Ricorso      della   regione  Veneto,  in  persona  del  Presidente
 pro-tempore  della  giunta  regionale,  on.  dr.   Giancarlo   Galan,
 autorizzato  dalla  giunta  regionale del Veneto con deliberazione n.
 2560 del 27 luglio 1999 che si allega in copia (all. 1) rappresentata
 e difesa, in forza di mandato  rilasciato  dal  Vicepresidente  della
 giunta  regionale  Bruno  Canella  in  assenza  del Presidente, dagli
 avv.ti Alfredo Bianchini e Luigi Manzi, con domicilio  eletto  presso
 lo studio del secondo in Roma, via Confalonieri n. 5, come da mandato
 a margine;
   Contro    la  Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del
 suo Presidente pro-tempore; per la  dichiarazione  di  illegittimita'
 costituzionale  di  alcuni articoli del d.lgs. 19 giugno  1999 n. 299
 (recante  norme  per  la  razionalizzazione  del  servizio  sanitario
 nazionale  a  norma dell'art. 1 della legge 30 novembre 1988, n. 419)
 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 165 del 16 luglio 1999,  Serie
 Generale.
   La legge 30 novembre 1998, n. 419 ha delegato il Governo ad emanare
 uno  o piu' decreti legislativi per la razionalizzazione del servizio
 sanitario nazionale, per l'adozione di un testo unico in  materia  di
 organizzazione  e  funzionamento del S.N.N. e per modifiche al d.lgs.
 30 dicembre 1992, n. 502.
   Il Governo ha cosi' emanato il d.lgs. del 19 giugno 1999,  n.  229,
 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 165 del 16 luglio 1999.
   La  regione  Veneto,  deducendo  l'illegittimita' costituzionale di
 alcuni articoli del predetto  decreto,  lo  impugna  per  i  seguenti
 motivi:
                             D i r i t t o
   1.  - Violazione dell'art. 76 della Costituzione da parte dell'art.
 1 del decreto 229 del 1999 e dei nuovi commi dell'art. 1  del  d.lgs.
 n.  502  del 1992 eccesso di delega. Violazione dei principi generali
 concernenti l'autonomia  statutaria,  legislativa  ed  amministrativa
 delle  regioni  con  particolare  riferimento agli artt. 3, 115, 117,
 118, 119, 123 della Costituzione.  L'art. 1 del d.lgs.  in  esame  si
 propone  la modificazione dell'art.  1 del d.lgs. 30 dicembre 1992 n.
 502 che aveva riordinato la disciplina in materia sanitaria  a  norma
 dell'art. 1 della legge 421/1992.  Dopo aver dichiarato che la tutela
 della salute costituisce un diritto fondamentale dell'individuo ed un
 interesse  della  collettivita',  da garantire attraverso il servizio
 sanitario nazionale, il decreto indica nel piano sanitario  nazionale
 lo  strumento  per  individuare  i  livelli essenziali ed uniformi di
 assistenza da assicurare in tutto il territorio e le relative risorse
 finanziarie.   Tale piano, la cui  durata  viene  determinata  in  un
 triennio,  e'  adottato  dal  Governo che deve stabilirne i contenuti
 secondo principi e criteri indicati in dettaglio dal  nuovo  art.  1,
 comma  10 del d.lgs.  n. 502 del 1992: in particolare alla lettera e)
 del citato comma 10, in relazione al successivo nuovo  comma  11,  si
 prevede  la  adozione  di  progetti-obiettivo  da parte del Ministero
 della  sanita'  (con  decreto  di  natura  non   regolamentare),   da
 realizzare  anche con l'integrazione funzionale operativa dei Servizi
 sanitari e dei Servizi socio assistenziali degli enti  locali.    Per
 cosi'  dire  a  valle  del  piano sanitario nazionale (e degli stessi
 progetti-obiettivo), si colloca  il  piano  sanitario  regionale  che
 dovrebbe  rappresentare,  secondo  quanto  dice con qualche enfasi il
 nuovo  comma  13,  il  piano  strategico  degli  interventi  per  gli
 obiettivi di salute ed il funzionamento dei servizi per soddisfare le
 esigenze  specifiche della popolazione regionale anche in riferimento
 agli obiettivi del  piano  sanitario  nazionale.    Sennonche',  piu'
 realisticamente,  il  seguito  del  comma 13 aggiunge che le regioni,
 entro centocinquanta giorni dalla data di entrata in vigore del piano
 sanitario nazionale "adottano o adeguano i Piani sanitari  regionali"
 cosi'  comprendendosi  che  i Piani regionali stessi sono in concreto
 connessi e dipendenti dal piano  sanitario  nazionale  cui,  appunto,
 debbono  adeguarsi.  Di  piu',  per  garantire  questo adeguamento le
 regioni (e le provincie autonome), secondo il successivo nuovo  comma
 14,  debbono in via preventiva trasmettere al Ministero della sanita'
 i relativi  schemi  o  progetti  di  Piani  sanitari  allo  scopo  di
 acquisire  il  parere  dello stesso "per quanto attiene alla coerenza
 dei medesimi con gli indirizzi del piano sanitario nazionale" il che,
 ad  evidenza,  accentua  attraverso  una  forma   in   qualche   modo
 certificativa  della  coerenza  "regionale",  la dipendenza del piano
 sanitario regionale al piano sanitario nazionale,  sminuendosi  cosi'
 quella  funzione strategica che pure si era detto di voler attribuire
 al piano regionale medesimo.   Il nuovo  comma  17  dell'art.  1  del
 d.lgs.  502/1992  si  preoccupa anche di considerare l'ipotesi che la
 regione,  trascorso  un  anno  dalla  entrata  in  vigore  del  piano
 nazionale,  non  abbia adottato il relativo piano sanitario regionale
 nel senso di stabilire un duplice  ordine  di  sanzioni.    La  prima
 sanzione  consiste  in  un  divieto alla regione di accreditare nuove
 strutture.   La seconda sanzione (dopo un complicato procedimento che
 muove da una diffida del Ministero della sanita' per terminare con un
 provvedimento del Consiglio dei Ministri) consiste nella adozione  di
 atti  necessari  per dare attuazione nella regione al piano sanitario
 nazionale a prescindere da un piano regionale, ivi compresa la nomina
 di commissari ad acta.  In sintesi il sistema cosi'  delineato  vede,
 dunque,   il   perno   in   un   piano   sanitario  nazionale  ed  in
 progetti-obiettivo adottati  e  gestiti,  anche  nel  dettaglio,  dal
 Ministero  della  sanita',  con  obbligo della regione di adeguarvisi
 mediante un piano regionale che deve acquisire un previo attestato di
 coerenza  al  piano  sanitario  nazionale,  rilasciato  dallo  stesso
 Ministero  della  sanita', pena, in difetto di adozione (e fors'anche
 di  coerenza  nel  senso  sopra  inteso),  di  sanzioni   che   vanno
 dall'impedimento   dell'esercizio  di  una  attivita'  amministrativa
 (quella di accreditamento), all'estremo della nomina di commissari ad
 acta governativi.  Lo statuto della regione Veneto in conformita'  ai
 principi  costituzionali  indicati in particolare dall'art. 123 della
 Costituzione, disciplina la funzione amministrativa regionale  (artt.
 da  48  a  53)  riservando  alla legge regionale sia l'organizzazione
 amministrativa sia, in particolare, al  fine  del  buon  andamento  e
 della  imparzialita'  della azione amministrativa, il procedimento di
 formazione degli  atti  amministrativi  regionali.  Organizzazione  e
 procedimento  sono,  dunque, riservati nelle materie di competenza ex
 117 della  Costituzione  alla  legislazione  regionale  non  solo  in
 conformita'  ai  principi costituzionali ma anche, in concreto, sulla
 base di norme statutarie che hanno poi  trovato  via  via  attuazione
 legislativa  dal  1971  ad  oggi.    Il  sistema  introdotto (e sopra
 delineato) dall'art. 1 del d.lgs.   impone alle  regioni  uno  schema
 procedimentale   della   loro   azione  amministrativa  che  si  deve
 obbligatoriamente esprimere in un piano (sanitario regionale) con una
 durata predeterminata (triennale, per l'obbligatorio  adeguamento  al
 Piano,   triennale,   nazionale),   con   un  risvolto  sanzionatorio
 nell'ipotesi  di  mancata  adozione  di   quel   modulo   di   azione
 amministrativa  ovvero  di adozione di un modulo che non sia coerente
 con  quello  nazionale.    L'imposizione  di  uno  schema  di  azione
 obbligato   sotto  il  profilo  organizzatorio-procedimentale  appare
 sicuramente in contrasto con il principio della autonomia  statutaria
 regionale  che,  nelle  materie  di competenza legislativa regionale,
 appunto,  garantisce  la  liberta'  delle  forme   organizzatorie   e
 procedimentali.   Codesta Corte nella sentenza n. 461 del 19 novembre
 1992 (espressa proprio in materia di Sanita' pubblica) nel dichiarare
 costituzionalmente illegittima la norma contenuta nell'art.  5  della
 legge  n.  175/1992,  ha  fra  l'altro  puntualizzato che "esiste una
 connessione naturale tra la disciplina del procedimento e la  materia
 della  organizzazione:   la regolamentazione, da parte della regione,
 dei procedimenti amministrativi di propria spettanza e' un corollario
 della competenza  in  materia  di  ordinamento  degli  uffici,  quale
 espressione della sua potesta' di autorganizzazione".  Se gia' queste
 considerazioni,   autorevolmente   confortate   dall'insegnamento  di
 codesta Corte, persuadono  della  illegittimita'  costituzionale  del
 sistema  complessivamente  introdotto  dall'art.  1,  che pretende di
 imporre uno schema di procedimento e di organizzazione  alle  regioni
 nella  attuazione  del  servizio  sanitario  nazionale,  e' subito da
 aggiungere che questa illegittimita' appare accentuata  da  cio'  che
 non   soltanto  si  impone  uno  strumento  di  Pianificazione  senza
 alternative, ma che lo si impone con una  attribuzione  (che  per  le
 regioni   diventa   imposizione)   di   competenza   che   non  trova
 giustificazione alcuna.  Si vuol dire che l'art. 1 (nell'introdurre i
 nuovi commi dell'art.  1 del d.lgs. 502/1992) obbliga  le  regioni  a
 concorrere   alla   attuazione   del   servizio  sanitario  nazionale
 attraverso  uno  strumento  amministrativo,   il,   piano   regionale
 sanitario,   inteso   nel  sistema  del  decreto  come  provvedimento
 amministrativo  a  sua  volta  attuativo   di   altro   provvedimento
 amministrativo, il piano sanitario nazionale, adottato dal Governo (e
 per  i piani attuativi del Ministero della sanita').  Ora, secondo un
 principio indiscusso (e d'altronde implicitamente confermato anche da
 codesta Corte con sentenza n. 407 del 18 luglio 1989),  compete  alla
 regione   la   scelta   degli  strumenti  di  intervento,  a  livello
 legislativo o a livello amministrativo, e la conseguente ripartizione
 delle competenze fra i vari organi regionali. Indendendosi cosi'  che
 la   legislazione   statale   non   puo'  imporre  alle  regioni  che
 l'attuazione  del  piano  sanitario  nazionale  avvenga   a   livello
 amministrativo   e   non  per  ipotesi  anche  attraverso  interventi
 legislativi.  Ne' si potrebbe obiettare che il testo dell'art. 1  non
 esclude  la  possibilita'  di  interventi  legislativi  regionali  in
 materia. Non lo si potrebbe obiettare, non soltanto perche' la  norma
 addirittura  pone  delle sanzioni se il piano sanitario regionale non
 venisse  adottato  (con  cio'  dimostrandosi  che  quello  del  piano
 sanitario  regionale  diventa il modulo inderogabile), ma soprattutto
 perche'  anche  se  ammettesse  interventi  legislativi  ne  verrebbe
 aggravata  la  censura di illegittimita' costituzionale per quanto si
 pretenderebbe  che  un  piano  sanitario  nazionale,  avente   natura
 amministrativa,  diventi norma quadro di principio della legislazione
 regionale³  Il  che,  evidentemente,  non  e'  consentito  ai   sensi
 dell'art.  117  della  Costituzione  che  riserva esclusivamente alla
 legge  statale  la  funzione  di  normazione   di   principio   della
 legislazione  regionale.    D'altronde  l'art. 1 in esame, vuoi nella
 parte in cui indica i contenuti del piano sanitario  nazionale,  vuoi
 nella  parte  in  cui  indica i contenuti della relazione annuale del
 Ministero della sanita', finisce per dettare  delle  disposizioni  di
 estremo  dettaglio  alle regioni, indipendentemente dal piu' generale
 problema dell'imposizione di uno schema organizzativo  procedimentale
 di  azione  amministrativa  di  cui si e' sopra detto.  In effetti il
 dettaglio del piano sanitario nazionale e della  relativa  relazione,
 si  traducono in altrettante disposizioni di dettaglio cui la regione
 deve uniformarsi obbligatoriamente, pena le sanzioni  di  cui  sopra,
 nei  piani  regionali  sanitari.    Infatti  il  d.lgs. obbligando le
 regioni alla "coerenza" obbliga le stesse ad  assumere  pari  pari  i
 contenuti  del  piano  sanitario  nazionale  il  che si traduce in un
 obbligato recepimento di dettaglio dei  contenuti  stessi  del  piano
 sanitario  nazionale.    Codesta Corte ha piu' volte affermato che le
 disposizioni dirette a porre i principi concernenti  l'organizzazione
 regionale  non  puo'  giungere  al  punto di estromettere di fatto le
 regioni dalle materie di loro competenza. Si vuol dire cosi' che, per
 quanto sia da riconoscersi una esigenza di uniformita', in  vista  di
 una  generale e comune tutela dell'interesse alla salute, non si puo'
 giungere al punto di appiattire ogni relativa disciplina annullandosi
 il potere di autonoma determinazione delle regioni costringendole  ad
 assumere integralmente i contenuti di un piano nazionale adottato per
 di   piu'  a  livello  amministrativo,  come  limite  addirittura  di
 un'eventuale attivita' legislativa regionale in materia.    Sotto  un
 profilo  piu'  particolare,  la  lesione della autonomia regionale si
 apprezza considerando che le disposizioni contenute nel  nuovo  comma
 14  dell'art.  1  (che impone alle regioni di trasmettere al Ministro
 della sanita' gli schemi o progetti di piani sanitari allo  scopo  di
 acquisire il parere dello stesso per quanto attiene alla coerenza dei
 medesimi  con  gli  indirizzi  del  piano  sanitario  nazionale), non
 soltanto sottomettono  l'attivita'  regionale  al  "giudizio"  di  un
 Ministero  (come  si e' gia' evidenziato), ma rendono anche del tutto
 svincolato e libero  da  regole,  canoni  o  criteri  tale  giudizio.
 Infatti  non  si  rinviene  nel  testo legislativo alcun indirizzo ed
 alcun principio che possano circoscrivere e delimitare i  confini,  i
 contenuti  e  le  modalita'  del  giudizio stesso.   Si apre cosi' la
 strada ad un procedimento che, per  la  sua  indeterminatezza  e  per
 l'assenza  di  regole, puo' condurre alla manifestazione di qualsiasi
 arbitraria valutazione: il giudizio di coerenza viene percio' rimesso
 ad una sorta di discrezionalita' incontrollabile che un organo  dello
 Stato  puo' esercitare nei confronti della regione.  La lesione della
 autonomia regionale puo' essere apprezzata anche con  riferimento  al
 terzo  comma  del  nuovo  art. 1 laddove si affida al piano sanitario
 nazionale di individuare (con un effetto che diventa  poi  vincolante
 per  le  regioni,  per il gia' ricordato regime di coerenza") livelli
 essenziali  e  uniformi  di  assistenza  nell'ambito   del   servizio
 sanitario   nazionale.    Naturalmente  si  condivide  il  principio,
 ispirato ad un  rilevante  interesse  pubblico,  che  sul  territorio
 nazionale  siano  assicurati  i  livelli essenziali di assistenza per
 tutti i cittadini, ma perche' uniformi?.  Se all'espressione in esame
 si potesse attribuire un significato di endiadi, nessun problema.  Ma
 se, come sembra (considerato che tale espressione e' anche utilizzata
 in   successive   disposizioni  ed  in  contesti  diversi)  fosse  da
 attribuirsi un  significato  autonomo  rispettivamente  all'aggettivo
 essenziale  ed a quello uniforme, la domanda ritornerebbe in tutta la
 sua rilevanza. Perche' una regione, una volta assicurato il  servizio
 essenziale,  dovrebbe  anche  garantirlo come uniforme?. Non sussiste
 una risposta logica se non quella di una  imposizione  di  un  modulo
 unico   che   prescinde  dalle  connotazioni,  dalle  risorse,  dalle
 caratteristiche di ciascuna realta' regionale.  E, poiche' in materia
 sussiste l'autonomia legislativa e amministrativa delle regioni,  non
 puo' non considerarsi costituzionalmente illegittima, alla luce delle
 disposizioni in rubrica indicate, una norma che lede tale autonomia e
 che  prescinde  dal  valutare  le  diversita'  delle  singole realta'
 regionali.    La  lesione  della  autonomia  regionale  puo'   essere
 apprezzata,  come  si e' visto, considerando il sistema sanzionatorio
 introdotto  dal  nuovo  art.  1,  comma  17  che  si  articola  nella
 possibilita'  di  impedire,  da  un lato, alla regione di accreditare
 nuove strutture e di nominare, d'altro lato, commissari ad acta.   La
 legge delega n. 419/1998 all'art. 2, lett. oo), prevedeva a sua volta
 un duplice sistema sanzionatorio. Da un lato penalizzazioni sul piano
 finanziario   consistenti   in   riduzioni  o  dilazioni  dei  flussi
 finanziari in caso di inerzia o ritardo delle regioni nell'adozione o
 nella attuazione di programmi; d'altro lato forme di  intervento  del
 Governo  volte  a  far  fronte,  nei  casi  piu' gravi, all'eventuale
 inerzia   delle  amministrazioni.    Come  ben  si  vede  il  sistema
 sanzionatorio delineato dalla legge delega  contemplava  due  ipotesi
 molto   precise:  la  penalizzazione  finanziaria  ovvero  interventi
 sostitutivi del Governo.  Non  contemplava  affatto  (e  non  avrebbe
 potuto  contemplarlo) forme di congelamento del potere amministrativo
 regionale  in  relazione  all'accreditamento  delle  strutture,  come
 invece - e illegittimamente - prevede il decreto delegato.  In questo
 ordine di considerazioni, si rende evidente per un verso l'eccesso di
 delega  e quindi la violazione dell'art. 76 della Costituzione e, per
 altro  verso,  la  violazione  degli  artt.  115,  117  e  118  della
 Costituzione  per  quanto  si  pretende  con una legge dello Stato di
 impedire il normale svolgimento di  competenze  e  poteri  regionali.
 Quanto  alla  configurazione  di  interventi di commissari ad acta si
 verifica ancora una volta un eccesso di delega censurabile ex art. 76
 della Costituzione. Infatti il gia' citato art. 2 oo) collegava forme
 di intervento del Governo all'inerzia o a ritardi nella attuazione  e
 adozione  di  programmi:  programmi  che, nell'ottica del legislatore
 delegante, potevano differenziarsi  dal  piano  sanitario  regionale.
 Ora,  stabilire  una  sorta  di  automatismo  fra  mancanza  di piano
 sanitario regionale  e  nomina  del  commissario  ad  acta  significa
 trascurare  l'eventualita'  che  la realizzazione delle finalita' dei
 piano sanitario nazionale possa essere  conseguita  anche  attraverso
 diversi  moduli  organizzatori.    La  mancanza di un piano sanitario
 regionale, si vuole cosi dire, non  e'  di  per  se'  necessariamente
 sintomo  di  non  attuazione  del  piano sanitario nazionale, per cui
 stabilire  l'equazione  "mancanza  di  piano  sanitario  regionale  =
 commissario  ad  acta",  sembra  eccessivo  e,  comunque,  un eccesso
 rispetto alla delega.
   2. - Violazione dell'art. 76  della  Costituzione  da  parte  degli
 artt.  1  e 2, d.lgs. n. 229/1999 e dei nuovi commi degli artt. 1 e 2
 del d.lgs. n. 502 del 1992 eccesso di delega.   Un  non  trascurabile
 aspetto  di  illegittimita'  del  decreto delegato (e in particolare,
 degli artt. 1 e 2) e' rinvenibile sotto il  profilo  dell'eccesso  di
 delega  in  relazione  alla  legge 23 ottobre 1992, n.  421.  Ora, e'
 vero che il d.lgs. di cui si lamenta l'incostituzionalita'  e'  stato
 emanato  in  attuazione  di  una  specifica legge delega (la legge 30
 novembre  1998,  n.  419)  che,  dunque,  costituisce  necessario   e
 imprescindibile   parametro   di   verifica  della  congruita'  della
 normazione di dettaglio.    E'  altrettanto  vero,  pero',  che  tale
 decreto  non  interviene  a  operare  in  una terra di nessuno, ma si
 inserisce (o, meglio, tende dichiaratamente a coordinarsi)  entro  la
 cornice  normativa  delineata  dal  d.lgs.  30 dicembre 1992, n. 502.
 Anzi, lo stesso oggetto primario della delega (v. art.  1,  comma  1,
 legge  n.  419/1998), consiste nel conferimento al Governo del potere
 di emanare "uno  o  piu'  decreti  legislativi  recanti  disposizioni
 modificative  e  integrative  del  d.lgs.  30 dicembre 1992, n. 502":
 cosicche'   deve   ragionevolmente   ritenersi   che   il    Governo,
 nell'attivarsi,   dovesse   -   quanto   meno  con  riferimento  alle
 disposizioni integrative - disporsi lungo  una  linea  normativa  non
 solo  conforme  ai  principi  e  criteri  direttivi  di delega di cui
 all'art. 2, legge n. 419/1998, ma altresi' rispettare i principi ed i
 criteri direttivi di cui all'art. 1 della precedente legge delega (n.
 421/1992),  che  vengono,  dunque,  per  cosi'  dire  richiamati  per
 relationem  e  in  via  ricettizia  nel  momento  stesso  in  cui  il
 delegante,  manifestando  la  necessita'  di  integrare  la normativa
 pregressa, ne verifica anche i principi ispiratori.   Ora,  non  pare
 proprio   che   questo  percorso  integrativo  sia  stato  rispettato
 dall'"ultimo" legislatore delegato. E cio' perche' il Governo,  lungi
 dal conformarsi ai (peraltro difficilmente individuabili) principi di
 cui  alla  legge  n.  419/1998,  ha  sopravanzato  gli stessi criteri
 direttivi  di  cui  alla  legge   n.   421/1992.      Particolarmente
 significativo  in  proposito e' l'art. 2, d.lgs.  n. 229/1999: questa
 norma  dichiaratamente  integra  l'art.  2,  d.lgs.    n.    502/1992
 (disposizione  che  ha un solo generico comma), aggiungendo ben sette
 commi che regolamentano nel dettaglio la Conferenza permanente per la
 programmazione sanitaria e socio sanitaria regionale, la formazione e
 il contenuto del piano sanitario  regionale,  e  cosi'  via.  Sembra,
 dunque,   che   questa  norma  contribuisca  a  offrire  un  decisivo
 contributo in materia di regionalizzazione  sanitaria  ...  senonche'
 essa  si chiude, poi, con un comma (il nuovo 2-octies), che introduce
 una peculiare procedura sanzionatoria (che puo' sfociare anche  nella
 nomina di un commissario ad acta) che ben rispecchia la filosofia del
 decreto  e  che  fa  apparire la regione come ente "sotto tutela".  E
 cio' (ma e' scontato aggiungerlo) senza che  precisa  indicazione  in
 tal  senso  siano  desumibili ne' dalla legge delega n. 421 del 1992,
 ne' da quella del novembre  dello  scorso  anno  (419/1998).  Ma  gli
 esempi  potrebbero  continuare,  se  solo  si consideri che la stessa
 filosofia dell'operazione di riforma sanitaria  sembra  essere  (piu'
 che  integrata  o modificata) addirittura stata stravolta.  Valga per
 tutte le osservazione relativa  ai  rapporti  tra  la  programmazione
 sanitaria  regionale  e nazionale: infatti, mentre la delega del 1992
 (v. nuovo art. 1, comma 1, lett. c), ispirandosi  dichiaratamente  al
 principio  di  sussidiarieta', costruiva come residuale la competenza
 statale, ergendo le regioni al ruolo di protagoniste, al contrario il
 decreto  delegato  del  1998  (la  cui  legge  delega   si   dichiara
 strumentalmente   intenzionata   a   "completare   il   processo   di
 regionalizzazione" capovolge la prospettiva e antepone a  ogni  altra
 l'iniziativa  statale  (v.  nuovo  art.  1, comma 3, nonche' l'intero
 nuovo art. 2).    In  altre  parole,  sotto  lo  schermo  della  mera
 integrazione  del  sistema  sanitario  in  essere,  l'odierno decreto
 delegato rallenta il  processo  di  regionalizzazione  e,  lungi  dal
 limitarsi a un'opera di razionale completamento, stravolge i principi
 e  i  criteri  direttivi  della  delega  "madre" del 1992 (che, nella
 prospettiva sopraindicata dovrebbe  concorrere  a  reggere  l'odierno
 decreto  delegato) senza provvedere a una loro adeguata sostituzione.
 Esaminando nel dettaglio alcune disposizioni del nuovo art. 2 si puo'
 maggiormente apprezzare la forte invasione  del  potere  statale  nei
 confronti della regione.  Il comma che diviene 2-bis nel decreto 502,
 nel  dichiarare  che  la  legge  regionale  istituisce  la conferenza
 permanente  per  la  programmazione   sanitaria   e   socio-sanitaria
 regionale,   impone  la  partecipazione  alla  conferenza  di  alcuni
 soggetti,  condizionandone  cosi',  ab  origine   caratteristiche   e
 connotazioni.  Tale  disposizione  appare in contrasto con i principi
 costituzionali che assicurano l'autonomia regionale nella  disciplina
 del  procedimento  e  dell'organizzazione  nelle  materie  in  cui la
 regione   ha   competenza   legislativa   e,    in    corrispondenza,
 amministrativa.  D'altronde  (come  e' gia' stato chiarito da codesta
 corte in sentenza n. 461/1992): "la regolamentazione, da parte  della
 regione  dei  procedimenti  amministrativi di propria spettanza e' un
 corollario della competenza in materia di ordinamento  degli  uffici,
 quale espressione della sua potesta' di auto organizzazione". Ebbene,
 nella  specie,  non  soltanto  si  e'  prevista  da parte della legge
 statale una conferenza regionale permanente,  ma  addirittura  se  ne
 viene  a disciplinare anche la composizione.  La composizione di tale
 conferenza e' rilevante anche perche', secondo  il  successivo  nuovo
 comma  2-ter  inserito  nel  decreto  502/1992, il progetto del piano
 sanitario regionale e' sottoposto alla conferenza stessa  ed  e'  poi
 approvato  proprio  dopo  l'esame  delle  osservazioni  eventualmente
 formulate dalla conferenza, cosicche', secondo tale procedimento,  la
 conferenza  funziona  come  organo per cosi' dire terzo rispetto alla
 regione che deve approvare, non si dimentichi, il suo piano sanitario
 regionale.  In questo quadro il piano sanitario regionale si trova in
 qualche modo fra due fuochi: tra un piano sanitario nazionale  a  cui
 deve  essere  "coerente"  ed  un parere di una conferenza (in qualche
 modo "terza"  rispetto alla organizzazione regionale) al  cui  parere
 deve  uniformarsi.   Anche in questa prospettiva, quindi, viene leso,
 secondo una procedura abbastanza irrazionale,  l'autonomo  potere  di
 autorganizzazione  delle regioni.   Ancor piu' preoccupante, sotto il
 profilo della lesione della autonomia regionale, e'  il  nuovo  comma
 2-sexies (inserito nel decreto 502/1992) che disciplina nel dettaglio
 i   contenuti   dell'attivita'   regionale  (ed  in  buona  sostanza,
 indirettamente, i contenuti dello stesso piano sanitario  regionale).
 Infatti in una serie di punti (a loro volta articolati in sottopunti)
 che  vanno  dalla  lettera  a)  alla lettera h) vengono individuati i
 contenuti sia per un'eventuale azione legislativa sia addirittura per
 un'eventuale  azione  amministrativa  concernenti  la  distribuzione,
 l'organizzazione,  la  gestione,  il controllo delle unita' sanitarie
 locali in una visione di tale dettaglio da non  consentire  ulteriori
 margini  di  autonomia  alla  regione: ne' sul piano legislativo, ne'
 tantomeno sul piano amministrativo.   Ora e'  ben  noto,  secondo  un
 costante   indirizzo  di  codesta  Corte,  che  debbono  considerarsi
 costituzionalmente  illegittime  quelle  norme   della   legislazione
 statale  che  anziche'  porre  principi  e  criteri generali cui deve
 ispirarsi l'attivita' legislativa  della  regione,  impediscono  alle
 regioni   l'esercizio  delle  loro  legittime  competenze  attraverso
 l'imposizione di norme di dettaglio.  Tanto piu' grave  appare  nella
 specie  la  portata  delle modifiche introdotte dall'art. 2 in quanto
 l'invasione  statuale  si  rivolge  addirittura  all'esercizio  della
 attivita' amministrativa della regione.
   3.  -  Ulteriore violazione degli artt. 76, 115, 117, 118, 119, 123
 Cost., da parte di tutta la normativa del  d.lgs. 229 del 1999 e,  in
 particolare,  da  parte  degli artt. 1, 2, 3, 4, 5, 7, 10, 13, 15, 16
 dello stesso, in relazione ai principi di cui alla  legge  delega  n.
 419/1998.    Il  discorso muta di poco se, anziche' ipotizzare - come
 corpus sovrano - una macro-delega, ai  fini  dell'individuazione  dei
 principi  e dei criteri direttivi cui il legislatore delegato avrebbe
 dovuto attenersi si opti per una micro-delega, sostanziata,  appunto,
 dai  soli  principi  contenuti  nella legge n. 419/1998.  La semplice
 panoramica dell'art.  2,  infatti,  consente  di  constatare  che  il
 delegante, anziche' delegare per principi e criteri, si e' limitato a
 delegare  per  "oggetti",  elencando  accuratamente  un'interminabile
 serie di ambiti di intervento del legislatore delegato, ma  omettendo
 di  enunciare  in concreto i principi-guida (si considerino, a titolo
 esemplicativo, le lettere c), i), m), n), r), s), n), z),  aa),  bb),
 dd),  ff),  gg),  ii),  pp), qq), dell'art. 2, comma 1).  Ora, e' pur
 vero che la genericita' della delega e',  innanzitutto,  vizio  della
 legge delega. Ma e' altrettanto vero che tale vizio, pur rilevante ex
 se, non puo' certo farsi valere nei ristretti limiti dell'impugnativa
 della  legge  delega.   Se cosi' fosse, infatti, la genericita' della
 delega diverrebbe garanzia di "impunita'" per  l'atto  delegato  che,
 non  essendo  vincolato  ad  alcun  parametro  (o essendo vincolato a
 parametri estremamente labili proprio perche' generici) non  potrebbe
 mai venire "accusato" di eccesso di delega .... per il semplice fatto
 che  un "livello" corretto di delega non e' individuabile a causa del
 vizio  originario  di  genericita'.    La  paradossalita'  dell'esito
 interpretativo,  dunque,  non  puo' non imporre una meditata cautela:
 proprio perche' la delega e' generica, cioe', il decreto delegato non
 e' legibus solutus ma  e'  doppiamente  a  rischio  per  vizi  propri
 (eccesso)  e  per vizi derivati.  Del resto, anche codesta Corte, con
 sentenza n. 32 del  10  maggio  1994,  ha  precisato  (con  principio
 espresso in ipotesi di materia delegificata, ma comunque utilizzabile
 a  fini  generali)  che  la  determinazione  di  criteri  e  principi
 direttivi deve essere espressamente e sufficientemente determinata (e
 pure il Consiglio di Stato, con parere reso  adununanza  generale  n.
 1176/1995  del 11 aprile 1996 ha segnalato la sindacabilita' da parte
 della  Corte  costituzionale  degli  atti  legislativi  adottati  dal
 Governo   alla  stregua  dell'art.  76  Cost.,  trattandosi  di  atti
 equiparati, quanto a forza e valore formale, alle  leggi  ordinarie).
 Si  vuol  dire,  in  altre  parole, che l'eccesso di delega che si e'
 prospettato come vizio dell'art. 2 poco sopra considerato (e  che  si
 e'  prospettato  anche  in  altri  motivi  del  presente  ricorso) va
 altresi'  ricondotto  (ed  in  quest'ottica  le  argomentazioni   qui
 illustrate  vanno  estese  non  soltanto ai casi in cui si e' dedotto
 l'eccesso di delega) alla genericita' della  stessa  legge  delegante
 che   diviene   essa   medesima   radice   e  causa  dei  profili  di
 illegittimita' non soltanto sotto l'aspetto appunto  dell'eccesso  di
 delega.
   4.  -  Violazione degli artt. 76, 115, 117, 118, 119, 123 Cost., da
 parte  di  tutta  la  normativa  del  d.lgs.  229  del  1999  e,   in
 particolare,  da  parte  degli artt. 1, 2, 3, 4, 5, 7, 10, 13, 15, 16
 dello stesso, anche in  relazione  all'art.  1,  comma  3,  legge  n.
 419/1998  nonche' in relazione alla parziale mancata acquisizione del
 parere della competente conferenza e alla mancata considerazione  del
 parere  medesimo  espresso  dalla  conferenza  dei  presidenti  delle
 regioni e delle province autonome.  L'individuazione della conferenza
 competente puo' risultare paradossalmente problema di  secondaria  ma
 non  irrilevante  importanza)  se  solo  si  consideri  che il parere
 concretamente   reso   (ed   espresso,   comunque,   da   commissione
 incompetente)  non  e' stato tenuto in grande considerazione (e cosi'
 e' stato sostanzialmente  vanificato  in  sede  di  attuazione  della
 delega).    La  conferenza  espressasi  in  proposito aveva, infatti,
 subordinato la conferma del parere di massima favorevole  alla  bozza
 di  d.lgs.,  condizionando,  pero', tale giudizio all'accoglimento di
 osservazioni  relative  ed  emendamenti  ritenuti  essenziali  e   al
 positivo  riscontro  di osservazioni relative ed emendamenti ritenuti
 rilevanti.   L'accoglimento e  questo  positivo  riscontro  non  sono
 stati,  pero'  integrali.  Per  cui  in  buona  sostanza  si dovrebbe
 considerare che non vi sia stato  parere  favorevole,  non  essendosi
 affatto concretizzate le condizioni poste dalla conferenza.  Infatti,
 per  quanto riguarda l'art. 1, comma 14, del d.lgs. n.  502 del 1992,
 introdotto dall'art. 1 d.lgs. n. 229 del  1999,  relativo  al  parere
 sugli  schemi  o progetti di piani sanitari regionali il testo non e'
 stato  migliorato  precisando  che  la  "coerenza"  verificata  negli
 aspetti  generali.    Relativamente  all'art.  10  (che ha modificato
 l'art.  9-bis  del  decreto   n.   502/1992   sulle   sperimentazioni
 gestionali)  si  segnala  che  e'  stata accolta la richiesta dei due
 elementi ritenuti indispensabili (1.  Partecipazione dei privati fino
 al 49%; 2.  limitazione  dell'esclusione  del  subappalto  alle  sole
 attivita'  di assistenza diretta), ma non la richiesta piu' generale:
 la  conferenza  Stato-regioni  definisce  i  criteri  e  le   regioni
 autorizzano.    Analogamente e' avvenuto per le osservazioni relative
 ad  emendamenti  da  apportare  ritenuti  rilevanti.    Relativamente
 all'art.  4  del  decreto  n.  229/1999  (che  ha  inserito  il comma
 1-quinquies  all'art.  4  del  d.lgs.  n.  502/1992),   non   risulta
 confermato  nel  testo il contenuto della risposta fornita, su questo
 argomento, dai rappresentanti del Governo in sede di conferenza circa
 l'inserimento di una norma che  prevedesse  il  coinvolgimento  della
 conferenza    nella    valutazione    di   situazioni   eventualmente
 determinatesi  per  la  conferma  delle  aziende   ospedaliere,   per
 persistente  carenza  di  requisiti.    Relativamente all'art. 13 del
 decreto n. 229 del 1999 che ha introdotto nel d.lgs. n. 502 del  1992
 l'art.  15-ter,  gia' indicato come 17-ter nella fase di elaborazione
 del decreto, non si  e'  tenuto  conto  del  parere  contrario  delle
 regioni,   al   proliferare   di  dirigenze  nei  molteplici  profili
 professionali.  Per quanto concerne l'art. 16 del d.lgs. n.  229  del
 1999  che  ha  inserito  l'art.  19-ter nel testo del decreto 502 del
 1992, non si e'  tenuto  conto  del  fatto  che  le  regioni  avevano
 ribadito   che   deve   essere  la  singola  regione  a  valutare  la
 possibilita' di utilizzare il Fondo del 3% per i processi  correttivi
 scaturenti  dal patto di stabilita'.  Ma ancor piu' censurabile e' il
 fatto che alcuni punti  dello  schema  di  decreto  non  siano  stati
 sottoposti    al  parere di nessuna conferenza.  Cio' vale per quanto
 riguarda l'art. 3 del d.lgs. n. 229 del 1999 che ha  inserito  l'art.
 3-bis,  comma 15 nel d.lgs. n. 502 del 1992:  la previsione normativa
 di una procedura di prima applicazione per  la  nomina  di  direttori
 generali  non  puo', infatti, limitarsi ad una facolta' delle regioni
 di disporre un'eventuale proroga dei contratti in corso.  Ancora, per
 l'art. 4 del d.lgs. n. 229 del 1999 che ha introdotto il  nuovo  art.
 4,  comma 1-ter nel d.lgs. n. 502 del 1992: tale previsione normativa
 relativa alla esclusione comunque di possibilita' di conferma per  le
 aziende  ospedaliere  che  costituiscano il solo presidio ospedaliero
 pubblico della U.S.L., non risulta essere  stata  mai  sottoposta  al
 parere delle regioni (che, invano, ne hanno chiesto la soppressione).
 Per  il  successivo  comma  1-octies  del  nuovo  art.  4  previsione
 normativa in grado di condizionare negativamente la  possibilita'  di
 utilizzo  per le regioni del cosiddetto "Fondo 3%") non risulta anche
 essa essere stata mai sottoposta al parere delle regioni (e invano le
 regioni ne hanno chiesto la soppressione).  Si consideri l'art. 5 del
 d.lgs. n. 229 del 1999 che ha aggiunto un art. 5-bis nel  decreto  n.
 502/1992  relativo  ai  casi  di mancata attivazione degli accordi di
 programma per l'art. 20 della legge n. 67/1988 che non risulta essere
 stato  mai sottoposto al parere delle regioni, e, in ogni caso appare
 troppo drastica ed automatica.  Anche qui le regioni  inutilmente  ne
 hanno invano chiesto la modifica.  Nemmeno la previsione normativa di
 piu'  aree dipartimentali all'interno del dipartimento di prevenzione
 risulta essere stata mai sottoposta al  parere  delle  regioni  (art.
 7-quater  del  d.lgs.  n.  502  del  1992, introdotto dall'art. 7 del
 d.lgs. n. 229 del 1999).  In altre parole, alla luce di tali  rilievi
 non   si  comprende  proprio  quale  finalita'  abbia  la  previsione
 normativa che impone che lo schema di d.lgs. sia sottoposto al vaglio
 di un organo partecipato dalle regioni.  Perche' delle due  l'una:  o
 la  norma  della  legge  delega che prevede quel parere e' superflua,
 oppure e' illegittima quella norma delegata che e' nata senza  essere
 sottoposta   previamente  (e  compiutamente)  al  vaglio  dell'organo
 deputato a esprimere il parere (o  che  e'  sorta  considerando  quel
 parere  tamquam  non esset).  Ai sensi dell'art. 1, comma 3, legge n.
 419/1998, sugli schemi di d.lgs. il Governo avrebbe dovuto  acquisire
 tra  l'altro,  il parere della "conferenza unificata" di cui all'art.
 8, d.lgs. 28 agosto 1997, n. 281: tale parere non e' stato acquisito.
 Al contrario, il Governo risulta essersi rivolto alla conferenza  dei
 Presidenti  delle regioni e delle province autonome, che e' - a tutta
 evidenza   -   organo   completamente   distinto.        Ne    deriva
 inequivocabilmente  che  il  Governo ha omesso di acquisire un parere
 essenziale e non surrogabile, con cio' violando l'art.   1, comma  3,
 della  legge  delega n. 419/1998, risultando cosi' viziato il decreto
 nel suo  complesso.
   5. -  Violazione  dei  principi  generali  concernenti  l'autonomia
 statutaria,   legislativa   ed   amministrativa   delle  regioni  con
 particolare riferimento agli artt. 115,  117,  118,  119,  123  della
 Costituzione  da  parte  dell'art.    7  del  d.lgs. n. 229 del 1999.
 Violazione dell'art. 76 Cost.: eccesso  di  delega.    L'art.  7  del
 decreto  al  secondo  comma,  modificando  d.lgs.  n. 502 del 1992 ha
 introdotto,  fra  gli  altri,  gli  artt.  7-bis,  ter   e   quinques
 configurando  dipartimento  di  prevenzione quale struttura operativa
 dell'unita' sanitaria locale con l'obiettivo di promuovere  non  solo
 la  salute ma anche la prevenzione delle malattie ed il miglioramento
 della  qualita'  della  vita.     Qui   si   devono   riproporre   le
 argomentazioni  gia'  illustrate  a  sostegno dei primi due motivi di
 ricorso (ivi comprese quelle relative alla  genericita'  della  legge
 delega).  Infatti  il  decreto  non  solo  pone delle disposizioni di
 dettaglio che praticamente non  lasciano  margini  per  una  autonoma
 azione  legislativa  o amministrativa della regione ma,. In sostanza,
 introducono  un   assetto   organizzatorio,   con   relativi   moduli
 procedimentali,   che  tolgono  alle  regioni  ogni  potere  di  auto
 organizzazione nonche' di organizzazione degli enti  assoggettati  al
 loro  controllo.    In quest'ordine di considerazioni si ripropongono
 quindi le censure di cui  ai  predetti  motivi  1  e  2  che  debbono
 ritenersi  qui  integralmente  richiamate.   Ma vi e' di piu' perche'
 l'invasione del nuovo  dipartimento  nella  sfera  di  organizzazione
 della  regione e nei relativi procedimenti si, coglie in tutta la sua
 consistenza tenendosi presente che con legge regionale n. 32  del  18
 ottobre  1996,  la  regione  Veneto  ha istituito proprio una Agenzia
 regionale per la prevenzione e protezione ambientale  (ARPAV)  a  cui
 sono affidati i medesimi compiti di indagine, controllo, accertamento
 ed  intervento  tecnico  in relazione a cause di nocivita' di origine
 ambientale.  Codesta Corte piu' volte ha avuto occasione di insegnare
 che laddove la legge regionale sia gia' stata emanata per organizzare
 interventi   e   per   delineare   procedimenti,    preordinati    al
 soddisfacimento di un particolare interesse pubblico nelle materie in
 cui  sussista  una  sua  competenza appunto legislativa, l'intervento
 dello  Stato  non  puo'  spingersi  allo  stravolgimento  dei  moduli
 organizzatori  e dei procedimenti gia' legislativamente disciplinati,
 se non a condizione di configurare una  illegittima  invasione  nella
 sfera di autonomia legislativa ed amministrativa regionale.
   6.  -  Violazione  dei  principi  generali  concernenti l'autonomia
 statutaria,  legislativa  ed   amministrativa   delle   regioni   con
 particolare  riferimento  agli  artt.  115,  117, 118, 119, 123 della
 Costituzione da parte dell'art.   10 del  d.lgs.  n.  229  del  1999.
 Violazione  dell'art.  76  Cost:  eccesso  di delega.   L'art. 10 del
 decreto, che si propone di modificare l'art. 9-bis del d.lgs  n.  502
 del  1992,  attribuisce alla conferenza permanente per i rapporti fra
 lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e  Bolzano  dei
 poteri  di  autorizzazione  di programmi di sperimentazione aventi ad
 oggetto   nuovi   modelli   gestionali   che   prevedano   forme   di
 collaborazione  fra strutture del servizio sanitario nazionale, anche
 attraverso la costituzione di societa' miste, a capitale  pubblico  e
 privato.  Non solo, tale Conferenza permanente, secondo la disciplina
 introdotta  dall'art.  10  (art.  9-bis del decreto n. 502 del 1992),
 deve verificare annualmente i  risultati  conseguiti  sia  sul  piano
 economico  sia  su  quello  della qualita' dei servizi.  Senonche' la
 funzione essenziale ditale conferenza (v. d.lgs. 28 agosto  1997,  n.
 281)  e' quella di garantire la partecipazione delle regioni (e delle
 Province autonome di Trento e Bolzano) a tutti i processi decisionali
 di interesse regionale e in questa ottica le sono conferiti  relativi
 poteri  di  promozione,  coordinamento, informazione, valutazione, di
 intesa e accordo. Non sono invece previsti, proprio  perche'  esulano
 dalla    sua    essenziale   funzione   partecipativa,   compiti   di
 amministrazione attiva, come sono quelli disegnati  dall'art.  10  in
 esame  (9-bis nuovo testo del d.lgs. n. 502 del 1992) prevede appunto
 un  potere  autorizzatorio  ed  un  connesso  potere  di  verifica  e
 controllo.  Questi rilievi consentono la prospettazione di almeno due
 censure  sotto  il  profilo della legittimita'   costituzionale.   In
 primo luogo, la violazione delle norme indicate in rubrica per quanto
 alla   regione   vengono   sottratti,   con    un'indebita    formula
 organizzatoria,  poteri decisionali in materia di sua competenza.  In
 secondo luogo, l'eccesso di delega in quanto la legge n. 419/1998 non
 ha mai conferito al legislatore delegato ne' il mandato di modificare
 l'art. 9-bis del d.lgs. n.  502/1992  ne'  tantomeno  il  compito  di
 modificare i poteri della conferenza permanente Stato e regione cosi'
 come definiti e disciplinati dal d.lgs. n. 281/1997.
   7. - Violazione dell'art. 76 della Costituzione: eccesso di delega.
 Violazione degli artt. 3, 115, 117, 118, 119 e 123 della Costituzione
 da  parte  dell'art.  13  del d.lgs. n. 229 del 1999.  Il nuovo testo
 dell'art. 15 del d.lgs. n. 502 del 1992, come modificato dall'art. 13
 del decreto n. 229 del 1999, si propone di disciplinare la  dirigenza
 medica  e delle professioni sanitarie.  Come premessa, il comma 2 del
 nuovo art. 15 riconduce la dirigenza sanitaria  alla  disciplina  del
 d.lgs.  3  febbraio 1993 n. 29, mentre il successivo terzo comma, nel
 proporsi  di  illustrare  l'attivita'  dei  dirigenti  sanitari,  fra
 l'altro afferma: "il dirigente, in relazione alla  attivita'  svolta,
 ai  programmi  concordati  da  realizzare ed alle specifiche funzioni
 allo stesso attribuite, e' responsabile del risultato...".    Se  con
 tale  espressione  si  voleva  intendere  che  la responsabilita' del
 risultato e' riferita ai momenti organizzativi, nessun problema.  Se,
 diversamente  (e  in  quest'ottica  tuzioristica  viene  dedotto   il
 presente  motivo),  il  d.lgs., innovando rispetto ad una consolidata
 tradizione legislativa, radicata in tutti gli ordinamenti europei  ed
 extraeuropei   che  ha  sempre  qualificato  la  prestazione  d'opera
 intellettuale  (medica  in  questo  caso)  come   connessa   ad   una
 obbligazione  di  mezzi, avesse inteso definirla come obbligazione di
 risultato:   in tal caso se  ne  contesterebbe  (e  si  contesta)  la
 legittimita'  costituzionale.    In  altre  parole  se  al  sanitario
 ospedaliero  si  dovesse  richiedere  non  soltanto  la   correttezza
 nell'adempimento  della sua attivita' ma addi'rittura l'obbligo di un
 risultato,  si  profilerebbe  (e  si  profila)   una   questione   di
 costituzionalita'.    Una siffatta rivoluzionaria impostazione appare
 anzitutto  illegittima  perche'  la  legge  n.  419/1998  non   aveva
 attribuito   al  legislatore  delegato  alcun  compito  o  potere  di
 modificare in radice la struttura delle obbligazioni  del  sanitario.
 E'  anche  illegittima sotto il profilo della violazione dell'art.  3
 della  Costituzione  per  quanto  introduce   una   violenta   quanto
 ingiustificata  ed  immotivata  discriminazione  fra  i sanitari e le
 altre categorie professionali: non solo,  fra  gli  stessi  sanitari,
 quelli  dipendenti  dalle  strutture ospedaliere e quelli operanti in
 altri ambiti. Gli uni  risponderebbero  in  base  all'attivita';  gli
 altri risponderebbero in base al risultato. Codesta Corte (si ricorda
 la decisione n. 192 dell'11 luglio 1984) ha indirettamente affrontato
 il   tema   della   disparita'   di   trattamento  fra  le  categorie
 professionali, mostrando di  condividere  il  principio  che  fra  le
 categorie  professionali  non  si  puo'  attuare  una  ingiustificata
 discriminazione (che, peraltro, nella specie  li'  esaminata  non  fu
 riscontrata,  ma  in  questo  caso  la  diversita'  di trattamento e'
 addirittura eclatante se si considera che il citato comma  terzo  non
 teme  di  dire  che  il sanitario, rectius il dirigente, in relazione
 all'attivita' svolta e' responsabile del risultato).