ha pronunciato la seguente
                               Ordinanza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 13-ter del
 d.-l. 15 gennaio 1991, n. 8 (Nuove misure in materia di sequestri  di
 persona  a  scopo  di  estorsione  e  per la protezione di coloro che
 collaborano con la giustizia), convertito, con  modificazioni,  nella
 legge 15 marzo 1991, n. 82, aggiunto dal d.-l. 8 giugno 1992, n.  306
 (Modifiche   urgenti   al   nuovo   codice   di  procedura  penale  e
 provvedimenti di contrasto alla  criminalita'  mafiosa),  convertito,
 con  modificazioni,  nella  legge 7 agosto 1992, n. 356, promosso con
 ordinanza emessa l'8 luglio 1997 dal  Tribunale  di  sorveglianza  di
 Torino nel procedimento penale a carico di Lazzari Giuseppe, iscritta
 al  n.  762  del  registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta
 Ufficiale della Repubblica n. 45,  prima  serie  speciale,  dell'anno
 1997.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella camera di consiglio del 30 settembre  1998  il  giudice
 relatore Francesco Guizzi.
   Ritenuto  che nel corso del procedimento inerente alla revoca della
 detenzione domiciliare di un condannato il Tribunale di  sorveglianza
 di  Roma  concedeva  il  beneficio  relativo all'espiazione, in forma
 alternativa, della pena residua di anni 21, mesi 7  e  giorni  20  di
 reclusione;
     che  la  misura  veniva  concessa  in  deroga  alle  disposizioni
 riguardanti i limiti di pena di  cui  all'art.  47-ter  primo  comma,
 della   legge   26   luglio  1975,  n.  354  (Norme  sull'ordinamento
 penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e  limitative
 della  liberta'),  risultando  il  condannato titolare dello speciale
 programma di protezione di cui all'art. 10 del d.-l. 15 gennaio 1991,
 n.  8  (Nuove  misure  in  materia di sequestri di persona a scopo di
 estorsione e per la protezione  di  coloro  che  collaborano  con  la
 giustizia), convertito, con modificazioni, nella legge 15 marzo 1991,
 n. 82;
     che,  successivamente,  il magistrato di sorveglianza di Roma, su
 richiesta del servizio centrale di protezione, al fine di tutelare la
 sicurezza   personale   e   prevenire   il   pericolo   di   ricaduta
 dell'interessato nel reato, modificava le prescrizioni concernenti la
 misura    alternativa    accordandogli    la   facolta'   di   uscire
 dall'abitazione per alcune ore della giornata;
     che  il  Tribunale   di   sorveglianza   di   Roma,   con   altro
 provvedimento,  prendeva  atto  che  la  Commissione  centrale  per i
 servizi  speciali  di  protezione  -  senza  che   vi   fosse   stata
 inosservanza   degli   impegni   assunti   dall'interessato   con  la
 sottoscrizione del programma di protezione - non aveva  prorogato  le
 misure per la tutela dell'incolumita', e conseguentemente autorizzava
 il  trasferimento  del  domicilio  del condannato nel luogo della sua
 abituale dimora, posta in Torino;
     che, in tale localita', il detenuto chiedeva l'autorizzazione  ad
 assentarsi  dall'abitazione  per  svolgere  un'attivita'  presso  una
 cooperativa, in qualita' di socio lavoratore;
     che  il  magistrato  rimetteva   gli   atti   al   Tribunale   di
 sorveglianza,  instaurando  un  procedimento  di  revoca della misura
 senza la sospensione cautelare della stessa;
     che, all'udienza camerale, la difesa del detenuto ha invocato  il
 non  luogo  alla  revoca  del  beneficio,  invitando il magistrato di
 sorveglianza ad accogliere le richieste  prescrizioni  inerenti  alla
 misura,  ai  sensi  dell'art.  5 del decreto ministeriale 24 novembre
 1994, n. 687 (Regolamento recante  norme  dirette  ad  individuare  i
 criteri  di  formulazione  del  programma di protezione di coloro che
 collaborano con la giustizia e le relative modalita' di attuazione);
     che il pubblico ministero ha concluso per la revoca della  misura
 ai  sensi  dell'art.  13-ter del d.-l. n. 8 del 1991, convertito, con
 modificazioni, nella legge n. 82  del  1991,  articolo  aggiunto  dal
 d.-l.  8  giugno  1992,  n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di
 procedura penale  e  provvedimenti  di  contrasto  alla  criminalita'
 mafiosa),  convertito,  con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992,
 n. 356, che subordina l'espiazione della pena  in  forma  alternativa
 alla sottoposizione allo specifico programma di protezione;
     che  il  Tribunale  di  sorveglianza  di  Torino, all'esito della
 camera di consiglio, ha sollevato, in riferimento agli artt.  3,  27,
 terzo  comma,  e  13  della  Costituzione,  questione di legittimita'
 costituzionale del citato art. 13-ter;
     che detta disposizione contiene la disciplina circa  l'ammissione
 ai   benefici   previsti   dall'ordinamento  penitenziario  per  quei
 condannati che abbiano esigenze ineludibili di tutela della sicurezza
 e della incolumita' personale, tanto da sottostare  a  una  serie  di
 misure idonee a realizzare il programma di protezione;
     che le misure alternative alla detenzione o equivalenti (permessi
 premio,  lavoro  all'esterno)  sono  subordinate al parere preventivo
 dell'autorita' competente a predisporre il  programma,  si'  che,  al
 fine  di  garantire  l'incolumita'  personale  di questi soggetti, le
 misure - comprese quelle con riguardo al limite della pena -  possono
 essere concesse anche in deroga alle vigenti disposizioni;
     che tuttavia la norma denunciata nulla statuirebbe in merito alle
 determinazioni  da  adottare  in  caso  di  revoca  del  programma di
 protezione;
     che, in  particolare,  si  porrebbe  il  problema  per  il  caso,
 all'esame,  in  cui lo speciale programma, adottato nei confronti del
 collaboratore, sia  stato  revocato  per  ragioni  non  attinenti  al
 comportamento del soggetto protetto, essendo venuto meno il pericolo,
 grave e attuale, per la sua incolumita';
     che  il  dubbio  interpretativo non potrebbe essere risolto dalla
 disposizione contenuta nel regolamento  esecutivo  approvato  con  il
 citato  decreto  ministeriale  n. 687 del 1994, ove si prevede la non
 automatica  efficacia  della  revoca  del  programma  di   protezione
 adottato ai sensi dell'art. 13-ter trattandosi di una fonte normativa
 subordinata  alla  legge che non precluderebbe l'autonoma valutazione
 da parte del Tribunale di sorveglianza;
     che qualora la revoca sia avvenuta per cause  non  imputabili  al
 collaboratore,   come   nella  fattispecie,  l'interpretazione  della
 disposizione censurata - che  consente  la  permanenza  della  misura
 alternativa al di fuori dei limiti fissati dalla legge per le ipotesi
 ordinarie  - e' subordinata al protrarsi del programma di protezione,
 stante l'obbligo per il Tribunale  di  sorveglianza  di  revocare  la
 misura  in  corso  ove  non  permangano  le  condizioni  ordinarie di
 ammissibilita';
     che  tale  interpretazione  sarebbe  in  contrasto  sia  con   il
 principio  di  emenda,  contenuto  nell'art.  27,  terzo comma, della
 Costituzione, il quale esclude ogni mutamento  della  pena  in  senso
 peggiorativo  e  restrittivo  -  allorche'  l'evento  non dipenda dal
 comportamento del condannato - sia con  quanto  statuisce  l'art.  13
 della  Costituzione,  perche' il ripristino della detenzione in forma
 ordinaria  per  il  collaboratore   incolpevole   introdurrebbe   una
 limitazione immotivata della liberta' personale, con evidente lesione
 del suo carattere di inviolabilita';
     che  la  disposizione censurata violerebbe siffatti principi pure
 nell'ipotesi in cui venisse interpretata in senso piu' favorevole  al
 condannato,  poiche'  la revoca del programma di protezione - ove non
 dovesse  comportare  tale  effetto   per   i   benefici   esterni   -
 permetterebbe   ai   collaboratori   sottoposti  a  detto  programma,
 successivamente  revocato,  di  continuare  a  godere  dei   benefici
 penitenziari  al  di  fuori  delle  condizioni previste per tutti gli
 altri detenuti, con lesione dell'art.  3 della Costituzione, giacche'
 situazioni   personali   identiche   riceverebbero   un   trattamento
 differenziato  soltanto  in ragione di una misura preventiva non piu'
 attuale;
     che e' intervenuto il  Presidente  del  Consiglio  dei  Ministri,
 rappresentato  e  difeso dall'Avvocatura dello Stato, concludendo per
 l'inammissibilita' e, in subordine, per l'infondatezza;
     che alla base della denuncia di illegittimita' costituzionale  vi
 e' un dubbio interpretativo;
     che,  in  assenza  di  un  ius  receptum,  tale  dubbio, comunque
 risolto, e' per  il  giudice  a  quo  in  contrasto  con  i  principi
 costituzionali  richiamati, si' che la questione appare inammissibile
 all'interventore, essendo prospettata in via alternativa;
     che,  nel  merito,  essa sarebbe infondata, poiche' la revoca dei
 benefici penitenziari in caso di cessazione del programma "per essere
 venuta meno la situazione di  pericolo",  risponderebbe  alla  logica
 "remota  causa  removitur et effectum" senza violazione del principio
 della finalita' rieducativa della pena e  di  quello  della  liberta'
 personale;
     che,  con  riguardo  alla  situazione  ermeneutica che esclude la
 revoca del beneficio, non vi sarebbe altresi' lesione  del  principio
 di  uguaglianza,  giacche'  il  trattamento  di  favore  riservato al
 collaboratore  sarebbe  giustificato  in  una  logica  premiale   nei
 confronti  di  chi  non si sia soltanto limitato a collaborare con la
 giustizia, ma cio' facendo si sia esposto al pericolo personale.
   Considerato che viene sollevata,  in  riferimento  agli  artt.  27,
 terzo  comma,  e  13 della Costituzione, la questione di legittimita'
 costituzionale dell'art. 13-ter  del d.-l. n. 8 del 1991, convertito,
 con   modificazioni,   nella   legge   n.   82   del    1991    tanto
 nell'interpretazione secondo cui si debba procedere alla revoca della
 misura  alternativa alla detenzione o dei benefici equiparati - anche
 nel caso di incolpevole comportamento del  condannato  al  quale  sia
 stato   revocato   lo  speciale  programma  di  protezione  -  quanto
 nell'interpretazione secondo  cui,  pur  nella  medesima  situazione,
 debba mantenersi detta misura o altra equivalente;
     che  sarebbe  dunque  leso il principio di emenda (in ragione del
 trattamento sanzionatorio comminato in peius al condannato) e  quello
 della  liberta'  personale che e' limitabile, motivatamente, soltanto
 nei casi e nei modi previsti dalla legge;
     che sarebbe altresi' violato l'art. 3 della Costituzione, perche'
 situazioni   personali   identiche   riceverebbero   un   trattamento
 differenziato  solo  in  ragione  della  primitiva e non piu' attuale
 applicazione delle misure protettive disposte per i collaboratori;
     che questa Corte, per consolidato orientamento giurisprudenziale,
 ha  dichiarato  la  manifesta  inammissibilita'   di   questioni   di
 legittimita'   costituzionale   sollevate   in  maniera  perplessa  o
 ancipite, tali dovendosi ritenere quelle in cui  si  configurano  due
 possibili  interpretazioni  (da  ultimo,  ordinanza n. 187 del 1998),
 prospettate in via alternativa  dal  giudice  a  quo  senza  compiere
 puntuale scelta ermeneutica (sentenze nn. 473 e 472 del 1989);
     che,   in  tal  modo,  le  questioni  hanno  carattere  meramente
 ipotetico (sentenza  n.  1146  del  1988),  si'  che  non  consentono
 l'identificazione del thema decidendum (ordinanza n. 317 del 1991).
   Visti  gli  art.  26,  secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale