IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale distinto al n. 1623/1990 mod. 22, relativo all'ipotesi di reato di cui all'art. 528 del c.p., il procuratore della Repubblica presso la pretura circondariale chiedeva in data 13 novembre 1990 l'archiviazione nei confronti delle due persone indagate; questo giudice con ordinanza 16 novembre 1990 rigettava la richiesta per esclusive ragioni di diritto ed ordinava la restituzione degli atti al p.m., disponendo che lo stesso formulasse l'imputazione ai fini degli adempimenti previsti dagli artt. 555 e seguenti del c.p.p. Il sostituto procuratore restituiva in data 23 novembre 1990 gli atti a questo ufficio, chiedendo in via principale che fossero formulate le indicazioni o direttive attinenti alla concreta formulazione del capo d'imputazione; in subordine, per l'ipotesi di non accoglimento della sua richiesta, denunciava di sospetta incostituzionalita' le norme degli artt. 554, secondo comma, del c.p.p. e 158 delle disp. att. per le ragioni che qui integralmente si trascrivono: " A) Secondo l'art. 101, secondo comma, della Costituzione, i giudici sono soggetti soltanto alla legge. Tale norma, come autorevolmente sostenuto in dottrina, mira ad evitare qualsiasi rapporto di dipendenza non solo verso 'l'esterno' della Magistratura, ma anche al suo interno. La volonta' di escludere rapporti o momenti 'gerarchici' e' ribadita con l'art. 107, terzo comma, della Costituzione, il quale afferma appunto che l'unico momento distintivo fra magistrati e' la diversita' di funzioni. Non sembra dubbio che tale garanzia di indipendenza spetti anche al magistrato del pubblico ministero (come pure affermato in dottrina). Egli infatti, avendo come suo dovere quello di concorrere all'applicazione della legge nelle fattispecie concrete non puo' avere altro parametro o subordinazione che rispetto alla legge medesima. (Corte costituzionale 29 aprile 1975 definisce il p.m. come organo della giurisdizione in senso lato (v. anche Corte costituzionale n. 190/1970). Le norme che lo riguardano in particolare (artt. 104-107) sono contenute nella sez. I ('Ordinamento giurisdizionale')del titolo IV della Costituzione). Che questa fosse la volonta' del Costituente e' del resto reso esplicito dall'art. 107, terzo comma, della Costituzione che piu' propriamente parla di 'magistrati'. Non c'e' dubbio allora che il combinato disposto degli artt. 554, secondo comma, del c.p.p. e 158 in attuazione del c.p.p. contrasti con gli artt. 101, secondo comma, e 107, terzo comma, della Costituzione, poiche' subordina il p.m. (non direttamente alla legge, ma) al punto di vista del g.i.p.; e poco importa che la volonta' del g.i.p. si estrinsechi comunque in applicazione e nell'ambito del diritto oggettivo. Anche nell'ambito della pubblica amministrazione il superiore gerarchico da i propri ordini sulla base ed in applicazione di norme giuridiche, ma cio' non significa che il rapporto non sia, appunto, gerarchico; proprio quel tipo di rapporto che l'art. 107, terzo comma, della Costituzione ha voluto evitare che si instauri fra magistrati. In sostanza tale norma costituzionale (e l'art. 101, secondo comma, della Costituzione) in tanto puo' avere un autonomo significato (rispetto agli ordinari rapporti interni alla pubblica amministrazione) in quanto preveda la diretta subordinazione del magistrato rispetto alla legge. Il disposto costituzionale ha previsto che i magistrati siano divisi (non per posizioni gerarchiche ma solo) per diversita' di funzioni; all'interno di ciascuna funzione il magistrato e' subordinato direttamente alla legge. Detto principio naturalmente non contrasta con il fatto ovvio che l'ordinamento riconosca alle diverse funzioni giudiziarie ruoli diversi: cosi' e' ben naturale che la decisione del giudice di secondo grado prevalga su quella del giudice di primo grado, perche' all'interno delle loro rispettive funzioni ciascuno dei giudici ha ubbidito soltanto alla legge, ovviamente secondo la propria opera interpretativa. Sarebbe al contrario del tutto incostituzionale la norma che consentisse al giudice di secondo grado di ordinare a quello di primo grado di pronunciarsi in modo diverso rispetto alla prima decisione. Quindi: diversita' di funzioni (che nella loro diversita' - di ruoli - concorrono tutte all'applicazione della legge al caso concreto), ma, all'interno di ciascuna funzione, soggezione del magistrato solo e direttamente alla legge. L'approfondimento delle norme costituzionali appena terminato consente di porre ancor piu' in evidenza la incostituzionalita' delle norme impugnate. Fra p.m. e g.i.p. vi e' certamente diversita' di funzioni: il p.m. prende le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale e il g.i.p. (a tutela dell'art. 112 della Costituzione) esercita sulle medesime una funzione di controllo. Tale meccanismo e' perfettamente equilibrato, ed e' perfettamente logico che la funzione di controllo prevalga sulla funzione controllata. Le norme impugnate diventano incostituzionali nel momento in cui fanno del p.m. uno strumento della funzione esercitata dal g.i.p. Si vuol dire: il p.m. ha svolto la sua funzione, ritenendo che l'azione penale non debba essere esercitata. Il g.i.p., nella sua funzione di controllo arriva a conclusioni opposte; tale funzione di controllo - per non essere del tutto sterile - deve ovviamente sfociare in una imputazione, la cui individuazione e' l'essenza stessa del controllo ex art. 112 della Costituzione. La norma pero', invece che mantenere p.m. e g.i.p. all'interno delle reciproche funzioni, finisce per fare del p.m. uno strumento della funzione di controllo spettante al g.i.p. con il compito addirittura di individuare l'imputazione. Ed infine: p.m. e g.i.p., all'interno della medesima funzione di controllo, vengono necessariamente (ormai) distinti in posizioni gerarchiche, dovendosi ovviamente dare prevalenza alla volonta' del controllante: i due magistrati non sono piu' distinti solo per diversita' di funzioni (all'interno delle quali ciascuno risponda soltanto alla legge) ma per diverse posizioni gerarchiche all'interno della medesima funzione il cui titolare e' il g.i.p. L'accusa 'forzata' del p.m. deriva infatti, sia logicamente (l'individuazione dell'imputazione e' l'essenza del controllo) che volitivamente (e' stato il g.i.p. ad ordinare) dalla funzione di controllo del g.i.p.: non fa parte delle sue determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale (art. 326 del c.p.p.). La soluzione logica e' quella di attribuire al g.i.p. il potere-dovere di esercitare l'intera funzione di controllo, formulando lui stesso l'imputazione; in tal modo si risolverebbe sia il problema di costituzionalita' che si sta trattando che quello di seguito trattato. I precedenti giurisprudenziali della Corte costituzionale su tale punto sono i seguenti: a) La Corte ha avuto modo, anzitutto, di ocuparsi dell'at. 74, ultimo comma, del c.p.p. abrogato. A tal proposito Corte costituzionale 7 dicembre 1964, n. 102, affermava sostanzialmente che in quella ipotesi procuratore della Repubblica e pretore agivano nella esplicazione di funzioni diverse, e non all'interno di un rapporto gerarchico. Sul medesimo problema Corte costituzionale 29 aprile 1975, n. 95, compiva ulteriore approfondimento, 'salvando' l'art. 74, ultimo comma cit., soprattutto sul rilievo che il pretore (cui fosse stato ordinato di procedere) conservava liberta' di valutazione e convincimento, potendo prosciogliere in istruttoria e in dibattimento. Tale presupposto di costituzionalita', a suo tempo evidenziato dalla Corte, nel caso qui esaminato non esiste, perche' il p.m. (di fronte all'ordine del g.i.p.) non ha alcuna scelta: deve formulare l'accusa. Il fatto che, come si dira', egli rimane titolare di una certa liberta' nella concreta formulazione del capo di imputazione, non e' sufficiente a superare il fatto fondamentale: gli e' stato imposto il processo; piu' precisamente: gli e' stato imposto di sottoscrivere una imputazione che aveva egli stesso negato; b) ancora piu' interessante e' la sentenza 9 giugno 1971, n. 123, avente ad oggetto l'art. 370 del c.p.p. abrogato. In quella occasione la Corte ammise in sostanza che l'interpretazione della norma nel senso che il giudice istruttore fosse obbligato a dar corso all'ordine di indagini era incostituzionale. Pertanto dovette avallare l'interpretazione che considerava non vincolante tale 'richiesta'. E cio' e' tanto piu' significativo ai nostri fini, perche' nel nostro caso il p.m. non riceve l'ordine di compiere indagini (che comunque non lo vincolano a pronunciarsi sulla posizione dell'indagato), ma addirittura di condurre il cittadino a rispondere di una imputazione in pubblico dibattimento; c) la sentenza della Corte del 2 aprile 1970, n. 50, tratta di una fattispecie non assimilabile (art. 546, primo comma, del c.p.p. abrogato): non e' infatti fattibile nel nostro caso il discorso relativo alla formazione progressiva del giudicato. In ogni caso la paternita' del principio di diritto viene assunta dai magistrati della Corte di cassazione. B) Le norme impugnate appaiono incostituzionali anche in relazione al disposto dell'art. 112 della Costituzione, secondo il quale l'azione penale e' obbligatoria. Il rispetto di tale principio costituzionale implica e postula, ovviamente, un'adeguata forma di controllo sull'esercizio (e soprattutto sul non esercizio) dell'azione penale. L'inadeguatezza di tale forma di controllo si traduce di conseguenza nella illegittimita' costituzionale delle norme che tale controllo prevedono e disciplinano. Non c'e' dubbio che il combinato disposto degli artt. 554, secondo comma, del c.p.p. e 158 delle norme di attuazione del c.p.p. rappresenti una forma di controllo del tutto insufficiente. Le norme infatti, da un lato creano un rapporto gerarchico fra g.i.p. e p.m., prevedono l''ordine d'imputazione'; d'altro lato pero' non prevedono un contenuto tassativo dell'imputazione che sia vincolante per il p.m. Certamente, in tale secondo caso il p.m. si sarebbe trasformato in un mero esecutore materiale di quanto disposto dal g.i.p. Trattasi cioe' di un ordine sufficiente alla configurazione di un rapporto gerarchico, ma non totalizzante al punto da garantire illimitatamente la prevalenza del punto di vista del g.i.p. E' pur vero che l'ordinanza di cui all'art. 554, secondo comma, del c.p.p. deve essere motivata. Si osserva pero' che la legge non prevede quanto dettagliata debba essere tale motivazione e quali contenuto e funzione debba avere. A fronte di tale indeterminatezza sta la constatazione che anche lievi modificazioni nella formulazione dell'imputazione possono avere importanza decisiva nel processo (si pensi ad esempio alla rilevanza della determinazione della data di consumazione del reato in relazione all'arco temporale di applicazione di un provvedimento di amnistia). L'art. 125, terzo comma, del c.p.p. non costituisce quindi un valido presidio, ex art. 112 della Costituzione. Inoltre e' ancor piu' decisivo osservare che non si prevede alcun obbligo del p.m. di adeguarsi perfettamente alle eventuali direttive del g.i.p., che, si ripete, potrebbero anche mancare. Si pensi ad esempio al caso in cui il p.m. abbia affrontato una questione di diritto pregiudiziale e sulla base della relativa soluzione abbia chiesto l'archiviazione. In tal caso il g.i.p. potrebbe limitarsi a motivare il proprio contrario avviso su tal punto (senza fornire i dati precisi dell'imputazione; con cio' sarebbe evitata la nullita' di cui all'art. 125, terzo comma, ma non avremmo garantito l'osservanza dell'art. 112 della Costituzione). In sostanza il p.m. rimane in grado di condizionare l'esito del processo attraverso l'esatta individuazione dell'imputazione, pur essendo obbligato alla accusa. Ne il vaglio dibattimentale di cui all'art. 521, secondo comma, del c.p.p. appare sufficiente ai fini dell'art. 112 della Costituzione, poiche' sarebbe comunque sempre il p.m. a rimanere arbitro dell'imputazione. In realta' l'insufficienza del sistema, che si e' appena evidenziata, deriva da una verita' fondamentale, come si rilevava sub a): che cioe' l'individuazione dell'imputazione e' l'essenza stessa del controllo; privarne il g.i.p. equivale quindi a minarne alla base il relativo potere di controllo. L'unico vero controllo (ai fini dell'art. 112 della Costituzione) e' in realta' quella 'sostitutivo', e non quello 'sollecitatorio'. Posto infatti che in tale momento processuale e' il g.i.p. a scorgere negli atti l''imputazione', unica soluzione e' che sia il g.i.p. a formularla nei suoi esatti contorni. Ogni diversa impostazione non garantisce la prevalenza 'in toto' del punto di vista del g.i.p. (funzione controllante) su quello del p.m. (funzione controllata) con conseguente violazione dell'art. 112 della Costituzione. C) Le norme impugnate si palesano viziate di incostituzionalita' anche in relazione all'art. 97 della Costituzione. A tale proposito sara' bene ricordare la sentenza Corte costituzionale 10 maggio 1982, n. 86, della Corte costituzionale, la quale (punto 5) afferma espressamente che la sezione II del titolo III della Costituzione non ignora lo stato giuridico dei giudici, e che anche gli uffici giudiziari devono rispondere ai parametri dell'art. 97 della Costituzione, e quindi funzionare secondo regole che ne garantiscano il buon andamento. Una norma che sia tale da pregiudicare tale buon andamento sarebbe incostituzionale nel senso gia' detto. D'altra parte ci risulta che il giudice delle leggi, con sentenza n. 18 del 18 gennaio 1989 abbia dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 16, della legge 13 aprile 1988, n. 117, relativo alla documentazione dei provvedimenti collegiali dei giudici, proprio sulla base dell'art. 97 della Costituzione (Gazzetta Ufficiale n. 4, del 25 gennaio 1989, Corte costituzionale). Ci sembra che le norme impugnate di incostituzionalita' non siano conformi all'art. 97 della Costituzione, ma che anzi danneggino il buon andamento della funzione giudiziaria. Dal punto di vista del g.i.p. si osserva che il medesimo potra' limitarsi ad una soluzione parziale della vicenda portata al suo esame, nei limiti sufficienti a motivare la propria ordinanza di rigetto; non dovendo formulare l'imputazione potra' finire, inconsapevolmente, per non affrontare ulteriori problemi decisivi, relativi alla imputazione medesima. In ogni caso tale fattore, e soprattutto la circostanza per la quale comunque non dovra' assumersi la paternita' della imputazione, ne favorira' inconsapevolmente una sorta di 'deresponsabilizzazione'. Dal punto di vista del p.m. la contraddizione e' ancor piu' evidente: crede nella innocenza ma deve accusare, addirittura assumendosi la paternita' dell'accusa dinanzi ai consociati. Deve accusare senza sapere di cosa; e si noti bene che non si tratta di un profilo marginale nell'esercizio dell'azione penale, ma di un momento fondamentale e decisivo, quello della formulazione dell'imputazione. In sostanza si finisce per incrinare il meccanismo processuale proprio nel suo fulcro, cioe' al formulazione dell'accusa, con grave pregiudizio al buon andamento del processo medesimo e della relativa funzione giudiziaria. Anche per tale verso la logica soluzione sembra quella di concentrare l'intera funzione di controllo (ivi compresa la formulazione della imputazione, momento fondamentale della medesima) in capo al suo naturale titolare: il g.i.p. La rilevanza della questione, ai fini del presente giudizio dipende dal fatto che dalla sua soluzione consegue l'individuazione dell'organo che dovra' formulare l'imputazione medesima (e quindi la concreta emissione del decreto di citazione a giudizio), nonche' il contenuto stesso della imputazione". Questo giudice, preso atto della richiesta formulata dal p.m., osserva in via pregiudiziale che ne' l'art. 554, secondo comma, ne' altre norme processuali prevedono e consentono al giudice per le indagini preliminari, nel caso di rigetto della richiesta di archiviazione motivata su ragioni diverse dalla necessita' di ulteriori indagini (nei sensi di cui alla sentenza Corte costituzionale 26 settembre-12 ottobre 1990, n. 445), il potere-dovere di dare al p.m. indicazioni o direttive sul come dell'imputazione formulanda ovvero sui suoi contenuti concreti. Cio' premesso, si condividono le ragioni esposte dal p.m., le quali appaiono non manifestamente infondate nei vari profili di legittimita' dedotti; la loro definizione e' altresi' rilevante ai fini della modalita' dell'ulteriore procedere dell'attivita' dei due soggetti processuali interessati.