IL TRIBUNALE MILITARE Ha pronunciato nella pubblica udienza del 7 ottobre 1998 la seguente ordinanza nel procedimento a carico di Lauria Giancarlo nato a Cirie' (Torino) il 1 marzo 1977, e residente a Grumento Nova (Potenza) in via C. da Campestrini; libero, incensurato, contumace, imputato del reato p.e.p. dall'art. 8, secondo comma, legge n. 772/1972 e successive modifiche perche', recluta nel 1 Rgt. Ftr. "San Giusto", il giorno 16 luglio 1997, nella caserma sede del predetto reparto, rifiutava prima di assumerlo, il servizio di leva, omettendo di indossare l'uniforme adducendo imprescindibili motivi di coscienza, basati su profondi convincimenti morali e filosofici. Rilevato che il reato per cui si procede nei confronti di Lauria Giancarlo, a seguito della entrata in vigore della legge 8 luglio 1998, n. 230, deve inquadrarsi nella ipotesi di cui all'art. 14, secondo comma, della indicata legge, attesa la identita' degli elementi costitutivi; Considerato che la nuova legge sull'obiezione di coscienza, al comma 3 del citato art. 14, attribuisce al pretore del luogo ove il servizio di leva doveva essere svolto, la competenza a giudicare dei reati in questione e che, pertanto, in stretta applicazione del principio della immediata operativita' delle disposizioni processuali e in assenza di norme transitorie derogatorie, rientrano nella giurisdizione dell'autorita' giudiziaria ordinaria sia le fattispecie verificatesi in data successiva all'entrata in vigore della legge sia quelle realizzate in data antecedente per cui il procedimento penale risulti ancora pendente; Valutato che e' rilevante nel giudizio in corso, verificare se quanto disposto dall'art. 14, comma 3, legge n. 230/1998 sia costituzionalmente illegittimo, per le evidenti conseguenze circa la individuazione della autorita' giurisdizionale competente; Considerato che le parti hanno cosi' concluso: il p.m. chiedendo che venga sollevata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 3, legge n. 230/1998 e la difesa associandosi a tali richieste, il tribunale osserva quanto segue. Il collegio ritiene che la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 14, comma 3, legge n. 230/1998 sollevata dal p.m. non sia manifestamente infondata per contrasto con gli artt. 3, 25, primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione nei seguenti termini. Preliminarmente occorre rilevare che la ipotesi di reato di cui all'art. 14, comma 2, della indicata legge, per i suoi elementi costitutivi e le modalita' di esecuzione, nonche' per la sanzione, non si differenzia, sostanzialmente, da quella precedentemente prevista dall'art. 8, secondo comma, legge n. 772/1972 come specificata dagli interventi della Corte costituzionale. Con la citata disposizione viene punito colui che rifiuta il servizio militare, prima o dopo averlo assunto, adducendo motivi di coscienza. Tale fattispecie di reato, come quella di cui all'art. 8 citata, configura un'ipotesi di reato militare, che puo' essere commesso solo da soggetto appartenente alle Forze armate. Quanto alla natura di reato militare della fattispecie in questione, cio' si sostiene in considerazione del fatto che la legge n. 230/1998 disciplina lo svolgimento di un servizio di leva, seppure diverso da quello armato, e prevede all'art. 14, una ipotesi di reato che intende impedire la realizzazione di una condotta violatrice di interessi militari. In merito, in virtu' di quanto disposto dall'art. 37 c.p.m.p., si considera reato militare ogni violazione della legge penale militare, dovendosi intendere per tale, seguendo anche le indicazioni fornite dal legislatore nei lavori preparatori del codice, ogni fonte normativa, sia pure non codificata, che tuteli l'ordine giuridico militare prevedendo l'applicazione di una sanzione penale nel caso di sua violazione. Orbene, la nozione fornita dall'art. 37 c.p.m.p., non puo' che imporre una attenzione anche agli elementi "contenutistici" della singola norma. Cio' ha affermato la stessa Corte costituzionale allorquando, al fine di specificare l'ambito applicativo dell'art. 103 Cost., ha ritenuto che la nozione di carattere contenustico del reato militare consente all'art. 103 citato di svolgere effettivamente la sua funzione limitatrice della giursdizione militare (Corte cost. sent. n. 81 del 1980). Nella medesima decisione ha altresi' specificato che ''... la definizione contenuta nell'art. 37 deve essere a sua volta valutata nel sistema in cui si colloca (...) tanto (...) da riscontrare che il legislatore non ha certo configurato ad arbitrio i reati militari bensi' ha tenuto conto del fatto che nei loro elementi materiali costitutivi essi non sono previsti dalla legge penale comune o comunque offendono, accanto ad interessi tutelati dalla legge stessa, interessi aventi natura militare'' (e nel medesimo senso anche sent. n. 298 del 6 luglio 1995). Di talche', pur nell'ambito della cd. concezione formale di reato militare, non puo prescindersi, sia pure attraverso valutazioni da effettuarsi caso per caso, dall'accertamento della effettiva violazione di beni-interessi di rilevanza militare a cui la singola norma, inserita in legge penale militare, e' rivolta. Tanto premesso, in applicazione dei principi esposti, non puo' non considerarsi l'aspetto "contenutistico" del reato di rifiuto del servizio di leva per motivi di coscienza, al fine di comprenderne la natura. La stessa Corte costituzionale ha individuato la oggettivita' giuridica di tale fattispecie nella tutela della regolare incorporazione. ...''Per quanto subiettivamente diversificati i delitti di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e di mancanza alla chiamata ex art. 151 c.p.m.p. ledono con modalita' oggettive analoghe uno stesso interesse quello ad una regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva nell'organizzazione militare'' (sentenza n. 409 del 1989). Quindi, il giudice delle leggi ha ritenuto che il reato di rifiuto per motivi di coscienza offende un interesse esclusivamente militare al pari della ipotesi di cui all'art. 151 c.p.m.p. riconoscendo, in tal modo, la natura di reato militare dello stesso deducibile da una valutazione contenutistica, quale appunto quella legata al beneinteresse tutelato. Seppure tale intervento della Corte ha riguardato la abrogata ipotesi di cui all'art. 8 legge n. 772/1972, purtuttavia non puo' porsi in dubbio che la valutazione sia applicabile anche alla nuova ipotesi delittuosa vista la identita' del fatto di reato, come prima indicato. Cio' posto, attesi anche i citati interventi della Consulta in merito al reato di cui all'art. 8 legge n. 772/1972, pacificamente ritenuto reato militare anche dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, l'ipotesi di cui all'art. 14 legge n. 230/1998 non puo' che considerarsi reato rilitare al pari di quello di cui all'art. 8, legge n. 772/1972. Quanto al soggetto attivo del reato, va osservato che tale puo' essere solo colui che ha acquisito lo status di militare a seguito dell'arruolamento, nell'attualita' dell'obbligo di leva. Cio' in quanto lo stesso art. 14, valutato comparatisticamente con l'art. 1 della medesima legge, pur nel rivolgersi genericamente a ''chi non ha chiesto o non ha ottenuto l'ammissione al servizio civile'', delimita l'ambito applicativo della norma alle ipotesi di condotta posta in essere da coloro che risultino gia' arruolati atteso che, ai sensi dell'art. 1 legge citata, la presentazione della istanza di ammissione al servizio sostitutivo puo' concretizzarsi solo dopo tale momento. Pertanto, li' dove l'art. 14 fa riferimento genericamente a chi non ha presentato la istanza o non ha ottenuto l'ammissione richiesta, si deve intendere che il soggetto attivo non puo' che essere colui che, in quanto gia' arruolato, ha assunto lo status di militare. In definitiva, non essendo intervenuta alcuna modifica da parte del legislatore, il reato de quo puo' essere commesso solo da colui che, arruolato e chiamato alle armi, nella attualita' del servizio, assume lo status di appartenente alle forze armate. Cio' sia ex art. 3 c.p.m.p., nel caso di presentazione al reparto per dichiarare il proprio rifiuto, sia ex art. 5 c.p.m.p., nel caso di rifiuto concretizzatosi in arbitraria assenza dal servizio. Cio' posto, il collegio non puo' che rilevare la diversita' di disciplina prevista nel caso di reato militare ex art. 14 citato commesso dall'obiettore e di altro reato militare commesso da appartenente alle forze armate. Mentre nel primo caso la giurisdizione e' attribuita al giudice ordinario; nel secondo al giudice militare. Tale disparita' di trattamento determina la violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. Non appare ragionevole, infatti, il diverso trattamento riservato agli obiettori di coscienza soprattutto li' dove si consideri che, pur nella ormai quasi parificata disciplina dei processi penali comuni e quelli penali militari, si applicherebbe, comunque, una disciplina diversa per ipotesi di reato accomunate dalla natura militare della fattispecie delittuosa nonche' dalla qualifica di appartenente alle Forze armate del soggetto agente. La irragionevolezza di tale disposizione appare ancor piu' evidente qualora si faccia riferimento a specifici reati, quale quello di mancanza alla chiamata (reato militare, previsto dal codice penale militare di pace commesso da appartenente alle forze armate) che, seguendo l'assunto della Corte costituzionale (sent. n. 409 del 1989), presentano il medesimo disvalore di quello di cui al nuovo art. 14, comma 2, legge n. 230/1998 ma che, purtuttavia, vengono giudicati da diversa autorita' giurisdizionale. La norma in questione appare ulteriormente in contrasto con gli artt. 25 e 103, terzo comma, Cost. in quanto violerebbe il principio del giudice naturale precostituito per legge. L'art. 103, terzo comma, della Costituzione sancisce la giurisdizione dei tribunali militari in tempo di pace per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate. Orbene, questo collegio, non ignora che tale disposizione debba intendersi quale delimitazione della indicata giurisdizione e che la stessa Corte Costituzionale ha piu' volte ribadito che quella militare e' una giurisdizione ''eccezionale'', purtuttavia non puo' altresi' ignorare che, il combinato disposto dell'art. 103, terzo comma, e 25, primo comma, Cost. individua, nei tribunali militari, il giudice naturalmente preposto a conoscere di reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate. Il tribunale ritiene che questa indicazione e' derogabile da parte del legislatore solo in presenza di plausibili ragioni, per esempio la connessione con procedimenti per reati comuni (Corte sent. n. 206/1987) o la qualita' di minorenne del soggetto attivo militare (Corte sent. n. 222/1983); in mancanza, come nel caso di specie, la deroga alla giusdizione dei tribunali militari concreta una violazione degli artt. 25, primo comma, e 103, terzo comma, Cost. Il legislatore, infatti, nell'intervenire discrezionalmente a regolare le fattispecie normative, non puo' disattendere il canone della ragionevolezza, come piu' volte ribadito dalla stessa Corte, ne' puo' ignorare il diritto, costituzionalmente garantito, di ciascun cittadino a non essere distolto dal suo giudice naturale.