IL PRETORE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 746/1994 nei confronti di Siciliano Francesco, imputato del delitto p. e p. dall'art. 590, secondo e terzo comma c.p. All'udienza del 10 marzo 1998 la difesa di parte civile chiedeva la citazione ex art. 507 c.p.p. di D'Anna Calogero, risultando lo stesso presente al momento dell'incidente dal verbale dell'ispettorato del lavoro del 12 marzo 1992. Il difensore dell'imputato si opponeva alla citazione del D'Anna, contestando la presenza di quest'ultimo sui luoghi al momento dell'incidente. ll p.m. nulla osservava. Essendo il predetto verbale stato acquisito al fascicolo del dibattimento ai sensi dell'art. 500, comma 4, c.p.p. solo nella parte relativa alle dichiarazioni di Ingala Giovanni sulla presenza di "cuffie" di protezione nelle parti superiore e sottostante la sega circolare e non risultando dall'istruzione dibattimentale alcun elemento da cui desumere l'assoluta necessita' dell'assunzione di tale mezzo di prova, la richiesta della difesa di parte civile non puo' essere accolta, non potendo il giudice prendere conoscenza degli atti inseriti nel fascicolo del p.m. (da cui l'assoluta necessita' potrebbe risultare). Ne' sembra potersi adottare l'interpretazione estensiva data all'art. 507 nelle sentenze 11227/92 delle ss.uu. e 111/93 della Corte costituzionale, secondo cui il giudice puo' procedere all'assunzione delle prove indicate nella lista non depositata o tardivamente depositata, essendo in tali ipotesi, contrarianente al caso di specie, in re ipsa l'assoluta necessita', quanto meno per quelle prove che appaiono in diretta relazione col capo d'imputazione. Ritiene pero' il decidente che, sulla base degli stessi argomenti che inducono a ritenere conforme al sistema l'interpretazione estensiva, possa ritenersi, per i motivi indicati nella sentenza 111/93, pag. 28, la non manifesta infondatezza in relazione agli artt. 76, 112, 25, 3, 101, secondo comma, 102, 2 e 24 Costituzione della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 507, nella parte in cui non prevede che il giudice possa disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova anche sulla base dell'esame degli atti contenuti nel fascicolo del p.m.: dell'art. 506, comma 1, nella parte in cui prevede che il giudice puo' indicare alle parti temi di prova nuovi o piu' ampi solo in base ai risultati delle prove assunte nel dibattimento a iniziativa delle stesse o a seguito delle letture disposte a norma degli artt. 511, 512 e 513, e non anche in base agli atti contenuti nel fascicolo del p.m.; dell'art. 506, comma 2, nella parte in cui non prevede che il giudice possa rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici e alle parti private gia' esaminate anche sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del p.m. e di procedere, sulla base di detti atti, alle contestazioni ai sensi dell'art. 500, comma 1, con l'eventuale acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per la contestazione ai sensi dell'art. 500, comma 4, e dell'art. 151 norme d'attuazione, nella parte in cui non richiama la norma di cui all'art. 135 norme di attuazione che dispone che nel giudizio il giudice puo' ordinare l'esibizione degli atti contenuti nel fascicolo del p.m. (da restituire, terminata l'istruzione dibattimentale) e l'inserimento nel fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni utilizzate per le contestazioni se sussiste difformita' rispetto al contenuto della deposizione. Ed invero nella sentenza 111/93 la Corte, concordando con le ss.uu. della Cassazione, ha individuato il fondamento dell'interpretazione restrittiva (secondo cui il potere del giudice di assumere d'ufficio mezzi di prova sarebbe precluso dalla carenza di attivita' probatoria delle parti e dalla decadenza in cui queste sono incorse), in una concezione alla stregua della quale il nuovo codice processuale "non tenderebbe alla ricerca della verita', ma solo ad una decisione correttamente presa in una contesa dialettica tra le parti, secondo un astratto modello accusatorio", sicche', in tale prospettiva, la caratterizzazione del nuovo processo di parti comporterebbe l'operativita' di un principio dispositivo sotto il profilo probatorio, cui conseguirebbe l'espansione degli spazi di discrezionalita' della parte pubblica e l'eccezionalita' dell'intervento del giudice. Il sistema processuale penale delineato dalla legge-delega e dal codice - osserva la Corte - tende pero' ad attuare "i caratteri del sistema accusatorio, ma secondo i criteri specificati nelle direttive", in attuazione dei principi della costituzione. Ne consegue che la configurazione del potere istruttorio del giudice come eccezionale, fondandosi sulla considerazione dell'immanenza nel codice, come conseguenza della scelta accusatoria, di un principio dispositivo in materia di prova, si pone in contrasto con i principi costituzionali di legalita' e di obbligatorieta' dell'azione penale, in quanto si verrebbe cosi' a concepire come disponibile la tutela giurisdizionale assicurata dal processo penale. E' quindi proprio dall'indisponibilita' della res iudicanda - conclude la Corte, richiamando la sentenza 241/92 - che deriva il potere-dovere d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove nell'ipotesi in cui la carenza o insufficienza dell'iniziativa delle parti - su cui si fonda il sistema - impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione. Peraltro sarebbe contraddittorio - argomenta infine la Corte - da un lato garantire l'effettiva obbligatorieta' dell'azione penale contro le negligenze o le deliberate inerzie del p.m. conferendo al g.i.p. il potere di formulare l'imputazione e dall'altro negare al giudice dibattimentale di supplire ad analoghe condotte della parte pubblica; e cio' in quanto "l'attribuzione di tale potere ha anzi un fondamento maggiore, perche' i principi di legalita' e di eguaglianza - di cui quello dell'obbligatorieta' dell'azione penale e' strumento - esigono che il giudice sia messo in grado di porre rimedio anche alle negligenze ed inerzie del difensore". Orbene, se anche al giudice del dibattimento non puo' non essere affidata la funzione del controllo di legalita', si pone il problema se nel processo penale la prova possa essere in ultima analisi pur sempre condizionata all'iniziativa delle parti, che dispongono del materiale probatorio, inibendo al giudice - che puo' rivolgere domande ai testimoni, ai periti, ai consulenti tecnici e alle parti private gia' esaminate (art. 506, comma 2) - l'esame degli atti contenuti nel fascicolo del p.m. - che costituiscono gli elementi su cui si forma la prova - ai fini dell'esame testimoniale e delle contestazioni ai sensi dell'art. 500, nonche' dell'assunzione di nuovi mezzi di prova o dell'indicazione di temi di prova nuovi o piu' ampi. Con la normativa vigente viene infatti ad essere vanificato il controllo di legalita',che risulta effettivo solo al momento della richiesta di archiviazione (a seguito della quale il g.i.p., a conoscenza di tutti gli elementi acquisiti dal p.m., se ritiene necessarie ulteriori indagini, puo' indicarle all'organo dell'accusa), ma non anche quando il p.m. chiede il rinvio a giudizio, potendo in tal caso quest'ultimo sostanzialmente eludere detto controllo. L'esame degli atti di cui al fascicolo del dibattimento appare quindi rispondere alla ratio dell'art. 506 c.p.p., che da' al giudice il potere, in base ai risultati delle prove assunte nel dibattimento o a seguito delle letture disposte a norma degli artt. 511, 512 e 513 c.p.p., di indicare alle parti temi di prova nuovi o piu' ampi, utili per la completezza dell'esame, nonche' a quella dell'art. 507 c.p.p. che da' al giudice il potere di assumere nuovi mezzi di prova, se assolutamente necessari; e cio' in quanto l'esercizio di detto potere, finalizzato al controllo di legalita', non puo' essere limitato dalle conoscenze acquisite dall'istruttoria dibattimentale, ma deve fondarsi su una conoscenza estesa agli elementi in possesso del p.m., al fine di valutare se tutti i risultati d'indagine possano costituire presupposto per la completezza della prova. La necessita' di detto esame appare quindi diretta conseguenza dell'inesistenza del potere dispositivo delle parti in materia di prova, riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 241 del 1992 (v. supra) - laddove si chiarisce che l'inserimento (della) norma (di cui all'art. 507) "in un sistema processuale imperniato su un ampio riconoscimento del diritto alla prova e nel quale l'acquisizione del materiale probatorio e' rimessa in primo luogo all'iniziativa delle parti" "conferisce al giudice il potere-dovere d'integrazione, anche d'ufficio, delle prove per l'ipotesi in cui la carenza o insufficienza, per qualsiasi ragione, dell'iniziativa delle parti impedisca al dibattimento di assolvere la funzione di assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo, onde consentirgli di pervenire ad una giusta decisione" - nonche' dalla Corte di cassazione (s.u. 21/11/1992) - laddove si afferma che il potere di disporre l'assunzione di mezzi di prova risponde ad "una visione piu' realistica della funzione del giudice, che puo' e deve essere anche di supplenza dell'inerzia delle parti e deve esplicarsi in modo che tutto il tema della decisione gli possa essere chiarito", e cio' in quanto "la parita' delle armi delle parti normativamente enunciata puo' talvolta non trovare concreta verifica nella realta' effettuale, si' che il fine della giustizia della decisione puo' richiedere un intervento riequilibrante del giudice atto a supplire alle carenze di taluna di esse, cosi' evitando assoluzioni o condanne immeritate". Un ulteriore argomento sulla necessita' dell'esame del fascicolo del p.m. puo' trarsi dall'art. 500,comma 1 - ove e' previsto che le parti, per contestare in tutto o in parte il contenuto della deposizione, possono servirsi delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del dibattimento -, nonche' dall'art. 500, comma 4, - ove e' previsto che nel caso di difformita' le dichiarazioni utilizzate per la contestazione sono acquisite nel fascicolo per il dibattimento e sono valutate come prova dei fatti in esse affermati se sussistono altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilita'. Se infatti la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo e' condizione per pervenire ad una giusta decisione, anche quest'ultimo deve potersi servire delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del p.m. per poter integrare o supplire l'iniziativa delle parti e procedere ad eventuali contestazioni. La ricerca della verita' sembra pertanto imporre che il giudice dopo l'escussione di ogni teste disponga l'esibizione dei verbali delle dichiarazioni precedentemente rese al fine di poter procedere all'esame ed eventualmente a contestazioni; e alla fine dell'istruzione dibattimentale l'esibizione degli atti del fascicolo del p.m. per poter compiutamente valutare la necessita' di indicare nuovi o piu' ampi temi di prova o disporre l'assunzione di nuovi mezzi di prova. Solo in tal modo viene infatti attuata la tecnica migliore per la ricerca della verita', che da un lato si avvale nella formazione della prova della dialettica delle parti contrapposte, che, in quanto portatrici di interessi, garantiscono il massimo approfondimento dei temi di prova e dall'altro garantisce l'eliminazione di eventuali carenze nell'attivita' delle parti. Non puo' infatti essere trascurato il fatto che, mentre nel vecchio rito la dialettica era riservata alle argomentazioni intorno ad un oggetto, la ricostruzione del fatto operata da un organo pubblico (p.m. o giudice istruttore e poi giudice nell'istruzione dibattimentale), nel nuovo la formazione dialettica della prova tende a due diverse ricostruzioni del fatto stesso secondo ottiche differenti, anzi tendenzialmente opposte, rappresentate al giudice dalle parti. Nel vecchio codice il giudice, che conosceva la ricostruzione del fatto attraverso l'ordinanza del giudice istruttore e comunque attraverso il capo di imputazione ed il materiale istruttorio, con l'istruttoria dibattimentale verificava detta ricostruzione e sul materiale probatorio raccolto accusa e difesa proponevano le loro argomentazioni sicche' il loro intervento consisteva sostanzialmente nella discussione. Nel nuovo codice, che rispetto al vecchio ha operato un fondamentale passo in avanti, si da raggiungere la pienezza della giurisdizione, la ricostruzione non e' operata da un organo super partes quale e' il giudice, gia' a conoscenza del materiale accusatorio, ma dal p.m. e dalla difesa. sicche' non puo' sempre, almeno integralmente, essere scelta l'una o l'altra ricostruzione, che puo' risentire di un'ottica parziale, ma l'una o l'altra con dei correttivi, ovvero una terza che scaturisce dalla sintesi di elementi dell'una e dell'altra: in entrambi i casi nella formazione della prova non puo' non intervenire il giudice, sia pure in seconda istanza, al fine di garantire una giusta sentenza, che per esser tale deve essere conforme a verita', e questo intervento, per essere completo, non puo' prescindere dalla conoscenza di tutte le fonti di prova e dalla completezza dell'esame, da cui non possono essere escluse le contestazioni. ln altri termini, nel vecchio codice la ricostruzione del giudice, sia pure condizionata dalla pregressa conoscenza degli atti del p.m. o del giudice istruttore, consentiva una integrale conoscenza del materiale probatorio da parte dello stesso e quindi una prova completa, ma non del tutto garantita nella sua formazione; nel nuovo, il giudice, attraverso la formazione dialettica della prova, ha piu' completi strumenti di valutazione, ma una prova meno completa, in quanto potrebbero non essere stati sfruttati dalle parti tutti gli elementi a loro conoscenza. La conoscenza da parte del giudice dei predetti elementi, terminata l'acquisizione probatoria, avrebbe dunque la funzione di assicurare la completezza della prova, verificando la completezza stessa, ovvero raggiungendola con l'assunzione di nuove prove, senza che detta conoscenza possa condizionare la formazione del convincimento in quanto non acquisita ab origine (ma venendo, al contrario, acquisita proprio in funzione della formazione del convincimento stesso nel caso in cui le parti non abbiano tenuto conto di alcuni elementi nella formazione della prova, in quanto non ritenuti rilevanti nell'ottica parziale dell'accusa e della difesa). La questione, che ha ad oggetto l'esame da parte del giudice di tutti gli atti del fascicolo del p.m., terminata l'istruzione dibattimentale, appare rilevante anche nell'ipotesi in cui si dovesse ritenere applicabile l'art. 507 in forza di una interpretazione ancor piu' estensiva di quella desumibile dalle citate sentenze della Corte costituzionale e della Corte di cassazione, in quanto per un completo controllo di legalita' dovrebbero essere esaminate tutti gli atti e le dichiarazioni e non solo quella relativa alla richiesta della difesa di parte civile. Quanto in particolare alla rilevanza della questione dell'art. 506, comma 2, va considerato che essendo stati dichiarati utilizzabili gli atti assunti da altro magistrato, solo al termine dell'istruzione dibattimentale questo giudicante ha potuto valutare la necessita' di una ricitazione dei testi per poter porre domande ed eventualmente contestare il contenuto delle deposizioni. Ove pero' si dovesse ritenere che l'intervento del giudice dopo l'escussione di ogni teste sia molto piu' incisivo di quello consistente nel porre domande e potrebbe in qualche modo interferire nella formazione dialettica della prova, che comprende tutti gli atti dell'istruzione dibattimentale, il potere del giudice si fonderebbe sull'art. 507 e non si porrebbe nel caso di specie alcun problema di rilevanza.