IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel processo penale contro Serventi Mario, rinviato a giudizio con decreto del g.i.p. in data 24 giugno 1996 per rispondere del reato di cui all'art. 323, commi 1 e 2, c.p. per avere, in veste di curatore fallimentare, abusato del suo ufficio dal 19 novembre 1986 al 14 settembre 1994 consentendo che sul libretto di deposito intestato al fallimento presso la Banca Popolare di Sondrio fosse applicato un tasso di interesse inferiore a quello praticato dal sistema bancario; omettendo di procedere a riparti parziali in favore dei creditori di notevoli somme depositate; omettendo di procedere al recupero presso la B.P.S. della somma di L. 913.628.140 in forza di sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano e notificata alla B.P.S. l'8 novembre 1991, somma che non veniva richiesta dal Serventi nonostante le comunicazioni fattegli dal legale del fallimento avv. Mazza con lettere 10 dicembre 1991 e 16 gennaio 1992, in tal modo procurando alla suddetta banca un ingiusto vantaggio patrimoniale ed ai creditori del fallimento un rilevante danno patrimoniale; Decidendo sulla richiesta della difesa di pronuncia di sentenza di n.p.d. ex art. 129 per non essere piu' il fatto previsto dalla legge come reato, e sulla richiesta subordinata di sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 323 c.p., formulazione antevigente, sentito il p.m.; O s s e r v a A norma dell'art. 129, comma 1, c.p.p. "in ogni stato e grado del processo, il giudice, il quale riconosce che ... il fatto non e' previsto dalla legge come reato ... lo dichiara di ufficio con sentenza". Prima di procedere nell'ulteriore corso del processo, pertanto, occorre verificare se, in seguito alla modifica normativa de qua, ricorrono i presupposti per pronunciare sentenza di n.d.p. perche' il fatto non e' (piu') previsto dalla legge come reato. Siffatta verifica, ovviamente, deve precedere l'esame della questione di legittimita' costituzionale formulata dalla difesa dell'imputato giacche' - in caso di riscontro positivo - la questione stessa difetterebbe del requisito della rilevanza. Ed invero, non avendo lo jus superveniens operato una abolitio criminis del reato di cui all'art. 323 c.p., bensi' la sostituzione dell'originaria fattispecie incriminatrice con altra, di diversa formulazione ed ampiezza ("salvo che il fatto costituisca un piu' grave reato, il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a se' o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto e' punito ..."), non puo' tout court ritenersi che il reato contestato al Serventi (di cui all'art. 323 c.p. nel testo antevigente) costituisca fatto non (piu') previsto dalla legge come reato, ma deve verificarsi se il medesimo possa essere sussunto anche nella nuova fattispecie incriminatrice. Nella specie, dunque, opera il disposto di cui all'art. 2, c.p.v., c.p., in forza del quale "nessuno puo' essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato": ne consegue che la verifica che le condotte ascritte al Serventi non possano essere inquadrate nella fattispecie incriminatrice come attualmente vigente - neppure in astratto, e fatta salva la piu' penetrante verifica in sede di decisione all'esito dell'istruttoria dibattimentale, in caso di esito negativo di siffatta verifica delibativa operata ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 129 cit. - implicherebbe l'immediata pronuncia di sentenza di n.d.p. perche' il fatto non e' (piu') previsto dalla legge come reato. Soltanto nell'ipotesi di verifica della sussumibilita' - in astratto - delle condotte ascritte al Serventi anche nella nuova fattispecie incriminatrice (e peraltro anche dell'insussistenza dei presupposti per pronunciare sentenza di n.d.p. - ex art. 129, commi 1 e 2, c.p.p. - per estinzione del reato per intervenuta prescrizione, stante la diminuzione dei termini di prescrizione conseguita alla modifica normativa de qua), acquisterebbe rilevanza nel presente giudizio la questione di legittimita' costituzionale proposta dalla difesa. Ed invero in siffatta ipotesi, giusta il disposto di cui all'art. 2, comma 1, c.p. ("nessuno puo' essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato") e di cui all'art. 2, comma 3. c.p. ("se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono piu' favorevoli al reo ..."), la norma di cui all'art. 323 c.p. antevigente troverebbe necessaria applicazione, dovendo in tale ipotesi il collegio rispettivamente verificare se la condotta ascritta al Serventi rientri anche nella antevigente fattispecie incriminatrice e, in caso positivo, quale delle due norme sia piu' favorevole per il reo. In tale ipotesi, e soltanto in tale ipotesi, la questione diventerebbe rilevante, poiche' il suo eventuale accoglimento (con conseguente espunzione ex tunc dall'ordinamento giuridico dell'art. 323 c.p. nel testo antevigente) determinerebbe - a norma del richiamato art. 2, comma 1, c.p. - l'emanazione di sentenza di n.d.p. perche' il fatto non e' previsto dalla legge come reato. L'opzione ermeneutica accolta dal collegio trova conforto nella giurisprudenza di legittimita', che ha affermato - nell'analoga circostanza dell'abrogazione dell'art. 324 c.p. operata con legge n. 86/1990 - che anche dopo l'abrogazione "la condotta che prima della suddetta novella veniva punita come interesse privato in atti d'ufficio, conserva rilevanza, sul piano penale, se ed in quanto comprenda tutti gli estremi per la configurabilita' del delitto di abuso di ufficio, cosi' come descritti nel nuovo testo dell'art. 323 c.p." (cosi' Cass. 6587 del 13 giugno 1991). Come gia' osservato, nella presente sede detta verifica deve necessariamente essere operata in astratto, al fine di accertare se tutti gli elementi costitutivi dell'illecito penale come descritto nel nuovo testo dell'art. 323 c.p. "siano stati ritualmente descritti nell'imputazione o altrimenti contestati all'imputato" (cosi' Cass. 553 del 25 gennaio 1993), o comunque se gia' dalla stessa formulazione del capo d'imputazione si evinca l'insussistenza di almeno un elemento costitutivo del nuovo reato in oggetto. Ritenuto che, nel caso di specie, non sussistono i presupposti per l'emanazione della sentenza di n.d.p. richiesta dalla difesa, poiche' dall'esame del capo di imputazione risulta che nello stesso sono state contestate all'imputato condotte di abuso astrattamente sussumibili nel nuovo testo dell'art. 323 c.p., essendo la condotta descritta avvenuta nell'esercizio delle funzioni di curatore, essendo l'abuso come contestato consistito in violazione di legge (legge fallimentare), ed avendo la condotta asseritamente cagionato un ingiusto vantaggio patrimoniale a terzi e un ingiusto danno patrimoniale ai creditori fallimentari. Essendosi, poi, il reato come contestato consumato in data 14 settembre 1994, non sussistono neppure i presupposti per dichiarare la sopravvenuta prescrizione del reato. Risulta evidente pertanto - giusta quanto sopra argomentato - la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale prospettata dalla difesa osservando ulteriormente che la norma di cui all'art. 323 c.p. antevigente trova necessaria applicazione sin dalla presente fase del giudizio (ad esempio ai fini della valutazione circa la rilevanza delle prove). In relazione alla non manifesta infondatezza della questione in oggetto osserva il collegio: che il principio di tassativita' cui, a norma dell'art. 25, secondo comma, Cost., devono conformarsi le norme incriminatrici penali, esprime l'esigenza di evitare la genericita', l'indeterminatezza della fattispecie astratta, in modo tale che sia assicurata l'individuazione, a mezzo degli usuali metodi ermeneutici, della condotta penalmente rilevante; che l'interpretazione corrente della norma de qua ricomprende nella condotta dell'abuso ogni "violazione del parametro di doverosita' come risulta dalle regole normative improntate ai principi di legalita' imparzialita' e buon andamento della p.a. (cosi' Cass. 9730/1992), e "qualsivoglia comportamento del pubblico ufficiale esplicantesi in una illecita deviazione dai fini istituzionali della p.a. (cosi' Cass. 5340/1993), nonche' gli atti viziati da eccesso di potere; che la suddetta interpretazione, che costituisce diritto vivente non consente di escludere dubbi sull'indeterminatezza della fattispecie penale di cui trattasi, stante la aleatorieta' di figure quali "parametro di doverosita'" e "fini istituzionali", e l'assenza di una definizione normativa della figura dell'eccesso di potere, i cui contenuti sono stati individuati soltanto ex post dalla dottrina e dalla giurisprudenza amministrativa ed e' figura il cui contenuto e' in costante evoluzione e cambiamento; che conseguentemente non appare manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale come sopra prospettata.