IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza sulla istanza presentata da Leocata Davide, nato a Catania il 3 dicembre 1973, in atto detenuto presso la casa di reclusione di Augusta, tendente ad ottenere il beneficio di cui all'art. 47-ter l.o.p., in relazione alla condanna di cui alla sentenza del g.i.p. del tribunale di Venezia in data 14 luglio 1997, confermata dalla Corte d'appello di Venezia in data 3 febbraio 1998, per i reati di cui agli artt. 628, primo e terzo comma, n. 1, 110, 81 c.p., quarto comma, n. 2, legge n. 110/1975, pena inflitta: anni due e giorni venti di reclusione con inizio pena il 19 maggio 1997 e fine pena il 7 giugno 1999. Motivazione Il Leocata ha riportato condanna con il titolo in epigrafe per i reati di rapina aggravata e detenzione e porto illegale di armi ai danni di un istituto di credito. Con ordinanza di questo tribunale in data 8 settembre 1998 e' stata rigettata l'istanza del condannato di affidamento in prova ai servizi sociali, e dichiarata inammissibile l'istanza di semiliberta'. In ordine alla richiesta di detenzione domiciliare, oggetto dell'odierno procedimento, in assenza delle condizioni soggettive necessarie ex art. 47-ter, comma 1, e delle gravi condizioni di salute che legittimerebbero la concessione del beneficio ex art. 47-ter, comma 1-ter, la verifica del Collegio potrebbe astrattamente vertere solo sull'applicabilita' della forma sui generis di detenzione domiciliare prevista dal comma 1-bis dello stesso articolo. Con tale ultima disposizione il legislatore della novella, nel riformulare l'art. 47-ter, l.o.p., ha introdotto una nuova ipotesi di detenzione domiciliare, che costituisce il principale nucleo della strategia deflattiva delle pene detentive brevi sottesa alla legge n. 165/1998. Tale ipotesi di detenzione domiciliare particolare, applicabile per le pene, anche residue, inferiori a due anni di reclusione, e' svincolata dalle condizioni soggettive caratterizzanti la forma tipica della misura: gli unici parametri previsti dal legislatore per la concessione del beneficio sono costituiti dalla mancanza delle condizioni necessarie per l'affidamento in prova ai servizi sociali e dall'idoneita' della misura de qua a evitare il pericolo di recidiva, salvo il limite speciale derivante dalla preclusione per i reati di cui all'art. 4-bis ord. pen. Considerato lo sbarramento previsto per tale tipologia di reati, e stante la condanna riportata dal Leocata per il reato di rapina aggravata, compreso nella previsione dell'art. 4-bis, l.o.p., allo stato l'istanza di detenzione domiciliare ex art. 47-ter, comma 1-bis non puo' essere esaminata nel merito, anche se la pena residua che il richiedente deve espiare e' inferiore a due anni di reclusione. Si appalesa, pertanto, rilevante la questione di costituzionalita' della norma in esame, essendo ineliminabile l'applicazione della stessa nell'iter logico giuridico che questo tribunale deve percorrere per la decisione. In punto di non manifesta infondatezza, si osserva che l'art. 4-bis, l.o.p., nel sottendere una presunzione di pericolosita' sociale a carico dei condannati per reati di criminalita' organizzata o comunque di elevato allarme sociale, esprime la precisa scelta legislativa di aggravare la relativa esecuzione della pena con modalita' particolarmente contenitive per finalita' di prevenzione generale e di sicurezza sociale, ma prevede, comunque, dei temperamenti al fine di adeguare il trattamento alla concreta pericolosita' sociale dei condannati, temperamenti la cui portata e' stata notevolmente ampliata con incisivi interventi della Corte costituzionale. In particolare, per i reati compresi nella c.d. seconda fascia i benefici possono essere concessi, salvi gli inasprimenti temporali previsti in sedes materiae, qualora non sussistano elementi tali da far ritenere l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata o eversiva. Per i reati compresi nella c.d. prima fascia, invece, l'accesso alle misure alternative alla detenzione non e' precluso in caso di prestata collaborazione rilevante ex art. 58-ter. La valenza della condotta collaborativa, presa in considerazione dalla norma quale "dimostrazione certa del distacco del condannato dal circuito della criminalita' organizzata", e' stata oggetto nel tempo di una progressiva opera interpretativa della giurisprudenza, che ne ha modificato la portata. Nella relazione al decreto-legge n. 306/1992, che ha modificato l'art. 4-bis, l.o.p., e' precisato che "la rilevanza della collaborazione e' da considerarsi in armonia con il dettato costituzionale della funzione rieducativa della pena, perche' e' solo la scelta collaborativa che esprime con certezza quella volonta' di emenda che l'intero ordinamento tende a realizzare". Gia' nella previsione normativa, quale risultante dalle modifiche introdotte con il decreto-legge n. 306/1992, la collaborazione puo' valere ai fini della concessione dei benefici anche se oggettivamente irrilevante, qualora cio' trovi giustificazione nella marginalita' della partecipazione del soggetto nel contesto del sodalizio criminoso, tale da non rendere concretamente possibile una condotta collaborativa significativa (applicazione dell'art. 114 c.p., o dell'art. 116, comma 2, c.p.), o in altri indici legali (riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62, n. 6 c.p.). Con progressivi interventi la Corte costituzionale ha poi equiparato alla collaborazione oggettivamente irrilevante la collaborazione impossibile, perche' fatti e responsabilita' sono gia' stati integralmente acclarati con sentenza irrevocabile (Corte cost. n. 68/1995), o perche' la limitata partecipazione al fatto criminoso, come accertata nella sentenza di condanna, rende impossibile un'utile collaborazione con la giustizia, sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere in maniera certa l'attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata (Corte cost. n. 357/1994). Nelle motivazioni delle sentenze della Corte costituzionale sono ben evidenziati i limiti di legittimita' delle preclusioni operate dal legislatore per i reati di cui all'art. 4-bis, l.o.p. Gia' nella sentenza n. 306 del 1993 la Corte costituzionale non ha mancato di sottolineare come la scelta del legislatore di inibire l'accesso alle misure alternative alla detenzione nei confronti dei condannati per taluni gravi reati abbia comportato una rilevante compressione della finalita' rieducativa della pena, considerato che la "tipizzazione per titoli di reato non appare lo strumento piu' idoneo per realizzare appieno i principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza, resa evidente dalle evoluzioni della norma in esame, alla configurazione normativa di "tipi di autore", per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o comunque non potrebbe essere perseguita". Nella stessa sentenza viene chiarito che tra le finalita' che la Costituzione assegna alla pena - da un lato quella di prevenzione generale e difesa sociale, con i connessi caratteri di afflittivita' e retributivita', dall'altro, quella di prevenzione speciale e di rieducazione, che tendenzialmente comportano una certa flessibilita' della pena in funzione dell'obiettivo di risocializzazione del reo - non puo' stabilirsi una gerarchia statica e assoluta che valga una volta per tutte e in ogni condizione: il legislatore puo', cioe', nei limiti della ragionevolezza, far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, l'una o l'altra finalita' della pena, ma a patto che nessuna di esse ne risulti obliterata. Per un verso, infatti, il perseguimento della finalita' rieducativa, che la norma costituzionale addita come tendenziale sol perche' prende atto "della divaricazione che nella prassi puo' verificarsi tra quella finalita' e l'adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione, non puo' condurre a superare la durata dell'afflittivita' insita nella pena detentiva determinata nella sentenza di condanna, per altro verso, il privilegio di obiettivi di prevenzione generale e di difesa sociale non puo' spingersi fino al punto da autorizzare il pregiudizio della finalita' rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell'istituto della pena. Nelle sentenze successive la Corte ha posto altresi' l'accento sul principio della progressivita' trattamentale, che "esprime l'esigenza che ciascun istituto si modelli e viva nel concreto come strumento dinamicamente volto ad assecondare la funzione rieducativa della pena, non soltanto nei profili che ne caratterizzano l'essenza, ma anche per i riflessi che dal singolo istituto scaturiscono sul piu' generale quadro delle varie opportunita' trattamentali che l'ordinamento fornisce". Ogni misura si caratterizza, infatti, per essere parte di un percorso nel quale i diversi interventi si sviluppano secondo un ordito unitario e finalisticamente orientato, al fondo del quale sta ilnecessario plasmarsi in funzione dello specifico comportamento serbato dal condannato. Qualsiasi regresso giustifica, pertanto, un riadeguamento del percorso rieducativo, cosi' come, all'inverso, il maturarsi di positive esperienze non potra' non generare un ulteriore passaggio nella "scala" degli istituti di risocializzazione (v. sul punto, in particolare, Corte cost. 16-30 dicembre 1997, n 445). Incentrandosi sulla condotta il presupposto per il conseguimento di benefici e l'attuazione del principio della progressivita' trattamentale, e' la condotta "collaborativa" del soggetto (nel senso gia' chiarito, comprensivo della collaborazione inesigibile o irrilevante), che rileva come elemento dimostrativo della assenza di collegamenti con la criminalita' organizzata, cosi' come e' la stessa condotta penitenziaria a consentire di accertare il raggiungimento di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire (Corte cost. 16-30 dicembre 1997 n. 445). Emerge in sostanza dalle argomentazioni della Corte che e' proprio la rilevanza della condotta del soggetto, e la concreta pericolosita' sociale che questa esprime, a rendere compatibile la normativa restrittiva dell'art. 4-bis, ispirata a finalita' di prevenzione generale e di sicurezza sociale, con i precetti costituzionali. L'art. 47-ter, comma 1-bis, nel precludere ai condannati per i reati di cui all'art. 4-bis l'accesso al beneficio della detenzione domiciliare prevista per le pene detentive inferiori a due anni di reclusione non accorda, invece, alcuna rilevanza alla concreta pericolosita' sociale del soggetto desumibile dalla condotta e dalla sussistenza o meno di collegamenti con la criminalita' organizzata. La preclusione espressa dalla norma e' infatti assoluta, e pertanto puo' condurre a situazioni prive di ogni ragionevolezza e lesive del principio di rieducazione: un condannato per un delitto compreso nella previsione dell'art. 4-bis, ricorrendo i presupposti di legge, puo' accedere, in progressione trattamentale, ai benefici de permessi premio, della semiliberta', della detenzione domiciliare ex art. 47, comma 1, e persino della piu' ampia misura dell'affidamento in prova ai servizi sociali mentre non puo' ottenere in alcun modo la detenzione domiciliare ex art 47-ter, comma 1-bis, peraltro piu' contenitiva rispetto all'affidamento, senza che cio' trovi giustificazione nella concreta pericolosita' sociale del condannato o comunque in una condotta allo stesso addebitabile, con un'irragionevole interruzione della progressivita' trattamentale. La norma impugnata appare pertanto in contrasto con l'art. 3 Cost., per l'irragionevole discriminazione di situazioni tra di loro assimilabili, in violazione dei principi di ragionevolezza e uguaglianza sottesi al precetto costituzionale, e inoltre dell'art. 27 Cost. per la compressione della finalita' rieducativa della pena e la lesione del principio della progressivita' trattamentale. Si impone, pertanto, la sospensione del procedimento e la rimessione degli atti alla Corte costituzionale, risultando rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 47-ter, comma 1-bis per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.