ha pronunciato la seguente
                                Sentenza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale  dell'art.  147,  primo  e
 secondo  comma,  del  regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
 del  fallimento,  del  concordato  preventivo,   dell'amministrazione
 controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promossi con
 ordinanze  emesse:  1)  il  15 ottobre 1997 dal Tribunale di Roma nel
 procedimento civile Gentile Orazio contro Fallimento Mauro  Tomassini
 Motors  s.a.s.    ed altri, iscritta al n. 306 del registro ordinanze
 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  18,
 prima  serie  speciale,  dell'anno  1998;  2)  il  18 giugno 1998 dal
 Tribunale di Roma nel procedimento  civile  Merlini  Miria  ed  altra
 contro  Masi  Giuseppe  ed  altri,  iscritta  al  n. 755 del registro
 ordinanze 1998 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
 n. 42, prima serie speciale, dell'anno 1998.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito  nella  camera  di  consiglio  del 13 gennaio 1999 il giudice
 relatore Annibale Marini.
                           Ritenuto in fatto
   1.  -  Nel corso di un giudizio di opposizione ad una dichiarazione
 di fallimento il Tribunale di Roma,  con  ordinanza  del  15  ottobre
 1997,  ha  sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale, in
 riferimento all'art. 3, primo comma,  della  Costituzione,  dell'art.
 147, primo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina
 del   fallimento,  del  concordato  preventivo,  dell'amministrazione
 controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in relazione
 all'art. 11, primo comma, dello stesso regio decreto "nella parte  in
 cui prevede che la sentenza che dichiara il fallimento della societa'
 con soci a responsabilita' illimitata produce il fallimento anche del
 socio  (illimitatamente  responsabile)  defunto,  pur  dopo  che  sia
 decorso un anno dalla morte".
   1.1.  -  Premessa  la  rilevanza  della  questione  -   in   quanto
 l'opposizione,  avente ad oggetto la declaratoria di fallimento di un
 socio accomandatario di societa' in accomandita semplice, intervenuta
 oltre un anno dalla morte di costui, si fonda proprio sulla  asserita
 non   assoggettabilita'   al  fallimento  del  socio  illimitatamente
 responsabile deceduto da oltre un anno, ai sensi degli artt. 10 e  11
 della  legge  fallimentare  (r.d.  n.  267  del 1942) - il rimettente
 rileva  innanzitutto  che,   per   consolidata   giurisprudenza,   il
 fallimento    del   socio   illimitatamente   responsabile   discende
 automaticamente  dal  fallimento  della  societa'  e   prescinde   da
 qualsiasi  accertamento, nei suoi confronti, dei presupposti previsti
 dagli artt. 1 e 5 della legge fallimentare. La ratio  del  fallimento
 del  socio illimitatamente responsabile di una societa' di persone si
 rinverrebbe  dunque  non  gia'  in  una  sua  ipotetica  qualita'  di
 imprenditore (o coimprenditore) commerciale, ma solo nell'esigenza di
 realizzare  la  garanzia  costituita  dal patrimonio del socio con le
 modalita' (quelle, appunto, della  procedura  fallimentare)  ritenute
 dal legislatore piu' idonee a tutelare la massa creditoria.
   1.2.   -  Osserva  ancora  il  giudice  a  quo  che  la  prevalente
 giurisprudenza    esclude    l'applicabilita',    alla    fattispecie
 disciplinata  dall'art.  147 della legge fallimentare, del termine di
 un anno previsto dagli artt. 10 e 11 della medesima legge riguardo al
 fallimento dell'imprenditore individuale defunto o che comunque abbia
 cessato l'attivita' di impresa.   Con la  conseguenza  che  il  socio
 illimitatamente  responsabile sarebbe assoggettato senza alcun limite
 di tempo al fallimento, pur dopo la morte o la perdita, per qualsiasi
 causa, della qualita' di socio, all'unica condizione che l'insolvenza
 della societa' si riferisca ad  obbligazioni  contratte  prima  dello
 scioglimento, nei suoi confronti, del rapporto sociale.
   1.3.  - La norma, cosi' interpretata, determinerebbe, ad avviso del
 rimettente,  una  disparita'  di   trattamento   tra   l'imprenditore
 individuale   cessato   o   defunto   ed   il  socio  illimitatamente
 responsabile di una societa' di persone cessato o defunto, in quanto,
 mentre il primo potrebbe essere dichiarato  fallito  solamente  entro
 l'anno   dalla  cessazione  dell'attivita'  di  impresa,  il  secondo
 resterebbe soggetto al fallimento senza alcun limite temporale.
   Siffatta  disparita'  di  trattamento  contrasterebbe,  secondo  il
 giudice  a  quo  con  il  principio  di  eguaglianza in quanto le due
 situazioni,  poste  a  confronto,  presenterebbero  quali  essenziali
 tratti   comuni:    l'esercizio  di  impresa  commerciale,  in  forma
 individuale  o  collettiva;  la  responsabilita'  illimitata  per  le
 obbligazioni   conseguenti;  la  cessazione  dell'esercizio  o  della
 partecipazione   all'esercizio   dell'impresa;   il  permanere  della
 responsabilita' illimitata per le obbligazioni  inerenti  all'impresa
 commerciale.
   Mentre  non  varrebbero  a  legittimare la denunciata diversita' di
 disciplina gli elementi di differenziazione delle due  fattispecie  e
 precisamente:  l'essere  l'impresa  esercitata  in  un  caso in forma
 individuale e nell'altro in forma collettiva; il non avere  il  socio
 la  qualita'  di imprenditore commerciale; il permanere dell'impresa,
 dopo lo scioglimento del rapporto sociale limitatamente al  socio,  a
 fronte  del venir meno dell'impresa dopo la cessazione dell'esercizio
 da parte dell'imprenditore individuale o dopo la morte di questo.
   1.4. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato, il quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilita' e
 infondatezza della questione.
   Rileva la difesa erariale che  identica  questione  e'  gia'  stata
 dichiarata da questa Corte manifestamente infondata, con ordinanza n.
 919  del 1988, sul rilievo che la posizione del socio illimitatamente
 responsabile non sarebbe comparabile, in tema di fallimento, a quella
 dell'imprenditore individuale, in quanto il fallimento del  socio  e'
 pronunciato  in  via  di  estensione  del  fallimento della societa',
 mentre il fallimento dell'imprenditore individuale  consegue  ad  una
 autonoma dichiarazione.
   2.  -  Con  altra  ordinanza,  del  18  giugno  1998,  di contenuto
 sostanzialmente identico, lo stesso giudice ha sollevato questione di
 legittimita' costituzionale, sempre in riferimento all'art. 3,  primo
 comma, della Costituzione, "dell'art. 147, commi 1 e 2, r.d. 16 marzo
 1942,  n.   267, in relazione all'art. 10 stesso r.d., nella parte in
 cui prevedono che, in caso di fallimento della societa'  con  soci  a
 responsabilita' illimitata, deve essere dichiarato, contestualmente o
 successivamente,   il  fallimento  anche  del  socio  illimitatamente
 responsabile, che abbia ceduto la sua quota, pur dopo che sia decorso
 un anno dalla iscrizione della cessione nel registro delle imprese".
                         Considerato in diritto
   1. - I due giudizi, avendo  ad  oggetto  questioni  sostanzialmente
 identiche,  possono  essere  riuniti  per  essere  definiti con unica
 sentenza.
   2. - La questione non e' fondata, nei sensi di seguito precisati.
   3. - Il rimettente mostra di condividere - pur dubitando della  sua
 legittimita'  costituzionale  - una interpretazione dell'art. 147 del
 regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del  fallimento,  del
 concordato   preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e  della
 liquidazione   coatta   amministrativa),   secondo   cui    i    soci
 illimitatamente  responsabili  delle societa' di persone resterebbero
 soggetti al fallimento in via  di  estensione  del  fallimento  della
 societa'  anche  successivamente  alla  perdita  per  qualunque causa
 (morte,  recesso,  esclusione,  cessione  della  quota)  della   loro
 qualita' di soci. E cio' senza alcuna limitazione di ordine temporale
 ed  all'unica  condizione  che  l'insolvenza  della societa' riguardi
 obbligazioni  da  questa  contratte  prima  dello  scioglimento   del
 rapporto sociale.
   Sarebbe,  pertanto,  evidente  la  disparita' di trattamento tra il
 socio illimitatamente responsabile e l'imprenditore che, nel caso  di
 morte   o   di   cessazione,   per  qualunque  causa,  dell'esercizio
 dell'impresa puo', invece, ai sensi degli artt. 10 e 11  della  legge
 fallimentare,  essere  dichiarato  fallito  solo  entro un anno dalla
 cessazione dell'impresa.  Disparita' che, secondo quanto ritenuto dal
 rimettente, risulterebbe  priva  di  ragionevole  giustificazione  e,
 pertanto, lesiva dell'art.  3 della Costituzione.
   4.  -  La  interpretazione  sulla cui base il rimettente solleva la
 questione di costituzionalita' non e', tuttavia, la sola  compatibile
 con  il  testo  e  la ratio della disposizione denunciata alla quale,
 come si vedra', e' possibile attribuire un significato  coerente  con
 il  rispetto  dei  precetti costituzionali e che, percio' stesso, non
 solo puo', ma deve essere preferito dall'interprete (v. sentenze  nn.
 307  del  1996,  296  del  1995  e 149 del 1994; ordinanza n. 188 del
 1998).
   5.  -  E'  noto  che  nel  sistema  della  legge  fallimentare   la
 dichiarazione  di  fallimento  presuppone la qualita' di imprenditore
 commerciale.
   La  possibilita',  prevista  negli  artt.  10  e  11  della   legge
 fallimentare,  del fallimento dell'imprenditore commerciale defunto o
 che per  altra  causa  abbia  cessato  l'esercizio  dell'impresa  non
 risulta,  a  ben  vedere,  inconciliabile con tale presupposto, ma ne
 costituisce un necessario corollario essendo volta ad  evitare,  come
 e'  stato  rilevato, che quella tutela dei creditori che la procedura
 fallimentare e' diretta ad assicurare sia rimessa alla  merce'  della
 volonta' di chi vi e' sottoposto o al caso.
   L'assoggettabilita'   a   fallimento  dell'imprenditore  cessato  o
 defunto postula, tuttavia, in applicazione del generale principio  di
 certezza  delle  situazioni  giuridiche,  la  fissazione di un limite
 temporale entro cui debba seguire  la  dichiarazione  di  fallimento.
 Limite nella specie tanto piu' necessario considerando le conseguenze
 che  dalla  declaratoria di fallimento discendono non solo per chi ne
 e' colpito, ma anche per  i  terzi  che  con  lui  siano  entrati  in
 rapporto.
   Si  spiega  allora  come  il  legislatore, nei citati artt. 10 e 11
 della legge fallimentare, operando un bilanciamento  tra  le  opposte
 esigenze  di  tutela  dei  creditori  e  di certezza delle situazioni
 giuridiche, abbia fissato in un anno dalla cessazione dell'impresa il
 termine  entro  il  quale  puo'  essere  dichiarato   il   fallimento
 dell'imprenditore cessato o defunto.
   6.  -  L'art.  147  della legge fallimentare prevede in generale il
 fallimento del  socio  illimitatamente  responsabile  della  societa'
 commerciale  di  persone in estensione del fallimento della societa'.
 La  giurisprudenza  -  come  ricorda  il  rimettente  -  e'   infatti
 univocamente  orientata  nel senso che la dichiarazione di fallimento
 del singolo socio discende dal fallimento della societa' e  prescinde
 dalla  sussistenza,  in  capo  a  costui, dei presupposti di cui agli
 artt. 1 e  5  della  stessa  legge,  che  vanno  accertati  solo  nei
 confronti della societa'.
   Ritiene  altresi'  la  prevalente  giurisprudenza che il fallimento
 della societa' comporti il fallimento anche degli ex soci, sempreche'
 l'insolvenza della societa' si riferisca ad  obbligazioni  da  questa
 contratte prima dello scioglimento del rapporto sociale.
   Al   riguardo,   non   sembra   possa   dubitarsi  che  l'affermata
 assoggettabilita' al fallimento  dei  soci  cessati  o  defunti  -  a
 prescindere  dalle differenti opinioni dottrinali e giurisprudenziali
 sul suo piu' preciso  fondamento  normativo  -  costituisca  comunque
 espressione  di quella medesima esigenza di tutela dei creditori alla
 quale  rispondono  le  norme  degli  artt.    10  e  11  della  legge
 fallimentare riguardo all'imprenditore individuale.
   L'ammissibilita'   del   fallimento   dell'ex  socio  deve  essere,
 tuttavia, circoscritta entro un rigoroso limite temporale proprio  al
 fine   di   non  pregiudicare,  come  si  e'  detto  precedentemente,
 l'interesse generale alla certezza delle situazioni giuridiche.
   Tale limite, non risultando  fissato  dall'art.  147,  deve  essere
 rinvenuto  all'interno  del sistema della stessa legge fallimentare e
 precisamente nella  norma  dettata  dagli  artt.  10  e  11  che,  in
 considerazione  della sua ratio assume una portata generale ed e', in
 quanto tale, applicabile anche al fallimento degli ex soci.
   Sicche', e conclusivamente, puo'  affermarsi  che  la  disposizione
 denunciata  va  interpretata  nel senso che, a seguito del fallimento
 della  societa'  commerciale  di  persone,  il  fallimento  dei  soci
 illimitatamente responsabili defunti o rispetto ai quali sia comunque
 venuta   meno  l'appartenenza  alla  compagine  sociale  puo'  essere
 dichiarato solo entro il termine, fissato dagli artt. 10 e  11  della
 legge  fallimentare,  di  un  anno  dallo  scioglimento  del rapporto
 sociale.
   Cosi'  interpretata,  la  norma  si   sottrae   alla   censura   di
 incostituzionalita'.