ha pronunciato la seguente Sentenza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), promosso con ordinanza emessa il 20 febbraio 1998 dal pretore di Modica, Sezione distaccata di Scicli, nel procedimento civile vertente tra Trovato Giuseppe e la Plasticontenitor s.r.l. iscritta al n. 264 del registro ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 1998. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; Udito nella camera di consiglio del 30 settembre 1998 il giudice relatore Fernando Santosuosso. Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di una controversia individuale di lavoro, sorta in conseguenza dell'impugnazione di un licenziamento per presunta inidoneita' alle mansioni, il pretore di Modica, Sezione distaccata di Scicli, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300 (Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale nei luoghi di lavoro e norme sul collocamento), in riferimento agli artt. 3 e 27 (recte: 24) della Costituzione. Rileva il giudice a quo che nel procedimento sottoposto al suo giudizio la domanda principale proposta dal lavoratore e' gia' stata accolta, con conseguente ordine di reintegrazione dello stesso, e che deve ora decidersi la sola domanda conseguenziale di risarcimento dei danni. Tale risarcimento, che tendenzialmente e' commisurato alle retribuzioni che il lavoratore avrebbe percepito dal giorno del licenziamento a quello della effettiva reintegrazione, non puo' essere inferiore a cinque mensilita' di retribuzione globale di fatto, potendo pero' il lavoratore optare, in alternativa alla reintegrazione, per un'indennita' sostitutiva pari a quindici mensilita' di retribuzione. Questi principi, ad avviso del Pretore, non sembrano poter valere nel caso di specie, nel quale il datore di lavoro ha disposto il licenziamento "per effetto di verifica d'inidoneita' al lavoro accertata in esito alla procedura di cui all'art. 5 dello Statuto", situazione che dovrebbe legittimare l'applicazione degli artt. 1256 e 1463 del codice civile. Ad avviso del rimettente, in altre parole, l'avvenuto espletamento della procedura di controllo di cui al menzionato art. 5, portando ad una pronuncia di carattere tecnico che il datore di lavoro non puo' contestare ed alla quale, anzi, ha il dovere di attenersi, dovrebbe implicare che nessuna responsabilita' possa essere posta a suo carico in caso di successiva verifica dell'erroneita' dell'accertamento medico in precedenza compiuto. E' pacifico, infatti, che il giudizio espresso dall'organo medico di controllo rimane soggetto a verifica in sede giurisdizionale, come piu' volte ribadito dalla giurisprudenza della Cassazione; cio' non toglie, peraltro, che dovrebbe ritenersi sussistente, quanto meno sotto l'aspetto putativo, il giustificato motivo di licenziamento di cui all'art. 3 della legge 15 luglio 1966, n. 604, con conseguente inesistenza di ogni pretesa risarcitoria. La norma impugnata, invece, pare riconoscere automaticamente al lavoratore la misura minima risarcitoria delle cinque mensilita' di retribuzione. Ne consegue che, ad avviso del rimettente, a meno che questa Corte "non ritenga praticabile un'interpretazione costituzionale della norma", l'art. 18 in esame viola l'art. 3 della Costituzione perche', senz'alcuna ragionevolezza, pone a carico del datore di lavoro una sorta di responsabilita' oggettiva del tutto ingiustificata, nonche' l'art. 27 della Costituzione, perche' impedisce al medesimo "di far valere in giudizio, in via di eccezione, l'insussistenza dell'obbligo risarcitorio posto a suo carico". In punto di rilevanza il pretore nota che l'eventuale accoglimento della presente questione potrebbe portare al rigetto della domanda risarcitoria nel giudizio a quo, domanda che sarebbe comunque da accogliere in caso contrario. 2. - Nel giudizio davanti a questa Corte e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. Rileva innanzitutto la difesa erariale che, pur essendo predominante l'orientamento della Cassazione secondo cui l'obbligazione risarcitoria in caso di licenziamento illegittimo prescinde dalla sussistenza di un comportamento "colposo" da parte del datore di lavoro, alcune pronunce vanno di contrario avviso, sicche' al rimettente non sarebbe totalmente preclusa la possibilita' di una diversa interpretazione della norma impugnata. Nel merito, poi, la questione non e' fondata, poiche' questa Corte ha gia' riconosciuto che la predeterminazione di un danno minimo risarcibile in ogni caso rientra nel legittimo esercizio della discrezionalita' legislativa, sicche' non c'e' violazione del principio di ragionevolezza. L'alternativa, del resto, sarebbe ancora peggiore, perche' negare il diritto al risarcimento del danno in un caso del genere equivarrebbe a porre a carico del lavoratore il rischio di un errato accertamento dell'inabilita' da parte di un ente pubblico, il che certamente non e' ammissibile. Considerato in diritto 1. - Il pretore di Modica, Sezione distaccata di Scicli, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione. Il giudice a quo ritiene che la norma impugnata appare in palese contrasto: a) con l'art. 3 della Costituzione, laddove essa, "in violazione di ogni elementare principio di uguaglianza e ragionevolezza, addossa la responsabilita' risarcitoria a un soggetto al quale non e' addebitabile l'evento da cui tale responsabilita' trae origine, in forza di una sorta di responsabilita' oggettiva ingiustificata e incompatibile con i principi del nostro ordinamento; b) con l'art. 27 (recte: 24) della Costituzione, laddove nella sostanza impedisce al datore di lavoro incolpevole di far valere in giudizio, in via di eccezione, l'insussistenza dell'obbligo risarcitorio posto a suo carico". 2. - Occorre innanzitutto rilevare che l'Avvocatura dello Stato ha eccepito l'inammissibilita' della questione, sostenendo che in qualche recente sentenza la Corte di cassazione avrebbe diversamente interpretato la norma impugnata, nel senso che la responsabilita' risarcitoria del datore di lavoro debba essere esclusa qualora il rifiuto della sua prestazione sia giustificato da un motivo legittimo; sicche' il presente giudizio si risolverebbe nella decisione di una questione di mera interpretazione, potendo il pretore seguire quella ritenuta conforme a Costituzione. L'eccezione e' infondata. Dal testo dell'art. 18, cosi' come interpretato dalla costante giurisprudenza, emerge con chiarezza, infatti, che la misura risarcitoria costituita dalle cinque mensilita' di retribuzione globale di fatto costituisce un minimum, predeterminato ex lege e connesso alla riconosciuta illegittimita' del licenziamento, da corrispondersi "in ogni caso". Il pretore, pur esprimendo dubbi di legittimita' costituzionale, non ha inteso discostarsi da un tale orientamento. 3. - Nel merito, la questione e' infondata. Questa Corte, in una non recente sentenza (n. 178 del 1975), ebbe gia' occasione di affermare che i due parametri costituzionali oggi invocati non risultano violati per il fatto che la norma in esame prevede una misura di risarcimento del danno che va comunque riconosciuta al lavoratore ingiustamente licenziato. In quell'occasione si osservo', scrutinando il testo dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori nella versione precedente a quella introdotta dall'art. 1 della legge 11 maggio 1990, n. 108, che la predeterminazione di un risarcimento minimo, spettante in ogni caso, "risponde ad una presunzione legale che, per essere configurata in una misura realistica (...), non contrasta con l'art. 3 della Costituzione, ma costituisce legittimo esercizio di discrezionalita' politica da parte del legislatore". Tale conclusione va qui riaffermata per le seguenti ulteriori considerazioni. E' pacifico in giurisprudenza che la dichiarazione di inidoneita' fisica in esito alle procedure di cui all'art. 5 dello Statuto non ha carattere di definitivita', potendo il giudice della controversia pervenire a diverse conclusioni sulla base della consulenza tecnica d'ufficio disposta nel giudizio di merito. Da cio' consegue che il datore di lavoro, nel momento in cui opta per l'immediato licenziamento del dipendente anziche' chiedere, secondo le normali regole contrattuali, la risoluzione giudiziaria del rapporto di lavoro per sopravvenuta impossibilita' della prestazione, agisce evidentemente a suo rischio, perche' non puo' ignorare che l'esito della procedura di cui al citato art. 5 non e' incontrovertibile. D'altra parte questa Corte ha gia' riconosciuto, sia pure in fattispecie diverse, la generica sussistenza del principio del "rischio d'impresa" (sentenze n. 30 del 1996 e n. 7 del 1993), che viene oggettivamente a gravare su chi intraprende una simile attivita'; e la stessa Corte di cassazione (sentenza n. 9464 del 1998), in un caso simile a quello attuale, ha recentemente sottolineato che il risarcimento nella misura minima delle cinque mensilita' costituisce un'indennita' "quasi a titolo di penale avente la sua radice nel rischio d'impresa". E' indubbio, del resto, che gli effetti economici della situazione di incertezza - necessariamente conseguente alla possibilita' che l'inabilita' accertata con la procedura di cui all'art. 5 dello Statuto venga successivamente ritenuta dal giudice insussistente - devono gravare o sul datore di lavoro o sul lavoratore; la scelta del legislatore, chiaramente rivolta a tutela del soggetto piu' debole, si presenta immune dalle lamentate censure. 4. - Puo' solo aggiungersi che la responsabilita' risarcitoria del datore di lavoro per l'illegittimo licenziamento intimato in regime di tutela c.d. reale non si discosta dalla disciplina ordinaria perche' implica comunque, per il danno eccedente la suddetta misura minima, la sussistenza della colpa dello stesso, in mancanza della quale non c'e' danno ulteriore risarcibile. Per altro verso, quanto alla presunzione assoluta di danno minimo pari a cinque mensilita' di retribuzione, il legislatore ha operato un non irragionevole bilanciamento complessivo per il fatto di aver simmetricamente riconosciuto al datore di lavoro l'esercizio della facolta' di recesso, idonea ad incidere unilateralmente ed immediatamente nella sfera degli interessi del lavoratore. La previsione (di carattere eccezionale) di una presunzione iuris et de iure di danno in caso di esercizio oggettivamente illegittimo di tale facolta' non fa che riequilibrare siffatto potere privato, a fronte del quale il lavoratore versa in una situazione di soggezione. 5. - Per le esposte considerazioni, dunque, la denunziata norma - che con l'accertata illegittimita' del licenziamento presume che il lavoratore abbia subi'to un danno predeterminato in una misura base aumentabile quando si dia prova di un ulteriore pregiudizio - non viola il principio costituzionale di ragionevolezza; e, quanto al parametro di cui all'art. 24 della Costituzione (erroneamente indicato nell'art. 27), nessuna lesione sussiste, perche' "la garanzia costituzionale della difesa opera entro i limiti del diritto sostanziale" (sentenza n. 178 del 1975).