ha pronunciato la seguente
                               Ordinanza
 nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  15, comma
 4-septies, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove  disposizioni  per
 la  prevenzione  della  delinquenza  di tipo mafioso e di altre gravi
 forme di manifestazione di pericolosita'  sociale),  come  sostituito
 dall'art.  1  della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in materia di
 elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali), promosso  con
 ordinanza  emessa  il  22  aprile  1998  dal Tribunale amministrativo
 regionale per la Campania, sezione prima di Napoli,  iscritta  al  n.
 131 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale
 della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 1999.
   Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
 Ministri;
   Udito nella Camera di consiglio  del  25  maggio  1999  il  giudice
 relatore Valerio Onida.
   Ritenuto  che,  con ordinanza emessa il 22 aprile 1998, pervenuta a
 questa  Corte  il  23  febbraio  1999,  il  Tribunale  amministrativo
 regionale  per  la  Campania,  sezione  prima di Napoli, nel giudizio
 promosso  per  l'impugnazione  del   provvedimento   di   sospensione
 dall'impiego  di un sottufficiale dell'Arma dei carabinieri, rinviato
 a giudizio, fra l'altro, per il reato di traffico di stupefacenti, ha
 sollevato questione di legittimita'  costituzionale,  in  riferimento
 agli  articoli  3,  24,  27,  4, 35 (indicato erroneamente come 5 nel
 dispositivo) e 97 della Costituzione, dell'art. 1,  comma  4-septies,
 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 - recte: art. 15, comma 4-septies,
 della  legge  19  marzo  1990,  n.  55  (Nuove  disposizioni  per  la
 prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi  forme
 di   manifestazione   di   pericolosita'  sociale),  come  sostituito
 dall'art. 1 della legge 18 gennaio 1992, n. 16 (Norme in  materia  di
 elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali) -, nella parte
 in cui prevede l'obbligatoria sospensione dal servizio del dipendente
 rinviato a giudizio per una delle ipotesi di reato di cui al comma 1,
 lettera a, dello stesso art. 15;
     che  il  remittente  lamenta che la norma denunciata non gradui e
 non renda in concreto  possibile  effettuare  alcuna  graduazione  in
 ordine   al   concreto   disvalore  giuridico  del  fatto,  ma  operi
 automaticamente senza che sia possibile valutare  la  ricorrenza  dei
 presupposti  per  l'applicazione  della  norma  stessa,  la cui ratio
 starebbe nell'essere i reati in esame espressione sintomatica di  una
 personalita'   che   esclude   l'ulteriore   idoneita'  del  soggetto
 all'esercizio del pubblico ufficio;
     che, ad avviso del giudice a quo, tale automatismo sarebbe di per
 se' lesivo del principio costituzionale di eguaglianza, che  richiede
 di  differenziare  la disciplina normativa di situazioni fra loro non
 assimilabili, facendo  discendere  la  sospensione  dal  servizio  da
 comportamenti  di  assai diversa gravita', con violazione dei criteri
 di coerenza e ragionevolezza, senza che sia possibile valutare, oltre
 alla gravita'  specifica  dell'accusa,  la  rilevanza  del  fatto  in
 rapporto  all'attivita'  svolta  dal  dipendente  e  il vantaggio che
 l'amministrazione potrebbe avere dal suo mantenimento in servizio;
     che, inoltre, sarebbero lesi il diritto al lavoro garantito dagli
 artt. 4 e 35 della Costituzione, e i criteri di buon andamento  e  di
 imparzialita' di cui all'art. 97 della Costituzione, per la possibile
 sproporzione  della  misura - di durata indefinita ovvero con termine
 incertus quando - concretantesi in una notevole riduzione  dei  mezzi
 di sussistenza del dipendente;
     che,   secondo  il  remittente,  gli  obiettivi  di  salvaguardia
 dell'ordine e della sicurezza pubblica, del buon  andamento  e  della
 trasparenza  delle  amministrazioni  pubbliche non giustificherebbero
 una deroga ai principi, espressione essi stessi di  quello  del  buon
 andamento dell'amministrazione, secondo cui la gravita' del fatto non
 potrebbe  desumersi dal solo titolo del reato, ed il venir meno della
 fiducia ai fini dell'esercizio delle  funzioni  non  potrebbe  essere
 dedotto  dalla  sola astratta natura degli illeciti contestati, senza
 alcun riferimento concreto alla vicenda;
     che,   sotto  altro  profilo,  il  giudice  a  quo  dubita  della
 legittimita' costituzionale  della  norma  impugnata  la'  dove  essa
 ricollega  la  sospensione  al  mero  rinvio  a  giudizio,  cio'  che
 costituirebbe una violazione,  non  giustificata  dalle  esigenze  di
 tutela   dell'ordinamento,   delle   garanzie  costituzionali,  e  in
 particolare della presunzione di non colpevolezza, che opererebbe non
 solo all'interno del processo penale, ma anche ad ogni altro  effetto
 che presupponga logicamente la condanna;
     che  ancora,  secondo il remittente, sarebbe invocabile la stessa
 ratio che ha condotto la Corte, nella sentenza n.  141  del  1996,  a
 dichiarare  l'illegittimita' costituzionale della norma che disponeva
 la "incandidabilita'" alle  elezioni  amministrative  di  coloro  che
 fossero  rinviati  a  giudizio per i reati in questione, in quanto il
 fondamento costituzionale del diritto al lavoro  sarebbe  altrettanto
 rilevante quanto quello del diritto di elettorato passivo;
     che  e'  intervenuto  il  Presidente  del Consiglio dei Ministri,
 chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  infondata  o   meglio
 manifestamente infondata.
   Considerato che identica questione, sollevata con riferimento anche
 ai  parametri  oggi  invocati,  e'  stata  dichiarata da questa Corte
 infondata nei sensi di cui in motivazione con la sentenza n. 206  del
 1999;
     che  in  tale  pronuncia  si  e'  chiarito  fra  l'altro  che non
 contrasta con le norme costituzionali indicate  la  previsione  della
 misura   in   questione,  avente  carattere  cautelare  ed  intesa  a
 salvaguardare l'amministrazione dal  rischio  di  inquinamento  o  di
 perdita  di  credibilita'  derivante  dalla permanenza dell'impiegato
 nell'ufficio nonostante la  pendenza  di  un'accusa  per  delitti  di
 criminalita'  organizzata; e che peraltro la disciplina in esame, per
 non attribuirle un significato che comporterebbe una sproporzione fra
 l'interesse tutelato e il sacrificio  dei  diritti  del  singolo,  va
 intesa   nel   senso   che,   da   un   lato,   la  sospensione  deve
 obbligatoriamente    essere    revocata    quando    nei    confronti
 dell'interessato  sia  emessa una pronuncia, anche non definitiva, di
 proscioglimento o di non doversi procedere (salvo un eventuale  nuovo
 provvedimento     di     sospensione    adottato    discrezionalmente
 dall'amministrazione nel caso in cui  ne  ricorrano  i  presupposti);
 dall'altro  lato, si applica alle ipotesi considerate l'art. 9, comma
 2, della legge n. 19 del 1990, in forza del quale la  sospensione  e'
 revocata  di  diritto  decorsi  cinque  anni  senza  che  al rinvio a
 giudizio abbia fatto seguito la pronuncia di primo grado,  mentre  il
 sopravvenire   di   questa,  se  affermativa  della  responsabilita',
 comporta una nuova causa di sospensione ai sensi dell'art. 15,  comma
 4-septies,  in relazione al comma 1, lettera a, della stessa legge n.
 55 del 1990;
     che l'odierna ordinanza non prospetta argomenti nuovi o  comunque
 tali  da  indurre la Corte a modificare il proprio orientamento, onde
 la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.
   Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11  marzo  1953,  n.
 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti
 alla Corte costituzionale.