LA CORTE MILITARE DI APPELLO Ha pronunciato in pubblica udienza la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di Di Luzio Davide, nato il 6 maggio 1978 a Carmagnola (Torino), (atto di nascita n. 3 p. 1 s. a) e residente a Nichelino (Torino) in via Polveriera n. 22, recluta nel 26, Btg. ''Castelfidardo'' in Pordenone. Libero. In seguito all'appello proposto dal difensore avverso la sentenza in data 12 novembre 1997 emessa dal tribunale militare di Padova; Sentito il pubblico ministero, il quale ha eccepito la illegittimita' costituzionale della norma contenuta nell'art. 14, comma 3, della legge n. 230/1998, a tenore della quale appartiene alla competenza del pretore la cognizione del reato di rifiuto del servizio militare previsto dal comma 2 dell'anzidetta disposizione, con riferimento ai parametri costituiti dagli artt. 3 e 103, terzo comma, secondo periodo, della Costituzione; Sentita la difesa che si e' rimessa. O s s e r v a 1. - Svolgimento del processo; Con sentenza pronunciata il 12 novembre 1997 dal tribunale militare di Padova, Di Luzio Davide veniva dichiarato colpevole del reato di rifiuto del servizio militare di leva, commesso il 22 aprile 1997 in Pordenone, e condannato alla pena di mesi quattro di reclusione, con concessione di entrambi i benefici della sospensione condizionale della pena e non menzione della condanna. Avverso la sentenza interponeva tempestivo appello la difesa dell'imputato, rilevando che il suo assistito aveva chiesto la applicazione della pena di mesi tre di reclusione, senza la sospensione condizionale, e che sia il p.m. che il tribunale non vi avevano aderito, ritenendo che fosse inibito all'imputato di rinunciare alla condizionale e dedurre tale rinuncia nel quadro dell'accordo sulla pena. Deduceva il difensore che siffatto ragionamento era erroneo e che doveva riformarsi la sentenza di condanna ed applicarsi la pena richiesta dall'imputato, senza il beneficio della condizionale. Nelle more del procedimento di appello ed esattamente in data 30 luglio 1998, e' entrata in vigore la legge n. 230/1998, recante nuove norme in materia di obiezione di coscienza, che ha in parte ridisegnato la fisionomia del tradizionale reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza ed espressamente attribuito alla autorita' giudiziaria ordinaria la competenza a conoscerne, con cio' radicalmente discostandosi dalla disciplina pregressa, che ne aveva attribuito la cognizione alla autorita' giudiziaria militare. In conseguenza di tale novazione legislativa ed a motivo della assoluta inesistenza di norme intese a disciplinare la sorte dei procedimenti pendenti, ritiene questa Corte territoriale che sia doveroso applicare il principio generale del tempus regit actum e concludere, senza porsi in alcun modo il problema di quale sia la norma sostanziale piu' favorevole, che la nuova disciplina processuale si applichi anche ai procedimenti in corso e trasmetterne gli atti al giudice divenuto competente (Cass., sez. I, sentenze nn. 02487 e 01737 del 25 e 24 giugno 1992, in C.E.D.) 2. - A parere di questo Collegio, la norma processuale che deve trovare applicazione, e che costituisce l'indispensabile presupposto del provvedimento di declinatoria di giurisdizione, appare essere in contrasto con le disposizioni contenute negli artt. 3 e 103, terzo comma, ultimo periodo, della Costituzione. E' certo noto come in varie occasioni la Corte costituzionale abbia fornito una interpretazione dell'ultimo degli indicati parametri nel senso di escludere che con essa si sia inteso garantire la giurisdizione militare nella sua configurazione preesistente all'entrata in vigore della Carta fondamentale ed abbia di conseguenza rimarcato come la sua essenziale ragion d'essere vada ravvisata nella esigenza di circoscrivere i limiti massimi, soggettivi ed oggettivi, della suddetta giurisdizione ed impedire che gli stessi possano essere superati a detrimento della competenza del giudice ordinario, espressamente considerato come l'organo su cui e' incardinata la giurisdizione normale in tempo di pace. La predetta linea giurisprudenziale nasce con la sentenza numero 29 del 1958 e trova modo di essere ulteriormente ribadita nell'arco del successivo periodo di tempo, si' da concludersi con la fondamentale sentenza 429 del 1992, che ha chiaramente espresso il concetto che la giurisdizione normalmente da adire e' quella dei giudici ordinari ed ancora una volta affermato che la giurisdizione militare ha carattere eccezionale ed e' circoscritta entro limiti rigorosi. Nel periodo che collega le due sentenze, il giudice delle leggi ha avuto piu' volte modo di affrontare una serie di questioni attinenti alle evenienze in cui si consumava una sottrazione alla competenza del giudice speciale di reati militari ed ogni volta ha concluso nel senso che costituisse insindacabile prerogativa del legislatore, entro i limiti della ragionevolezza, rinvenire e sottoporre a tutela preminenti ragioni di interesse generale ed optare in tali ipotesi per la giurisdizione ordinaria. Lasciando da parte i casi in cui si e' appurato che mancava il presupposto soggettivo, (sentenze n. 112 e 113 del 1986, 207 del 1987), torna in questa sede utile, per meglio impostare i termini della sollevata questione, soffermarsi sulle decisioni che hanno affrontato situazioni in cui era indubbia la ricorrenza di entrambi gli indicati presupposti e concluso per la legittimita' delle norme di legge che avevano statuito la competenza in merito del giudice ordinario. Buona parte degli anzidetti quesiti ruotavano attorno alla disciplina della connessione e miravano ad ottenere che venisse dichiarata la illegittimita' delle disposizioni che in tali casi stabilivano la assorbente ed esclusiva competenza della Autorita' giudiziaria ordinaria. Come e' noto, la Corte costituzionale ha in tali casi decretato la infondatezza delle medesime ed ogni volta sulla base del rilievo che la norma costituzionale invocata come parametro non consacrasse una assoluta riserva di giurisdizione a favore del giudice speciale, ma ponesse rigorosi limiti al suo legittimo delinearsi e fosse preordinata ad una funzione di garanzia contro la eventualita' che essa ne valicasse i confini massimi. 3. - La valutazione d'insieme delle predette decisioni consente di enuclearne il motivo ispiratore e di intendere appieno il significato degli argomenti posti direttamente a base della conclusione cui sono pervenute. E' agevole rilevare come il filo conduttore consista nel principio secondo cui la disposizione contenuta nell'art. 103, terzo comma, ultimo periodo, non configura una ineludibile riserva di giurisdizione a favore del giudice militare, ma detti soltanto una norma di carattere tendenziale, da calare nel contesto delle concorrenti disposizioni processuali e sostanziali e da contemperare con le esigenze alla cui tutela quest'ultime risultano preordinate. Da cio' deriva la conseguenza che, anche con limitato e stretto riferimento ai reati militari commessi da militari in servizio attivo, non potra' giammai sostenersi la esistenza di una invincibile riserva di giurisdizione, ma andra' di volta in volta stabilito se tali reati coinvolgano interessi ulteriori rispetto a quelli militari ed indi chiedersi se questi ultimi manifestino una spiccata attitudine ad essere tutelati in forme o con congegni procedurali che comportano la attribuzione alla autorita' giudiziaria ordinaria della competenza a conoscere dei fatti che li abbiano violati. Esattamente questo e' accaduto ed accade tuttora con riguardo alla disciplina del fenomeno della connessione di procedimenti e proprio questa argomentazione ha ispirato la declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma che sottrasse al giudice speciale la cognizione dei reati militari commessi da militari minorenni e la attribui' al tribunale dei minori. Venne in tale ultima evenienza espressamente detto che "non puo' essere impedito, per principio, alla giurisdizione ordinaria d'assumere la cognizione di reati militari allorche' esistano preminenti ragioni d'interesse generale" e si sottolineo', con intuizione che si rivela di determinante peso ai fini che interessano in questa sede, che debba essere di "volta in volta stabilito se particolari esigenze, beni o valori (come ad es. quelli a garanzia dei quali e' stato istituito il tribunale per i minorenni) possano essere considerati preminenti rispetto ad esigenze, beni e valori tutelati attraverso la speciale giurisdizione dei tribunali di pace". 4. - Come puo' dunque agevolmente notarsi, non e' in realta' mai stato affermato, ancorche' incomplete massime ne abbiano alimentato l'equivoco, che l'unico significato della norma costituzionale sulla giurisdizione dei tribunali militari sia rappresentato dalla rigorosa predisposizione di cio' che ad essi e' precluso e come per contro si sia chiaramente asserito che esistono beni e valori tutelati dalla speciale giurisdizione militare. Va da se' che la suddetta tutela non assume carattere assoluto e che debba di volta in volta darsi rilievo alle concorrenti esigenze che si palesino meritevoli di particolare protezione, con la conseguenza che senza alcun dubbio potranno darsi deroghe al principio tendenziale e quindi previsioni che legittimamente sottraggano al giudice militare la competenza a conoscere dei reati militari commessi dai soggetti che pur abbiano i necessari requisiti soggettivi. Sotto quest'ultimo profilo merita particolare attenzione la sentenza della Corte costituzionale n. 429 del 10 novembre 1992. A prima vista essa appare esaltare la sola funzione di limite massimo contenuta nella disposizione di cui all'art. 103 della Costituzione e quindi escludere che in questa sia ravvisabile anche una garanzia di speciale giurisdizione per i militari che abbiano commesso reati lesivi di interessi militari. Ove le cose stessero in tali termini, la disposizione costituzionale avrebbe la connotazione di un mero divieto e l'unica sua funzione sarebbe quella di precludere la eventualita' che la speciale giurisdizione sia attivata per la cognizione di reati non rientranti nella prefigurata tipologia. Con la singolare conseguenza che basterebbe una articolata sequela di leggi ordinarie per trasformare in un guscio vuoto la giurisdizione militare ed azzerare totalmente la sua competenza. Ma se si va oltre la apparenza, non si tardera' a comprendere come la indicata sentenza non abbia affatto invertito la rotta delle precedenti, ma soltanto calibrato alla specificita' del caso concreto la decisione adottata. In essa si esaminava se fosse conforme alla Costituzione la norma che assegnava al giudice militare la competenza ad occuparsi dei reati militari commessi da persone che, pur facendo parte delle Forze armate, erano cessate dal servizio attivo e si trovavano nella posizione intermedia tra questo ed il congedo assoluto (congedo illimitato, ausiliaria, riserva). La Corte, muovendo dall'ispirazione che presiedette il processo formativo del parametro costituzionale invocato e sottolineando come la norma in esso racchiusa fosse nata con il piu' volte menzionato duplice limite oggettivo e soggettivo, espresse l'avviso che i militari ivi contemplati non potessero essere altri che coloro che avessero le stellette e quindi fossero in "servizio attuale alle armi" o legittimamente considerati tali al momento del commesso reato. In sede di motivazione asseri' che la diversita' di piani di giurisdizione e legge confortasse il principio che la giurisdizione normalmente da adire e' quella dei giudici ordinari anche nella materia militare e ribadi' che la giurisdizione ordinaria e' da considerare, per il tempo di pace, come la giurisdizione normale. Infine aggiunse che la indicata relazione logica tra regola ed eccezione verrebbe scompensata se si assumesse che la cognizione dei reati militari commessi da coloro che sono assoggettati alla legge penale militare spetti esclusivamente ai giudici militari e, nel sottolineare il principio che essa compete invece di regola ai giudici ordinari, espressamente pose la importante riserva "salvo che non si tratti di reati commessi sotto le armi". A parere di questa Corte remittente, dall'insieme delle indicate pronunce del giudice delle leggi puo' trarsi il seguente corollario, nel contempo misura e limite della disposizione contenuta nella norma di cui all'art. 103, terzo comma, Cost. La giurisdizione militare contemplata e protetta dalla norma costituzionale concerne soltanto i reati militari commessi da militari in servizio attivo, o considerati tali, e' circoscritta entro rigorosi confini soggettivi ed oggettivi e non ha carattere assoluto ed indeclinabile, potendo essere derogata da una legge ordinaria che risulti preordinata alla tutela di preminenti beni, interessi e valori. Cio' sta a significare che la giurisdizione militare, correttamente eccezionale rispetto al generico universo dei reati commessi da tutti coloro che appartengono alle Forze armate, e' invece da considerarsi normale rispetto ai reati militari commessi da militari in servizio attivo (o considerati tali). In riferimento a questo ristretta tipologia di reati, essa non solo e' giurisdizione normale ma e' anche giurisdizione di rango costituzionale. Ed e' proprio per tali ragioni che la Corte costituzionale ha di recente (ordinanza n. 441 del 14-23 dicembre 1998) dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimita' dell'art. 13, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione e nella parte in cui non prevede la operativita' dell'istituto della connessione in tutte le ipotesi in cui tra reati comuni e reati militari sussista il particolare vincolo delineato dall'articolo 12 del codice di rito. A prescindere dalle ulteriori argomentazioni adoperate dal giudice delle leggi per escludere la ipotizzata lesione ai principi costituzionali, torna qui utile considerare e soffermarsi su quello che appare contrassegnato da una valenza generale e che e' espresso nei seguenti testuali termini: "con riferimento ai rapporti tra i procedimenti per reati comuni e militari, non puo' dirsi imposto dal principio di ragionevolezza un assetto normativo che, in vista dell'interesse dell'imputato a un (del tutto eventuale) simultaneus processus travalichi in ogni caso i limiti entro cui ordinariamente si esercitano le due distinte giurisdizioni". A parere di questo Collegio, l'espresso riferimento al principio di ragionevolezza, cioe' ad uno dei fondamentali criteri di valutazione della legittimita' costituzionale delle norme di legge ordinaria, chiarisce il significato della successiva proposizione (quella sull'ordinario riparto delle giurisdizioni) e consente di affermare che con essa il giudice delle leggi ha inteso sottolineare che l'ambito entro cui si esercita la giurisdizione militare ha una diretta tutela costituzionale. Solo in tal modo acquista pregnanza la affermazione della Corte e solo in tal modo si comprende come non possa dirsi imposto dal principio di ragionevolezza un quadro normativo che, per il fatto di comportare una immotivata deroga alla competenza del giudice militare per i reati militari, viene a risolversi in una violazione dei limiti entro cui si esercitano ordinariamente le due distinte giurisdizioni. 5. - La recente legge 8 luglio 1998, n. 230, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 163 del 15 luglio 1998), contenente "nuove norme in materia di obiezione di coscienza" contempla, al secondo comma dell'articolo 14, una fattispecie penale che recupera l'intero contenuto di quella prevista dall'art. 8 della abrogata legge n. 772/1972 e configura altresi' ulteriori ipotesi tipiche. Essa amplia lo spettro dei motivi di coscienza che possono porsi a base del rifiuto e consente che quest'ultimo possa intervenire anche nel corso dello svolgimento del servizio militare. Il comma 3 del medesimo art. 14 attribuisce la competenza a giudicare del predetto reato al pretore del luogo nel quale deve essere svolto il servizio militare. A parere di questo Collegio, la norma che stabilisce la competenza del pretore e' in contrasto con le previsioni costituzionali contenute negli art. 103, terzo comma, e 3, della Costituzione. E' indubbio che i militari chiamati a presentarsi alle armi siano militari in servizio attivo. Lo sono a partire dal momento stabilito per la loro presentazione e permangono in tale posizione fino al giorno in cui vengono inviati in congedo illimitato. La qualifica di militare in servizio attivo discende dalla oggettiva circostanza che risulta emanato un provvedimento che ne dispone la precettazione e stabilisce il giorno ed il luogo di presentazione al reparto. Essa e' del tutto indipendente dall'eventuale ottemperanza a tale ordine ed in alcun modo subisce modifiche in dipendenza della mancata presentazione o delle particolari ragioni che possono averla determinata. In ordine al suddetto profilo, e' incontestabile che il giovane Di Luzio era stato chiamato alle armi, a seguito di regolare procedimento di arruolamento, ed aveva l'obbligo di presentarsi al reparto di assegnazione alla data del 22 aprile 1997. Quanto alla natura del reato in tal modo commesso, e' convincimento unanime che sia da qualificarsi come reato militare. Esso offende un interesse esiziale per un ordinamento incentrato sulla ferma di leva e si profila, come sottolineato nella fondamentale sentenza n. 409 del 1989 della Corte costituzionale, ontologicamente identico a quello di mancanza alla chiamata e come questo lesivo, con identiche modalita', dello stesso interesse, "quello ad una regolare incorporazione degli obbligati al servizio di leva nell'organizzazione del servizio militare". Le ragioni di coscienza addotte a spiegazione del contegno di oggettiva omessa presentazione non intaccano la natura dell'interesse leso e non attenuano in alcun modo i suoi connotati di fondamentale interesse delle Forze armate dello Stato. Questa Corte, allo scopo di sottolineare come i dubbi di costituzionalita' investano la norma sulla giurisdizione nella totalita' della sua sfera di efficacia e non solo nella parte in cui si presta a disciplinare i fatti pregressi, ritiene che anche il nuovo reato di rifiuto del servizio militare sia reato militare ed abbia una struttura sostanzialmente identica a quello di cui alla abrogata legge ed oggetto del presente giudizio di gravame. Le uniche modifiche introdotte dalla nuova normativa sul punto specifico costituiscono puntuali riscontri di importanti decisioni rese dal giudice delle leggi con riguardo all'abrogato reato e l'impianto complessivo, soprattutto per il fatto di aver reso possibile il rifiuto dopo la assunzione del servizio, consente senza alcun dubbio di affermare che sono stati addirittura accentuati i connotati di militarita' della fattispecie incriminatrice e che questa e' diventata una variante applicativa non solo del reato di mancanza alla chiamata, ma anche di quello di diserzione. Sia il vecchio reato, quindi, che quello delineato dalla nuova legge costituiscono tipici ed evidenti reati militari, tanto che in relazione ad entrambi e' stata prevista e continua ad operare la particolare causa di estinzione rappresentata dall'accoglimento della domanda di prestare servizio nelle Forze armate (art. 14, commi 6 ed 8, legge n. 230/1998), a definitiva conferma di come non solo l'interesse leso faccia capo all'ordinamento militare, ma addirittura sia stato considerato talmente importante e delicato da giustificare una previsione che assegna un radicale effetto estintivo ad un contegno che, risolvendosi in un fattivo ed operoso ripensamento, annulla la lesione in un primo momento inflitta al bene protetto. 6. - Acclarato che e' fuori discussione la rilevanza della questione prospettata dalla Procura generale militare e chiarito che in relazione ai fatti commessi sotto il vigore della abrogata legge non si ravvisa alcun ragionevole motivo per la brusca deroga alla giurisdizione del giudice militare, rimane da verificare se nel passaggio dalla vecchia alla nuova normativa la fisionomia del reato di rifiuto del servizio militare abbia per caso fatto emergere necessita' di tutela che si prestano ad essere adeguatamente realizzate soltanto con la previsione della giurisdizione ordinaria. E cio' nella condivisibile prospettiva che assegna carattere relativo alla giurisdizione del giudice speciale e la espone alla soccombenza nel caso in cui il reato militare commesso coinvolga beni ed interessi di preminente valore e suscettibili di tutela per il tramite di una deroga alla giurisdizione militare. Questa Corte ritiene che all'interrogativo debba darsi risposta negativa. Nessun ruolo svolge la circostanza che la previsione delittuosa sia contenuta in un contesto normativo che si distingue dal precedente per il piu' ampio respiro assegnato al fenomeno dell'obiezione di coscienza e per la configurazione di un servizio civile in termini di sostanziale alternativa al servizio militare. Cio' inerisce al diverso profilo delle condizioni in presenza delle quali puo' darsi una valida ed efficace scelta a favore del servizio civile, trasformate in presupposti rigorosamente delimitati e privi di qualsivoglia elemento di discrezionalita'. Ma in alcun modo ne sono derivate ripercussioni in ordine alla struttura del particolare reato di rifiuto, che e' rimasto ancorato alle tradizionali formule di adduzione dei motivi e che continua a profilarsi come un illecito che si commette a prescindere dalla verosimiglianza e autenticita' delle ragioni della obiezione e che non tollera in alcun modo disamine intese ad accertare che vi sia corrispondenza tra quanto dichiarato e gli autentici convincimenti della propria coscienza. Soltanto in quest'ultimo caso, e cioe' ove la norma incriminatrice avesse richiesto come elemento essenziale del reato la sincerita' dei motivi di coscienza addotti a sostegno del rifiuto, si sarebbe potuto ipotizzare il coinvolgimento di un piu' ampio interesse, direttamente correlato alla manifestazione dei fondamentali diritti della personalita', e coerentemente concludere per la sottrazione della sua cognizione al giudice militare. Ma questo non e' accaduto ed il reato, oggi come nel passato, e' rimasto del tutto agganciato alla mera adduzione dei rituali motivi e continua quindi a delinearsi come un oggettivo fatto di mancanza alla chiamata, accompagnato da espressioni che rilevano per il sol fatto di essere state pronunciate e rispetto alla cui veridicita' ed attendibilita' l'ordinamento rimane indifferente. Non solo non si richiede alcuna preliminare valutazione della verosimiglianza dei motivi addotti, ma e' finanche possibile che il reato venga commesso da persone che risultino aver riportato condanna per reati commessi con l'uso delle armi o con contegni di violenza e quindi in presenza di quei rigorosi presupposti che rendono inammissibile la istanza di svolgimento del servizio civile. 7. - Per ragioni in parte coincidenti con quelle sopra esposte, non sembra altresi' manifestamente infondata la questione sollevata con riferimento all'art. 3 della Costituzione. La identita' sostanziale tra il reato di rifiuto e quello di mancanza alla chiamata e la circostanza che entrambi ledono lo stesso interesse rendono del tutto priva di giustificazione la norma che li discrimina ai fini della giurisdizione e lasciano emergere profili di intrinseca ed insanabile contraddittorieta' nell'ambito delle diverse statuizioni in ordine al giudice competente. Anche a tacere delle non levi ripercussioni che si avrebbero nel caso si ritenesse che la nuova normativa abbia trasformato in reato comune un tradizionale reato militare (si pensi alla conseguente impossibilita' di concedere la attenuante prevista dall'art. 48 n. 2 c.p.m.p.), rimane priva di adeguate ragioni giustificatrici una disposizione che, a fronte della identita' sostanziale delle fattispecie in raffronto, sottrae alla giurisdizione del giudice speciale e collegiale uno dei due identici reati e lo assegna al giudice ordinario. In conclusione, la norma contenuta nell'art. 14, comma 3 della legge n. 230/1998 appare costituzionalmente illegittima in quanto, senza che sussista alcuna necessita' di tutela di beni ed interessi di preminente valore e in difetto di qualsiasi ulteriore ragionevole motivo, sottrae alla cognizione del giudice costituzionalmente competente per i reati militari commessi da militari in servizio il reato di rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza.