IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza sull'appello proposto nell'interesse di Colombini Giovanni e Simonetti Antonio, con atto depositato il 23 luglio 1998 avverso l'ordinanza del g.i.p. presso il tribunale di Napoli in data 16 luglio 1998, con la quale veniva rigettata l'istanza volta ad ottenere la declaratoria di perdita di efficacia della misura cautelare, imposta ai prevenuti, per non essere stati gli atti ex art. 291 c.p.p. trasmessi entro cinque giorni dalla presentazione dell'istanza di riesame, giusto il disposto dell'art. 309, commi 5, 9 e 10, c.p.p.; O s s e r v a A sostegno del gravame, l'appellante - contestando l'orientamento proposto dal g.i.p. nell'impugnata ordinanza - ha dedotto l'applicabilita' della sentenza della Corte costituzionale n. 232/1998 a tutte le misure cautelari in itinere indipendentemente dalla formazione del cd. "giudicato cautelare", e cio' in applicazione della norma piu' favorevole all'indagato-imputato, dovendosi per tale intendere anche il caso di interpretazione della Corte costituzionale. Rileva il Collegio che gli assunti dell'appellante muovono dalla premessa, evidentemente data per pacifica, della necessaria applicabilita' della sentenza interpretativa di rigetto n. 232/1998 emessa dalla Corte costituzionale anche a giudizi diversi da quello nell'ambito del quale la stessa pronunzia e' stata emessa. Tale premessa, tuttavia, per le ragioni che di seguito saranno esposte e che impongono a questo tribunale - in ossequio all'insegnamento della S.C. a ss.uu. (cfr. Cass. ss.uu. 13 luglio-24 settembre 1998, Gallieri) - di sottoporre la questione nuovamente al vaglio di costituzionalita' del giudice delle leggi, non si ritiene condivisibile. In particolare: occorre innanzi tutto premettere che la citata sentenza della Corte costituzionale, invocata dall'appellante, a sostegno della propria istanza, e' "sentenza interpretativa di rigetto". Questo tipo di sentenza - a differenza delle sentenze interpretative di accoglimento che dichiarano parzialmente illegittima una norma per il fatto che essa venga generalmente interpretata in un senso contrario a quella prescelta dalla Corte, e che percio' esplicano efficacia erga omnes - e' una pronunzia che respinge l'eccezione d'incostituzionalita' (ritenendo cosi' la conformita' alla Costituzione) sulla base di una determinata interpretazione della norma, preferita dalla Corte, anche se tale interpretazione sia difforme da quella corrente e consacrata dalla costante giurisprudenza. La Corte, infatti, in omaggio al principio di conservazione dell'atto legislativo, fra le varie interpretazioni "preferisce" quella che ritiene piu' conforme alla Costituzione o alle norme parametro; con ogni evidenza l'interpretazione "preferita" in tal caso dalla Corte non puo' che avere efficacia vincolante rispetto alla fattispecie concreta nell'ambito della quale e' stata sollevata la precipua questione di costituzionalita', e non necessariamente erga omnes (cfr. in tal senso anche Cass. 13 dicembre 1995, Clarke, m. 203426 che, comunque - conformemente a quanto poi statuito da Cass. ss.uu. 13 luglio-24 settembre 1998 - ribadisce l'obbligo del giudice del diverso procedimento, che intende discostarsi dall'interpretazione fornita dalla sentenza interpretativa di rigetto, di sollevare nuovamente la questione di legittimita' costituzionale dell'identica disposizione per le medesime ragione gia' disattese). Tanto premesso, puo' quindi in primo luogo affermarsi, in via generale, che la citata pronunzia della Corte costituzionale, in quanto interpretativa di rigetto, non appare indefettibilmente vincolante e quindi necessariamente da applicarsi alla fattispecie oggi in esame. Cio' posto, va rilevato che questo collegio ritiene di dover dissentire dalle motivazioni poste dalla Corte costituzionale a sostegno di quella pronunzia in considerazione di quanto di seguito esposto. Invero la Corte costituzionale, superando il chiaro dato letterale della norma di cui al comma 5 dell'art. 309 c.p.p., ha fornito una interpretazione della disposizione in oggetto ricorrendo a criteri ermeneutici di portata sussidiaria, quali quelli contenuti nei principi generali dell'ordinamento giuridico in materia de libertate. Non vi e' dubbio che in punto di interpretazione della legge (e quindi dell'art. 309 c.p.p.) non si puo' ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore; solo ove cio' non sia possibile deve farsi ricorso ai principi generali dell'ordinamento giuridico (art. 12 disp. sulla legge in generale). Pacificamente, la giurisprudenza ha reiteratamente chiarito che e' fondamentale canone di ermeneutica, sancito dall'art. 12 delle preleggi, che la norma giuridica deve essere interpretata innanzitutto e principalmente dal punto di vista letterale, non potendosi al testo "attribuire altro senso se non quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse; di poi, sempre che tale significato non sia gia' tanto chiaro e univoco da rifiutare una diversa e contrastante interpretazione, si deve ricorrere al criterio logico: cio' al fine di individuare, attraverso una congrua valutazione del fondamento della norma, la precisa intenzione del legislatore, avendo cura, pero', di individuarla quale risultata dal singolo testo che e' oggetto di specifico esame e non gia', o semmai in via complementare e subordinata, quale puo' genericamente desumersi dalle finalita' ispiratrici di un piu' ampio complesso normativo in cui quel testo, insieme con altri, ma distintamente da essi, e' inserito" (cfr. in tal senso Cass. 16 ottobre 1975, n. 3359 e 13 novembre 1979, n. 5901). Inoltre "quando dalla parola della legge appare chiara la volonta' del legislatore, non e' consentito al giudice, nell'interpretare la norma, sostituire a quella volonta' altra contraria o diversa, sol perche' la ritenga meglio rispondente alla finalita' della legge stessa" cfr. in tal senso Cass. 11 gennaio 1983, n. 190). Ed ancora "in materia di interpretazione della legge, il riferimento ad un elemento extratestuale e' utile per ricercare elementi interpretativi, quando la norma sia oscura o si presti ad interpretazioni contrastanti diverse, ma non puo' essere consentito per dare un senso diverso da quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dalla ratio della norma stessa" (cfr. in tal senso Cass. 7 gennaio 1981, n. 96). Orbene, il comma 5 dell'art. 309 c.p.p. stabilisce che il presidente cura che sia dato avviso immediato (della presentazione dell'istanza) all'autorita' giudiziaria procedente, la quale entro il giorno successivo e comunque non oltre il quinto giorno trasmette al tribunale del riesame gli atti. Il mancato rispetto del requisito dell'immediatezza, da parte del presidente, non risulta sanzionato in alcun modo dall'ordinamento, e d'altra parte si tratta, come la stessa Corte costituzionale ha rilevato, di adempimento privo di autonomia processuale, configurando semplicemente una condizione materiale affinche' l'autorita' procedente possa essere messa in condizione di provvedere alla trasmissione degli atti, e non un "termine" in senso tecnico-giuridico posto che ogni termine deve necessariamente essere scandito in ore, giorni, mesi, anni. Inoltre, la stessa formulazione dell'art. 309 c.p.p.,a seguito della novella del 1995, ha lasciato immutato l'aggettivo "immediato", continuando a non prevedere alcuna sanzione nel caso in cui non sia rispettato il detto requisito della immediatezza, cosi' sostanzialmente confermando, da un lato si' l'esigenza di estrema speditezza, ma dall'altro l'inevitabile necessita' di conciliare comunque il detto adempimento con la realta' dell'organizzazione (sicuramente non perfetta) degli uffici giudiziari, le cui eventuali disfunzioni altrimenti metterebbero a repentaglio le parallele ed altrettanto rilevanti - al pari della liberta' personale - esigenze di tutela della collettivita' e processuali, essendo innegabile che esistono dei tempi tecnici del processo, dai quali in concreto non puo' prescindersi. Proprio l'immutatio del termine "immediato", termine il cui significato appare chiaro, - e che ben avrebbe potuto essere sostituito con una diversa espressione volta ad esprimere, ove effettivamente voluta, la necessita' di contestuale trasmissione o di trasmissione nel medesimo giorno del deposito dell'istanza di riesame, della richiesta atti - palesa l'inequivocabile volonta' del legislatore di voler escludere che i termini a disposizione dell'autorita' procedente debbano riferirsi al dies a quo di presentazione dell'istanza di riesame. Infatti, la necessita' dell'autorita' procedente di essere messa in condizione di provvedere alla trasmissione degli atti entro il giorno successivo, o al massimo entro il quinto giorno, presuppone necessariamente che questo abbia effettiva conoscenza della richiesta a suo carico; e non puo' che individuarsi in questo singolare momento, appunto quello del ricevimento della richiesta, l'elemento chiave per individuare il dies a quo del termine suddetto; sotto tale profilo puo' ulteriormente osservarsi che la caducazione dell'efficacia della misura cautelare, collegata al decorso dei termini di cui al comma 10 dell'art. 309 c.p.p., misra a sanzionare da una parte l'inerzia dell'autorita' procedente (senza i cui atti il tribunale non potrebbe compiere alcuna valutazione), dall'altra l'inerzia del tribunale del riesame che ritardi la sua decisione, e non certo l'inerzia del sistema dei servizi di trasmissione (cfr. in tal senso Cass. sez. un. 29 ottobre 1997, Schillaci), prescindendo dal rilievo che cio' possa vanificare il favor libertatis, favor che pero' non puo' giustificare interpretazioni non consentite dall'ortodossia ermeneutica (cfr. in tal senso cass. sez. pen. III, 8 ottobre 1997. Sciascia e Cass. sez. II 3 aprile 1997, Marangio). D'altronde la diversa soluzione prospettata dalla Corte costituzionale, soluzione ottenuta, snaturando ed in ultima analisi comprimendo e svuotando la portata del chiaro termine "immediato", ha manifestato l'intrinseca incongruita', ammessa peraltro dalla stessa Corte costituzionale, laddove viene effettivamente rilevato che l'assetto proposto renderebbe assai piu' coerente e funzionale la presentazione dell'istanza di riesame direttamente all'autorita' procedente, piuttosto che al tribunale del riesame, evitandosi in tal modo un superfluo dispendio di energie. Tutto quanto sopra osservato, induce questo Collegio a ritenere che la norma di cui all'art. 309, commi 5 e 10, c.p.p., come attualmente formulata, presenta dei sostanziali profili d'incostituzionalita' per violazione degli artt. 3, 24 e 13 della Costituzione in considerazione rispettivamente della irragionevole disparita' di trattamento di situazioni analoghe, del pregiudizio che indubbiamente puo' derivare ad una tutela effettiva della liberta' personale, e della frustrazione del diritto di difesa, laddove non viene stabilito con carattere di perentorieta' il termine entro il quale deve essere rivolta la richiesta degli atti ex art. 291 c.p.p. all'autorita' giudiziaria procedente e laddove, all'inosservanza di tale termine, non sia, conseguentemente, ricollegata alcuna sanzione; la questione, d'altra parte, non appare di scarso rilievo sol che si consideri che il termine massimo di cinque giorni per la trasmissione degli atti da parte dell'autorita' giudiziaria procedente e' termine perentorio che non puo' non essere a sua volta agganciato ad un momento preciso e definito, tassativamente determinato, che non prescinda dalla effettiva conoscenza (rectius: conoscibilita') della correlata richiesta di trasmissione, per non incorrere in una vanificazione delle sue precipue finalita'. Per tali ragioni, ritiene il Collegio di dover sollevare d'ufficio giudizio di legittimita' costituzionale per l'evidente rilevanza della questione ai fini dell'emissione di decisione nel caso attivato dagli appellanti Colombini e Simonetti relativamente ai quali, solo a seguito di pronunzia della Corte costituzionale sulla norma sospettata d'incostituzionalita', potra' poi essere affrontata da questo tribunale l'ulteriore questione circa la rilevanza del giudicato cautelare ai fini che interessano.