LA CORTE D'APPELLO
   Ha   pronunicato   la   seguente   ordinanza  nel  procedimento  di
 ricusazione promosso da tutti gli imputati e dai loro  difensori  nel
 processo  penale d'appello n. 1235/97 r.g. c. app., a carico di Agui'
 Bruno + 5, tutti appellanti, con il pubblico  ministero,  avverso  la
 sentenza  del G.i.p. presso il tribunale di Torino in data 21 ottobre
 1996;
   Letta la dichiarazione in data 17 febbraio 1999, depositata  il  18
 febbraio  1999,  con  la  quale  tutti  gli  imputati appellanti ed i
 rispettivi difensori  hanno  ricusato  l'intero  collegio  giudicante
 della  sezione  prima  di  questa  Corte  (composto dai sigg.ri dott.
 Emilio Giribaldi, presidente, e  dottori  Filippo  Russo  e  Brunella
 Rosso,  consiglieri),  ai  sensi  dell'art  37,  comma 1, lett. a) in
 relazione all'art. 36,  comma  1,  lett.  c)  c.p.p.  e,  in  via  di
 subordine, hanno formulato eccezione di illegittimita' costituzionale
 del  citato  art.    37  c.p.p., in relazione agli artt. 3 e 24 della
 Costituzione, in quanto non  prevede,  neppure  per  il  tramite  del
 riferimento  all'art.  36 c.p.p, che costituisca causa di ricusazione
 il fatto  che  il  giudice  abbia  gia'  manifestato  il  suo  parere
 sull'oggetto  del procedimento nell'esercizio di funzioni giudiziarie
 nel corso di un diverso procedimento;
   Udita la relazione del consigliere relatore, sentiti il procuratore
 generale  ed  i  difensori  dei   ricusanti,   che   hanno   concluso
 nell'odierna udienza in camera di consiglio come da relativo verbale,
 ed esaminati gli atti;
                             O s s e r v a
   1.  -  A  seguito  di impugnazioni proposte, sia dagli imputati che
 erano stati condannati per taluni dei reati loro  ascritti,  sia  dal
 pubblico  ministero  con  riferimento ai fatti ed agli imputati per i
 quali vi era stata assoluzione, contro la sentenza emessa in data  21
 ottobre   1996   dal   G.i.p.  presso  il  tribunale  di  Torino  nel
 procedimento  a  carico  di  Agui'  Bruno,  Dezzani  Livio,   Gibello
 Alessandro,  Jacob  Romano,  Joannas  Giuseppe  e Maggiora Pierpaolo,
 relativo a varie ipotesi di reati che  sarebbero  stati  commessi  in
 occasione  di vicende concernenti valutazioni ed acquisti di terreni,
 rilascio di concessioni e  costruzioni  di  immobili  eseguite  e  da
 eseguirsi  in  localita'  "Campo  Smith"  del comune di Bardonecchia,
 nelle quali i predetti imputati risultavano coinvolti a vario  titolo
 (Agui'  quale  amministratore  della immobiliare Marina di Alessandro
 S.r.l.; Dezzani quale consulente urbanistico e Gibello quale  sindaco
 del  comune  di  Bardonecchia; Jacob quale perito estimatore nominato
 dal medesimo comune; Joannas quale segretario  comunale;  e,  infine,
 Maggiora  quale  progettista  dell'opera  e direttore dei lavori), il
 processo ed il conseguente giudizio di appello erano  assegnati  alla
 prima sezione della Corte d'appello di Torino.
   2.  -  La medesima sezione, come osservano le difese degli imputati
 appellanti nei motivi  addotti  a  sostegno  della  dichiarazione  di
 ricusazione, gia' si era dovuta occupare in precedenza della "vicenda
 Campo  Smith",  quale  giudice  di ricorsi proposti da altri soggetti
 avverso  misure  di  prevenzione  disposte  nei  loro  confronti   ed
 inerenti, fra l'altro, anche alla citata vicenda.
   2.1.  - In particolare, nel decreto del 10 gennaio 1995, la Corte -
 composta dal presidente dott.  Emilio  Giribaldi  e  dai  consiglieri
 dottori  Filippo  Russo  e Mario Griffey -, pronunciando a seguito di
 ricorsi presentati da Careglio Luciano e  Dente  Francesco  contro  i
 decreti  emessi  il  4 ed il 17 ottobre 1994 dal tribunale di Torino,
 sezione misure di prevenzione, con i  quali  i  due  ricorrenti,  gia
 amministratori delegati della Immobiliare Marina di Alessandro S.r.l,
 erano  stati  sospesi  da tale incarico, nell'inquadrare la posizione
 dei  due  ricorrenti  nell'ambito  del  piu'  vasto  procedimento  di
 prevenzione  in  cui  la  stessa  era  inserita,  aveva affermato fra
 l'altro, con riferimento alle aree site in localita'  "Campo  Smith",
 sulle  quali  doveva  sorgere il complesso immobiliare ad opera della
 societa' sopra indicata, che si trattava di "aree la cui acquisizione
 e' stata ottenuta attraverso pressioni illecite ed anche minacce  nei
 confronti  di  alcuni  amininistratori del comune di Bardonecchia, in
 relazione ad una  permuta  di  terreni  di  proprieta'  dello  stesso
 comune;  altre  pressioni illecite risultano essere avvenute in vista
 della stipula della convenzione edilizia 3 giugno 1993 tra il  comune
 e  la  immobiliare  Marina"  (p. 1); aveva osservato inoltre, facendo
 proprie le parole del primo giudice, che "le indagini sin qui  svolte
 fanno  sorgere  -  allo  stato - un quadro di condizionamento di tipo
 mafioso  nell'esercizio  della  ''immobiliare   Marina''"   (p.   2),
 ribadendo   poi  ancora  che  "anche  la  immobiliare  Marina  e'  da
 considerare strumento di attivita'  mafiosa;  strumento  utilzzato...
 per l'acquisizione di aree fabbricabili con denaro di piu' che dubbia
 provenienza" (p. 3).
   2.2.  -    Con il successivo decreto in data 27 gennaio 1997 con il
 quale vennero decisi i ricorsi proposti da Lo Presti Rocco  ed  altri
 avverso  il  decreto  applicativo di misure di prevenzione emesso dal
 medesimo tribunale il 23 maggio 1996 la  prima  sezione  della  Corte
 d'appello  di  Torino  -  composta  dallo  stesso  presidente  e  dai
 consiglieri dottori Brunella Rosso ed Onofrio  Ruffino  -  era  scesa
 ancor  piu'  addentro  nell'esame  della  vicenda  relativa al "Campo
 Smith", pronunciandosi anche sulle  specifiche  posizioni  di  alcuni
 soggetti  imputati  nel  procedimento  conclusosi  con  la  ricordata
 sentenza del g.i.p.
   In  particolare, aveva affermato la Corte in quel provvedimento che
 "l'esistenza  di  influenze  di  tipo  mafioso   sull'amministrazione
 comunale  di  Bardonecchia emergeva dagli anomali rapporti intercorsi
 tra detto comune e la S.r.l. Marina D'Alessandro. Non solo infatti il
 sindaco Gibello aveva rilasciato a detta societa' in data  24  giugno
 1993  una concessione illegittima per la costruzione di un fabbricato
 residenziale... ma gia' nel 1990 la S.r.l. Marina D'Alessandro  aveva
 acquistato  dal  comune  parte  dei  terreni in localita' Campo Smith
 permutandoli con altri terreni di sua proprieta'  siti  in  localita'
 Horres  sulla  base  di una perizia redatta dal geom. Jacob Romano il
 quale -  attenendosi  ad  indicazioni  fornitegli  dal  sindaco,  dal
 tecnico  comunale  geom.  Rossetti  e  dal consulente del comune ing.
 Dezzani  -  aveva  attribuito  un   valore   esiguo   agli   immobili
 appartenenti al comune..." (p. 8-9).
   Inoltre, dopo avere ancora fatto riferimento alle citate vicende in
 altre pagine in cui descriveva le ragioni addotte dal primo giudice a
 sostegno  del  provvedimento  impugnato,  la  Corte,  nel motivare la
 propria decisione e nel  descrivere  i  rapporti  tra  il  comune  di
 Bardonecchia  e  la  immobiliare  Marina  Di Alessandro S.r.l., aveva
 affermato testualmente che tali rapporti "si collocano in un contesto
 di illiceita' per le ragioni dettagliatamente esposte  nell'impugnato
 decreto,  quali  l'approvazione da parte del consiglio comunale di un
 piano  particolareggiato  illegittimo  onde  consentire  alla  S.r.l.
 Marina  d'Alessandro l'edificazione in localita' Campo Smith nel modo
 da  essa  voluto,  l'incongruita' dei valori attribuiti agli immobili
 oggetto  di  permuta  tra  il  comune  e  la  stessa  S.r.l.   Marina
 d'Alessandro"  (p.  27); ed aveva fatto altresi' espresso richiamo al
 dispositivo della sentenza del 21 ottobre 1996 del g.i.p.  presso  il
 tribunale  di  Torino,  la  cui  motivazione  ancora  non  era  stata
 all'epoca depositata, esprimendo un  giudizio  sulla  "disponibilita'
 manifestata  dal  Gibello  e  da  altri  organi  dell'amministrazione
 comunale ad assecondare i  progetti  e  gli  interessi  della  S.r.l.
 Marina  d'Alessandro  anche se in contrasto con quelli del comune" ed
 affermando  che  la  stessa  "non  e'  interpretabile  come  semplice
 trascuratezza  dei pubblici interessi", pur escludendo che vi fossero
 "elementi per ricondurla ad attivita' corruttive" (p. 27-28).
   2.3. - I  componenti  dei  due  collegi  sopra  ricordati,  quindi,
 svolgendo  le  funzioni  di  giudice  del  gravame in procedimenti di
 prevenzione a carico  di  persone  diverse  dagli  attuali  imputati,
 avevano  espresso,  ad  avviso  dei  ricusanti, valutazioni e giudizi
 riguardanti l'intera vicenda e quantomeno taluni dei soggetti che,  a
 seguito  dell'impugnazione proposta contro la sentenza del 21 ottobre
 1996 del g.i.p. presso il  tribunale  di  Torino  ed  in  conseguenza
 dell'assegnazione  del  procedimento  e  del giudizio di appello alla
 sezione di  cui  essi  fanno  parte,  nonche'  della  formazione  del
 collegio  nella  composizione  risultante  dagli  atti (presidente il
 dott. Emilio Giribaldi  e  consiglieri  i  dottori  Filippo  Russo  e
 Brunella  Rosso),  alcuni di essi dovrebbero ora giudicare e valutare
 nell'ambito del processo penale.
   3. - Sulla base di tali circostanze la stessa prima  sezione  della
 Corte  d'appello  di  Torino,  in un precedente collegio composto dal
 presidente dott. Emilio Giribaldi e dai consiglieri  dottori  Filippo
 Russo e Pietro Capello, gia' aveva in data 19 ottobre 1998 presentato
 dichiarazione  di  astensione,  ritenendo  ricorrere il motivo di cui
 all'art. 36 primo comma lett. g) con riferimento all'art. 34  c.p.p.,
 e cio' anche alla luce della sentenza costituzionale n. 346/1997.
   La  dichiarazione  era stata peraltro respinta dal Presidente della
 Corte d'appello di Torino con decreto del 26 ottobre 1998, in  quanto
 non  apparivano ravvisabili i presupposti di cui alla norma invocata,
 dal  momento  che  i  giudici  che  intendevano  astenersi  si  erano
 pronunciati in procedimenti diversi da quello in cui erano chiamati a
 giudicare  in  sede  di appello, sicche' si era "fuori dal modello di
 incompatibilita'  delineato  dall'art.  34  c.p.p.  alla  luce  delle
 pronunce della Corte costituzionale nn. 306, 307, 308/1997". Gli atti
 erano  pertanto  rimessi  alla  medesima sezione per il prosieguo del
 giudizio.
   4. - L'udienza fissata in camera di  consiglio  per  tale  giudizio
 veniva  peraltro  presentata contro il nuovo collegio (composto, come
 si e' ricordato in premessa, dal presidente dott. Emilio Giribaldi  e
 dai consiglieri dottori Filippo Russo e Brunella Rosso), da tutti gli
 imputati  e  dai loro difensori, in data 18 febbraio 1999, tempestiva
 dichiarazione di ricusazione ai sensi dell'art. 37,  comma  1,  lett.
 a)  in relazione all'art. 36, comma 1, lett. c) c.p.p., formulando in
 via di subordine, nel caso che non fosse ritenuto riconducibile  alle
 norme  sopra  indicate  o  ad altre ipotesi di ricusazione il caso di
 specie, eccezione di illegittimita' costituzionale del citato art. 37
 c.p.p. in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione.
   Il  collegio ricusato, sentito il procuratore generale che chiedeva
 trasmettersi gli atti al primo presidente per la  designazione  della
 sezione   competente  a  decidere  sulla  ricusazione,  ritenuta  non
 manifestamente infondata la dichiarazione presentata contro i  propri
 componenti,  disponeva  pertanto  in  conformita'  di  tale richiesta
 formulata dal rappresentante  dell'accusa,  rimettendo  gli  atti  al
 Presidente della Corte d'appello di Torino per le sue determinazioni.
   Ed  a  seguito  della  designazione  di questa sezione per decidere
 sulla dichiarazione di ricusazione presentata dagli  imputati  e  dai
 loro  difensori,  si  e'  pertanto  qui  proceduto con le forme della
 camera di consiglio, alla presenza dei difensori degli imputati e del
 procuratore generale.  I  primi  richiamavano  quanto  scritto  nella
 memoria  a  suo  tempo  depositata  a sostegno della dichiarazione di
 ricusazione ed anche il secondo faceva riferimento alle  osservazioni
 scritte,  redatte  in  data  8 marzo 1999, con cui, associandosi agli
 argomenti  addotti  a  sostegno  della  richiesta  principale   degli
 imputati   e   dei   loro   difensori,  esprimeva  parere  favorevole
 all'accoglimento della dichiarazione di ricusazione  ai  sensi  degli
 artt. 37, comma 1, lett. a) e 36, comma 1, lett. c) c.p.p.
   5.  -  Cio' premesso circa lo svolgimento della presente procedura,
 si osserva che, nella memoria depositata  a  sostegno  delle  proprie
 richieste,  gli  imputati  appellanti ed i loro difensori, dopo avere
 ripercorso  le  vicende  che  si  sono  sopra  ricordate   ed   avere
 evidenziato  come  nel caso di specie tutti i componenti del collegio
 avessero gia' espresso valutazioni di  merito  inerenti  agli  stessi
 fatti  ed  agli  stessi  soggetti che avrebbero dovuto essere da loro
 giudicati  nel  procedimento  d'appello  pendente  innanzi  a   loro,
 sottolineano  come cio' comporti il pericolo che la nuova valutazione
 sia o  possa  apparire  condizionata  dalla  "forza  di  prevenzione"
 fisiologicamente scaturente dalle valutazioni gia' compiute.
   Ne  conseguirebbe quindi un grave pregiudizio all'imparzialita' del
 giudice ed al principio del giusto processo. Principio  che,  secondo
 il  piu'  recente  insegnamento  della Corte costituzionale - vengono
 richiamate al riguardo le sentenze n. 306, n. 307 e n. 308, tutte del
 1 ottobre 1977 -, non puo' e non deve subire alcun affievolimento per
 il solo fatto che le valutazioni pregiudicanti provengano da  diverso
 procedimento e persino da procedimento extrapenale.
   Viene  ricordato nella memoria difensiva come le tre pronunce della
 Consulta sopra menzionate abbiano individuato, a tutela del principio
 del giusto processo in relazione alla imparzialita' del giudice quale
 persona  fisica,  un  duplice  sistema  normativo  composto  di   due
 istituti:     quello  delle  incompatibilita',  determinata  da  atti
 compiuti  nel  medesimo  procedimento  (art.  34  c.p.p.),  e  quello
 dell'astensione  (art.  36  c.p.p.)  e  della  ricusazione  (art.  37
 c.p.p.), cui deve necessariamente farsi  riferimento  in  tutti  quei
 casi  in  cui  l'atto  o  la  valutazione "pregiudicante" provenga da
 diverso procedimento.
   Da tale univoco  insegnamento  delle  citate  sentenze  emergerebbe
 dunque   chiaro  un  indirizzo:  quando  la  "fonte  di  prevenzione"
 scaturisca non dal medesimo procedimento, ma da procedimento  diverso
 da   quello   in  cui  lo  stesso  giudice  e'  chiamato  alla  nuova
 valutazione,  non  significa  affatto  che  per  cio'  solo  la   sua
 imparzialita'   non  risulti  o  non  appaia  violata,  ma  significa
 semplicemente che  per  la  tutela  della  stessa  non  e'  possibile
 invocare  il sistema di incompatibilita' (art. 34 c.p.p.) ed occorre,
 invece,  fare  riferimento  agli  istituti  dell'astensione  e  della
 ricusazione.
   E secondo la difesa - che afferma di ricollegarsi alla ripartizione
 dei casi di astensione e ricusazione individuata dalla  stessa  Corte
 costituzionale  nella  sentenza  n.  308/97  al  punto  6.2 - poiche'
 l'unico caso in cui l'astensione, e per  relationem  la  ricusazione,
 puo' derivare (come nel caso di specie) da un pregresso convincimento
 espresso  legittimamente  dal  giudice  e' quello di cui all'art. 36,
 lett. c)  c.p.p.,  e'  appunto  sotto  tale  profilo  che,  ai  sensi
 dell'art.  37,  comma  1,  lett. a) c.p.p. che espressamente richiama
 anche la lett.    c)  del  precedente  articolo,  viene  avanzata  la
 dichiarazione   di  ricusazione  nei  confronti  dei  componenti  del
 collegio giudicante, per avere ciascuno di essi fatto parte di uno  o
 piu'  dei  collegi  che,  in  sede  di  decisione  su  gravame contro
 provvedimenti  in  materia  di  misure  di  prevenzione,   ebbero   a
 pronunziarsi  in  precedenza  sui fatti oggetto delle imputazioni nel
 presente processo.
   5.1. - In via di subordine, qualora questa Corte ritenga  che,  pur
 sussistendo  nel  caso  di specie violazione del principio del giusto
 processo e della garanzia di imparzialita' del giudice, l'ipotesi  in
 questione non sia comunque prevista e riconducibile al caso tipizzato
 dall'art.  36,  comma  1,  lett.  c)  c.p.p.,  i  medesimi  difensori
 dichiarano, come gia' sopra si e' detto, di volere proporre eccezione
 di illegittimita' costituzionale dell'art.  37  c.p.p.  in  relazione
 agli  artt.  3  e  24  della  Costituzione,  in quanto tale norma non
 prevede, neppure per il tramite del riferimento all'art.  36  c.p.p.,
 che  costituisca  causa  di ricusazione il fatto che il giudice abbia
 gia'  manifestato  il  suo  parere  sull'oggetto   del   procedimento
 nell'esercizio  di  funzioni  giudiziarie  nel  corso  di  un diverso
 procedimento.
   Ed a tale fine richiamano,  quanto  alla  violazione  dell'art.  24
 Cost.,  i  rilievi  gia'  svolti  per  sostenere  la dichiarazione di
 ricusazione, nonche'  tutti  gli  argomenti  contenuti  nelle  citate
 sentenze della Corte costituzionale.
   Quanto  alla  violazione dell'art. 3 Cost., viene evidenziato nella
 memoria difensiva come, una volta  stabilito  che  il  principio  del
 giusto  processo,  sotto  il  profilo dell'imparzialita' del giudice,
 subisce una lesione  tutte  le  volte  che  la  valutazione  ad  esso
 demandata  su  di  un  determinato  oggetto  sia  preceduta  da altra
 valutazione  da  lui  resa  sulla  stessa  materia  e  che  cio'   e'
 conseguenza  della  naturale ed umana "forza di prevenzione", sarebbe
 contrario al principio di uguaglianza negare all'imputato la facolta'
 di ricusare il giudice che tali valutazioni di merito abbia  espresso
 legittimamente  in  un diverso procedimento, mentre tale possibilita'
 gli  viene  riconosciuta  nei  confronti  del   giudice   che   abbia
 manifestato  il  proprio parere di merito nel medesimo procedimento o
 addirittura da privato.
   D'altro  canto,  evidenzia  ancora  la  difesa,  la  prospettazione
 dell'eccezione  di incostituzionalita' in esame altro non costituisce
 se non l'accoglimento  dell'implicito  invito  finale,  contenuto  in
 tutte  e  tre  le richiamate sentenze della Corte costituzionale (nn.
 306, 307 e 308/97), all'eventuale richiesta di successivo  intervento
 della  Corte stessa per la piena attuazione del principio di garanzia
 in parola.
   6.  -  Questo collegio ritiene inammissibile, in quanto proposta al
 di fuori dei casi tassativamente previsti  dall'art.  37  c.p.p.,  la
 dichiarazione  di  ricusazione  degli  imputati  e dei loro difensori
 avverso tutti i componenti del collegio giudicante  nel  procedimento
 in  esame e ritiene, invece, rilevante e non manifestamente infondata
 l'eccezione di illegittimita' costituzionale,  per  violazione  degli
 artt.  3  e  24  Cost.,  della  norma  sopra  indicata per la mancata
 previsione dell'ipotesi in esame, cosi' come sostenuto dai difensori.
 Va quindi sospeso il giudizio in corso  e  gli  atti  debbono  essere
 trasmessi alla Corte costituzionale per la decisione della questione.
   7.  -  Il  primo  problema  da affontare, al fine di pervenire alle
 conclusioni che si sono appena sopra anticipate, e' quello di  merito
 circa  la  sussistenza o meno, nel caso di specie della situazione di
 fatto su cui gli imputati  ed  i  loro  difensori  hanno  fondato  la
 dichiarazione   di   ricusazione   dell'intero  collegio  chiamato  a
 giudicarli in sede di giudizio d'appello:  l'avere,  cioe',  tutti  i
 componenti  di  tale  collegio  gia' manifestato, nei sopra ricordati
 procedimenti  in  materia  di  misure  di  prevenzione,  il   proprio
 convincimento  con riguardo ai fatti attualmente sottoposti alla loro
 valutazione  nel  processo  penale  nei  confronti   degli   imputati
 ricusanti  e  l'avere  anticipato,  in  tale  modo,  il  giudizio con
 riferimento a tali imputati, si' che ne  possa  essere  o,  comunque,
 apparire  in  concreto  pregiudicata  l'imparzialita'  e,  sotto tale
 profilo, ne derivi un possibile pregiudizio al principio  del  giusto
 processo.
   7.1.  -  Una  premessa  e'  peraltro  ancora  necessaria  sul piano
 teorico.  Quella secondo cui non pare a questo collegio che  la  piu'
 volte  affermata e ribadita autonomia del procedimento di prevenzione
 rispetto a quello penale  debba  di  per  se'  comportare  l'assoluta
 impossibilita' di ipotizzare, in concreto, una situazione come quella
 prospettata  in  questa sede dagli imputati e dai loro difensori: una
 situazione,  cioe',  nella  quale  legittimamente  il  giudice  della
 prevenzione  abbia  comunque  anticipato  il proprio convincimento su
 cio'  che  e'  destinato  a  formare  oggetto  della  sua  successiva
 valutazione  quale giudice del processo penale concernente, almeno in
 parte e sia pure per altri scopi,  i  medesimi  fatti  e  gli  stessi
 soggetti  di  cui  egli  gia' si era dovuto occupare in occasione del
 procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione.
   Non sembra, in particolare, che ad escludere in modo assoluto  tale
 possibilita',  sul  piano  di  fatto,  valga  la  certamente esatta e
 condivisibile affermazione in diritto, ancora recentemente confermata
 in sede di  giurisprudenza  di  legittimita',  secondo  cui  "tra  il
 procedimento  di prevenzione e quello penale sussiste piena autonomia
 e diversita' assoluta di scopo, sicche' elementi probatori idonei  ad
 essere  utilizzati  nel  primo  non  possono avere alcuna valenza nel
 secondo, dal momento che  il  procedimento  penale  ha  lo  scopo  di
 verificare  se  sussista  responsabilita'  penale  in  ordine  a  una
 determinata imputazione, mentre quello di  prevenzione  comporta  una
 valutazione,   a   carattere  essenzialmente  sintomatico,  circa  la
 pericolosita' sociale  del  proposto,  che  si  fonda  su  indizi  di
 qualsiasi  specie  idonei  a sorreggere il convincimento del giudice"
 (cosi', da ultimo, Cass. sez. VI, 29 gennaio 1998 - 5 marzo 1998,  n.
 326,  Iamonte  ed  altro;  ed analogamente, sulla autonomia fra i due
 procedimenti, fra le molte cfr. id. sez. I, 20  novembre  1997  -  28
 gennaio  1998,  n.  6521,  Perreca; id. sez. II, 19 dicembre 1996, Di
 Muro; id. ss.uu., 3 luglio 1996, Simonelli: sez. I, 25  giugno  1996,
 Giocondo;  id.  sez.  II,  15  gennaio  1996,  Anzelmo; id. sez. I, 3
 novembre 1995, Repaci; id. sez. I, 20 marzo 1995, Cervino; id.   sez.
 I, 11 aprile 1994, Musumeci).
   La  decisione  di cui sopra si e' riportata la massima e gran parte
 delle altre pronunce del S.C., infatti, hanno correttamente  escluso,
 in  base  al  principio  sopra affermato, che sia possibile sostenere
 l'esistenza di una ipotesi di incompatibilita',  ai  sensi  dell'art.
 34  c.p.p., del giudice di un processo penale che abbia in precedenza
 fatto parte di un collegio che, nell'ambito  di  un  procedimento  di
 prevenzione,  si  sia  dovuto  occupare  delle  medesime  vicende poi
 sottoposte alla sua valutazione  in  sede  penale.  E  tali  pronunce
 appaiono,  seppure motivate secondo un procedimento logico differente
 e sotto certi aspetti inverso rispetto a  quello  dei  giudici  della
 Consulta,  perfettamente  in linea con l'insegnamento contenuto nelle
 gia' ricordate sentenze nn. 306, 307  e  308  del  1997  della  Corte
 costituzionale.
   Con   tali   sentenze,   infatti,   distinguendo  l'istituto  della
 incompatibilita'  da  quelli  dell'astensione  e  della  ricusazione,
 sebbene  finalizzati  tutti  a  garantire il giusto processo sotto il
 profilo dell'imparzialita' del giudice, il giudice costituzionale  ha
 evidenziato  come tra essi esista una "differenza categoriale". E, in
 estrema-sintesi, si puo' qui ricordare come, secondo  la  distinzione
 operata  dalla  Corte,  l'incompatibilita'  opera  in  astratto ed e'
 determinata dal solo fatto di avere svolto determinate attivita'  nel
 corso   del  medesimo  procedimento  penale,  sicche'  le  cause  che
 potrebbero  provocarla   sono   tali   da   potere   essere   evitate
 preventivamente   attraverso  idonei  atti  di  organizzazione  dello
 svolgimento del processo e, quando tali atti non siano stati posti in
 essere, si trasformano in motivi di astensione ai sensi dell'art.  36
 comma  1, lett. g) c.p.p. o di ricusazione ex art. 37, comma 1, lett.
 a) c.p.p.
   Invece, le cause di astensione e  ricusazione  (diverse  da  quelle
 appena menzionate) si collocano su un piano diverso: esse non operano
 in  astratto, ma in concreto e non hanno strutturalmente a che vedere
 con l'articolazione del processo, ma si fondano su comportamenti  del
 giudice che, siano essi tenuti entro o fuori del processo stesso, per
 il   loro  concreto  contenuto  sono  tali  da  poter  fare  ritenere
 sussistente un pregiudizio in capo al medesimo rispetto alla causa da
 decidere.
   Conseguenza della distinzione operata dalla Consulta e' che, mentre
 appare pacifico che non potrebbe neppure porsi, sul piano  teorico  -
 essendosi  al di fuori dell'ipotesi di attivita' compiute all'interno
 del medesimo procedimento e  tenuto  anche  conto  delle  differenze,
 quanto a presupposti e finalita', che separano il procedimento penale
 da  quello  di  prevenzione  -,  un  problema di incompatibilita' con
 riferimento ad un giudice che sia stato  chiamato  a  partecipare  al
 procedimento  penale  ed  a  quello  di  prevenzione  relativi ad una
 medesima vicenda, lo stesso non sembra possa dirsi,  invece,  ove  la
 posizione  e  l'imparzialita' di quel giudice debbano essere valutate
 in concreto, con riferimento alla sussistenza di una possibile  causa
 di  astensione o di ricusazione del medesimo, per avere - in concreto
 appunto e, quindi, con valutazione da farsi caso per caso -  espresso
 il proprio convincimento nell'ambito del procedimento di prevenzione,
 mentre  si  occupava  dei  medesimi  fatti  e  degli  stessi soggetti
 successivamente sottoposti al suo giudizio in sede penale.
   Cio'  comporta  quindi  che,  ove  venga  prospettata  dalle  parti
 interessate,  come  e'  accaduto  nel  caso  di  specie, una causa di
 ricusazione del giudice chiamato  ad  esaminare  la  posizione  delle
 stesse   nel   processo   penale   a   loro  carico,  in  conseguenza
 dell'attivita'  dal  medesimo  giudice  svolta   in   un   precedente
 procedimento  di  prevenzione,  pur  non  potendosi  prescindere  nel
 compiere tale valutazione dal considerare l'autonomia che vi  e'  sul
 piano  teorico  tra i due tipi di procedimento e le differenze che li
 separano quanto a presupposti e finalita', non ci si  possa  tuttavia
 sottrarre  alla  verifica  se, in concreto, il giudice ricusato abbia
 nel procedimento di prevenzione manifestato il proprio  convincimento
 sull'oggetto  del  successivo  processo  penale,  si'  che  ne  possa
 apparire pregiudicata l'imparzialita' nei  confronti  degli  imputati
 ricusanti,  per  poi  procedere,  in  caso affermativo, all'ulteriore
 accertamento se tale situazione sia o meno riconducibile sotto taluna
 delle ipotesi previste dalle norme che regolano  gli  istituti  della
 astensione e della ricusazione.
    7.2.  -  Ai fini della prima verifica da compiere appare opportuno
 rifarsi all'elaborazione giurisprudenziale conseguente alla  sentenza
 costituzionale  n.  371 del 1996. Infatti, sebbene con tale pronuncia
 la Corte abbia inserito una nuova causa di  incompatibilita'  e  non,
 quindi,  "solamente"  di  astensione  o  ricusazione,  cio'  ha fatto
 introducendo una eccezione ("apparente", come viene  precisato  nelle
 ricordate  sentenze nn. 306, 307 e 308 del 1997) al principio secondo
 cui  l'incompatibilita'   opera   solo   all'interno   del   medesimo
 procedimento,  in  quanto ha previsto quale causa di incompatibilita'
 proprio un'ipotesi in  cui  il  giudice,  in  altro  processo  e  con
 sentenza, abbia valutato la posizione di un soggetto relativamente ad
 un fatto poi sottoposto al suo giudizio.
   Ed  invero,  proprio  le  precisazioni  fornite  dalla stessa Corte
 costituzionale circa l'ambito  di  operativita'  di  tale  pronuncia,
 nonche'  l'interpretazione  data  della  portata  della  stessa dalla
 giurisprudenza di legittimita' pare che forniscano le corrette  linee
 direttrici entro le quali e' opportuno valutare, caso per caso, se un
 giudice  abbia  o  meno  manifestato  il  proprio  convincimento  nei
 confronti di un determinato fatto integrante estremi di reato  di  un
 soggetto   che  ne  sarebbe  responsabile,  si'  che  possa  apparire
 pregiudicata la sua imparzialita'  e  messo  quindi  in  pericolo  il
 principio del giusto processo.
   Al  riguardo  e  sulla base di tale elaborazione giurisprudenziale,
 puo'  ritenersi  assodato  che,  al  fine  sopra  indicato,   occorre
 ovviamente  che  oggetto  della  precedente valutazione sia lo stesso
 fatto storico e che essa sia riferita  al  soggetto  che  dovra'  poi
 essere giudicato.  Inoltre, pur dovendo tale valutazione, secondo una
 recente  decisione della Corte di cassazione, condurre ad una precisa
 ascrivibilita' del fatto  a  quel  soggetto,  tanto  sotto  l'aspetto
 materiale  quanto  sotto quello psicologico, non si richiede tuttavia
 che cio' avvenga necessariamente in forma  diretta  ed  approfondita,
 mediante la prospettazione e l'esame di tutti gli elementi di prova a
 carico  del  medesimo, ma e' sufficiente che avvenga anche attraverso
 "una delibazione di merito  in  via  incidentale  sia  pure  in  modo
 superficiale  e  sommario"  (cosi' Cass. sez. VI, 14 maggio-11 giugno
 1998, Cerciello, in Gazz. giur.  Giuffre' Italia Oggi, n.  30/98,  p.
 58).  E  con  la  medesima  pronuncia si e' altresi' precisato che la
 rapportabilita' di tale valutazione alla posizione dell'estraneo puo'
 avvenire "esplicitamente o implicitamente" e  si  sono  delimitati  i
 contorni  entro  i quali puo' essere desunta, in assenza di ulteriori
 indicazioni relative al soggetto estraneo, una valutazione  implicita
 della sua condotta con riferimento ai fatti descritti in imputazione.
   7.3.  - Cosi' individuati i criteri alla luce dei quali va condotto
 l'accertamento, si puo osservare  che  se  talune  delle  espressioni
 contenute  nei  due  decreti  menzionati dai ricusanti, e che si sono
 sopra ricordate, sembrano costituire semplici richiami a  quanto  era
 stato  scritto  dal tribunale e non risultava sottoposto a specifiche
 censure da parte dei  ricorrenti,  sicche'  potrebbe  anche  apparire
 dubbia l'esistenza di una situazione di vero e proprio pregiudizio da
 parte  di  chi  fece uso di tali espressioni, non ci si puo' peraltro
 nascondere che altre, invece, nelle quali sono contenuti giudizi  che
 la  Corte  dichiara espressamente di fare propri, ponendoli inoltre a
 fondamento  della  propria  decisione  sia  pure  relativa  ad  altri
 soggetti,  proprio  perche' attengono specificamente ai fatti oggetto
 delle imputazioni su cui si e' pronunciato il g.i.p. in  primo  grado
 con  la sopra ricordata sentenza, nonche' alle condotte che sarebbero
 state tenute in occasione di  quei  fatti  da  taluni  degli  attuali
 imputati  appellanti  o  contro i quali e' stato proposto appello dal
 pubblico   ministero,   costituiscano   la   manifestazione   di   un
 convincimento  gia'  espresso,  sia pure in forma alquanto generica e
 sommaria, ma con riferimento comunque  agli  elementi  essenziali  di
 quei   fatti   integranti   reato   e   del   relativo   giudizio  di
 responsabilita'  nei  confronti  dei  soggetti  imputati  di   averli
 commessi,  da  parte  di coloro che sono ora chiamati a giudicarli in
 sede di appello.
   Quanto si e' appena sostenuto trova  conforto  anche  nel  conforme
 parere  espresso  in questa sede dal procuratore generale e non pare,
 d'altronde, che possa assumere particolare rilievo la circostanza che
 non tutti i nomi degli  attuali  imputati  risultino  indicati  nelle
 motivazioni  dei  decreti  di cui si discute, posto che comunque, per
 alcuni di essi  (come  Gibello  Alessandro,  Dezzani  Livio  o  Jacob
 Romano),  il  riferimento  alle  condotte  integranti gli estremi dei
 reati contestati nei capi  di  imputazione  del  processo  penale  e'
 esplicito  e che, d'altro canto, per altri, tale riferimento discende
 implicitamente  dalla  posizione  che  essi  rivestivano  nell'ambito
 dell'ente   pubblico   territoriale   o  della  societa'  immobiliare
 coinvolti nella vicenda,  la  quale  e'  stata  valutata  e  ritenuta
 caratterizzata  da  quelle  condotte  criminose oggetto di specifiche
 imputazioni  in  sede  penale,  nell'ambito   nei   procedimenti   di
 prevenzione  decisi  da  collegi  di cui facevano parte i giudici ora
 ricusati.
   Sarebbe d'altronde sufficiente che fosse stata  espressa  anche  in
 uno  solo  dei  decreti  in esame, e quindi da almeno due dei giudici
 chiamati oggi a comporre il collegio  ricusato,  una  valutazione  di
 merito  nei  confronti  anche di uno solo degli attuali imputati, con
 riferimento ai fatti ascritti a suo carico, perche'  possa  ritenersi
 sussistente,  relativamente  a  quei  giudici ed a quell'imputato, la
 situazione di fatto su cui  e'  stata  fondata  la  dichiarazione  di
 ricusazione formulata da quest'ultimo e dal suo difensore e si renda,
 percio',  necessario passare all'esame delle osservazioni prospettate
 in diritto e, in primo luogo, alla verifica  se  l'ipotesi  in  esame
 rientri  fra le cause di astensione o ricusazione previste dal codice
 di rito.
   8. - Ritenuto, pertanto, alla luce delle considerazioni svolte  nel
 precedente paragrafo che effettivamente tutti i giudici componenti il
 collegio  ricusato,  in  quanto  facenti  parte dell'uno o dell'altro
 ovvero di entrambi i collegi che emisero i decreti  nei  procedimenti
 di   prevenzione   sopra  ricordati,  gia'  si  sono  incidentalmente
 pronunciati sulla posizione degli odierni appellanti in relazione  ai
 fatti  ai  medesimi attribuiti in imputazione, occorre ora domandarsi
 se  tale  manifestazione  del  proprio  convincimento  possa  o  meno
 integrare  l'ipotesi  di ricusazione invocata dagli stessi imputati e
 dai loro difensori o, comunque, una  qualsiasi  delle  altre  ipotesi
 previste dal legislatore quali cause di ricusazione del giudice.
   8.1.  -  Va  premesso  che correttamente e' gia' stata respinta dal
 presidente di questa Corte d'appello la dichiarazione  di  astensione
 che  era  stata  presentata,  in  base  alle  medesime ragioni, il 19
 ottobre 1998 da altro collegio  sotto  il  profilo  di  una  asserita
 situazione  di incompatibilita' ai sensi dell'art. 36, comma 1, lett.
 g), con riferimento all'art. 34 c.p.p.,  sulla  base  dell'assorbente
 rilievo  che,  dal  momento  che quei giudici si erano pronunciati in
 procedimenti diversi da quello in cui erano chiamati a  giudicare  in
 sede  di  appello,  si  era  "fuori  dal  modello di incompatibilita'
 delineato dall'art.  34 c.p.p. alla luce delle pronunce  della  Corte
 costituzionale nn.  306, 307, 308/1997".
   Si puo' solamente aggiungere, in questa sede, che neppure alla luce
 della gia' ricordata sentenza n. 371 del 1996 potrebbe sostenersi nel
 caso  di  specie,  e  con  riguardo  all'attuale collegio giudicante,
 l'esistenza di una situazione di incompatibilita'  rilevante  ex  art
 36,  comma  1,  lett.  g)  c.p.p. e tale, quindi, da giustificare una
 eventuale dichiarazione di ricusazione ai sensi dell'art.  37,  primo
 comma,  lett.  a)  c.p.p.,  dal  momento  che le valutazioni espresse
 incidentalmente, nei confronti degli attuali appellanti e  dei  fatti
 agli  stessi  attribuiti, dai componenti del collegio chiamato oggi a
 giudicarli a seguito delle impugnazioni dagli stessi o contro di essi
 proposte non erano, comunque, contenute in una sentenza, bensi' in un
 provvedimento avente natura di decreto.
   8.2. - Neppure, com'e' ovvio, potrebbe farsi riferimento  nel  caso
 di  specie,  per  affermare  l'esistenza di un dovere di astensione e
 giustificare una conseguente dichiarazione di ricusazione, alle cause
 previste nel primo comma dell'art. 36 c.p.p. alle lett. a),  b),  d),
 e)  e  f)  e,  per relationem, nel primo comma, lett. a) dell'art. 37
 c.p.p., trattandosi di ipotesi assolutamente diverse, nelle quali  il
 dovere  di  astensione  ed  il  correlativo  diritto  della  parte di
 ricusazione del giudice discendono non gia' dalla  manifestazione  di
 un  convincimento  da parte del medesimo, ma dall'esistenza di un suo
 possibile interesse nel procedimento.
   8.3. - Del pari inipotizzabile appare nel caso in esame, secondo la
 stessa difesa, una dichiarazione di ricusazione che  si  fondi  sulla
 causa  di  cui alla lett. b) del primo comma dell'art. 37 c.p.p., dal
 momento che presupposto per l'esercizio del  diritto  di  ricusazione
 e',  ai  sensi della disposizione in esame, che la manifestazione del
 proprio  convincimento sui fatti oggetto dell'imputazione sia effetto
 di una condotta "indebita" del giudice, la quale sia stata  posta  in
 essere  nell'esercizio  delle  proprie  funzioni  e prima che su quei
 fatti sia stata pronunciata sentenza.
   Invece i  giudici  oggi  ricusati  dagli  imputati,  formulando  in
 occasione  della  decisione  sui  ricorsi  in  materia  di  misure di
 prevenzione relative ad altri soggetti le valutazioni di  merito  che
 si  sono  sopra  ricordate, con riguardo ai fatti costituenti oggetto
 del procedimento successivamente ad essi assegnato  a  seguito  delle
 impugnazioni  proposte  da  e  contro quegli imputati, non puo' certo
 ritenersi  che  abbiano  agito  "indebitamente",   potendo   comunque
 apparire opportuna anche in quella sede una globale valutazione della
 vicenda  sottoposta  al  loro  giudizio,  ivi  compresi i fatti sopra
 menzionati, sia pure ai limitati fini della decisione in  materia  di
 misure di prevenzione che era in quel contesto a loro richiesta.
   8.4.  -  Ed  infine, non sembra adattarsi al caso di specie neppure
 l'ipotesi  su  cui  i  ricusanti,  con  il  parere   favorevole   del
 procuratore  generale, hanno fondato la loro richiesta, attraverso il
 richiamo alla causa di astensione di cui all'art. 36, lett. c) c.p.p.
 ed alla conseguente possibilita' di ricusazione  ai  sensi  dell'art.
 37, lett.  a) c.p.p.
   E'  vero,  infatti,  come  si sostiene nella memoria difensiva, che
 quello previsto  dal  combinato  disposto  delle  norme  indicate  e'
 l'unico caso in cui l'obbligo di astensione ed il correlativo diritto
 della   parte   di  ricusazione  possono  derivare  da  un  pregresso
 convincimento espresso legittimamente dal  giudice.  Ma  e'  altresi'
 vero  che  il tenore letterale della norma invocata dalla difesa e le
 caratteristiche  degli  istituti  in  esame,  che  non  pare  possano
 consentire  interpretazioni  estensive od analogiche a causa del loro
 carattere eccezionale, sembrano escludere che possa  farsi  rientrare
 fra  le  ipotesi di cui al primo comma, lett. c) dell'art. 36 c.p.p.,
 che appunto prevede il caso in cui il giudice abbia dato  consigli  o
 manifestato  il  proprio  parere sull'oggetto del procedimento "fuori
 dell'esercizio delle funzioni giudiziarie", un caso  come  quello  in
 esame,  nel  quale  il giudice invece, proprio nell'esercizio di tali
 funzioni e sia pure nell'ambito  di  un  procedimento  diverso  anche
 quanto  agli  scopi  con  esso  perseguiti, abbia espresso il proprio
 convincimento sui fatti che dovranno successivamente formare  oggetto
 della sua valutazione in un processo penale a lui assegnato.
   D'altro  canto,  l'interpretazione  restrittiva che qui si accoglie
 sembra trovare un ulteriore argomento di sostegno, sempre  sul  piano
 letterale e sistematico, nel rilievo che, come sopra si e' ricordato,
 il  legislatore ha espressamente previsto, quale causa di ricusazione
 del giudice (nella gia' ricordata lett. b) del primo comma  dell'art.
 37  c.p.p.),  la  manifestazione  da  parte  del medesimo del proprio
 convincimento  sui  fatti  oggetto  dell'imputazione   che   si   sia
 verificata  "nell'esercizio  delle funzioni" solo nell'ipotesi in cui
 cio' avvenga "indebitamente", cosi'  implicitamente  escludendo  che,
 ove tale manifestazione avvenga invece legittimamente, nell'ambito di
 funzioni  svolte  nello stesso ovvero anche in altro procedimento, la
 stessa possa comunque giustificare una dichiarazione di  ricusazione.
   Anche ammesso quindi che, a fronte di quanto e'  dato  desumere  in
 via  interpretativa  dal combinato disposto delle due norme in esame,
 si possa sostenere  che  l'avere  il  giudice,  nell'esercizio  delle
 proprie funzioni, manifestato legittimamente il proprio convincimento
 sull'oggetto  del  procedimento  possa costituire causa di astensione
 del medesimo, tale possibilita' deriverebbe non gia' dalla previsione
 di cui alla lett. c), ma al piu' dalla norma residuale  di  cui  alla
 lett.  h)  del  primo comma dell'art. 36 c.p.p., quale ipotesi in cui
 potrebbe ritenersi ricorrere una "grave ragione di  convenienza"  per
 il  giudice  di  astenersi.    Il  che, ovviamente, comporta che, non
 essendo richiamata, per evidenti ragioni, tale residuale  ipotesi  di
 astensione,  prevista  dalla  lett.    h)  dell'art.  36  c.p.p., dal
 successivo art. 37 c.p.p. e  non  potendo,  quindi,  tale  situazione
 essere   fatta   valere   dalla  parte  interessata  quale  causa  di
 ricusazione, dovrebbe essere comunque rigettata perche' inammissibile
 anche sotto tale profilo la dichiarazione di  ricusazione  presentata
 dagli imputati contro il collegio chiamato a giudicarli.
   8.5. - A conclusione di quanto sin qui si e' detto, confrontando il
 caso  di specie con le ipotesi astrattamente previste dal legislatore
 quali cause di astensione e, per quanto in particolare  interessa  in
 questa sede, quali cause di ricusazione del giudice, ritiene pertanto
 questo collegio che debba escludersi che la situazione in cui versano
 i  giudici  ricusati  sia  riconducibile ad uno dei casi previsti dal
 combinato disposto degli artt.  37  e  36  c.p.p.,  sicche'  dovrebbe
 essere   rigettata   perche'   inammissibile   la   dichiarazione  di
 ricusazione in esame.
   9. - Tale conclusione impone, peraltro, che  ci  si  faccia  carico
 della  eccezione  di  illegittimita'  costituzionale  proposta in via
 subordinata dagli imputati e dai loro difensori, dal momento  che  la
 stessa  e'  stata  sollevata proprio sul presupposto che questa Corte
 ritenesse non rientrare nella previsione dell'art. 37  c.p.p.,  quale
 causa  di  ricusazione,  un'ipotesi  come  quella in esame, in cui il
 giudice  abbia   manifestato   legittimamente   il   proprio   parere
 sull'oggetto  del processo nell'esercizio di funzioni giudiziarie nel
 corso di un diverso procedimento.
   10. - La rilevanza della questione appare del resto evidente,  alla
 luce  di  tutto quanto sin qui si e' detto. Infatti se la stessa, ove
 ritenuta non manifestamente infondata da questo giudice, venisse  poi
 accolta  dalla Corte costituzionale, il conseguente ampliamento delle
 ipotesi di ricusazione non potrebbe non produrre effetti  diretti  ed
 immediati  sull'esito della presente procedura, dal momento che, come
 gia' si e' detto, sussistono nel caso  di  specie  i  presupposti  di
 fatto   per   ritenere   compromessa   l'imparzialita'  del  collegio
 giudicante, per avere tutti i suoi  componenti  gia'  manifestato  il
 proprio  convincimento sui fatti oggetto delle imputazioni sottoposte
 ora al loro giudizio in sede di appello. Sarebbe  percio'  sicura  la
 riconducibilita'  di  tale  concreta  fattispecie  fra  quelle atte a
 giustificare l'accoglimento della dichiarazione di  ricusazione,  ove
 venisse  ampliato  il contenuto della norma di cui all'art. 37 c.p.p.
 nel senso indicato nella memoria difensiva,  in  conseguenza  di  una
 eventuale  declaratoria di incostituzionalita' di tale norma da parte
 della Corte costituzionale, e ne conseguirebbe, quindi, una decisione
 opposta rispetto a quella che al momento impone, ad avviso di  questo
 collegio,  l'attuale  formulazione  della norma che, proprio per tale
 ragione, e' stata impugnata come costituzionalmente illegittima.
   11.  -  Passando all'esame del profilo concernente la non manifesta
 infondatezza dell'eccezione  di  incostituzionalita'  proposta  dagli
 imputati  e  dai  loro  difensori,  si  puo'  osservare  come, a tale
 riguardo, particolarmente illuminanti siano le sentenze  della  Corte
 costituzionale  nn. 306, 307 e 308 del 1997, richiamate nella memoria
 difensiva ed alle motivazioni delle quali - unitamente a quella della
 successiva sentenza n. 351 del 1997 della stessa Corte - anche questo
 collegio ritiene opportuno operare un integrale rinvio.
   11.1. -  Con  tali  pronunce  infatti,  dopo  aver  chiarito  ormai
 definitivamente - come gia' sopra si e' ricordato - il diverso ambito
 di  applicazione degli istituti della incompatibilita', da un lato, e
 dell'astensione e della ricusazione, dall'altro, sebbene  gli  stessi
 siano accomunati dall'identica esigenza di garantire il principio del
 giusto  processo  sotto  il  profilo dell'imparzialita' del giudice e
 sebbene anche le ipotesi di incompatibilita' possano e debbano essere
 fatte valere quali cause di astensione e ricusazione, i giudici della
 Consulta sembrano volere  indirizzare,  attraverso  quanto  e'  stato
 scritto   nella   motivazione   di   ciascuna  delle  sentenze  sopra
 richiamate, due inviti ai giudici rimettenti e ad ogni altro  giudice
 che  si  trovi  a  dovere  affrontare  questioni  analoghe  a  quelle
 esaminate in quelle occasioni dalla Corte.
   Il primo e' che venga abbandonata, in ipotesi analoghe a quella ora
 in esame, nelle quali il parere del giudice sia stato manifestato  in
 un  diverso  procedimento,  la  via  fino  a  quel  momento  percorsa
 dell'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 34 c.p.p.
   Il secondo e' che venga invece seguita altra via: quella, cioe', di
 verificare se la fattispecie, nella quale a causa  del  convincimento
 espresso   in   altro   procedimento  vi  sia  ragione  per  dubitare
 dell'imparzialita' del giudice e, quindi, del rispetto del  principio
 del  giusto  processo,  possa  ritenersi ricompresa fra le ipotesi di
 astensione e ricusazione previste dal  codice  di  rito  e,  in  caso
 contrario,   di   sottoporre   le   relative   norme   al  vaglio  di
 costituzionalita'.
   Si possono in proposito qui ricordare i  passi  piu'  significativi
 delle  motivazioni delle sentenze sopra richiamate, nelle quali, dopo
 avere dichiarato  inammissibili  tutte  le  questioni  sottoposte  al
 proprio  vaglio  dai  giudici  rimettenti,  in quanto prospettate con
 riferimento alla norma dell'art. 34 c.p.p. in situazioni nelle  quali
 le manifestazioni di pre-giudizio si erano verificate in procedimenti
 diversi  e  non,  quindi,  nell'ambito del medesimo processo - che e'
 quello  in  cui  possono   esclusivamente   operare   le   cause   di
 incompatibilita'  (salva  l'eccezione  "apparente"  di  cui alla gia'
 ricordata sentenza n. 371 del 1996 della Corte costituzionale)  -,  i
 giudici  della  Consulta  hanno  affermato,  con  riferimento  a tali
 situazioni e, ovviamente, a quelle ad esse simili:
     "qualora   una   situazione   carente   dal   punto   di    vista
 dell'imparzialita'  non  potesse trovare soluzione alla stregua degli
 artt. 36 e 37 c.p.p., quali attualmente vigenti, potrebbe aprirsi  la
 via   per   un'ulteriore,  ma  diversamente  impostata  questione  di
 legittimita' costituzionale" (sentenza n. 306 del 1997);
     "cio' non vuol dire che il  principio  del  giusto  processo  sia
 destinato  a  restare  inappagato  di fronte a situazioni come quella
 nella quale si trova il giudice remittente. Vuol  dire  solo  che  lo
 strumento  di  tutela  non  puo' che essere ricercato nell'area degli
 istituti della astensione e ricusazione, anch'essi  preordinati  alla
 salvaguardia   della   terzieta'  del  giudice.  Ed  e'  guardando  a
 quest'area ed alle potenzialita' interpretative che essa esprime, che
 il  giudice  ...,  eventualmente  anche  richiedendo  un   successivo
 intervento  di  questa  Corte,  dovra'  dare  attuazione al principio
 costituzionale ..." (sentenza n. 307 del 1997);
     "emerge,  peraltro,  una  situazione  di   fatto   che   potrebbe
 determinare un pregiudizio per l'imparzialita' del giudice chiamato a
 decidere   in   sede   penale  sulla  responsabilita'  dell'imputato.
 Spettera' al giudice rimettente valutare se nella specie  il  dedotto
 pregiudizio sia riconducibile ad alcuna delle ipotesi di astensione o
 ricusazione  gia'  previste dall'ordinamento, o se invece le esigenze
 di tutela del valore dell'imparzialita' postulino  un  intervento  di
 questa  Corte sulla disciplina di tali istituti, al fine di garantire
 comunque la tutela del giusto processo" (sentenza n. 308 del 1998);
     "spettera' all'autorita'  giudiziaria  accertare  se  esiste  una
 situazione   di   pregiudizio   per   l'imparzialita'   del   giudice
 riconducibile ad alcuna delle ipotesi  di  astensione  o  ricusazione
 gia'  previste dall'ordinamento, ovvero se la tutela del principio di
 imparzialita' possa essere assicurata solo mediante un intervento  di
 questa   Corte  sull'art.  36  c.p.p.,  tale  da  garantire  comunque
 l'irrinunciabile esigenza che la funzione di giudizio sia  esercitata
 da un giudice terzo e imparziale" (sentenza n. 351 del 1997).
   11.2. - D'altro canto, formulando il secondo invito sopra ricordato
 e,  soprattutto, con l'affermazione ad esso sottostante e ribadita in
 tutte le motivazioni qui richiamate, secondo cui e'  identico,  e  ad
 essi  comune, il fondamento degli istituti della incompatibilita', da
 un lato, e della astensione  e  ricusazione,  dall'altro,  in  quanto
 entrambi  sono  finalizzati  a  garantire la terzieta' del giudice e,
 sotto tale profilo, il giusto processo e sono differenziati  da  mere
 ragioni  d'ordine  sistematico e strutturale, la Corte costituzionale
 sembra  avere  ormai  abbandonato   definitivamente   il   precedente
 orientamento, formatosi sotto la vigenza del codice di rito del 1930.
   Non  sembra infatti piu' possibile, senza che ne risulti violato il
 diritto di ogni imputato a vedere valutata la propria posizione da un
 giudice imparziale ed all'interno di un giusto  processo,  una  volta
 ritenuta  ineludibile  l'esigenza  di  garantire  l'esercizio di tale
 diritto attraverso il ricorso, sulla base di  mere  ragioni  d'ordine
 pratico  e  strutturale,  ora  all'uno  ora agli altri istituti sopra
 ricordati, consentire  poi  che  restino  affidate  in  qualche  modo
 all'arbitrio  dello  stesso  giudice  procedente  la valutazione e la
 decisione circa la necessita' di astenersi, in tutte  quelle  ipotesi
 in   cui   la   sua   imparzialita'  potrebbe  apparire  pregiudicata
 dall'opinione gia' espressa sull'oggetto del processo a lui affidato.
 E  sarebbe,  d'altra  parte,  irragionevole   e   ingiustificatamente
 discriminante una scelta del legislatore che finisca per adottare una
 simile  soluzione  solamente  per  talune di dette ipotesi, omettendo
 quindi di prevedere le stesse, cosi' come e' stato invece  fatto  per
 tutte  le  altre  ad  esse  sostanzialmente analoghe, quali possibili
 cause di ricusazione.
   Cio' non significa, ovviamente, che debba  necessariamente  esservi
 una  piena  corrispondenza fra i due istituti dell'astensione e della
 ricusazione ed esservi, in particolare, una totale  sovrapponibilita'
 delle  ipotesi  dagli  stessi previste, dal momento che appare invece
 necessaria  una  regolamentazione  piu'  ampia  dell'istituto   della
 astensione  rispetto  a quello della ricusazione, si da consentire il
 ricorso al primo anche in ipotesi in cui la sostituzione del  giudice
 cui e' stato affidato il processo sia solamente opportuna (ad esempio
 nell'interesse  dello  stesso  giudice), ma non resa necessaria da un
 apprezzabile ragione di sospetto circa la sua terzieta'.
   Quando, peraltro, quella di astenersi si configura  non  gia'  come
 una  scelta  dettata  da  ragioni  di opportunita', ma come un vero e
 proprio obbligo per il giudice, in quanto cio'  che  viene  messo  in
 discussione   e'   la   sua   imparzialita'   in  conseguenza  di  un
 convincimento gia' espresso sui fatti di causa e, quindi, il rispetto
 del  principio  del  giusto  processo  costituzionalmente  garantito,
 occorre  che  vi  sia  invece  piena coincidenza fra i due istituti -
 quello dell'astensione e quello della ricusazione -, onde  non  porre
 ingiustificati   ed   irragionevoli   limiti  alla  possibilita'  per
 l'imputato di fare valere, appunto,  il  proprio  diritto  ad  essere
 giudicato  da  un  giudice  terzo, nell'ambito di un giusto processo.
 Occorre cioe', come in dottrina si e' affermato, "che al catalogo dei
 ''doveri di imparzialita''', i quali  sostanziano  il  substrato  del
 congegno  dell'astensione,  corrisponda  ...  un compiuto catalogo di
 ''diritti all'imparzialita''', che garantisca alle parti un esaustivo
 esercizio dell'iniziativa di ricusazione del iudex suspectus".
    Puo' dunque, come sopra si  e'  detto,  ritenersi  ormai  superato
 dalle  decisioni  costituzionali  sopra  ricordate l'orientamento (v.
 sentenza n. 210 del 1976 della Corte costituzionale) che, vigente  il
 precedente  codice  di  rito,  in  una  ipotesi  nella  quale non era
 previsto il potere dell'imputato di  ricusare  il  giudice  che  pure
 poteva  apparire  sospetto  sotto  il profilo della terzieta' a causa
 dell'opinione gia' precedentemente espressa, aveva tuttavia  ritenuto
 che   potesse  costituire  sufficiente  garanzia  per  l'imputato  il
 potere-dovere di astensione dello stesso giudice, qualora il medesimo
 non fosse certo della propria soggettiva liberta' nel determinarsi  a
 causa  delle  proprie  precedenti  decisioni,  sulla  base dell'ampia
 dizione dell'art. 63 c.p.p. 1930: norma che, individuando quale causa
 residuale di  astensione  quella  costituita  da  "gravi  ragioni  di
 convenienza  per  astenersi non annoverate alla legge tra i motivi di
 ricusazione", appare sostanzialmente identica al disposto della lett.
 h) del primo comma dell'art. 36 c.p.p. che,  per  l'appunto,  non  e'
 richiamato  dall'articolo successivo che elenca i possibili motivi di
 ricusazione.
   11.3. -  Passando,  quindi,  alla  valutazione  del  caso  concreto
 sottoposto a questo collegio, si osserva come esso ben si inquadri in
 quanto  sin  qui  si  e'  detto  sul piano teorico e debba, pertanto,
 essere risolto alla luce delle considerazioni di  carattere  generale
 fin qui svolte.
   L'ipotesi  in esame, infatti, per le ragioni che sopra gia' si sono
 esposte, non sembra possa farsi rientrare sotto alcuna delle cause di
 ricusazione tassativamente previste dall'art. 37 c.p.p., pur  potendo
 astrattamente  valere  quale  causa di astensione, ai sensi dell'art.
 36, primo comma, lett. h) c.p.p.
   D'altro canto nel caso di specie sussiste, come gia' si  e'  detto,
 una  situazione  di  possibile  pregiudizio  al  principio del giusto
 processo, in  quanto  tutti  i  componenti  del  collegio  giudicante
 potrebbero  apparire  condizionati  dalle  precedenti valutazioni che
 essi hanno legittimamente espresso, nei confronti dei  fatti  oggetto
 del  processo  e  degli  attuali  imputati,  in  occasione della loro
 partecipazione  ad  altri  collegi  che  ebbero  a  pronunciarsi,  in
 differenti  procedimenti  in  materia  di  applicazione  di misure di
 prevenzione.
   Non essendosi gli stessi astenuti e non  potendo  valere  nei  loro
 confronti  la  dichiarazione  di  ricusazione proposta dagli imputati
 interessati si verifica, pertanto, in forza  della  lacuna  contenuta
 nell'art.   37   c.p.p.   e  non  colmabile  in  via  interpretativa,
 un'indebita compressione del diritto di difesa di  questi  ultimi  e,
 quindi,  una  violazione  della  norma  costituzionale  contenuta nel
 secondo comma dell'art. 24 Cost., secondo l'ampia definizione che del
 diritto in essa sancito e' stata fatta  propria  dalla  stessa  Corte
 costituzionale,  individuandolo  anzitutto  quale diritto ad avere un
 processo giusto, da parte di un giudice terzo ed imparziale.
   D'altra parte,  l'omessa  previsione  quale  causa  di  ricusazione
 dell'ipotesi  in  esame,  cosi'  come di ogni altra ipotesi in cui il
 giudice sia stato chiamato a manifestare il proprio convincimento sui
 fatti oggetto dell'imputazione nell'esercizio delle proprie  funzioni
 nel  corso  di  un  diverso  procedimento,  finisce  per  penalizzare
 l'imputato di quei fatti che di cio' intenda dolersi sotto il profilo
 del possibile pregiudizio arrecato all'imparzialita' di colui che  e'
 chiamato  a  giudicarlo nel processo penale, trovandosi tale soggetto
 sfornito di strumenti propulsivi idonei ad ottenere  la  sostituzione
 di quel giudice "sospetto". Cio' integra, in violazione del principio
 di  uguaglianza  sancito  dall'art.  3  Cost.,  una ingiustificata ed
 irragionevole disparita' di trattamento rispetto all'imputato nei cui
 confronti il giudice abbia  manifestato,  con  riferimento  ai  fatti
 oggetto  dell'imputazione, il proprio parere come privato ovvero cio'
 abbia fatto, indebitamente, nell'esercizio delle proprie funzioni.
   Ed in tale senso, del resto, sembra  essersi  gia'  incidentalmente
 espressa  la  stessa  Corte  costituzionale  nella  motivazione della
 sentenza n. 308 del  1997.  In  essa,  infatti,  dopo  l'osservazione
 secondo  cui sono oggettivamente identiche le ragioni del pregiudizio
 nel caso in cui il giudice abbia manifestato il proprio convincimento
 come  privato  ed  in  quello  in  cui  il  convincimento  sia  stato
 manifestato indebitamente nell'ambito di funzioni svolte, operando in
 entrambi  i  casi  la  cosiddetta  "forza  della  prevenzione", vi e'
 l'esplicita  affermazione  che  "identica  ragione   di   pregiudizio
 ricorre,   poi,   nei   casi   in   cui  il  giudice  abbia  espresso
 legittimamente il proprio convincimento sull'oggetto del procedimento
 nell'ambito di un diverso procedimento, penale o anche non penale".
   12. - Ritenuta  pertanto,  per  le  ragioni  sin  qui  esposte,  la
 rilevanza e la non manifesta infondatezza dell'eccezione formulata in
 via  di  subordine dagli imputati e dai loro difensori, non resta che
 affidare  al  giudizio  della  Corte  costituzionale,  con  tutte  le
 conseguenze  di  rito,  la  questione  di legittimita' costituzionale
 dell'art. 37 c.p.p., per contrasto di tale norma con il principio del
 giusto processo desumibile dagli artt. 3, primo comma, e 24,  secondo
 comma,  Cost., in quanto, individuando quale causa di ricusazione del
 giudice la manifestazione del proprio convincimento sull'oggetto  del
 processo  a  lui  affidato nelle sole ipotesi in cui cio sia avvenuto
 "fuori dell'esercizio delle funzioni  giudiziarie"  (art.  36,  primo
 comma,  lett.  c),  richiamato  dall'art.  37,  primo comma, lett. a)
 c.p.p.), ovvero sia avvenuto "indebitamente", ove si collochi  invece
 "nell'esercizio delle funzioni" (art. 37, lett. b) c.p.p.), la stessa
 implicitamente  esclude  che possa assumere rilevanza, quale causa di
 ricusazione del  giudice  il  fatto  che  egli  abbia  legittimamente
 manifestato    il    proprio   parere   sull'oggetto   del   processo
 nell'esercizio di  funzioni  giudiziarie  nel  corso  di  un  diverso
 procedimento.