IL TRIBUNALE
   Ha emesso la seguente ordinanza su appello proposto  nell'interesse
 di  De  Luca  Corrado  avverso ordinanza 7 agosto 1998 della Corte di
 assise di S. Maria C.  V.,  sezione  feriale,  con  la  quale  veniva
 rigettata  istanza  di  scarcerazione  per scadenza, nella fase delle
 indagini preliminari, del termine massimo della custodia cautelare;
                             O s s e r v a
   1. - De Luca Corrado e' sottoposto a custodia cautelare in  carcere
 a far data dal 5 dicembre 1995 per omicidio aggravato e armi in forza
 di  ordinanza  25  novembre  1995  emessa dal g.i.p. del tribunale di
 Napoli nell'ambito del procedimento c.d. Spartacus (per il  reato  di
 associazione  mafiosa  altra sezione di questo tribunale dichiaro' la
 misura cautelare inefficace in applicazione dell'art. 297/3. In  data
 8  novembre  1996 l'imputato fu rinviato a giudizio avanti alla Corte
 di Assise di Napoli, la quale, pero', con sentenza 22  ottobre  1997,
 dichiaro' la propria incompetenza per territorio e rimise gli atti al
 p.m.  della  d.d.a.  di  Napoli  perche'  promuovesse l'azione penale
 avanti alla Corte di assise di S. Maria C. V. A tanto il p.m.  ha poi
 provveduto e in data 4 aprile 1998 e' stato emesso dal g.i.p.   nuovo
 decreto di rinvio a giudizio.
   La   difesa   ha   formulato  istanza  di  scarcerazione  invocando
 l'applicazione del principio affermato dalla Corte costituzionale con
 sentenza n.  292/1998 e, con l'appello proposto  ai  sensi  dell'art.
 310 c.p.p.  avverso il provvedimento di rigetto della Corte di assise
 di  S.  Maria  C. V., deduce: "L'impugnata ordinanza va censurata. La
 Corte  di  assise  di  S.  Maria  C.  V.,  infatti,  ha  espresso  un
 provvedimento  non  ancorato  alla  norma  giuridica di cui si chiede
 l'applicazione e quindi non sorretto da idonea motivazione. Il tenore
 letterale dell'art. 304, comma  6,  c.p.p.,  idoneo  a  sostenere  la
 richiesta  e  vieppiu'  non  suscettibile  di manipolazioni alla luce
 della sentenza n. 292 resa dalla  Corte  costituzionale  in  data  18
 luglio 1998, imponeva al giudice adito la declaratoria di inefficacia
 della  imposta  misura.  Opinare  diversamente vale a disconoscere la
 valenza della  norma  invocata  e  ad  offrire  spazi  interpretativi
 sconosciuti nel nostro sistema legislativo.
   Preliminare  alla valutazione di merito e' la dovuta considerazione
 della valenza delle sentenze interpretative di rigetto. La  Corte  di
 assise  di  S.  Maria C. V. correttamente ha sottolineato la limitata
 efficacia delle stesse nell'ambito dei  procedimenti  nel  corso  del
 quale  e' stata sollevata la questione di legittimita' costituzionale
 (pag. 2 ordinanza impugnata).
   Tuttavia e' opportuno notare la peculiarita' della pronuncia  della
 Corte  costituzionale che nel caso in esame si limita  al richiamo ad
 una corretta interpretazione letterale dell'art. 304, comma 6, c.p.p.
 In tale ottica risulta evidente che le argomentazioni  dedotte  dalla
 Corte  a  sostegno  di  quanto  sopra  valgono  a  rafforzare e non a
 chiarire il senso di una  norma  che  esplicitamente,  attraverso  il
 richiamo  al  comma  2, dell'art. 303 c.p.p., va applicata al caso in
 esame. E' necessario, dunque, considerare che  la  sentenza  invocata
 nella  misura  in  cui  richiama una norma di segno univoco, non puo'
 essere disattesa attraverso motivazioni di  ordine  generale.  Se  e'
 vero  come  e'  vero  che  la  norma  di  cui all'art. 304 c.p.p., fa
 riferimento  anche  alle  ipotesi  di  regressione  del  processo  e'
 altrettanto  vero  che  il  giudice  chiamato alla pronuncia non puo'
 disconoscerne la portata, poiche' in questa ipotesi  non  solo  viene
 disattesa  la  pronuncia  della Corte costituzionale ma anche violata
 una norma giuridica cogente.
   Vorra', ancora, il tribunale per il riesame osservare che la  Corte
 di  assise  dopo  aver preso le distanze da quella che viene definita
 una sentenza interpretativa  di  rigetto  ma  che  nei  fatti  e'  un
 richiamo  ad  osservare  una norma del codice di rito, incorre in una
 evidente contraddizione. Infatti, da un lato la Corte ritiene che "le
 statuizioni di cui all'art. 304 c.p.p. (Sospensione  dei  termini  di
 durata  massima  della  custodia  cautelare)...  vanno considerate di
 carattere eccezionale  ed  in  quanto  tali  sono  insuscettibili  di
 interpretazione analogica", dall'altro che "la citata normativa abbia
 valenza generale costituendo una regola di chiusura applicabile anche
 in ipotesi diverse dalla sospensione" (pag. 4 ordinanza di rigetto).
   Se  puo' condividersi la natura eccezionale dei primi quattro commi
 dell'art. 304 c.p.p. non puo' dirsi altrettanto  dei  commi  5  e  6.
 Questi  ultimi  recuperano  la  funzione  di  tutela  della  liberta'
 personale,  costituzionalmente  garantita,  tanto  da   porre   degli
 sbarramenti  alle  eccezioni  poste con l'istituto della sospensione.
 Sicche'  il  riferimento  alla  impossibilita'   di   estendere   per
 applicazione analogica la regola del comma 6, dell'art. 304 c.p.p. e'
 infondato.  Inoltre  vorra'  il  tribunale considerare che il giudice
 adito ha tratto dalla rubrica della norma di cui  sopra  "Sospensione
 dei  termini..."  l'esclusivo elemento interpretative della stessa, e
 pertanto  ha  ritenuto,  nella  premessa  che  poi  ha  contraddetto,
 applicabile la disciplina di cui al comma 6, unicamente a statuizioni
 relative  all'istituto  della  sospensione; tale criterio oltre a non
 essere confortato da alcuna  statuizione  di  legge  e'  in  evidente
 contrasto con il tenore letterale della norma.
   Infine  non  e'  condivisibile  l'ordinanza  nella  parte  in  cui,
 superando tutto quanto esposto in  motivazione,  rigetta  la  istanza
 difensiva  nel  merito  e segnatamente perche' il periodo di custodia
 cautelare sofferto andrebbe computato, ai fini del  calcolo  relativo
 alla  decorrenza  dei  termini, sottraendo lo spazio temporale che va
 dall'8 novembre 1996 al 22 ottobre 1997 e cioe' dal decreto di rinvio
 a  giudizio  reso  dalla  dott.ssa   Ceppaluni   alla   sentenza   di
 incompetenza  territoriale resa dalla V sez. della Corte di assise di
 Napoli, rappresentando quest'ultima fase un periodo disomogeneo visto
 l'incardinamento dibattimentale del processo. Tuttavia  la  norma  di
 cui  all'art.  304  tende  ad  evitare  proprio  situazioni siffatte.
 Infatti qualora dovesse aderirsi all'assunto della Corte di assise la
 norma in esame non avrebbe piu' alcun significato maturandosi,  salvo
 in ipotesi di diverse regressioni, sempre il termine di fase prima di
 quello  di  fase  raddoppiato.  Infatti,  come nel caso di specie, il
 termine "breve" non risultava maturato all'epoca del primo  rinvio  a
 giudizio (8 novembre 1996). La regressione nell'interpretazione della
 Corte,  avrebbe  comunque  fatto maturare il termine breve successivo
 alla regressione stessa indicato dalla legge in anni uno e non quello
 raddoppiato che nel caso di specie risultava di anni uno e giorni 27.
   E' evidente dunque, che non  puo'  accedersi  alla  interpretazione
 emergente  dalla  ordinanza  di  cui  ci  si duole. Peraltro la Corte
 costituzionale, pur pronunciandosi in altro giudizio, ha  in  maniera
 chiara ed univoca specificato che la norma di cui all'art. 304, comma
 6,  pone  uno sbarramento assoluto e comunque non eccedente il doppio
 dei termine di fase in costanza di qualunque  accidente  processuale.
 Vorra',  infine,  il tribunale considerare che in maniera conforme si
 e' pronunciata in diverse sentenze la Suprema  Corte.  Si  ribadisce,
 infine,  che  opinare diversamente viola un preciso dettato normativo
 piu' che la valutazione di un  organo  deputato,  tra  l'altro,  alla
 corretta interpretazione delle leggi dello Stato ...".
   2.  - Non e' dubbio che nel caso in esame, a seguito della sentenza
 di incompetenza pronunciata dalla Corte di assise di  Napoli,  si  e'
 verificata  la regressione del procedimento nella fase delle indagini
 preliminari  e  la  nuova  decorrenza  del  termine  della   custodia
 cautelare  relativo  a  tale  fase, secondo quanto previsto dall'art.
 303/2 c.p.p.  La norma citata dispone, infatti, che "nel caso in cui,
 a seguito  di  annullamento  con  rinvio  da  parte  della  Corte  di
 cassazione o per altra causa, il procedimento regredisca a una fase o
 a  un grado di giudizio diversi ovvero sia rinviato ad altro giudice,
 dalla data del provvedimento che dispone  il  regresso  o  il  rinvio
 ovvero   dalla   sopravvenuta  esecuzione  della  custodia  cautelare
 decorrono di nuovo i termini previsti dal  comma  1  relativamente  a
 ciascuno stato e grado del procedimento".
   La  previsione  dell'art.  303/2  era  stata  piu' volte oggetto di
 questioni  di  incostituzionalita',  sempre  ritenute  manifestamente
 infondate   dalla   Corte   di   cassazione.  Si  era  affermato,  in
 particolare:   che   la   norma,   nel   parificare,   agli   effetti
 dell'allungamento   del   termine   di   fase,   la  regressione  del
 procedimento  per  nullita'  (anche  nel  caso  di  gravi   vizi   di
 costituzione  delle parti) alle altre ipotesi di regressione stabilte
 dalla legge, non contrasta con i  principi  di  ragionevolezza  e  di
 uguaglianza  (art.  3  Cost.),  poiche'  essa  intende  in  ogni caso
 bilanciare le conseguenze negative  del  riprendere  ex  novo  l'iter
 processuale  con  il  permanere delle esigenze cautelari, consentendo
 l'allungamento  del  termine di fase, ma comunque entro il termine di
 durata complessiva della custodia stabilito dall'art.  303/4  (Cass.,
 sez.   VI,  n.  915/1993,  Esposito);  che  non  sussiste  violazione
 dell'art. 13, ultimo comma, Cost., in quanto la norma  costituzionale
 impone  che  la  legge  ordinaria  stabilisca,  per  il completamento
 dell'intero  procedimento,  il  limite  massimo   alla   carcerazione
 preventiva,  ma non esige anche che sia fissato altro limite parziale
 interno a ciascuna fase del procedimento stesso (Cass., sez.  VI,  n.
 3525/1993, Massidda); che non sussiste violazione degli artt. 13 e 24
 della Costituzione perche', da un lato, e' comunque previsto un tetto
 massimo  della  custodia  cautelare,  conformemente  a quanto dispone
 l'art. 13 Cost., che riserva alla  discrezionalita'  del  legislatore
 ordinario  i  casi  e  i  modi della detenzione e, in genere, di ogni
 forma di restrizione della liberta' personale e, dall'altro, non puo'
 farsi commistione tra il diritto di difesa inviolabile in ogni  stato
 e  grado del procedimento, che consente di eccepire una nullita', e i
 riflessi che il suo esercizio puo'  avere  in  materia  di  liberta',
 essendo  rimessa alla discrezionalita' difensiva la valutazione della
 convenienza di esercitare, o meno, una certa facolta', anche  per  le
 implicazioni,  le  conseguenze  e  le  interferenze  di fatto in ogni
 direzione (Cass., sez. I, n. 421/1994,  Gigliotti  ed  altri;  Cass.,
 sez.  I,  n.  1431/1996, Affuso, ha poi escluso la sussistenza di una
 violazione dell'art. 76 Cost., per eccesso di  delega  rispetto  alla
 direttiva n. 61 dell'art. 2 della legge 16 febbraio 1987, n. 81).
   Peraltro,  con  ordinanza  22  novembre 1996 il tribunale di Reggio
 Calabria, in funzione di giudice di appello de libertate, rilevava di
 ufficio "questione di costituzionalita' dell'art. 303/4 c.p.p., nella
 parte in cui non  prevede  che,  oltre  al  superamento  del  termine
 complessivo, possa essere causa di scarcerazione anche il superamento
 del  doppio del termine di fase, allorche' si verifichi la situazione
 descritta nel comma 2 di detto art. 303".
   Nel caso che dava occasione  alla  questione  vi  erano  state  due
 successive  regressioni  del  procedimento  nella fase delle indagini
 preliminari, a seguito di  sentenze  di  incompetenza,  e  la  difesa
 istante  aveva invocato l'applicazione dell'art. 304/6, rilevando che
 dalla data dell'arresto degli imputati alla data dell'ultimo rinvio a
 giudizio era decorso un periodo di  tempo  superiore  al  doppio  del
 termine  di fase. Il g.i.p. competente a decidere, aveva rigettato la
 richiesta di  scarcerazione  sul  rilievo  che  la  situazione  degli
 imputati  era disciplinata unicamente dai commi 2 e 4 dell'art. 303 e
 non anche dall'art. 304.  Con  l'atto  di  appello  la  difesa  aveva
 riproposto  la  questione al tribunale e nella discussione aveva poi,
 in  via  subordinata,  denunciato   l'illegittimita'   costituzionale
 dell'art. 304/6 in quanto applicabile al solo caso di sospensione dei
 termini   e  non  anche  ai  casi  di  regressione,  con  conseguente
 irragionevole disparita' di trattamento.
   Il tribunale di  Reggio  Calabria  con  l'ordinanza  di  rimessione
 rilevava  che  la  questione  era  mal posta dalla difesa, poiche' la
 fattispecie del  regresso  "e'  disciplinata  dalle  norme  contenute
 nell'art.  303 c.p.p., e non da quelle contenute nell'art. 304 c.p.p.
 ...ogni riferimento all'art. 304 c.p.p. e' ... inconferente,  poiche'
 disciplina  situazioni  affatto  differenti  ... attiene all'istituto
 della sospensione del termine di custodia cautelare ed ai suoi limiti
 cronologici". Peraltro, anche il tribunale riteneva irragionevole  la
 disparita'  di disciplina tra istituti - quali appunto la sospensione
 dei termini e la interruzione  dovuta  a  regressione  o  rinvio  del
 procedimento - che presentano una "sostanziale omogeneita'" in quanto
 "entrambi rappresentano degli accidenti che si verificano nel cammino
 del    procedimento,    perlopiu'    indipendenti    dalla   volonta'
 dell'imputato"; pertanto sollevava la questione di  costituzionalita'
 nei  termini  sopra riportati (v. ord.  22 novembre 1996 tribunale di
 Reggio Calabria, Ardizzone ed altro in Gazzetta Ufficiale n. 45/1997,
 prima serie speciale, n. 756).
   La Corte costituzionale con la sentenza n. 292/1998  ha  dichiarato
 la   questione   non   fondata,   affermando  in  motivazione  che  -
 contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo - "il  superamento
 di un periodo di custodia pari al doppio del termine stabilito per la
 fase presa in considerazione, determina la perdita di efficacia della
 custodia  anche  se  quei  termini  ...  sono  cominciati a decorrere
 nuovamente a seguito  della  regressione  del  processo".  La  Corte,
 infatti,  ha ritenuto che il "limite finale" di durata della custodia
 cautelare nelle singole fasi, fissato dall'art. 304/6 nel doppio  del
 termine  di fase, trovi applicazione non solo nei casi di sospensione
 dei termini, come sembrerebbe indicare la collocazione  della  norma,
 ma  anche  in  quelli  di  proroga  o  di interruzione determinata da
 regressione o rinvio del procedimento ad altro giudice.
   3.  -  Come  riconosce   la   difesa   appellante,   la   soluzione
 interpretativa   adottata   dalla   Corte   costituzionale   non   e'
 giuridicamente vincolante nel presente procedimento.
   Le sentenze interpretative di rigetto  della  Corte  costituzionale
 non  sono  infatti  munite  dell'efficacia  erga  omnes propria delle
 decisioni   con   le   quali   viene   dichiarata    l'illegittimita'
 costituzionale  di  una  disposizione  di  legge, per cui assumono il
 valore di mero precedente, certamente autorevole, ma  non  vincolante
 per il giudice (ss.uu. nn.  930/1996, Clarke, e 21/1998, Gallieri).
   Nel  caso  della sentenza n. 292/1998 la soluzione interpretativa -
 ispirata  dall'intento  di  superare  la   denunciata   irragionevole
 disparita'  di  disciplina  tra  i casi di sospensione dei termini di
 custodia e quelli di interruzione dovuta  a  regresso  o  rinvio  del
 procedimento  -  finisce per creare una omogeneita' di disciplina tra
 tali casi, nei quali l'allungamento della durata  della  custodia  e'
 per lo piu' indipendente dalla volonta' dell'imputato, e quello della
 evasione,  nel  quale  l'allungamento deriva invece dal comportamento
 dell'imputato, per di piu' penalmente  illecito.  Nella  sentenza  n.
 292/1998,  in  verita',  non  vi  e'  menzione  del  caso di evasione
 dell'imputato, ma anch'esso rientra tra i "i  fenomeni  che  comunque
 possono  interferire con la disciplina dei termini di fase", ai quali
 tutti si riferirebbe il "limite finale" di  cui  all'art.  304/6,  e,
 d'altro  canto,  l'art.  303/3  e' espressamente richiamato dall'art.
 304/6.
   Anche prescindendo da tale rilievo, il Collegio ritiene di  doversi
 discostare  dalla  soluzione interpretativa, pur cosi' autorevolmente
 indicata, per ragioni che attengono alla origine e alla ragione della
 norma di cui all'art. 304/3, alla sua  collocazione  e,  soprattutto,
 alla sua letterale formulazione.
   Invero, l'esigenza di introdurre un "limite finale" di durata della
 custodia  cautelare  e'  stata  avvertita  dal legislatore proprio in
 relazione all'istituto della sospensione dei termini, che  nelle  sue
 concrete  applicazioni  avrebbe potuto determinare la quiescenza sine
 die   del   decorso   dei   termini.  Il  "limite  finale"  e'  stato
 originariamente introdotto per la durata complessiva  della  custodia
 cautelare  (art.   272/9 c.p.p. abrogato; art. 304/4 nuovo c.p.p. nel
 testo  vigente  anteriormente  alla  legge  n.  532/1995)  e  la  sua
 collocazione  (subito  dopo  le norme sulla sospensione dei termini e
 nel nuovo codice proprio nell'articolo intitolato  alla  sospensione)
 rende chiara l'intenzione del legislatore nel senso sopra indicato.
   Prima  dell'entrata  in  vigore  della  legge n. 532/1995, non pare
 fosse, in realta', neppure ipotizzabile  l'applicazione  del  "limite
 finale"  ai  casi  del  regresso o del rinvio del procedimento (salvo
 quando - beninteso - dopo tali vicende  fosse  intervenuta  anche  la
 sospensione    dei    termini):    infatti,   nel   codice   abrogato
 l'irragionevole prolungamento della custoda nei casi di regressione o
 rinvio del procedimento, disciplinati dal quinto comma dell'art. 272,
 era assicurato dalla  specifica  previsione  del  sesto  comma  dello
 stesso  articolo  che  fissava  limiti  massimi di durata complessiva
 della custodia inferiori al "limite finale" di cui al nono comma; nel
 nuovo codice, anteriormente alla legge  n.  532/1995,  i  termini  di
 durata   complessiva   della  custodia  previsti  dall'art.  303/4  -
 applicabili nei casi di  regressione  o  rinvio  del  procedimento  -
 risultavano  sempre  inferiori  al  "limite  finale"  di cui all'art.
 304/4.
   Cade, quindi, l'argomento "storico" prospettato per  sostenere  che
 il  "limite  finale"  abbia  portata  non  circoscritta  ai  casi  di
 sospensione dei termini.
   L'art. 15/1 della legge  n.  532/1995,  nel  riformulare  il  testo
 dell'art.    304,  ha  introdotto  un "limite finale" di durata della
 custodia anche per le singole fasi (il doppio dei termini di fase)  e
 ha  piu'  favorevolmente  disciplinato  il  "limite finale" di durata
 complessiva della custodia, prevedendo che questa non puo' superare i
 termini di cui all'art.  303/4 aumentati della  meta'  e  richiamando
 comunque  il  previgente  "limite"  (due terzi del massimo della pena
 temporanea), da applicarsi pero' solo se piu' favorevole.
   Che tali previsioni riguardino unicamente i casi di sospensione dei
 termini  della  custodia  si  dovrebbe  desumere  dalla  scelta   del
 legislatore  di tener ferma la collocazione della norma nell'articolo
 dedicato appunto alla sospensione. Ne' pare che  l'uso  dell'avverbio
 "comunque"  nell'art.  304/6 confermi l'ipotesi che i "limiti finali"
 siano riferiti a tutti i fenomeni  che  possono  interferire  con  la
 disciplina  dei  termini,  e  percio'  anche  ai  casi di proroga dei
 termini e regressione del procedimento. Ben puo' ritenersi,  infatti,
 che  l'avverbio  valga  invece  a sottolineare la correlazione tra la
 norma sui "limiti finali" e tutte le varie ipotesi di sospensione dei
 termini previste nei cinque commi che precedono, nel senso cioe'  che
 i limiti operano quale che sia la causa della sospensione.
   Ma  vi  e'  una ragione ulteriore e decisiva che induce a escludere
 che il "limite finale" di cui all'art. 304/6 sia riferibile  ai  casi
 di regressione o rinvio del procedimento.
   Occorre  infatti  considerare  che  l'art.  304/6,  come sostituito
 dall'art.  15/1 della legge n. 332/1995,  fissa  il  "limite  finale"
 relativo alla fase disponendo che "la durata della custodia cautelare
 non  puo'  comunque superare il doppio dei termini previsti dall'art.
 303, commi 1, 2 e 3". La norma, dunque, richiama espressamente i casi
 di  regressione  o rinvio del procedimento e il caso di evasione, nei
 quali  i  termini  decorrono  ex  novo,  e  la   previsione   risulta
 perfettamente  giustificata  anche  per  chi  ritenga,  come  qui  si
 sostiene, che l'art. 304/6 si applichi solo in  caso  di  sospensione
 dei  termini:  infatti,  ben  puo'  darsi il caso che il procedimento
 regredisca nella fase del giudizio e intervenga poi  sospensione  dei
 termini di custodia.
   Orbene,  il significato del richiamo dell'art. 304/6 ai commi 2 e 3
 dell'art. 303 non puo' che essere quello di confermare, anche ai fini
 della individuazione del "limite finale"  di  durata  della  custodia
 nella fase, la diversa decorrenza dei termini nei casi del regresso o
 rinvio  del  procedimento  e  della  evasione.  Cio' comporta che, ad
 esempio, regredito il procedimento nella fase del giudizio  di  primo
 grado  ed  essendo stati poi sospesi i termini, la custodia cautelare
 non potra' superare il doppio del termine di fase, calcolato pero'  a
 partire  dalla  data  del provvedimento che ha disposto il regresso e
 non  dall'emissione  del  provvedimento  che  originariamente   aveva
 disposto  il  giudizio  (in  tal senso si e' pronunciata la I sezione
 della Corte di cassazione, con sentenza n. 1063/1996, Sarno,  che  ha
 confermato  l'orientamento  espresso da questo tribunale, IV sezione,
 con ordinanza ex art. 310 c.p.p. in data 21 dicembre 1995).
   Se il legislatore del '95 avesse inteso invece equiparare, ai  fini
 della  individuazione  del  "limite  finale" di durata della custodia
 nella fase, le situazioni di regresso o rinvio del procedimento e  di
 evasione  alle  altre, si sarebbe limitato a prevedere che "la durata
 della custodia cautelare non puo' comunque  superare  il  doppio  dei
 termini   previsti   dall'art.   303,   comma   1...",  eventualmente
 aggiungendo, per maggior chiarezza: "anche nei casi di cui ai commi 2
 e 3 dello stesso articolo".
   Il dato testuale appare dunque chiaro e il  Collegio  deve  tenerne
 conto,   poiche'  "nell'applicare  la  legge  non  si  puo'  ad  essa
 attribuire altro  senso  che  quello  fatto  palese  dal  significato
 proprio  delle  parole,  secondo  la  connessione  di  esse,  e dalla
 intenzione del legislatore".
   Peraltro,   la   conclusione   cui   si   e'   pervenuti    esclude
 incontestabilmente  che  il "limite finale" di cui all'art. 304/6 sia
 riferibile anche ai casi di regressione o rinvio del  procedimento  e
 di  evasione, per la semplice ragione che, se in tali casi il "limite
 finale" di durata della custodia nella fase va computato, come si  e'
 detto, a partire dal momento di nuova decorrenza del termine indicato
 per  ciascuna  delle  ipotesi dai commi 2 e 3 dell'art. 303, e' ovvio
 che detto "limite finale" giammai potra' essere superato  (in  quanto
 scadrebbe  ben  prima l'ordinario termine di fase), se non intervenga
 anche la sospensione dei termini. Il  che  appunto  conferma  che  il
 "limite  finale"  di  cui  all'art. 304/6 e' riferibile unicamente ai
 casi di sospensione dei termini della custodia.
   4. - Le sezioni unite della Corte di cassazione hanno ripetutamente
 affermato che, sebbene la sentenza interpretativa  di  rigetto  della
 Corte  costituzionale non sia munita di efficacia erga omnes, facendo
 essa sorgere un vincolo solo nel giudizio a  quo,  non  si  puo'  mai
 giungere  a  sostenere  che  per gli altri giudici la decisione della
 Corte costituzionale sia da ritenersi  inutiliter  data.  Sicche'  il
 giudice   che,   in   un   diverso   giudizio,   intenda  discostarsi
 dall'interpretazione   proposta   nella    sentenza    della    Corte
 costituzionale  non  ha  altra  alternativa  che  quella di sollevare
 ulteriormente la questione di legittimita', non potendo mai assegnare
 alla formula normativa un significato ritenuto incompatibile  con  la
 Costituzione (ss.uu. nn. 930/1996, Clarke, e 21/1998, Gallieri).
   Il  Collegio,  uniformandosi  a  tale  principio,  ritiene di dover
 sollevare nuovamente la questione  di  legittimita'  dell'art.  303/4
 c.p.p.  per le medesime ragioni gia' disattese all'uopo richiamando e
 facendo proprie le motivazioni dell'ordinanza 22  novembre  1996  del
 tribunale di Reggio Calabria.