LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE
   Ha pronunciato la seguente ordinanza sul  ricorso  iscritto  al  n.
 2116 dell'anno 1997 del r.g.r. vertente tra Emme Emme di De Francesco
 Maria    C.  s.n.c.,  in  persona  del  legale rappresentante sig. De
 Francesco  Maria,  elettivamente  domiciliata  in  Chieti  alla   via
 Arcivescovado  n.  32 presso lo studio dell'avv. Giancarlo Fiordelli,
 rappresentata e difesa dagli avvocati  prof.  Lucio  V.  Moscarini  e
 Salvatore  De  Simone  in  virtu'  di  procura a margine del ricorso,
 ricorrente; e Ufficio distrettuale delle imposte  dirette  di  Vasto,
 resistente.
   Oggetto:  impugnazione  del  provvedimento adottato il 23 settembre
 1997 dall'Ufficio distrettuale delle imposte dirette di Vasto,  prot.
 n.   44  -  mod.  22,  notificato  il  successivo  25  settembre,  di
 annullamento della proposta di accertamento con adesione, "nonche' di
 ogni atto presupposto, conseguenziale  e  comunque  connesso,  ed  in
 particolare, si opus sit, gli avvisi di accertamento Ilor e Irpef nn.
 3112000184  -  33111003936  -  3111003936,  tutti  notificati  il  25
 settembre 1997".
                              Conclusioni
   Per la ricorrente: "annullare il provvedimento impugnato  con  ogni
 conseguenziale  statuizione  anche  in ordine alle spese di giudizio.
 In subordine e per l'invero denegata ipotesi in cui  il  ricorso  non
 dovesse essere giudicato fondato, si confida che l'ecc.ma Commissione
 adita  voglia  sollevare  la questione di legittimita' costituzionale
 con riguardo all'art.  3,  del  d.-l.  30  settembre  1994,  n.  564,
 modificato  dalla  legge  18 ottobre 1995, n. 427, per i motivi sopra
 spiegati, rimettendo cosi' gli  atti  alla  Corte  costituzionale,  e
 all'esito  annullare  egualmente  il provvedimento impugnato con ogni
 pronuncia conseguenziale".
   Per il  resistente:  "rigettare  il  ricorso  di  cui  all'oggetto,
 confermando  quindi  in  pieno  i  contenuti  dell'accertamento.  Con
 vittoria di spese ed onorari di giudizio, come per legge".
                       Svolgimento del processo
   Con  ricorso  notificato  il  20  novembre  1997  e  depositato  il
 successivo  28  novembre,  la  Emme Emme di   De Francesco Maria   C.
 s.n.c.  impugnava  (1)   il   provvedimento   adottato   dall'Ufficio
 distrettuale  delle  imposte  dirette  di  Vasto il 23 settembre 1997
 (prot. n. 44/Mod. 22), e notificatole il 25 settembre  con  il  quale
 era  stata  annullata, ai sensi dell'art.  68, comma 1, del d.P.R. n.
 287/92, sia la proposta di accertamento con adesione,  in  precedenza
 rivoltale,  per  l'anno  d'imposta 1991 e sia, in via conseguenziale,
 "l'intero atto di accertamento con adesione relativamente allo stesso
 anno d'imposta", nonche' (2) ogni altro atto ad  essa  determinazione
 di   annullamento   presupposto,   connesso   e  conseguenziale,  con
 particolare riferimento agli avvisi di accertamento Ilor ed Irpef nn.
 3112000184,  33111003936,  3111003936,  portati  ugualmente   a   sua
 conoscenza lo stesso 25 settembre.
                             In  f a t t o
   Esponeva:
     a)  di aver ricevuto dall'amministrazione finanziaria la proposta
 di accertamento con adesione di cui all'art. 3, del decreto-legge  n.
 564/94, convertito nella legge n. 656/94, per l'anno d'imposta 1991;
     b)   di  avervi  aderito,  presentando  il  modello  di  adesione
 all'Ufficio,  distrettuale  delle   imposte   dirette      di   Vasto
 congiuntamente  alle quietanze attestanti il pagamento della maggiore
 imposta, delle sanzioni e degli interessi;
     c) di essere  stato  adottato,  in  data  31  ottobre  1995,  dal
 predetto  Ufficio un provvedimento di revoca della citata proposta di
 accertamento, motivato dalla  "conoscenza  di  elementi  ostativi  di
 carattere   penale   in  epoca  antecedente  a  quella  dell'avvenuto
 pagamento degli importi proposti";
     d) di aver immediatamente impugnato tale revoca dinanzi al t.a.r.
 Abruzzo,  sezione  staccata di Pescara, deducendone la illegittimita'
 per "violazione e falsa applicazione dell'art. 3, comma 1,  legge  30
 settembre  1994,  n.  656  e successive modifiche", per "violazione e
 falsa applicazione dell'art. 3, d.-l.  30  settembre  1994,  n.  564,
 cosi' come modificato dalla legge 18 ottobre 1995, n. 427. Difetto di
 motivazione"  nonche'  per  "eccesso  di  potere,  in particolare per
 travisamento dei fatti e sviamento";
     e) di aver formulato, nel corso dello stesso giudizio, dei motivi
 aggiunti, prospettando la "violazione sotto altro  profilo  di  fatto
 delle norme e principi la cui violazione e' stata gia' denunciata con
 il  secondo  e  terzo  motivo del ricorso principale" ed allegando la
 falsita' dell'assunto, sul quale era fondata la revoca, secondo  cui,
 in  epoca  antecedente  alla  proposta  di  accertamento  ed alla sua
 accettazione da parte della societa' Emme Emme,  era  stata  iniziata
 l'azione  penale  nei  confronti  degli amministratori della stessa o
 comunque erano state rilevate delle tracce  di  reita'  a  carico  di
 questi  ultimi,  poiche'  delle  presunte  circostanze  che  potevano
 assumere  rilevanza  penale  l'amministrazione  ne  aveva   acquisito
 conoscenza  soltanto  il  12  ottobre 1995, e quindi in data di molto
 successiva a quella del 10 luglio 1995, in cui  si  era  esaurito  il
 procedimento  di  accertamento  con  adesione  ed  era cosi' divenuto
 intangibile il concordato che lo aveva definito;
     f)  di  aver  accolto  il  giudice  amministrativo   la   domanda
 incidentale  di  sospensione,  proposta  contestualmente al succitato
 ricorso, limitandone tuttavia gli effetti a mesi tre, affinche'  essa
 ricorrente  potesse impugnare l'avviso di rettifica n. 820152/96, con
 il quale l'Ufficio I.V.A. di Chieti aveva dato seguito alla  disposta
 revoca  della  proposta di accertamento, intimando il pagamento della
 maggiore imposta e degli accessori;
     g) di aver impugnato quest'ultimo  atto  dinanzi  la  Commissione
 tributaria  provinciale  di Chieti, che, in accoglimento dell'istanza
 cautelare contemporaneamente avanzata, ne aveva sospeso l'efficacia;
     h) di aver,  nel  dubbio  circa  la  potesta'  giurisdizionale  a
 decidere  sui  suindicati  provvedimenti  di  revoca  e di rettifica,
 contestualmente interposto entrambe le  impugnative  sia  innanzi  al
 giudice  amministrativo  che dinanzi a quello tributario e, dopo aver
 ottenuto da parte di  ambedue  tali  organi  giudicanti  le  invocate
 sospensioni,  di  aver proposto regolamento di giurisdizione, al fine
 di fugare la detta incertezza;
     i) di avere l'Ufficio basato il  provvedimento  di  annullamento,
 odiernamente  impugnato,  sulla    circostanza  - contrastante con la
 documentazione depositata nel suddetto giudizio amministrativo -  che
 "l'Ufficio  I.V.A.  di  Chieti  avrebbe acquisito prima dell'adesione
 della  Societa'  alla  proposta  di  accertamento  atti  e  documenti
 relativi ai rapporti economici intercorsi tra la societa' Emme Emme e
 la  U.S.L.  di Bari 11 e dunque sarebbe stata a conoscenza, prima del
 perfezionamento del procedimento di  accertamento  con  adesione,  di
 elementi  ostativi  di carattere penale".  Deduceva la illegittimita'
 degli atti impugnati ed affidava il gravame ai seguenti motivi:
     1) "violazione e falsa applicazione dell'art. 3, legge  7  agosto
 1990,  n.  241,  e  di  ogni  altra  norma  e principio in materia di
 integrazione della motivazione dell'atto amministrativo - Eccesso  di
 potere  sotto il profilo della manifesta vessatorieta', della carenza
 di  interesse  e  della  sostanziale  violazione  delle  ordinanze di
 contenuto  sospensivo  adottate  dal  TA.R."  e   dalla   Commissione
 tributaria   provinciale  di  Chieti,  sostenendo:    a)  che  l'atto
 impugnato e' meramente replicativo del provvedimento di  revoca  gia'
 adottato,  differenziandosene  soltanto  per "la maggiore attenzione"
 mostrata  dall'amministrazione  "nel  motivare  il  suo   potere   di
 autotutela  e le ragioni che consigliavano il suddetto annullamento";
 b) che esso avendo - l'amministrazione "gia' provveduto a revocare la
 proposta di accertamento" -  e' unicamente finalizzato a confutare le
 argomentazioni e le deduzioni da essa prospettate nei giudizi dinanzi
 al t.a.r. ed alla Commissione tributaria, per cui se ne deve desumere
 la sua natura persecutoria, avendo  sostanzialmente  da  un  lato  lo
 scopo di eludere le ordinanze di sospensione gia' emesse e dall'altro
 quello  di  azionare    nuovamente  una pretesa tributaria allo stato
 inibita  dalle  predette  decisioni  interinali;  c)  che   eventuali
 ulteriori  argomentazioni  dovevano,  da  parte  dell'ufficio, essere
 ritualmente addotte nei giudizi in  corso  e  non  fatte  valere  con
 un'ulteriore  atto  tributario, poiche' con tale modus procedendi era
 stata illegittimamente gravata dell'onere di  impugnarlo  e  venivano
 nullificati gli effetti delle pronunce cautelari ad essa favorevoli;
     2)  Violazione e falsa applicazione dell'art. 68, d.P.R. 27 marzo
 1992, n. 287, e di  ogni  altra  norma  e  principio  in  materia  di
 esercizio del potere di autotutela in pregiudizio per il contribuente
 -   Eccesso  di  potere  per  difetto  di  interesse,  illogicita  ed
 irragionevolezza", poiche':   a) la ratio  dell'art.  68  del  d.P.R.
 287/92, intitolato "tutela dei contribuenti e trasparenza dell'azione
 amministrativa",  e'  quella  di tutelare il contribuente e quindi il
 presupposto  per  il  legittimo  esercizio  del  relativo  potere  di
 autotutela,  da  tale  norma  attribuita  agli  uffici finanziari, e'
 quello  della  commissione  di   "errori   pregiudizievoli   per   il
 contribuente";     b)     la     stessa    disposizione    "impedisce
 all'amministrazione finanziaria  di  annullare  propri  provvedimenti
 quando  da tale annullamento possa derivare un danno alle ragioni del
 contribuente  che  verrebbe  privato  della  tutela   in   precedenza
 riconosciutagli";
     3)  "violazione  e falsa applicazione dell'art. 3, comma 1, della
 legge  30  settembre  1994,  n.  364,  e  successive   modificazioni,
 dell'art.    8  del Regolamento 13 aprile 1995, n. 177, nonche' degli
 artt. 1326 e segg. c.c. e di ogni altra norma e principio in  materia
 di conclusione degli accordi stipulati iure privatorum", sul rilievo:
 a)   che,   per   effetto   dell'adesione   alla  proposta  formulata
 dall'Ufficio e del contestuale versamento  delle  somme  dovute,  "il
 procedimento   di  formazione  del  patto  fiscale"  deve  "ritenersi
 concluso e definitivamente perfezionato con l'incontro  dei  consensi
 avvenuto"  il  10  luglio  1995;  b)  che l'art. 8 del Regolamento n.
 177/95  dispone   la   irrevocabilita',   la   inoppugnabilita',   la
 immodificabilita'  e  la  non  integrabilita'  dell'accertamento  con
 adesione; c) che l'eventuale  riferimento  "a  norme  e  principi  in
 materia  di  conclusione  di  accordi  di  natura  contrattuale"  non
 muterebbe i termini della risoluzione della  questione  in  senso  ad
 essa favorevole;
     4)  "violazione  e  falsa  applicazione  dell'art. 3 del d.-l. 30
 settembre 1994, n. 564, modificato dalla legge  18 ottobre  1995,  n.
 427,  nonche' dell'art. 1 della circolare 7 settembre 1995, n.  237/E
 - Eccesso di potere per  difetto  di  istruttoria,  irragionevolezza,
 perplessita'   dell'azione   amministrativa  -  Difetto  assoluto  di
 motivazione", sulla base delle considerazioni che seguono:    a)  "al
 momento  del  perfezionamento  del  procedimento  di accertamento con
 adesione, e cioe' al  10 luglio 1995, non sussistevano cause ostative
 di ordine penale", anche in virtu' del contenuto della circolare
  esplicativa n. 237/E del 7 settembre 1995 secondo cui  "i  fatti  di
 rilevanza penale devono emergere prima dell'avvenuto pagamento totale
 delle  somme  richieste";  b) l'ufficio alla predetta data "non era a
 conoscenza di elementi comprovanti la  violazione"  di  norme  penali
 riconducibili  all'amministrazione  della  societa' ne' all'uopo, con
 riferimento all'indicato giorno, era stata presentata alcuna denuncia
 e/o pendeva procedimento penale per i reati previsti dalla  legge  n.
 516/82;  c)  in  ogni  caso,  ove  l'amministrazione  fosse  venuta a
 conoscenza in epoca antecedente al 10 luglio 1995, ad esempio -  come
 da   essa   ipotizzato   -  l'8  luglio,  di  circostanze  preclusive
 l'ammissibilita'   dell'accertamento   con    adesione,    costituite
 dall'acquisizione  di elementi configuranti i reati di cui agli artt.
 da 1 a 4 del   d.-l. n. 429/82, convertito  dalla  legge  n.  516/82,
 l'ufficio non avrebbe dovuto "accettare l'adesione esplicando in sede
 di presentazione le ragioni dell'inammissibilita' e contestualmente o
 anche  prima  di  cio' comunicare la notizia di reato conosciuta alla
 competente autorita' inquirente"; d)  peraltro,  "la  mancanza  delle
 notizie di rilevanza penale da parte dell'ufficio finanziario in data
 antecedente  al  versamento  si  desume e trova piena conferma" nella
 richiesta di proroga delle indagini preliminari - iniziate sulla base
 della denunzia sporta dall'ufficio dopo aver avuto  cognizione  della
 notizia  di reato inerente la sussistenza di presunte responsabilita'
 penali ex lege n. 516  cit.  ascrivibili  agli  amministratori  della
 societa'  -  avanzata,  in  data  28  settembre  1996, dal p.m. della
 procura della Repubblica presso il  tribunale  di  Vasto  al  g.i.p.,
 dalla  quale  risulta  che gli ipotizzati fatti delittuosi sono stati
 accertati in Vasto il 12 ottobre 1995";
     5) "violazione sotto altro profilo delle stesse norme e  principi
 la cui violazione e' stata gia' denunciata con i precedenti motivi di
 ricorso",  poiche'  -  in ogni caso - i fatti aventi rilevanza penale
 non si sarebbero potuti rinvenire "in una nota della U.S.L.  di  Bari
 con  allegata  fotocopia  della  fattura n. 28 del 6 settembre 1991",
 della quale l'amministrazione  rappresentava  di  esserne  venuta  in
 possesso   l'8   luglio   1995,  bensi'  essi  scaturivano,  a  mente
 dell'assunto  dello  stesso  ufficio  (formulato   nel   verbale   di
 constatazione  n.  118  del 28 ottobre 1995), "da un raffronto tra il
 documento inviato dalla U.S.L. di Bari, altro esemplare della fattura
 esibito dalla societa' Emme Emme ed  i  registri  contabili  relativi
 alla gestione dell'Albergo Roma e della Villa Maristella", per cui la
 probabile  sussistenza  di  fattispecie di reato "non e' derivato dal
 semplice ricevimento della nota della U.S.L. di Bari e della  fattura
 ad  essa  allegata,  ma  solo  da  un  successivo  approfondito esame
 comparato    di    tutta    la     documentazione     in     possesso
 dell'amministrazione,   compiuto   soltanto   molti   mesi  dopo"  il
 ricevimento della predetta nota "e precisamente  nell'ottobre  1995".
 Subordinatamente  al  mancato  accoglimento  delle  dette censure, la
 ricorrente  osservava che alcuni giudici tributari avevano sospettato
 della legittimita' costituzionale dell'art. 3 del d.-l. n. 564  cit.,
 siccome  contrastante  con il principio della presunzione d'innocenza
 dell'imputato,  enunciato  dall'art.  27   Cost.,   con   quello   di
 uguaglianza,  nonche' con il canone della ragionevolezza, anche sotto
 il profilo che le precedenti  discipline  legislative  emanate  nella
 materia  de  qua  (del 1982 e del 1991) non prevedevano l'ostativita'
 del beneficio nella ipotesi, contemplata dalla predetta norma, in cui
 l'ufficio fosse venuto a conoscenza di elementi, dati e notizie - che
 avrebbero potuto configurare dei reati  -  comportanti  l'obbligo  di
 denuncia all'A.G.O.
   Spiegava, pertanto, le conclusioni trascritte in epigrafe.
   Costituitosi  in  giudizio,  l'Ufficio  distrettuale  delle imposte
 dirette di Vasto contestava la fondatezza   del ricorso,  chiedendone
 la  reiezione  sull'assunto  della  legittimita' del proprio operato;
 l'ente, in particolare,  deduceva:
     1) la sostanziale differenza fra  gli  istituti  della  revoca  e
 dell'annullamento;
     2)  la validita' e la legittimita' dell'annullamento disposto con
 l'atto impugnato, anche perche' lo scopo dell'art. 68 del d.P.R.   n.
 287/92  non  e'  quello di tutelare il contribuente ma di "consentire
 all'amministrazione finanziaria  di  procedere  all'annullamento  dei
 propri atti riconosciuti illegittimi o infondati";
     3) la sussistenza di un vizio del consenso nella formazione della
 volonta'  dell'ufficio,  nell'ambito del procedimento di accertamento
 con adesione, costituito  dalla  esistenza  di  cause  ostative  alla
 definizione dello stesso;
     4)  l'invalidita'  dell'atto  di adesione per la presenza di tale
 motivo viziante;
     5)  l'acquisizione  di  fatti  di  rilevanza  penale   in   epoca
 antecedente  al  10  luglio 1995, poiche' "in data 28 giugno 1995 e 8
 luglio 1995  l'Ufficio  I.V.A.  di  Chieti  entrava  in  possesso  di
 documenti  provenienti  dalla  U.S.L.  di  Bari  che, confrontati con
 quelli facenti parte della contabilita' della societa' Emme Emme,  in
 quel  momento  soggetta  a  verifica  da  parte  dell'ufficio stesso,
 facevano emergere quegli elementi ostativi di carattere penale  posti
 a  base  del successivo annullamento dell'atto di adesione. Infatti i
 documenti contabili esistenti presso la societa'  messi  a  raffronto
 con  le  copie degli stessi inviate dalla U.S.L. di Bari, risultavano
 diversi nella forma  e  nella  sostanza  e,  senza  che  si  rendesse
 necessario   fare   ricorso   ad   altro  processo  logico,  emergeva
 immediatamente e chiaramente l'esistenza di fatti che,  per  la  loro
 rilevanza  penale,  inducevano  lo  stesso  Ufficio  I.V.A.   a darne
 comunicazione all'Ufficio delle imposte, perche' lo stesso  prendesse
 le   iniziative   necessarie   per  la  revoca  della    proposta  di
 accertamento con adesione";
     6) la decisivita' che le "cause ostative siano emerse  prima  del
 perfezionamento  dell'atto di adesione, cosa che risultava ictu oculi
 dal semplice raffronto di due documenti che avrebbero  dovuto  essere
 identici   e   al   contrario   erano  completamente  difformi  l'uno
 dall'altro".  Le parti hanno depositato memorie, con le quali  hanno,
 fra l'altro, ulteriormente illustrato le proprie difese.  All'odierna
 pubblica  udienza, all'esito della discussione, la causa veniva posta
 in deliberazione ed indi decisa come da dispositivo.
                             D i r i t t o
   Va  pregiudizialmente  affermata  la  potesta'  giurisdizionale del
 giudice tributario nella controversia   de qua (tale  questione,  pur
 non  essendo  stata  prospettata  dalle parti, il Collegio ritiene di
 doverla esaminare d'ufficio).
   L'art.  19  del  d.lgs.  n.  546/92,  nell'elencazione  degli  atti
 impugnabili    dinanzi   le   commissioni   tributarie,   ricomprende
 nell'ambito degli  stessi  "l'avviso  di  accertamento  del  tributo"
 (comma  1, lettera a)) e "il diniego o la revoca di agevolazioni o il
 rigetto di domande di definizione agevolata  di  rapporti  tributari"
 (let. h)).
   Tale   elencazione  pur  dovendo  ritenersi  tassativa,  attesa  la
 previsione di  cui  al  comma  terzo,  primo  periodo,  della  citata
 disposizione,  laddove  si  sancisce che: "Gli atti diversi da quelli
 indicati non sono impugnabili  autonomamente"  deve  coordinarsi  con
 l'art.  2  del d.lgs. 546 cit., che delimita la sfera oggettiva della
 giurisdizione tributaria.  Ne consegue che il dato normativo espresso
 dall'art. 19 cit.  va  interpretato  estensivamente,  allo  scopo  di
 ricomprendere  nelle  categorie  in esso contemplate quegli atti che,
 indipendentemente    dalla    loro    intitolazione,     appartengano
 sostanzialmente  alle  stesse;  Tale  opzione  ermeneutica e' affatto
 necessitata  ai  fini  della  tutela  del  diritto  di   difesa   del
 contribuente,  poiche'  i procedimenti con i quali puo' estrinsecarsi
 la potesta' tributaria, sovente  articolantisi  in  sub-procedimenti,
 sono  talmente  variegati  e complessi, soprattutto per effetto della
 continua evoluzione della legislazione in  materia  fiscale,  da  cui
 scaturisce  la incessante introduzione di nuove forme provvedimentali
 adottabili dalla  p.a.,  che  non  risulta  obiettivamente  possibile
 prestabilire  aprioristicamente  la  tipologia degli atti con cui, in
 maniera  diretta  o  indiretta,  viene  a  manifestarsi  la   pretesa
 impositiva.     A  cio'  aggiungasi  che  l'enucleazione  degli  atti
 impugnabili dev'essere necessariamente adeguata alle  innumerevoli  e
 multiformi  fasi della procedura di applicazione e di riscossione dei
 tributi.  D'altronde, nella vigenza dell'art. 16  del  d.P.R.  636/72
 (attualmente  abrogato  dal  d.lgs.  546 ult. cit.), le sezioni unite
 della  S.C.   avevano   esplicitamente   accolto   "l'interpretazione
 estensiva  della nozione di atto di accertamento" (sent. n. 661 del 3
 febbraio  1986);   coerentemente,   si   era   ritenuta   ammissibile
 l'impugnabilita'  di  un  provvedimento  di rigetto di una istanza di
 condono sul presupposto che esso e' assimilabile,  sotto  un  profilo
 sostanziale,  ad  un atto di accertamento (cfr., in tal senso, Cass.,
 sez. I, 7 settembre 1991, n. 9429).  La Corte costituzionale,  a  sua
 volta,  ha affermato che per accertamento tributario (suscettibile di
 impugnazione) deve "intendersi un atto  efficace  nei  confronti  del
 soggetto  passivo  di  imposta, conclusivo di un procedimento o di un
 subprocedimento  di   accertamento   comunque   denominato;   di   un
 procedimento  cioe' che accerta e dichiara la sussistenza, in tutto o
 in parte, dell'obbligazione tributaria o di un suo elemento";  ed  ha
 soggiunto  che  la impugnabilita' deve essere riconosciuta "qualunque
 sia la forma e la denominazione dell'atto" (Corte  cost.  6  dicembre
 1985, n. 313).  Orbene, appare di tutta evidenza che il provvedimento
 di annullamento della proposta di accertamento con adesione emesso il
 23  settembre 1997 dall'Ufficio distrettuale delle imposte dirette di
 Vasto,  impugnato  in  questa  sede,  accertando  e  dichiarando   la
 esclusione  della  forma  di  definizione  dell'accertamento prevista
 dall'art. 3 del d.-l. 564/94 conv. in  legge  con  legge  656/94,  si
 sostanzia  in  un  rigetto della domanda di definizione agevolata del
 rapporto tributario ed e' pertanto annoverabile  nella  categoria  di
 atti  di cui alla suddetta let. h), dell'art. 19 ult. cit.  Peraltro,
 pur volendosi nutrire dei dubbi in proposito, e' indubitabile che  il
 provvedimento  in  esame sia essenzialmente riconducibile - in virtu'
 della suindicata scelta esegetica - in quella categoria.
   Passandosi al merito, va senz'altro disatteso il primo motivo.
   Difatti, con il precedente provvedimento  adottato  il  31  ottobre
 1995,  prot.  n.  46/mod.  22,  era  stata  disposta  la revoca della
 "proposta di accertamento con adesione  a  suo  tempo  formulata  nei
 confronti" della societa' Emme Emme "per l'anno 1991" e per l'effetto
 era  stata  dichiarata  "inammissibile l'adesione della societa' alla
 predetta proposta".  Invece, con l'atto impugnato in questa sede sono
 stati annullati sia "la proposta di accertamento con adesione  a  suo
 tempo  indirizzata  alla  societa'  "Emme  Emme di De Francesco Maria
 s.n.c." per l'anno d'imposta 1991" che "l'intero atto di accertamento
 con adesione relativamente allo stesso anno d'imposta".   Orbene,  la
 revoca  di  un  atto  amministrativo consiste nell'eliminazione dello
 stesso per ragioni di merito, cioe' di convenienza e di opportunita',
 mentre con l'annullamento tale rimozione avente efficacia ex tunc  e'
 determinata da motivi di legittimita' (cfr., in tal senso, ex multis,
 Cons.  Stato,  sez.  V,  21 ottobre 1992, n. 1049).   In sostanza, il
 presupposto  essenziale   ed   indefettibile   dell'annullamento   e'
 costituito  dalla  circostanza  che  l'amministrazione abbia posto in
 essere un atto geneticamente illegittimo, a differenza  della  revoca
 che  non  postula  affatto  una  siffatta  illegittimita'  bensi'  si
 estrinseca in una riconsiderazione della situazione di fatto e  degli
 elementi   di   diritto   che   avevano   portato   alla   precedente
 determinazione.  Da tale sostanziale diversita',  in  ordine  sia  ai
 presupposti che agli effetti di tali mezzi di riesame attribuiti alla
 p.a.   (e   segnatamente   allo  stesso  organo  che  ha  emanato  il
 provvedimento  oggetto  di  rivisitazione,  poiche'  "il  potere   di
 provvedere   in   via   esclusiva  su  determinati  affari  comprende
 necessariamente  e  coerentemente  anche  quello  dell'adozione   del
 contrarius  actus:  Cons.  Stato,  sez.  V,  30 aprile 1997, n. 424),
 discende la possibile coesistenza, in ordine  ad  un  pregresso  atto
 amministrativo, di una revoca e di un annullamento dello stesso.  Ne'
 il  disposto  annullamento  concreta  un  provvedimento elusivo delle
 pronunce cautelari emesse dal t.a.r. e dalla  Commissione  tributaria
 in quanto le stesse hanno avuto ad oggetto la suindicata revoca.
   Miglior sorte non puo' essere riservata alla seconda censura.
   Il  comma 1, dell'art. 68, del d.P.R. 287 del 1992, non puo' essere
 interpretato, come preteso dalla societa' ricorrente, nel  senso  che
 il potere di annullamento in esso previsto sarebbe posto ad esclusivo
 presidio  della  posizione  del  contribuente,  ossia  che  esso  sia
 esercitabile soltanto quando costui ne tragga  vantaggio.    Difatti,
 tale  norma prevede testualmente che "gli uffici dell'amministrazione
 finanziaria possono procedere all'annullamento, totale o parziale, di
 propri atti riconosciuti illegittimi o  infondati  con  provvedimento
 motivato   comunicato   al   destinatario  dell'atto",  senza  alcuna
 specificazione circa l'eliminabilita' dell'atto nella sola ipotesi in
 cui dalla stessa scaturisca un beneficio per  i  contribuenti.    Ne'
 puo',  in  proposito,  utilmente  farsi riferimento all'intitolazione
 della disposizione,  esplicitata  con  la  "tutela  dei  diritti  dei
 contribuenti"  e  con  la  "trasparenza  dell'azione amministrativa",
 poiche' tali enunciazioni hanno una valenza meramente programmatica e
 quindi sono prive di quella portata precettiva che dovrebbe vincolare
 l'interprete nell'esegesi del contenuto della norma.  D'altro  canto,
 l'art.  2-quater,  del d.-l. 564, ult. cit. - proprio con riferimento
 sia all'accertamento con adesione  c.d.  "a  regime"  ex  art.  2-bis
 (abrogato  dall'art.  17  del  d.lgs.  19  giugno  1997,  n.   218, e
 sostituito dall'art. 2 di detto decreto legislativo che ha introdotto
 un nuovo meccanismo di definizione  del  rapporto  d'imposta)  che  a
 quello,  contemplato  dall'art.  3  (ricorrente  nel caso di specie),
 relativo agli anni pregressi al  1994  -  prevede  espressamente  che
 l'Amministrazione,  nell'esercizio  del  potere  di autotutela, possa
 annullare o revocare gli "atti illegittimi o infondati" e  rimette  a
 decreti   del  Ministro  delle  finanze  l'indicazione  degli  organi
 all'uopo competenti.
   Anche il terzo motivo non appare suscettibile di avallo.
   L'istituto dell'accertamento con adesione, ex  art.  3  ult.  cit.,
 costituisce una forma atipica di definizione del rapporto tributario,
 che  prescinde  da  un'analisi  delle varie componenti dei redditi ed
 esaurisce il  rapporto  stesso  mediante  definizione  forfettaria  e
 immediata,  nella  prospettiva di recuperare risorse finanziarie e di
 ridurre il contenzioso; esso  si  perfeziona,  ex  comma  4,  secondo
 periodo, dell'art. 2-bis, ult. cit., "con il pagamento delle maggiori
 somme dovute per effetto dell'adesione, che sono versate in base alle
 norme  sull'autoliquidazione";  coerentemente,  il successivo comma 5
 (sostanzialmente riprodotto nel comma 1, dell'art. 8, del  d.P.R.  13
 aprile 1995, n.  177, recante "norme per l'esecuzione dell'art. 3 del
 decreto-legge  30  settembre  1994, n. 564, convertito nella legge 30
 novembre    1994,    n.    656,     relativamente     all'attivazione
 dell'accertamento   con   adesione  del  contribuente  per  gli  anni
 pregressi al 30 settembre 1994"  stabilisce  che  lo  stesso  non  e'
 soggetto  ad impugnazione, non e' integrabile o modificabile da parte
 dell'ufficio".  Tale definizione e' tuttavia inammissibile, ex  comma
 2,  dell'art.    2-bis, ult. cit.; "quando sulla base degli elementi,
 dati e notizie a conoscenza dell'ufficio e'  configurabile  l'obbligo
 di  denunzia  all'autorita' giudiziaria per i reati di cui agli artt.
 1, primo comma, 2, terzo comma, 3 e 4 del d.-l. 10  luglio  1982,  n.
 429,  convertito,  con  modificazioni,  dalla legge 7 agosto 1982, n.
 516, e successive modificazioni", nonche' nell'ipotesi in cui "per  i
 medesimi reati risulta essere stato presentato rapporto dalla Guardia
 di  finanza o risulta essere stata avviata l'azione penale".  Dunque,
 la pur abile argomentazione svolta dalla ricorrente, secondo cui, una
 volta intervenuto l'accordo e  quindi  stipulato  il  patto  fiscale,
 quest'ultimo  sarebbe  divenuto intangibile e percio' irretrattabile,
 non merita consenso, poiche'  la  sussistenza  di  una  delle  appena
 citate   condizioni   preclude   ab   origine   l'ammissibilita'  del
 procedimento di accertamento con adesione - rendendo invalidi sia  la
 proposta  che  l'atto  di  adesione e quindi l'accertamento nella sua
 interezza - e legittima l'Amministrazione all'esercizio del potere di
 autotutela.
   Egualmente  inaccoglibile e' il quarto motivo nella parte in cui si
 denunzia il vizio motivazionale  che  inficerebbe  l'atto  impugnato.
 Invero,   la   problematica   dell'identificazione  dell'oggetto  del
 processo tributario ha suscitato, in dottrina ed  in  giurisprudenza,
 un  ampio  dibattito,  nel quale sono venuti emergendo due indirizzi:
 quello secondo il quale tale processo va considerato come giudizio di
 impugnazione dell'atto, circoscritto, percio',  alla  verifica  della
 legittimita'    dello    stesso,   avuto   riguardo,   tra   l'altro,
 all'adeguatezza della motivazione; e quello secondo il quale esso  ha
 per  oggetto  il  rapporto  obbligatorio  di imposta, nell'ambito del
 quale il giudice deve accertare la validita'  dei  presupposti  della
 pretesa  dell'amministrazione, assunti a fondamento del provvedimento
 impugnato.    Orbene,  il  Collegio  ritiene  di  dover  optare   per
 quest'ultimo   orientamento,   che   sembra  essersi  definitivamente
 affermato   a   discapito   dell'altro,   aderendo,   fra    l'altro,
 all'opinamento  espresso dalla impareggiabile Cass., ss.uu., 9 giugno
 1989, n. 2786, secondo cui la giurisdizione tributaria, a  differenza
 di  quella  amministrativa,  non e' un processo di mero annullamento,
 coinvolgendo anche il rapporto tributario contro il  quale  l'attacco
 e' ammesso nei limiti segnati dall'art. 16 del d.P.R. n. 636 del 1972
 ...  omissis  ..., ancorche' il relativo giudizio "se necessariamente
 intermediato  dall'impugnazione   dell'atto   attraverso   il   quale
 l'amministrazione  finanziara  formula  la  pretesa,  costituente  lo
 schermo  da  infrangere   imprescindibilmente   per   giungere   alla
 cognizione del rapporto (cfr. significativamente le sentenze nn. 1471
 del  1980,  3047  del 1984, 661, 1419, 2246 del 1986, 4852 del 1987 e
 5883 del 1988).   Pertanto, pur volendosi  ritenere  sussistente  una
 carenza   motivazionale   di  carattere  relativo  (nel  senso  della
 incompleta esternazione delle ragioni  dell'annullamento),  cio'  non
 comporterebbe  la  definizione del giudizio con una mera declaratoria
 di illegittimita' (e quindi con l'annullamento) dell'atto  impugnato,
 dovendosi  decidere  la lite nel merito, ossia accertare la validita'
 sostanziale, o meno, del provvedimento de  quo.    Diversamente,  una
 assoluta  mancanza  di  motivazione  -  ricorrente nelle evenienze di
 totale assenza della stessa ovvero  di  una  sua  estrinsecazione  in
 argomentazioni  non  idonee  a rivelare la ratio della determinazione
 amministrativa  (c.d.  motivazione   apparente)   o   fra   di   loro
 inconciliabili o comunque perplesse od obiettivamente incomprensibili
 (com'e'  dato  di  rilevare,  trattasi di "ipotesi scolastiche" - non
 puo' che comportare la declaratoria di nullita'  dell'atto  inficiato
 da  una  cosi'  radicale  invalidita',  ossia  da un difetto di forma
 indispensabile al  raggiungimento  dello  scopo.    E  non  puo'  non
 rilevarsi   la   insussistenza,   nel   caso   de  quo,  della  detta
 illegittimita'  formale  poiche'  il  gravato  provvedimento  esprime
 compiutamente    ed   esaurientemente   le   ragioni   del   disposto
 annullamento,  mediante   la   enunciazione   della   circostanza   -
 consistente  nell'asserita  conoscenza,  da  parte  dell'Ufficio, "di
 elementi  per  i  quali  era  configurabile  l'obbligo  di   denunzia
 all'autorita' giudiziaria per alcuni dei reati" indicati nel comma 2,
 dell'art.    2-bis,    ult.    cit.   -   che   avrebbe   determinato
 l'inammissibilita' dell'accertamento con adesione.  Ne' la  doglianza
 sarebbe  suscettibile di avallo ove la si volesse intendere nei senso
 che l'Ufficio, nell'adottare l'atto impugnato, non avrebbe provato la
 detta circostanza.  In effetti, sotto questo profilo  deve  ritenersi
 che  il  provvedimento amministrativo e' valido anche se non contiene
 gli  elementi  probatori  dei  fatti  assunti  dall'Amministrazione a
 sostegno della determinazione in esso contenuta; la  allegazione  dei
 mezzi  istruttori  appartiene,  infatti,  alla  fase processuale, che
 interviene solo dopo l'opposizione del contribuente e cioe' quando si
 rende  necessario  verificare  la  sussistenza  dei  presupposti  per
 l'adozione   del   provvedimento;   l'atto  emesso  dall'Ufficio,  in
 sostanza, ha  carattere  di  provocatio  ad  opponendum  e  l'obbligo
 motivazionale    deve    ritenersi   soddisfatto   ogniqualvolta   il
 contribuente sia posto in grado di conoscere la pretesa tributaria  e
 quindi di contestarne efficacemente ed immediatamente la fondatezza e
 l'ammontare.  In tal senso si e' pronunciata, in tema di accertamento
 dei  redditi  (il  principio  e'  estensibile  mutatis mutandis, alla
 fattispecie in esame), la suprema  Corte  (cfr.  sent.  31  gennaio-2
 settembre  1996,  n.  7991,  della  Sez.  I),  che  ha  sapientemente
 osservato come: "la motivazione degli atti di accertamento serve  sia
 a identificare a quali elementi esso si riferisce sia a renderne note
 al  contribuente  le  ragioni,  delimitando la materia del contendere
 dell'eventuale controversia che faccia seguito. Il  detto  requisito,
 quindi,  come  si  e'  osservato  in  dottrina,  costituisce un minus
 rispetto alla prova della pretesa azionata. La motivazione  deve  dar
 conto  della  sequenza argomentativa su cui si fonda la rettifica, ma
 non  ha  l'obbligo  di  dimostrare,  anche  sul   piano   probatorio,
 l'effettiva esistenza di quanto l'ufficio afferma. E' sufficiente che
 essa  indichi  i  fatti  ipotizzati  dall'ufficio,  in  guisa  che il
 contribuente possa comprendere se, ed  in  quale  misura,  rispondono
 alla  realta'".  Vanno, a questo punto, vagliate le rimanenti censure
 contenute nel quarto motivo e quelle espresse con il  quinto  motivo,
 che   -   data  la  loro  intima  connessione  -  possono  esaminarsi
 congiuntamente.   Al riguardo, deve in  limine  osservarsi  come  non
 possa  accedersi  alla  tesi espressa da Com. trib. prov. di Belluno,
 sez.  I,  16  luglio  1997,  n.  69,  secondo  cui  con   riferimento
 all'accertamento  per  adesione relativo alle annualita' anteriori al
 1994 non sarebbe impeditiva  dello  stesso  "l'esistenza  di  dati  e
 notizie   a   conoscenza   dell'Ufficio  che  potrebbero  configurare
 l'obbligo  di   denuncia   all'autorita'   giudiziaria"   ovvero   la
 "presentazione  di rapporto della Guardia di finanza" oppure "l'avvio
 dell'azione  penale"  il  giudice  bellunese  ha  basato  la  propria
 statuizione  sull'assunto  che "l'applicazione in via analogica della
 condizione   prevista   dall'art.   2-bis,   secondo    comma,    per
 l'esperibilita'  dell'accertamento  con  adesione  "a  regime"  anche
 all'istituto disciplinato dall'art. 3 non appare ne' ragionevole, ne'
 conforme a legge, in ragione del carattere speciale di quest'ultimo",
 soggiungendo come  non  possa  "ritenersi  che  il  mancato  richiamo
 espresso   a  tale  condizione  nell'art.  3,  del  d.-l.  in  esame,
 modificato dalla legge di conversione, sia una svista del legislatore
 o sia supplita dal generico richiamo dell'art. 2-bis", e  ponendo  in
 risalto  che  "lo  stesso  regolamento  di  attuazione  dell'istituto
 disciplinato dal citato art. 3, approvato con d.P.R. 13 aprile  1995,
 n.  177,  non  fa  alcuna  menzione  alla  condizione  ostativa della
 esistenza di dati e notizie a  conoscenza  dell'Ufficio  che  possono
 configurare  l'obbligo  di  denuncia all'autorita' giudiziaria o alla
 presentazione  di  rapporto  alla  Guardia  di  finanza  o   comunque
 all'avvio  dell'azione  penale".    In  effetti, il richiamo all'art.
 2-bis, ult. cit. - in ordine alla definizione dei rapporti  tributari
 "limitatamente  alle  dichiarazioni  presentate entro il 30 settembre
 1994" contenuto in principio del comma 1 dell'art. 3, ult.  cit.  non
 puo'  che  essere  inteso  nel  senso  di  un recepimento di tutte le
 condizioni di ammissibilita'  -  per  accedere  all'accertamento  con
 adesione  -  previste  dalla norma richiamata, ivi comprese quelle di
 cui al comma 2 della stessa.   Cio' premessosi,  il  nucleo  centrale
 delle  doglianze in esame si sostanzia nella deduzione che al momento
 del perfezionamento dell'accertamento con adesione, ossia  alla  data
 del  10  luglio  1995  (in cui e' stato effettuato il pagamento delle
 maggiori somme  dovute  per  effetto  della  intervenuta  definizione
 agevolata),  l'Ufficio  non  era  a  conoscenza  di  fatti penalmente
 rilevanti; la contribuente, sul punto, sostiene che, ove  gli  stessi
 fatti  fosse stato possibile desumerli da "una nota della USL di Bari
 con allegata fotocopia della fattura n. 28 del 6 settembre 1991",  la
 detta  rilevanza  penale non sarebbe comunque scaturita "dal semplice
 ricevimento"  dei  citati  documenti  "ma  solo  da  un   successivo,
 approfondito  esame  comparato di tutta la documentazione in possesso
 dell'amministrazione, compiuto  soltanto  molti  mesi  dopo  l'arrivo
 della   nota  della  USL  e  precisamente  nell'ottobre  1995"  (come
 emergerebbe dalle risultanze del procedimento penale in corso per gli
 stessi fatti alla luce delle  quali  questi  ultimi  sarebbero  stati
 accertati in Vasto il 12 ottobre 1995), puntualizzando, in proposito,
 che cio' si rileverebbe anche dal verbale di constatazione n. 118 del
 28  ottobre 1995.  L'Ufficio resistente, dal suo canto, adduce che la
 suindicata nota della USL di Bari (cui  era  acclusa,  in  copia,  la
 sopradetta  fattura)  sarebbe  pervenuta all'Ufficio I.V.A. di Chieti
 l'8 luglio 1995 e che il funzionario quivi addetto, in quello  stesso
 giorno,   avrebbe  "effettivamente  esaminato  e  conosciuto"  l'atto
 medesimo, individuandovi gli  estremi  per  la  prefigurabilita'  dei
 reati  ex  artt.  1-4, del d.-l.  429/82; tale circostanza - osserva,
 ulteriormente, l'intimato - sarebbe  "implicitamente  dimostrata  dal
 comportamento  del  contribuente  stesso,  che  il primo giorno utile
 successivo a quella data (il lunedi' successivo)" (n.d.r.: 10  luglio
 1995)  "effettua  il  versamento  della  non indifferente somma di L.
 6.000.000 circa (e avrebbe potuto  attendere  il  15  dicembre),  con
 l'evidente intento di ''bruciare sul tempo'' l'Ufficio ed impedire il
 ritiro  dell'atto inammissibile".  L'ente assume altresi' che sarebbe
 all'uopo   sufficiente   "la   ''possibilita'''   della    conoscenza
 concretizzata  in  questo caso dalla ''presenza fisica'' dell'atto in
 questione in ufficio, come si evince dal protocollo di arrivo".
   Tale assunto non appare condivisibile.
   In effetti, l'amministrazione intende far riferimento  al  concetto
 di  "conoscibilita'"  dell'atto  in  parola,  con l'evidente scopo di
 cristallizzare la situazione al di' (8 luglio 1995) in  cui  esso  e'
 pervenuto  nella sfera del destinatario ancorche' quest'ultimo non ne
 abbia subito appreso il contenuto.   Senonche', la norma  di  cui  al
 comma  2,  dell'art.  2-bis,  ult. cit.   fa esplicito riferimento ad
 elementi, dati e notizie  "a  conoscenza  dell'ufficio",  ossia  gia'
 esaminati  dallo  stesso,  tant'e'  che per effetto di tale scrutinio
 dev'essere  "configurabile  l'obbligo   di   denunzia   all'autorita'
 giudiziaria".      In  sostanza,  cio'  che  rileva,  ai  fini  della
 individuazione del limite temporale oltre il quale  e'  inammissibile
 la definizione de qua, e' l'avvenuta cognizione, da parte dell'organo
 tributario,   della   fattispecie   penalmente   rilevante.      Tale
 interpretazione  risulta peraltro conforme alla circolare 7 settembre
 1995,  n.  237/E-I/2/1646/95,  della  dir.  centr.   accertamento   e
 programm.,  serv. I, div. II, del Ministero delle Finanze, laddove si
 precisa che esplica  "piena  efficacia  l'adesione  del  contribuente
 qualora   la   conoscenza   da  parte  degli  uffici  delle  suddette
 fattispecie penalmente rilevanti si sia verificata successivamente al
 totale pagamento degli importi indicati nella proposta. In  tal  caso
 l'azione  penale  seguira'  il  suo  corso, ma la definizione permane
 perfezionata ai fini fiscali".   Al lume  dei  rilievi  svoltisi,  la
 risoluzione   della   controversia  dipende  dall'accertamento  della
 circostanza se, come dedotto dal resistente, un funzionario  (il  cui
 nominativo  non  e'  stato  precisato)  dell'Ufficio I.V.A. di Chieti
 abbia esaminato la  suindicata  nota  della  USL  di  Bari  (cui  era
 allegata una copia della fattura n. 28/91), ravvisandovi gli elementi
 costitutivi   dei   reati   di  cui  agli  artt.     1-4  cit.;  deve
 puntualizzarsi, in proposito, che dalla nota dell'Ufficio  I.V.A.  di
 Chieti  11 ottobre 1995, prot. n. 25/Ris./95 (cfr. fascicolo di parte
 resistente) risulta che tale organo ha ritenuto sussistenti  i  detti
 reati  ma  dalla  stessa  non  e'  dato  evincersi  l'epoca in cui il
 documento  sarebbe  stato  vagliato.    E  l'onere  di  provare  tale
 circostanza  incombe sull'Ufficio, in quanto - ex art. 2697, comma 2,
 c.c. - trattasi di fatto impeditivo del diritto  della  ricorrente  a
 fruire  della  definizione  agevolata  del  rapporto  d'imposta.   Al
 riguardo, deve rilevarsi come una siffatta circostanza  possa  essere
 dimostrata   solo   con  una  prova  testimoniale,  per  mezzo  delle
 dichiarazioni di soggetti che  possano  riferire  (a)  sull'effettiva
 disamina,  in  data  8  luglio  1995,  da  parte  di  un  funzionario
 dell'Ufficio I.V.A. di Chieti, della pluricitata nota della U.S.L. di
 Bari e della fattura n. 28/91 ad essa allegata in copia  nonche'  (b)
 sull'avvenuta contestuale constatazione, ad opera del medesimo, della
 diversita'  di  quest'ultima  da  quella  esistente  agli  atti della
 societa'.   E tale  mezzo  istruttorio,  si  badi,  non  puo',  nella
 fattispecie,  essere  surrogato  da  dichiarazioni rese per iscritto,
 ancorche' asseverate.   Difatti,  le  dichiarazioni  extraprocessuali
 provenienti  da  terzi  non  hanno alcuna valenza probatoria; neppure
 l'atto notorio, ove  il  dichiarante  si  assume  le  responsabilita'
 penali  conseguenti  alla  falsita'  delle  proprie  affermazioni, si
 sottrae a tale regola, avendo la  giurisprudenza  chiarito  che  esso
 "consistendo  nella dichiarazione, resa fuori del processo, di essere
 a conoscenza di determinati fatti, non assurge al rango  di  prova  e
 non  vale  quindi  ad eludere la necessita' di provare, nelle forme e
 nei modi previsti dalle norme processuali, quei medesimi  fatti,  che
 altrimenti  restano indimostrati" (conf., ex multis, Cass., sez. III,
 14 dicembre 1993, n. 12328;  anche  nel  processo  amministrativo  e'
 stato  affermato lo stesso principio: cfr.  t.a.r. Napoli, sez. II, 7
 dicembre 1995, n. 484; Cons. Stato 21 febbraio 1983,  n.  94;  t.a.r.
 Ancona  29  settembre  1994, n. 266; t.a.r. Aquila 22 giugno 1995, n.
 487; t.a.r. Catania, sez.  III,  2  novembre  1992,  n.  715;  t.a.r.
 Palermo,  sez.  I, 29 dicembre 1986, n. 1277; t.a.r.  Napoli, sez. I,
 17 marzo 1987, n. 130; t.a.r. Aquila 13 aprile 1989, n. 189).  Ed  e'
 ineccepibile tale indirizzo giurisprudenziale poiche' l'esclusione di
 ogni   efficacia   probatoria   di   una   siffatta  dichiarazione  -
 indipendentemente dall'interese che puo'  animare  il  dichiarante  -
 consegue  inevitabilmente  dalle modalita' di acquisizione degli atti
 notori;   cosicche'  essi  "non  hanno  alcun  valore  nei  confronti
 dell'autorita' giudiziaria, che deve assumere  nel  giudizio,  e  nel
 contraddittorio  delle parti, le testimonianze delle persone in grado
 di riferire circostanze rilevanti ai  fini  di  causa"  (Cass.,  sez.
 lav.,  26  marzo 1984, n. 1979).  Non ha avuto fortuna, in proposito,
 la dottrina, nettamente minoritaria (cfr. Taruffo, in "La  prova  dei
 fatti giuridici" Milano, 1992, pag.  355), che auspicava di conferire
 una   dignita'   probatoria   a  tali  dati  cartolari  inquadrandoli
 nell'ambito delle cosiddette "prove atipiche", la tesi,  difatti,  e'
 stata   inappuntabilmente   ripudiata  da  quella  estremamente  piu'
 autorevole e maggioritaria (cfr. Nappi, "L'atto  di  notorieta'  come
 prova  documentale atipica", in "La Gazzetta Giuridica" Milano, n. 35
 del 1997, pag. 9; Verde, voce "Prova documentale: diritto processuale
 civile" in "Enc. giur.", XXIV,  1991,  pag.  5;  Denti,  voce  "Prova
 documentale: diritto processuale civile" in "Enc. dir." XXXVII, 1988,
 pag.  716),  dal  cui  pensiero  si  e' originato anche il suindicato
 pacifico e consolidato orientamento giurisprudenziale.  Non  possono,
 dunque,   esservi   dubbi   sulla   assoluta   inutilizzabilita'   di
 dichiarazioni rese da terzi (quali potrebbero  essere,  ad  es.,  nel
 caso  de quo quelle provenienti da funzionari dell'Ufficio I.V.A.  di
 Chieti). Non meritano, pertanto, consenso quelle isolate pronunce  di
 organi   giurisdizionali   tributari   che   hanno   valorizzato   le
 dichiarazioni extraprocessuali  scritte,  sull'assunto  di  una  loro
 sostanziale   equivalenza  alla  prova  documentale,  valutandone  il
 contenuto e ritenendole probatoriamente  efficaci  (cfr.  Com.  trib.
 centr.,  sez. XXII, 29 ottobre 1990, n.  7073; Com. trib. primo grado
 di Matera, sez. I, 28 marzo 1989, n.  969; Com. trib. primo grado  di
 Treviso  9  luglio 1987, n. 748).  Com'e' noto, la prova testimoniale
 e' espressamente esclusa dall'ambito dei mezzi istruttori  esperibili
 nel processo tributario, innovato dal d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546.
   In  effetti, in tale giudizio e' ammessa la sola prova documentale,
 ex artt. 22, comma 4, 23, comma 2, e 32, comma 1,  del  citato  testo
 legislativo;  quanto  ai  poteri di investigazione d'ufficio, al lume
 del disposto di cui all'art. 7 dello stesso ordinamento  processuale,
 le  commissioni tributarie: "esercitano tutte le facolta' di accesso,
 di richiesta di dati, di informazioni e  chiarimenti  conferite  agli
 uffici  tributari  ed  all'ente  locale  da ciascuna legge d'imposta"
 (comma 1); "possono" - quando occorre acquisire elementi  conoscitivi
 di  particolare  complessita'  -  "richiedere  apposite  relazioni ad
 organi tecnici dell'amministrazione  dello  Stato  o  di  altri  enti
 pubblici  compreso il Corpo della Guardia di finanza, ovvero disporre
 consulenza tecnica" (comma 2); nonche' possono "ordinare  alle  parti
 il  deposito  di  documenti ritenuti necessari per la decisione della
 controversia" (comma 3).
   Il comma 4  dell'art.  7  cit.  sancisce,  invece,  il  divieto  di
 acquisizione  della  prova testimoniale, disponendo testualmente che:
 "Non sono ammessi il giuramento e la prova testimoniale".
   Tale limitazione probatoria si appalesa contrastante con i principi
 di rango costituzionale espressi dagli artt. 3, 24 e 53  della  Carta
 fondamentale.
   Quanto  ai parametri di cui agli artt. 3 e 24 cit., non possono non
 ritenersi sussistenti:
     a) la disparita' di trattamento fra le parti contendenti, poiche'
 -  essendo  inibito all'intimato di addurre l'unico mezzo istruttorio
 con cui provare  la  suindicata  circostanza,  che  si  rivela  qundi
 imprescindibile  per  tutelare  il  proprio  interesse - la posizione
 processuale del medesimo e' ingiustificatamente penalizzata  rispetto
 a quella della ricorrente;
     b)   la   compromissione  del  diritto  di  difesa  -  al  quale,
 naturalmente,  e'  intimamente   connesso   quello   alla   prova   -
 dell'Amministrazione    Finanziaria,    per    essere    la    stessa
 impossibilitata a dimostrare la  causa  ostativa  del  concordato  di
 massa,  costituita  dall'avvenuta  conoscenza  da  parte  dell'organo
 tributario  dei  fatti  penalmente  rilevanti  di  cui  al  comma  2,
 dell'art.  2-bis,  ult.  cit.    In sostanza, il mancato espletamento
 della  prova  testimoniale  si  risolverebbe  ineluttabilmente  nella
 soccombenza dell'ente impositore.  Viceversa, ove venissero acquisite
 le   deposizioni   testimoniali  e  le  risultanze  di  esse  fossero
 favorevoli   all'amministrazione,   le   ragioni    sostanziali    di
 quest'ultima   verrebbero   salvaguardate;  diversamente,  le  stesse
 rimarrebbero  irrimediabilmente  vanificate.      Negare,   pertanto,
 l'ingresso della prova testimoniale significherebbe pregiudicare - in
 maniera irragionevole ed arbitraria - il diritto di difesa dell'ente.
 In  via  conseguenziale,  appare  vulnerato  anche il principio della
 capacita' contributiva di cui all'art. 53 della  Costituzione  (Corte
 Costituzionale  30  luglio  1997, n. 291), in quanto la suevidenziata
 inibizione istruttoria determina una lesione dell'interesse  pubblico
 (che  si  produrrebbe  concretamente  nel caso in cui il giudizio, in
 conseguenza dell'ammissione della citata prova per testi e dell'esito
 positivo della stessa per l'amministrazione resistente, si risolvesse
 a favore di quest'ultima) per effetto della diminuzione  del  gettito
 tributario,  derivante  dalla  intangibilita'  dell'accertamento  con
 adesione de quo.  Ne' varrebbe obiettare che nella specie trattasi di
 una scelta insindacabile del legislatore, il quale, nel bilanciamento
 degli interessi in giuoco nel processo  tributario,  avrebbe  operato
 una  valutazione  di  netto  disfavore  per una prova, qual'e' quella
 testimoniale,  che  potrebbe  essere  il  frutto   di   concertazioni
 preordinate  e fraudolente.  In effetti, nelle situazioni processuali
 come quella de qua precludere alla parte la utilizzazione  dell'unico
 strumento  probatorio  attraverso il quale dimostrare una circostanza
 fondamentale per salvaguardare il proprio  interesse  sostanziale  si
 traduce,   in   concreto,   nella  privazione  del  mezzo  di  tutela
 giurisdizionale.  D'altronde, rientra negli istituzionali compiti del
 giudice l'apprezzamento  del  materiale  istruttorio  -  per  cui  al
 medesimo  appartiene  anche  la valutazione sull'attendibilita' delle
 deposizioni testimoniali -  e  la  scelta  delle  fonti  del  proprio
 convincimento.      Ed   e'   ovvio,   attesa  la  estrema  rilevanza
 dell'interesse pubblicistico coinvolto nel giudizio tributario,  che,
 in  un  siffatto  contesto  processuale,  le  dichiarazioni dei testi
 dovranno essere vagliate con particolare prudenza  e  con  la  dovuta
 cautela,  nonche'  armonizzate  - per quanto possibile - con le altre
 risultanze istruttorie.  Le considerazioni svoltesi danno conto della
 rilevanza e della  non  manifesta  infondatezza  della  questione  di
 legittimita'  costituzionale del comma 4, dell'art. 7, del d.lgs. 546
 ult. cit. - per contrasto con gli artt. 3, 24  e  53  Cost.  -  nella
 parte in cui sancisce l'inammissibilita' della prova testimoniale nel
 processo  tributario anche quando tale mezzo istruttorio - secondo la
 motivata  valutazione  del  giudice  -  si  riveli indispensabile per
 dimostrare  un  fatto  decisivo  ai  fini  della  risoluzione   della
 controversia in senso favorevole alla parte interessata.  Per evitare
 che  il  presente  incidente di costituzionalita' subisca la infausta
 sorte  riservata  all'ordinanza  emessa  il  29  maggio  1997   dalla
 Commissione tributaria provinciale di Brescia, iscritta al n. 729 del
 registro  ordinanze  1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
 Repubblica n. 44,  prima  serie  speciale,  dell'anno  1997,  la  cui
 questione  di legittimita' costituzionale, analoga a quella in esame,
 e' stata dichiarata - con ordinanza del giudice delle  leggi  n.  249
 del  30  giugno/3  luglio  1998 (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale,
 prima serie speciale, n. 27  dell'8  luglio  1998)  -  manifestamente
 inammissibile  per  difetto  di rilevanza, in quanto il giudice a quo
 aveva omesso "qualsiasi cenno sulla richiesta di prova  testimoniale"
 il  collegio osserva che l'Ufficio distrettuale delle imposte dirette
 di Vasto, nella propria memoria  difensiva  depositata  il  6  aprile
 1998;  ha  sostanzialmente  formulato  l'istanza  di ammissione della
 prova testimoniale, avendo  dedotto  che  le  circostanze  (1)  della
 disamina,  in  data  8  luglio  1995,  della nota della USL di Bari e
 dell'allegata  copia  della  fattura   n.   28/1991   e   (2)   della
 contemporanea  verifica  della  difformita' fra quest'ultima e quella
 risultante dalla contabilita' (ufficiale) della  societa'  ricorrente
 possono   essere  dimostrate  mediante  l'audizione  del  funzionario
 dell'Ufficio I.V.A. di Chieti che ha provveduto  all'espletamento  di
 tali incombenze.  La detta richiesta probatoria deve conseguentemente
 ritenersi ritualmente proposta dall'intimato.  La stessa, pero', allo
 stato  non  puo'  essere  ammessa,  atteso l'anzidetto esplicito veto
 stabilito  dalla  normativa  processuale.    Occorre,  a  tal  punto,
 doverosamente,  esaminare brevemente la giurisprudenza costituzionale
 sinora formatasi sul divieto di assunzione di prova testimoniale  nel
 processo  tributario  al  fine  di verificare se la stessa abbia gia'
 risolto in senso negativo la questione di  costituzionalita'  che  si
 intende  sollevare  in  questa  sede.    Con sentenza n. 128 del 1972
 nonche' con ordinanze n. 506 del 1987, n. 108 del 1990, n. 6 del 1991
 e n. 328  del  1992  la  Corte  ha  ritenuto  la  infondatezza  della
 questione sul duplice presupposto che "il solo fatto della esclusione
 di  un mezzo di prova come quello della testimonianza non costituisce
 di per se' violazione del diritto di  difesa"  e  che  "le  modalita'
 dell'esercizio  del diritto di difesa possono essere dal legislatore,
 nella sua discrezionalita', diversamente regolate in  funzione  delle
 peculiari  caratteristiche  dei singoli procedimenti".  Con ordinanza
 n. 76 del 1989  il  sospetto  di  incostituzionalita'  non  ha  avuto
 miglior  sorte; la ratio della declaratoria di manifesta infondatezza
 stavolta e' consistita nel rilievo che il fatto da  provarsi  "poteva
 essere  facilmente  dimostrato mediante l'esibizione o l'acquisizione
 di apposita documentazione".    Dunque,  il  giudice  costituzionale,
 quando  ha  dovuto  -  con  la  ord.    n. 76/1989 da ultimo citata -
 affrontare la tematica sotto il profilo della inevitabilita', o meno,
 dell'esperimento istruttorio ai fini dell'acquisizione probatoria  di
 un  determinato  fatto,  ha  giudicato  non  indispensabile  la prova
 testimoniale siccome  la  circostanza  che  avrebbe  dovuto  formarne
 oggetto  era,  in  modo  agevole,  documentalmente dimostrabile.   Si
 tratta, quindi, di una verifica sulla indispensabilita' o meno  delle
 dichiarazioni  testimoniali  per provare un fatto essenziale, ai fini
 dell'esito  della  lite  tributaria,  non  altrimenti  assumibile con
 l'ausilio di altri mezzi istruttori.  E la Sezione  ritiene  -  sulla
 base  delle  suesposte  argomentazioni  -  che,  nella fattispecie in
 esame, tale verifica non puo' che essere positiva  (nel  senso  della
 assoluta   necessita'   dell'espletamento  della  prova  per  testi).
 Egualmente  meritevole  di  essere  sottoposta  allo   scrutinio   di
 costituzionalita'   si   appalesa   la  questione  prospettata  dalla
 ricorrente nel sesto motivo circa la mancata previsione nel comma  2,
 dell'art.  2-bis,  e  nell'art.    3 del d.-l. 564/1994 convertito in
 legge 656/1994 che le cause di  inammissibilita'  del  concordato  di
 massa  ivi  contemplate  vengano meno quando il procedimento penale a
 carico del contribuente interessato (per i reati di cui agli artt. da
 1 a 4, del d.-l. 429/1982 convertito in legge  n.  516/1982)  -  gia'
 pendente ovvero promosso a seguito (a) della denunzia di cui al primo
 periodo  del comma 2 cit. oppure (b) della presentazione del rapporto
 da parte della Guardia di finanza di cui al  secondo  periodo,  prima
 proposizione,  della  norma  stessa  -  venga  archiviato  oppure  si
 definisca  con  sentenza  di  proscioglimento   o   di   assoluzione.
 Sembrano,  in  concreto,  violati i precetti di cui agli artt. 3 e 27
 Cost., conformemente a quanto opinato  dalla  Commissione  tributaria
 provinciale di Verbania con la pregevole ordinanza emessa il 9 luglio
 1997  e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, prima serie speciale, n.
 43 del 22 ottobre  1997.    In  effetti,  il  soggetto  sottoposto  a
 procedimento  penale,  in  veste  di  indagato (prima della eventuale
 richiesta di rinvio a giudizio formulata dal p.m.) ovvero di imputato
 (successivamente alla predetta richiesta, ex art.  60  c.p.p.),  gode
 della presunzione d'innocenza, ex art. 27, comma 2, Cost., "sino alla
 condanna  definitiva".   Orbene, e' oltremodo evidente che questa sua
 qualita', avente una rilevanza esclusivamente processuale,  non  puo'
 definitivamente precludergli la fruizione della definizione agevolata
 del  rapporto  d'imposta prevista dalla suindicata normativa fiscale.
 Tale preclusione sarebbe, difatti, giustificata soltanto in  presenza
 di una sentenza irrevocabile di colpevolezza.  Diversamente, verrebbe
 a  crearsi anche una irragionevole ed arbitraria diseguaglianza - con
 conseguenziale  configurabilita'  di   una   palese   disparita'   di
 trattamento  -  fra i contribuenti assoggettati a procedimento penale
 in conseguenza  di  errori,  di  valutazione  commessi  dagli  organi
 inquirenti,    ovvero   condannati,   con   decisioni   soggette   ad
 impugnazione, e poi assolti, in sede di gravame, e coloro che non  vi
 sono  stati  affatto sottomessi per effetto di corretti apprezzamenti
 operati dagli stessi organi.