rischio in comuni diversi da quello di residenza, l'autorizzazione del proc. della rep. o del giudice alla custodia cautelare della persona arrestata in luoghi diversi dal carcere, la loro autorizzazione al soggetto esaminato "ad eleggere domicilio presso persona di fiducia o presso un ufficio di polizia, anche ai fini delle necessarie comunicazioni e notificazioni" (art. 13, comma 3). Una legge che realizza un avanzamento restando nell'ambito delle misure di sicurezza e di protezione a cura degli organismi di polizia, della Commissione centrale e con le autorizzazioni citate del p.g. o del giudice. Null'altro che investa l'autorita' giudiziaria, ne' particolari misure da deliberarsi dagli organi giudicanti, fermo quanto gia' previsto dall'ordinamento penitenziario. Dopo la strage di Capaci e l'assassinio del giudice Borsellino, il Governo emana il decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante modifiche al codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita' organizzata. Il titolo III del decreto, relativo ai collaboratori di giustizia, e' costituito dall'art. 13, che introduce nella legge n. 82/1991 gli art. 13-bis, 13-ter, e un comma 3 dell'art. 12; mentre il titolo IV, apporta alcune modifiche all'o.p. (art. 58-quater, art. 4-bis). 3. - Data l'interpretazione della Cassazione, in punto competenza, del combinato disposto dell'art. 13-ter, comma 3, e del comma 3 dell'art. 12, si e' proceduto all'esame dei lavori parlamentari sulla conversione in legge del decreto onde rinvenire elementi di riscontro e di chiarificazione della volonta' e dell'intento del legislatore. La lettura dei tre volumi, che riportano le relazioni, la disamina delle norme, emendamenti, dibattito e deliberazioni, fatti dal Senato in prima lettura poi dalla Camera e quindi dal Senato in seconda lettura, non ha offerto alcun elemento di supporto all'interpretazione in esame ma piuttosto ragionevoli conclusioni contrarie. Gia' il relatore, sen. Pinto, puntuale nel sottolineare i punti di maggiore interesse del decreto in conversione, e pur dedicando un consistente spazio ai titoli III e IV, in ordine all'art. 13-ter dice che esso "consente in particolare che le persone ammesse allo speciale programma di protezione godano dei benefici carcerari addirittura in deroga ai limiti di pena previsti" e che "il godimento e' stato subordinato ad una procedura rigorosa affidata ad organi particolarmente qualificati e centralizzati" (Commissione centrale, Servizio centrale di protezione). Dunque, un'annotazione del rilievo che ha la deroga ai limiti di pena; un'annotazione sul godimento dei benefici; ma nessun cenno in punto competenza: omissione incomprensibile se fosse stata prevista una norma cosi' straordinaria da accentrare la cognizione e l'irrogazione delle misure nel solo tribunale e ufficio di Roma, della quale il relatore non poteva non parlare. Il dibattito che segue e' significativo nello stesso senso. Si nota una diffusa e attenta sensibilita' per il rispetto dei principi costituzionali e delle regole e principi generali che informano il nostro ordinamento, pur nell'urgenza di norme che non vogliono essere di emergenza ma tuttavia altamente incisive nella lotta alla criminalita'. Gli interventi dei sottosegretari De Cinque, Castiglione e altri, a nome del Governo, sono precisi e frequenti nel sostenere e chiarire fondamento e finalita' delle norme, ma nulla dicono dell'art. 13-ter, comma 3. Vari senatori fanno menzione degli importanti contributi (prima auspicati, poi in vario modo acquisiti) attraverso incontri con le componenti del mondo giudiziario forense e penitenziario interessate al provvedimento; e ancora non emerge l'innovazione di una competenza accentrata ed esclusiva. Nella Commissione giustizia si illustra un maxi-emendamento presentato dal Governo volto a introdurre numerose modifiche e norme di piu' chiara interpretazione, e anche qui non v'e' nulla sull'art. 13-ter, comma 3. Tra gli emendamenti presentati dai parlamentari, quattro riguardano il titolo III. I primi due sono "sopprimere l'art. 13, cioe' tutto quanto, gli artt. 13-bis, 13-ter, e comma 2 lett. d) e comma 3, art. 12, lasciando la legge come prima. Il terzo e' "all'art. 13, comma 2, sopprimere il punto 2 dell'art. 13-ter": cioe' mantenere l'art. 13-ter sopprimendo la parte relativa alla deroga alle vigenti disposizioni dell'ordinamento penitenziario e ai limiti di pena. Il quarto apporta una integrazione formale del testo. Ancora una volta si deve annotare che nella sede piu' diretta e specifica, in sede di emendamenti all'art. 13 del decreto, si tende a conservare la legge sui collaboratori n. 82/1991 senza particolari modifiche dell'ordinamento penitenziario in loro favore, o al piu' si consente l'introduzione dell'art. 13-ter ma senza deroghe alle disposizioni e ai limiti di pena, mentre nulla viene osservato sulla competenza territoriale. Peraltro, tali emendamenti, ripresentati anche in sede assembleare al Senato e alla Camera, alla fine restarono assorbiti dall'approvazione del maxi-emendamento e del decreto, gia' modificato in varie parti, su cui il Governo pose la fiducia. Ritiene in definitiva il collegio che dai lavori parlamentari risulta di tutta evidenza che qualora il decreto legge avesse voluto una competenza cosi' innovativa ed eccezionale da essere accentrata ed esclusiva in Roma, cio' sarebbe emerso ampiamente nell'esame e nel dibattito parlamentare, ad opera dei relatori, dei sottosegretari, nello specifico esame dell'articolato e presentazione degli emendamenti, nei contatti con esponenti del mondo giudiziario forense e penitenziario, nell'attenzione di parlamentari esperti di problemi penitenziari come i senatori Salvato, Molinari, l'on. Taradash e altri, che presentarono gli emendamenti indicati, e in genere dei parlamentari delle Commissioni giustizia. Come sarebbe emersa e di certo non lasciata passare senza discussione, tanto piu' da quei parlamentari che addirittura chiedevano di sopprimere ogni modificazione che incidesse sulla normale applicazione dell'ordinamento penitenziario, una forma cosi' involuta e indiretta per indicare una competenza in capo al tribunale e al magistrato di sorveglianza di Roma, quando peraltro sono stati apportati numerosi emendamenti solo di chiarezza e di perfezionamento formale. Conclusione: nessuna conferma dai lavori parlamentari di una competenza territoriale accentrata a Roma, e massicci elementi che depongono per la sua esclusione. 4. - Intanto, dalla data del decreto-legge 8 giugno 1992, poi convertito nella legge 1992, n. 356, iniziarono subito i giudizi e le concessioni delle misure trattamentali e alternative ai soggetti con programma di protezione. Questo, tribunale emise la prima ordinanza in Italia il 26 giugno 1992 concedendo la detenzione domiciliare in deroga alle disposizioni vigenti a Epaminonda Angelo, detenuto in Roma, con pena da espiare fino al 2011. Seguirono altre ordinanze: Contorno Salvatore, detenzione domiciliare per la pena di anni 5 (ord. n. 5465/1992 del 22 gennaio 1993); Lauro Giacomo Ubaldo, detenzione domiciliare per pene fino al 2006 (ord. n 6152/1992 del 14 maggio 1993). Quest'ultima e' particolarmente significativa ed esplicita sui punti in esame perche' da' atto che il Lauro e' "elettivamente domiciliato presso la Commissione centrale", "che nulla quaestio in ordine alla competenza risultando custodito nell'ambito del distretto di questa autorita' giudiziaria (come da attestazione della D.I.A.)"; perche' nel fissare le prescrizioni precisa "che potranno essere modificate dal magistrato di sorveglianza territorialmente competente". E cosi' via con provvedimenti di questo e altri uffici di sorveglianza, operando secondo il criterio di una competenza diffusa. Si apri' poi il conflitto indicato tra i tribunali di sorveglianza di Venezia e Roma, e la Cassazione emise la nota citata sentenza n. 4977 del 18 novembre 1993-7 gennaio 1994. Per la Corte "la simultanea introduzione" nella legge n. 82/1991 del comma 3 dell'art. 12 (elezione di domicilio nel luogo in cui ha sede la Commissione centrale) e dell'art. 13-ter (competenza del tribunale o del magistrato del luogo in cui il collaboratore ha il domicilio) rende evidente la voluntas legis di individuare la competenza dove ha sede la Commissione centrale presso la quale il collaboratore ha eletto domicilio, pur nella imperfezione della norma dell'art. 13-ter che richiama solo il termine domicilio senza riferimento a quello eletto, e tenuto conto che per i frequenti spostamenti del collaboratore a rischio, che non devono essere portati a conoscenza con atti formali, sarebbe impossibile stabilire nel momento della presentazione delle istanze quale sia il suo domicilio (sicĀ³). Una motivazione non condivisibile per le confuse e poco consistenti argomentazioni, di certo non proporzionate alla portata dell'innovazione che si andava ad introdurre. In contrario va chiarito: a) e' stato gia' menzionato al punto 2) che precede, tra le disposizioni di rilievo della legge n. 82/1991 vecchio testo, il trasferimento della persona a rischio in comuni diversi da quello di residenza; l'autorizzazione a custodire le persone arrestate in luoghi diversi dal carcere; l'autorizzazione "ad eleggere domicilio presso persona di fiducia o presso un ufficio di Polizia, anche ai fini delle necessarie comunicazioni e notificazioni". Orbene, sembra chiaro che quando si passa dalle prime fasi ancora precarie e non definite di protezione all'ammissione a completi e precisi programmi, non sono piu' adeguati domicili eletti presso persone di fiducia o uffici di polizia, ma occorre un luogo stabile ove venga eletto domicilio dalle persone ammesse al programma, magari di diretta pertinenza di un organo centrale e unico per tutti onde non dover far capo a varie centinaia di domicili eletti da ogni parte. Ne deriva che l'elezione di domicilio nel luogo ove ha sede la Commissione, vale a dire, come afferma anche la Cassazione, presso la Commissione stessa - poiche' elezione di domicilio in un luogo non ha senso se non sia presso un domiciliatario in quel luogo (art. 62 disp. att. c.p.p.) - viene a colmare una carenza della legge n. 82/1991; e tale elezione di domicilio assolve esattamente al fine e alla funzione dell'istituto consentendo un punto di riferimento necessario, ove vengono effettuate anche le comunicazioni e le notificazioni di atti provenienti da ogni parte (p.m., i giudici, autorita' amministrative e di polizia, parti processuali, ecc.). Quindi un'elezione di domicilio giustamente prevista e realizzata con una formula corretta, al di la' di ipotetici altri intendimenti o effetti piuttosto celati, ragionevolmente non voluti e non messi in atto dal legislatore. b) "luogo in cui la persona ha il domicilio". La norma, art. 13-ter, comma 3 non presenta l'imperfezione menzionata dalla Cassazione indicando solo il termine domicilio senza riferimento a quello eletto: imperfezione sussisterebbe piuttosto in caso contrario. Trattasi invero di un ordinario criterio di competenza territoriale, corrispondente alla previsione generale dell'art. 677 c.p.p., "residenza o domicilio", per i soggetti non detenuti. Qui il legislatore, esclusa la residenza caratterizzata da maggiore incertezza e spesso collegata ad atti formali incompatibili con le esigenze di sicurezza, ha indicato il domicilio che aderisce ad un reale centro dei propri interessi, economici affettivi e familiari, che puo' trasferirsi come si sposta o viene per ragioni di sicurezza trasferito il soggetto collaboratore in altra localita', spesso con la famiglia e con il reperimento di un impiego lavorativo. Il luogo di domicilio non diventa necessariamente noto dagli atti processuali, avendo il giudice ritenuto sufficiente certificazione dell'autorita' preposta alla protezione che il soggetto ha domicilio nell'ambito della sua giurisdizione. Trattasi allora di una formulazione della norma piana e lineare su un ordinario criterio di determinazione della competenza. E proprio questa linearita' spiega perche' non c'era ragione che la norma dovesse richiamare l'attenzione nei lavori parlamentari per la sua approvazione. 5. - Resta comunque il fatto che l'interpretazione della Corte e' ormai ampiamente consolidata, seppure senza il conforto delle Sezioni Unite, sicche' costituisce diritto vivente. Cio' che legittima il riscontro della sua aderenza ai precetti costituzionali. La norma in esame, come cristallizzata in una competenza esclusiva per tutto il territorio nazionale di un solo tribunale e giudice di sorveglianza, in una certa misura ratione materiae ma soprattutto ratione personae sulla base dei soggetti giudicabili, si configura come norma eccezionale come nessun'altra; sotto l'aspetto strutturale e tecnico-giuridico assolutamente anomala e di rottura del sistema; priva di un fondamento di ragionevolezza; clamorosamente al di fuori in modo singolare dalle previsioni e dalla disciplina dell'ordinamento giudiziario che regola numero, sedi e circoscrizioni territoriali degli uffici giudiziari e cosi' dei tribunali e magistrati di sorveglianza; introduttiva di una competenza suscettibile di essere modificata da atto non legislativo. Sono le ragioni del contrasto con precetti e principi costituzionali. a) l'esaminata competenza territoriale esclusiva del tribunale e del magistrato di sorveglianza di Roma costituisce una previsione unica e senza precedenti nel nostro ordinamento. Un giudice di merito di primo grado - salvo rari casi d'appello - in materia penale, regolarmente inserito dall'Ordinamento giudiziario in una distribuzione territoriale su base distrettuale (tribunale) e circondariale o pluricircondariale (magistrato di sorveglianza) per la trattazione di misure attinenti all'esecuzione della pena, delle misure di sicurezza e altro, previste dal codice penale, dall'ordinamento penitenziario e da altre leggi, e preminentemente di misure trattamentali e alternative alla detenzione previste dal capo VI, titolo I dell'o.p., che diviene, nell'applicazione di queste stesse misure nei confronti di una determinata categoria di persone giudicabili un giudice unico ed esclusivo per tutto il territorio nazionale. Cio' contrasta con piu' norme della Costituzione. Sotto un primo profilo, con l'art. 102, comma 1, che attribuisce l'esercizio della funzione giurisdizionale a magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme dell'ordinamento giudiziario, che stabilisce sedi e circoscrizioni territoriali di ogni ufficio (art. 5, in relaz. art. 1, ord. giud.). E l'art. 102 della Costituzione non fa richiamo semplicemente alla legge ordinaria, ma nella sua prima norma sulla funzione giurisdizionale, anche di una certa solennita', fa richiamo specifico all'ordinamento giudiziario (richiamato ancora dai successivi art. 105, 106, 107 e 108 della Costituzione) quale legge fondamentale che regola la struttura organica e l'articolazione dei giudici, operante a mezzo del Consiglio superiore della magistratura, organo di rilevanza costituzionale, che ne assicura l'applicazione nel rispetto delle finalita' di giustizia, di indipendenza, di corretto esercizio della giurisdizione, di efficienza. Ordinamento giudiziario che non e' stato modificato. b) un giudice unico nel territorio che ha competenza esclusiva per i procedimenti riguardanti una certa categoria di giudicabili, i collaboratori di giustizia titolari di speciale programma di protezione, si configura per cio' stesso quale "giudice straordinario" la cui istituzione e' espressamente vietata dal secondo comma dell'art. 102 della Costituzione. Il carattere di straordinarieta' e' rafforzato ove si consideri che accanto alla competenza ratione personae c'e' anche una, sia pure sfumata, competenza per materia, non essendo dubitabile che l'applicazione delle misure alternative e trattamentali a detti collaboratori si caratterizza per una specifica carenza e una diversita' di elementi sostanziali; per la deroga ai limiti di pena (illimitata); la deroga a carattere generale alle "vigenti disposizioni" relative ai requisiti e ad ogni altro elemento ordinariamente richiesto per la concedibilita' della misura; per la stessa condizione del soggetto giudicabile di collaborante esposto a rischio e con protezione speciale che qualifica in modo particolare il giudizio; per l'intervento di merito della Commissione centrale attraverso il previsto parere obbligatorio e altre indicazioni e determinazioni che puo' inviare al giudice. Sotto certi profili un siffatto giudice puo' qualificarsi anche "giudice speciale", essendo spesso il confine molto tenue e incerto, come evidenziato dalla maggiore dottrina: giudice, speciale la cui istituzione e' parimenti vietata dall'art. 102, secondo comma della Costituzione, che riconosce soltanto quelli gia' esistenti per i quali la VI disposizione transitoria della Costituzione prevedeva una revisione, salvo quelli contemplati dalla stessa Costituzione. Ed in effetti v'e' stata tutta una serie di decisioni della Corte costituzionale che ha fatto cadere molte giurisdizioni speciali. Il divieto di istituzione di giudici straordinari - al pari di quelli speciali - ha carattere assoluto, in quanto viene a contraddire - assieme allo specifico precetto costituzionale - i principi basilari della nostra civilta' giuridica, dal generale divieto di discriminazioni alle regole proprie del "processo giusto" al rispetto dell'unita' della giurisdizione. Non e' peraltro ipotizzabile che trattasi non di un giudice straordinario o speciale ma di una sezione specializzata per una determinata materia, la cui istituzione presso gli organi giudiziari ordinari e' consentita dal secondo comma dell'art. 102 della Costituzione. Non occorrono molte parole per evidenziare l'assoluta diversita' sia per ragioni strutturali e ordinamentali che per quelle attinenti alla materia. Le sezioni specializzate che hanno previsione legislativa sono proprie del ramo civile, inserite in un maggiore e ordinario ufficio giudiziario, generalmente prive di una normativa che le disciplina, costituite da giudici di quell'ufficio per la trattazione della specifica materia, e non danno luogo a questioni di competenza ma al piu' a questioni di composizione di carattere tabellare. In materia penale, l'unica sezione specializzata puo' ravvisarsi nelle sezioni per i reati ministeriali, con sede distrettuale, previste dalla legge costituzionale 16 gennaio 1995, n. 1. Quanto al tribunale e magistrato di sorveglianza non sussistono gli elementi strutturali - organizzativi ne' una specialita' di "materia" perche' si possa configurare come una sezione specializzata. I procedimenti nei confronti dei collaboratori, pur con alcuni menzionati elementi di diversita', non si differenziano dai procedimenti per le stesse misure nei confronti degli altri soggetti giudicabili; tant'e' che non sono previsti appositi collegi o giudici ne' dalla legge ne' in sede tabellare, non richiedendo tali giudizi una particolare specializzazione. E sarebbe davvero singolare configurare un tribunale come sezione specializzata per materia soltanto in funzione di una competenza allargata a tutto il territorio nei confronti di determinati soggetti giudicabili. c) contrasto della norma col principio della ragionevolezza della scelta legislativa. La Corte costituzionale ha ampiamente sviluppato il tema della incompatibilita' di una norma con i principi costituzionali quando la scelta del legislatore sia priva di ragionevolezza e contrasti percio' con la buona tutela dell'interesse protetto, in questo caso con il buon andamento della giustizia. Nella scelta che ci occupa non e' ravvisabile alcuna ragione che giustifichi una deroga cosi' rivoluzionante e totalizzante agli ordinari criteri di competenza e agli assetti previsti dall'ordinamento giudiziario. Esponendo in sintesi, manca una particolare specificita' dei giudici di sorveglianza di Roma perche' sia demandato soltanto a loro il giudizio sulle misure da irrogare ai collaboratori. Il restringere la cognizione di tali giudizi ad un solo giudice limita l'evolversi della giurisprudenza ed elimina i pur produttivi contrasti, con danno all'elaborazione del diritto e quindi alla giustizia, cui si accompagna il rischio di sclerotizzare le prassi procedimentali. Puo' determinare, piu' o meno inconsapevolmente e indirettamente, un particolare centro di potere e di rapporti con alte autorita' centrali, con potenziale lesione della indipendenza e dell'immagine del giudice. Non realizza una maggiore protezione del collaboratore a rischio rispetto ad altre possibili soluzioni, neppure determinando, attraverso la designazione di un solo giudice competente, una apprezzabile maggiore difficolta' di individuare il luogo ove il collaboratore vive ed e' tenuto. A parte il fatto che ormai e' dato verificare che molti collaboratori protetti conducono una vita regolare e aperta, in regime di misura alternativa o non, nella localita' di origine o dove sono stati trasferiti; cosi' come molti altri sono ristretti in istituti carcerari quand'anche titolari di programmi di protezione. E' allora esigibile che, tra le tante possibili, venisse adottata una scelta adeguata al fine da realizzare, senza intaccare i principi fondamentali dell'ordinamento. d) dagli elementi sopra indicati, e tanto piu' dal loro combinarsi, derivano o possono attendibilmente derivare da parte dei giudici diversita' di soluzioni e quindi di trattamento nei giudizi e nell'applicazione delle misure rispetto ai giudizi svolti in un assetto non "turbato" dalla competenza esclusiva, e rispetto alle soluzioni senza turbative dagli altri tribunali e giudici di sorveglianza. E cio' sia nei confronti dei collaboratori che degli altri condannati. Cosa che comporta disparita' di trattamento in violazione dell'art. 3 della Costituzione. e) una ulteriore situazione anomala, collegabile al tema della ragionevolezza e della congruita', e' l'orientamento da qualche tempo adottato dalla Commissione centrale e in progressiva accentuazione di fare espiare in carcere consistenti periodi di pena anche ai collaboratori con programma di protezione. E cio' anche in correlazione al noto dibattito che c'e' stato nel Paese a seguito di eclatanti inammissibili comportamenti tenuti da alcuni pentiti, e sui trattamenti "d'oro" fatti a tanti collaboratori. Ne consegue che, sempre di piu', le misure richieste e adottate da questo tribunale e magistrato riguardano collaboratori con programma in stato di detenzione carceraria. Anche il presente procedimento per l'applicazione della detenzione domiciliare attiene a un collaboratore detenuto nel carcere di Alessandria. Viene allora da considerare che senso ha che questo tribunale debba avere competenza a giudicare i detenuti che trovansi in un carcere del Piemonte, delle Venezie, delle Puglie, quando non sussiste una ragione di segretezza sul luogo in cui il collaboratore si trova, ne' alcuna altra ragione che giustifichi una deroga agli ordinari criteri di competenza; ed una deroga al criterio fondamentale che il detenuto va giudicato dal magistrato che ha giurisdizione e esercita la sorveglianza sull'istituto carcerario in cui egli si trova, che puo' seguirne l'osservazione della personalita' e i progressi trattamentali, che spesso ne ha conoscenza personale e intrattiene con lui colloqui, e quanto altro attiene all'opera sostanziale di trattamento e risocializzazione. Elementi sui quali la Corte costituzionale si e' sempre pronunziata per la loro essenzialita' nella funzione rieducativa della pena, dando con le sue pronunzie un indirizzo di continua maggiore evoluzione in questo senso. Tutto cio' viene irrazionalmente tralasciato e "tradito" dalla norma in esame; la quale poteva quanto meno essere congegnata in modo da escludere dalla competenza territoriale di questo giudice di Roma coloro che fossero detenuti al di fuori della sua giurisdizione, e in modo che non fossero "distolti" dalla ordinaria competenza del giudice del luogo di detenzione, che e' il suo giudice naturale precostituito per legge. Ne consegue, per questa parte, un ulteriore profilo di incostituzionalita' per violazione degli artt. 25, secondo comma, e 27, terzo comma della Costituzione. f) infine, un rilievo di grande importanza che inverte ancora il precetto del giudice naturale precostituito per legge. L'art. 13-ter, comma 3, come interpretato, attribuisce la competenza territoriale nei confronti dei collaboratori titolari di programma di protezione al giudice di sorveglianza del luogo ove ha sede la Commissione centrale. Tale norma, con la sua formulazione, e' di per se' inidonea a determinare la precostituzione di un giudice "per legge" e soltanto attraverso la legge. La legge, invero, non indica il luogo ove ha sede la Commissione, ne' tale luogo e' desumibile da altre disposizioni di legge; ne' ancora alcuna disposizione di legge dispone che tale sede non possa essere cambiata e trasferita altrove. Sicche' la legge non indica quale sia il giudice stabilmente competente per territorio. La Commissione centrale attualmente ha di fatto sede a Roma; di fatto siede presso il Ministero dell'interno. Nulla esclude che di fatto, o per atto amministrativo, trasferisca altrove la sua sede, per le piu' svariate ragioni che non spetta qui esaminare. In tal caso, il giudice fornito di competenza territoriale esclusiva nei confronti dei collaboratori cesserebbe di essere il giudice di Roma passando tale competenza al giudice della nuova sede, in ipotesi Firenze, Perugia, e cosi' via. Sussiste allora violazione della riserva di legge in materia, e del dettato del giudice naturale precostituito per legge. E il criterio di collegamento attraverso cui si determina la competenza e' inidoneo in quanto non contiene collegamento su un dato stabile, ma su un dato variabile. Peraltro, che la Commissione centrale possa mutare sede non e' un'astrazione; e' un accadimento umano del tutto possibile. E le ragioni organizzative, gestionali, di scelta politica per le piu' svariate ragioni, come per le ragioni dirette a volere proprio trasferire la competenza da un giudice ad altro, sono tutte qui irrilevanti. Rileva solo che la norma di cui all'art. 13-ter, comma 3, si pone in contrasto con il principio del giudice naturale precostituito per legge sancito dall'art. 25 della Costituzione. Per queste ragioni il tribunale solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale come in dispositivo.