IL TRIBUNALE Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento civile di primo grado rubricato al numero di ruolo generale sopraindicato, e vertente tra fallimento della societa' "Progetto CAM S.r.l.", in persona del curatore fallimentare dott. Nelso Tilatti, rappresentato e difeso in causa dall'avv. Marco Terenghi ed elettivamente domiciliato presso lo studio di quest'ultimo, in Monza, via Talamoni n. 3, giusta delega in atti, attore e la "Banca Popolare di Milano - societa' cooperativa a responsabilita' limitata", in persona del procuratore generale avv. prof. Vincenzo Mariconda, rappresentata e difesa in causa dal predetto avv. Vincenzo Mariconda, nonche' dall'avv. Edoardo Zucca ed elettivamente domiciliata presso lo studio di quest'ultimo, in Monza, via F. Crispi n. 12, giusta delega in atti, convenuta; Rilevato in fatto Con atto di citazione notificato in data 16 giugno 1998 il fallimento della societa' "Progetto CAM S.r.l.", in persona del curatore fallimentare, ha convenuto in giudizio la "Banca Popolare di Milano" chiedendo in via revocatoria la dichiarazione di inefficacia relativa e la restituzione delle rimesse - per l'importo complessivo di L. 760.548.266 - affluite su un conto corrente intestato alla societa' fallita (n. 122/08701) nel corso dell'anno anteriore al fallimento (dichiarato, quest'ultimo, in data 12 luglio 1997). La domanda revocatoria e' stata formulata, in tesi, ai sensi dell'art. 67, secondo comma, r.d. 16 marzo 1942, n. 267 ("Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa"; breviter: L.F. ovvero legge fallimentare) ed in via meramente subordinata ai sensi del primo comma, n. 2, della stessa norma: nel primo caso come domanda avente ad oggetto il pagamento (con mezzi "normali") di debiti scaduti; nel secondo, per l'ipotesi di ritenuta "anormalita'" dei predetti atti solutori. Si e' costituita in giudizio la banca convenuta, sollevando pregiudizialmente eccezione di nullita' dell'atto di citazione (per assunta indeterminatezza del suo oggetto), nonche' eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 67, secondo comma, L.F. in relazione all'art. 6 della legge 21 febbraio 1991, n. 52 (cd. legge factoring) per assunta violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, primo comma della Costituzione; ha comunque concluso nel merito chiedendo il rigetto delle avverse domande, per difetto dei relativi presupposti (prova della scientia decoctionis e natura solutoria delle rimesse). Le parti si sono poi scambiate comparse ex art. 180 c.p.c.; e' stato inutilmente esperito il tentativo di conciliazione e sono state depositate memorie istruttorie. Ritenendo influente e pregiudiziale ai fini del decidere l'esame della questione di costituzionalita' sollevata dalla convenuta, questo giudice ha invitato le parti a precisare le rispettive conclusioni. Rassegnate queste ultime all'udienza del 15 aprile 1999 (conformemente a quelle gia' assunte negli atti introduttivi), la causa e' stata quindi trattenuta in decisione, previa concessione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito degli atti conclusionali. Ritenuto in diritto 1. - La questione di costituzionalita' dell'art. 67, secondo comma, L.F. sollevata dalla banca convenuta e' senza dubbio rilevante ai fini del giudizio. Questo giudice ha infatti gia' ritenuto di non accogliere, ritenendola infondata, l'altra eccezione pregiudiziale (di nullita' della citazione) sollevata dalla "Banca Popolare di Milano" e quindi, se si prescindesse dalla questione di costituzionalita', dovrebbe procedersi direttamente all'esame del merito facendosi applicazione proprio della norma censurata (art. 67, secondo comma, L.F.). 1.a) Quanto all'infondatezza dell'eccezione di nullita' dell'atto introduttivo, essa e' dimostrata dallo stesso tenore letterale della citazione, nella quale il curatore ha analiticamente individuato - a dispetto dell'immotivata critica rivoltagli dalla convenuta - ciascuna rimessa da lui ritenuta revocabile. Peraltro la citazione e' stata anche integrata da una comparsa ex art. 180 c.p.c. in cui il curatore ha indicato ancor piu' precisamente l'importo di ciascuna rimessa, le relative date di contabilizzazione ed esecuzione (data per valuta, data di annotazione, data di disponibilita'), raffrontando persino ogni singola operazione di accredito con gli antecedenti prelievi al fine di determinare in modo completo ed irrefutabile il saldo esistente al momento di ciascuna rimessa. Il petitum della domanda risulta quindi espresso in modo chiaro, certo e determinato; da cio' l'infondatezza dell'eccezione di nullita' della citazione, che, di conseguenza, non puo' precludere l'esame della domanda nel merito. 1.b) Non v'e' dubbio, peraltro, che, decidendo nel merito, dovra' farsi applicazione della norma censurata. La domanda revocatoria proposta dal curatore e' stata infatti formulata in via principale proprio ai sensi dell'art. 67, secondo comma, L.F. e siccome i suoi presupposti, in base ad una delibazione meramente incidentale, sembrerebbero effettivamente sussistenti in concreto, non sarebbe nemmeno ragionevole ipotizzarne il rigetto de plano, potendo semmai giudicarsene piu' verosimile l'accoglimento. Del resto il curatore ha gia' prodotto adeguata documentazione sia a riprova de scientia decoctionis della convenuta (pendenza certificata di numerose procedure esecutive mobiliari a partire dai primi mesi del 1996; esistenza certificata di numerosi protesti di assegni e cambiali a partire dal 2 ottobre 1996; situazioni, queste, che, essendo note ed ampiamente pubblicizzate, potrebbero integrare, unitamente alla qualita' professionale della banca convenuta, quelle presunzioni gravi, precise e concordanti da cui desumere con affidante tranquillita' - secondo gli insegnamenti della S. Corte di Cassazione - il factum demonstrandum ed ignoto consistente nella consapevolezza circa lo stato di insolvenza della fallita: v. Cass. 28 aprile 1998, n. 4318; Cass. 13 settembre 1997, n. 9075; Cass. 20 agosto 1997, n. 7757; Cass. 28 maggio 1997, n. 4731; Cass. 23 gennaio 1997, n. 699; Cass. 11 febbraio 1995, n. 1545; Cass. 29 aprile 1994, n. 4169; Cass. 6 novembre 1993, n. 11013; Cass. 20 maggio 1993, n. 5742); sia della natura solutoria delle rimesse medesime (essendo incontroverso che il conto corrente su cui sono confluite fosse non affidato, e che i singoli accrediti oggetto di revoca, in quanto avvenuti volta a volta in presenza di "scoperti", costituenti - come tali - crediti scaduti ed immediatamente esigibili della banca, tendessero a ripianarli con funzione solutoria). Inevitabile sarebbe dunque l'applicazione dei consolidati principi interpretativi prospettati dalla S. Corte di Cassazione in subiecta materia, e ricostruendosi l'andamento del conto in base al piu' accreditato criterio del cd. "saldo disponibile" (Cass. 3 gennaio 1996, n. 12; Cass. 15 novembre 1994, n. 9591; Cass. 22 marzo 1994, n. 2744), pressocche' tutti i versamenti in conto di cui il curatore ha chiesto la revoca risulterebbero effettuati volta a volta in presenza di scoperti di variabile entita'. Donde, di conserva, la rilevanza della questione, non potendo attribuirsi nemmeno alcun significativo rilievo, ai fini del decidere, a quella tesi della giurisprudenza di merito invocata dalla convenuta - e rimasta peraltro finora isolata (trib. Milano 1 febbraio 1996) - che, facendo ricorso ad un'opinabile amplificazione della nozione di contestualita' logica al posto di quella di contemporaneita' cronologica, ha prospettato la non revocabilita' delle cd. "operazioni bilanciate", ossia di quelle operazioni rientranti nella programmata esecuzione - da parte del correntista, con l'assenso della banca - di prelievi con valuta anteriore a quella dei versamenti, ma nella ragionevole convinzione della certa disponibilita' a breve dei secondi. Non solo, infatti, tale prospettazione contrasta in essenza con il ricordato e consolidato orientamento della Cassazione nel punto in cui presume, a differenza di questo, che i prelievi effettuati allo scoperto (alla luce del cd. saldo "disponibile") non determinino un credito immediatamente esigibile della banca, rispetto al quale i successivi versamenti abbiano funzione solutoria; ma presuppone anche una differenza concettuale, per la verita' del tutto insussistente, con le cd. anticipazioni "precarie" o "di fatto", gia' ben note nella prassi bancaria, della cui natura creditizia pero' - equivalendo esse a null'altro che a singole operazioni di mutuo o di anticipazione - non si e' mai seriamente dubitato, non potendo di conseguenza nemmeno dubitarsi della natura solutoria dei versamenti successivamente effettuati per ripianare lo scoperto da esse determinato. Perdippiu' la predetta tesi sembra presupporre che le operazioni bilanciate, per essere qualificate come tali, oltre a succedersi quasi contestualmente sul piano oggettivo, debbano essere state anche programmate come tali, sul piano soggettivo, per un mutuo, anche se tacito, accordo fra le parti (ammesso e non concesso che un accordo non formalizzato per iscritto sia ancora ammissibile dinanzi al vigente testo dell'art. 117 del d.lgs. 1 settembre 1993, n. 385, cd. "legge bancaria", che invece prevede la forma scritta per tutti i contratti bancari, nessuno escluso): ma la prova di tale consapevole programma e' rimasta del tutto carente nel caso di specie, derivandone per questa via anche la pratica impossibilita' - ai fini di escludere la positiva applicazione dell'art. 67, secondo comma L.F. - di fare ricorso a questa tanto nuova, quanto opinabile, proposta interpretativa. 2. - Deve poi ritenersi che la questione di costituzionalita', oltre che rilevante, sia anche non manifestamente infondata, per quanto non gia' in ragione dei profili suggeriti dalla banca convenuta, bensi' alla luce di ulteriori criteri di giudizio che questo giudice intende rilevare ex officio. 2.a) La convenuta sospetta una lesione al principio costituzionale di uguaglianza confrontando il diverso e deteriore trattamento ad essa riservato dall'art. 67, secondo comma, L.F. rispetto a quello di maggior favore riservato dall'art. 6 della legge 21 febbraio 1991, n. 52 alle societa' finanziarie che svolgano attivita' di acquisto di crediti d'impresa: cio' perche', mentre la prima norma sottopone a revocatoria le rimesse di conto corrente anche se destinate a ripianare scoperti determinati da mera anticipazione di provvista a favore del cliente (poi fallito); la seconda, al contrario, esonera le societa' di factoring dalla revocatoria dei pagamenti effettuati dal fallito per estinguere crediti che esse abbiano acquistato, individuando in tal caso un diverso legittimato passivo dell'azione, vale a dire il creditore cedente. Secondo la convenuta la predetta discriminazione sarebbe irragionevole dinanzi a situazioni sostanzialmente, anche se non formalmente, identiche, non potendo ravvisarsi alcuna differenza di rilievo fra la posizione di una societa' di factoring che, avendo acquistato un credito verso il fallito, venga poi pagata da quest'ultimo, e quella di una banca che, per consentire al fallito di pagare i suoi creditori (ivi comprese anche le societa' di factoring), ne anticipi il controvalore ricevendo successivamente rimesse meramente ripianatorie della provvista. Cosi' brevemente illustrato l'iter logico in base al quale la convenuta ha impostato il dubbio di costituzionalita', se ne desume pero' come la denunciata disparita' di trattamento, pur in apparenza sussistente, tuttavia da un lato non sia affatto determinata dall'art. 67, secondo comma, L.F., e come, dall'altro, essa non ridondi direttamente in danno delle banche. Quanto al primo aspetto, e' infatti evidente che una discriminazione potrebbe giudicarsi semmai prodotta dalla diversa norma invocata come termine di confronto, vale a dire dall'art. 6 della legge 21 febbraio 1991, n. 52, che pero' non e' oggetto di diretta applicazione in casu e la cui eventuale incostituzionalita', di conseguenza, non puo' essere oggetto di valutazione nel presente giudizio. E' infatti questa recente norma speciale a determinare, esonerando le societa' di factoring dalla revocatoria dei pagamenti, un trattamento di favore per tali societa' in deroga alla generale applicabilita' del regime revocatorio. Di conseguenza solo questa norma potrebbe giudicarsi in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza, non invece l'altra, com'e' dimostrato, peraltro, dalla considerazione che, per eliminare il vulnus inferto a tale principio, sarebbe sufficiente abrogare la norma speciale, lasciando in vita l'art. 67 L.F. Quanto al secondo aspetto, non le banche, ma semmai i creditori che cedano i propri crediti verso il fallito alle societa' di factoring dovrebbero dolersi della disparita' di trattamento loro riservata dalla norma speciale, visto che la revocatoria si rivolge nei loro confronti e non nei confronti delle societa' di factoring, pur ricevendo materialmente queste ultime, e non i primi, i pagamenti del fallito. Le banche invece, una volta accertata la natura solutoria delle rimesse affluite su conti scoperti del fallito, non subiscono alcuna effettiva discriminazione rispetto a tutti gli altri creditori assoggettati dall'art. 67 L.F., per il medesimo titolo, alla revoca dei pagamenti (cfr. Cass. 25 gennaio 1997, n. 778). Il profilo di non conformita' a Costituzione segnalato dalla convenuta deve quindi giudicarsi non pertinente. Nondimeno, proprio l'esistenza di norme che, come l'art. 6 della legge 21 febbraio l99l, n. 526 (ma non solo di essa), in progresso di tempo hanno sempre piu' incisivamente "eroso" l'area di applicabilita' della revocatoria dei pagamenti, estendendo a dismisura quella delle esenzioni, cosi' quasi invertendo, in fatto, il rapporto tra regola ed eccezione che sembrava caratterizzare questo istituto e giustificarne l'esistenza alla luce della ratio egualitaristica che lo ispirava (tutela della parita' di trattamento fra i creditori in sede satisfattiva), appare come il sintomo e, in parte, anche come la causa di quel diffuso "disagio" e di quella "reazione di rigetto" che - come segnalato da avvertita dottrina - ormai da non pochi anni si registrano nell'applicazione pratica dell'istituto medesimo. Esso e' peraltro apparso tanto piu' "odioso" per quanto arbitraria si e' rivelata, in fatto, la selezione perpetrata in danno di soggetti economici ritenuti non gia' piu' immeritevoli, ma solo piu' solvibili (e tra questi in primo luogo le banche, proprio attraverso la revoca delle rimesse di conto corrente, sintomaticamente sempre perseguita, ma sulla base di tanto variabili, quanto anche eccentriche interpretazioni). Fattori tutti, questi, che inducono di conseguenza a riesaminare la revocatoria dei pagamenti nel contesto della sua attuale ragion d'essere, alla luce degli approfondimenti teorici che ne hanno rivelato con maggior precisione l'intima struttura e di una piu' matura sensibilita' verso i valori costituzionali. 3. - Quest'indagine consente di individuare alcuni profili di sospetta non conformita' a Costituzione dell'art. 67, secondo comma, LF. che questo giudice reputa non manifestamente infondati e che pertanto intende rimettere, d'ufficio, alla conclusiva decisione del giudice delle leggi. 3.a) Il primo profilo di sospetta incostituzionalita' va ravvisato ancora nella lesione al principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione, sebbene per ragioni evidentemente diverse da quelle che sono state invocate dalla convenuta. Quest'ultima aveva infatti inefficacemente assunto, come termine di confronto, una norma speciale derogatoria rispetto all'art. 67 L.F. Come pero' si e' detto poc'anzi, in tal caso l'eventuale lesione al principio di uguaglianza non potrebbe affatto addebitarsi all'art. 67 L.F., bensi' alla norma speciale di confronto, in quanto disciplinante, in ipotesi irragionevolmente, in un certo modo e a favore soltanto di certi soggetti, un'esenzione dalla revocatoria. La soluzione esattamente contraria dovrebbe invece trarsi qualora ricorresse anche un solo caso in cui non gia' l'operare di una norma speciale, ma proprio la diretta ed immediata applicazione dell'art. 67 L.F. desse luogo ad un disparitario trattamento tra creditori, consentendo soltanto per taluno, senza alcun ragionevole motivo, in presenza delle medesime situazioni sostanziali, l'esonero dalla revocatoria. In tal caso andrebbe infatti assunta, come tertium comparationis, proprio una fattispecie derogatoria direttamente disciplinata dalla norma censurata e, ammessa l'esistenza dell'ipotizzata discriminazione, il vulnus al principio costituzionale di uguaglianza rileverebbe anche nel presente giudizio, come in ogni altro in cui il trattamento riservato a un qualunque creditore, in quanto assoggettato alla revocatoria dei pagamenti, appaia immotivatamente deteriore rispetto al beneficio dell'esenzione attribuito a qualcun altro. Ebbene e' dato registrare effettivamente l'esistenza di almeno un caso di questo genere. Infatti, secondo l'orientamento interpretativo della S. Corte di cassazione, da reputarsi ormai consolidato sul punto, l'art. 67 L.F. deve leggersi come se contenesse, per implicito, una disposizione intesa ad esonerare dalla revocatoria dei pagamenti le imprese che agiscano in regime di monopolio legale e siano conseguentemente tenute, a norma dell'art. 2597 codice civile, a "contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell'impresa, osservando la parita' di trattamento". L'interpretazione della S. Corte di cassazione va qualificata come diritto vivente in subiecta materia, perche', al cospetto di una sola pronuncia di segno contrario (Cass. 21 aprile 1993, n. 4712), essa ha poi definitivamente adottato la soluzione che afferma l'esclusione del legalmonopolista dalla revocatoria fallimentare dei pagamenti, esprimendo tale orientamento anche a sezioni unite, a maggior dimostrazione della volonta' di garantire ed attuare, in tal modo, l'uniforme applicazione di questa soluzione di diritto (Cass., sez. un. 11 novembre 1998, n. 11350; Cass. 6 aprile 1990, n. 2913; Cass. 31 luglio 1990, n. 5051; Cass. 10 gennaio 1991, n. 186). Per la verita' la stessa Cassazione, nel prospettare la soluzione in oggetto, ha ritenuto di poterne escludere il contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza, alla luce della diversa posizione in cui il legalmonopolista, a causa dell'obbligo legale a contrarre su di lui incombente, assertivamente verserebbe rispetto ad ogni altro creditore, anche quando riceva pagamenti dall'utente poi fallito. Cio' in quanto il monopolista, oltre a non potersi rifiutare di contrarre con chiunque, nemmeno quando il richiedente del servizio sia insolvente (fase della genesi contrattuale), per la medesima ragione non potrebbe rifiutarsi di eseguire la sua prestazione a favore di quest'ultimo nemmeno nella fase esecutiva del rapporto: la richiesta di contrattazione sarebbe, in sostanza, gia' una "pretesa a tale prestazione", vale a dire una pretesa rilevante al tempo stesso sia nella fase genetica del rapporto, sia nella fase esecutiva, che priverebbe in entrambe il monopolista della sua liberta' di "autodeterminazione". Da questa premessa, la S. Corte ne ha desunto che sarebbe dunque "ingiusto", al punto da costituire una lesione al principio costituzionale di uguaglianza, non gia' il fatto che il monopolista possa sottrarsi alla revocatoria, ma che debba effettuare la sua prestazione pur sapendo di non poter ricevere o di non poter conservare (per effetto di un'eventuale revocatoria promossa successivamente dal curatore in caso di fallimento del debitore) la controprestazione costituita dal pagamento. All'orientamento in tal modo prospettato dalla Cassazione devono riconoscersi i seguenti caratteri: 1) esso costituisce, come s'e' detto, diritto vivente nella parte in cui esige che l'art. 67, secondo comma, L.F. vada letto come se prevedesse per implicito una esenzione del legalmonopolista dalla revocatoria dei pagamenti; 2) non vincola invece il giudice di merito nella parte in cui esclude che tale esenzione sia in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza; 3) di converso, siccome quest'ultima tesi appare intimamente contraddittoria laddove tende a delineare l'esistenza di una differenza sostanziale tra la posizione del legalmonopolista e quella di ogni altro creditore nella fase esecutiva del rapporto in cui l'uno e gli altri ricevono pagamenti da parte del fallito, ma nell'argomentarla la Cassazione ha per la prima volta indicato i profili in presenza dei quali potrebbe ritenersi che l'art. 67 L.F. violi i principi costituzionali; proprio la dimostrazione che in realta' nessuna differenza esiste - rispetto ai pagamenti - fra il monopolista ed ogni altro creditore induce a fare positiva applicazione dei criteri di giudizio indicati dalla S. Corte per ritenere violate le norme costituzionali, a partire da quella che sancisce il principio di uguaglianza. Che rispetto ai pagamenti nessuna differenza esista fra il legalmonopolista ed ogni altro creditore, e' dimostrato dalla considerazione che, trattandosi della revoca di atti solutori, e non della revoca del contratto che il legalmonopolista e' tenuto per legge a stipulare con chiunque, anche con chi sia in ipotesi insolvente (contratto la cui irrevocabilita' potrebbe dunque in ipotesi ammettersi, stante l'impossibilita' per il legalmonopolista di rifiutarne la stipula), e' semplicemente incongruo discriminare, rispetto ai pagamenti, fra questo o quel creditore, giacche' tutti soggiacciono sempre ad un obbligo cogente di pagamento, sia esso derivante dal negozio-fonte (che ha forza di legge fra le parti), sia che derivi da una fonte giudiziale o legale (come accade per i cd. pagamenti coattivi, anch'essi concordemente ritenuti soggetti a revoca). Superfluo ricordare che, per diritto ricevuto, tale autonomia tra i due piani non soltanto sussiste, ma qualifica specificamente la revocatoria fallimentare rispetto a quella ordinaria (disciplinata dall'art. 2901 c.c.), poiche' solo nella revocatoria fallimentare puo' essere revocato il pagamento di un debito liquido ed esigibile e puo' esserlo indipendentemente dalla revoca del negozio-fonte. Merita semmai rimarcare che la ragione di tale autonomia va ricercata proprio nella diversita' dei presupposti sostanziali che sottendono l'esercizio della revocatoria nell'uno e nell'altro tipo di azione, nonche' a seconda che ne siano oggetto gli atti dispositivo-attributivi, o piuttosto i semplici pagamenti "normali". La revocatoria fallimentare risponde infatti non ad uno scopo soltanto, o ad una ratio unitaria, ma ad un duplice presupposto sostanziale: che e', al pari della revocatoria ordinaria, quello della conservazione dell'integrita' patrimoniale (art. 2740 c.c.), quando vengono sanzionati gli atti dispositivi del fallito rivolti a diminuirla (siano essi qualificabili come atti onerosi o gratuiti, oppure come atti onerosi "normali" o "anomali"); e che e' invece quello dell'attuazione della par condicio (art. 2741 c.c.), presupposto del tutto peculiare alla revocatoria fallimentare, quando vengono sanzionati invece i pagamenti "normali" (di debiti liquidi ed esigibili) effettuati alla prevista scadenza, ma al di fuori delle regole ripartitorie e perequative del procedimento concorsuale. I pagamenti, infatti, essendo atti dovuti, atti di mero adempimento, nulla sottraggono al patrimonio del debitore che gia' non fosse prima dovuto al creditore, e sono percio' revocabili solo in quanto hanno l'autonoma attitudine a ledere quel distinto principio della parita' di trattamento dei creditori che non avrebbe ragion d'essere, o che non potrebbe comunque mai trovare completa e coerente attuazione, al di fuori del procedimento concorsuale. Quanto pero' al carattere di doverosita', esso sussiste in ogni ipotesi di pagamento ed in modo identico per qualunque contraente, e non solo per il monopolista, derivando tale doverosita' dall'esistenza di un obbligo la cui attuazione e' imposta dalla lex contractus o da qualunque altra fonte, legale o giudiziale, che parimenti imponga un obbligo di prestazione o di pagamento. Resta certo opinabile se, posto il carattere doveroso di un pagamento, la sua revoca sia in re ipsa un evento ingiusto, come afferma la Cassazione e come e' lecito in effetti ritenere, per le ragioni che fra poco si diranno; solo che, una volta ammesso che lo sia, allora essa costituira' sempre un evento ingiusto, di qualunque pagamento si tratti e a qualunque creditore effettuato, in quanto la revocatoria tende sempre a colpire atti invariabilmente doverosi, costituenti la controprestazione di attribuzioni altrettanto doverose, escludendo di conserva sempre e comunque una liberta' di autodeterminazione sia per il debitore solvens, sia per il creditore accipiens. E' percio' giocoforza concludere che tale ingiustizia, se sussistente, ricorra in ogni caso, e cioe' non solo nei confronti del monopolista, ma verso qualunque creditore. Occorre peraltro considerare che al di fuori del fallimento il legalmonopolista non gode di alcuna preferenza satisfattiva, nemmeno in un'eventuale procedura esecutiva singolare; nessuna preferenza potrebbe vantare neppure se, non essendo stato pagato, si insinuasse al passivo per il suo credito insoddisfatto. Ne deriva la duplice ed incongrua conseguenza che, mentre da una parte il pagamento intervenuto spontaneamente da parte del debitore sarebbe irrevocabile, per contro, ove esso fosse avvenuto nel corso di una procedura esecutiva anteriore al fallimento, sarebbe soggetto a revoca come qualunque altro pagamento coattivo; se poi il pagamento non ci fosse stato, il legalmonopolista dovrebbe insinuarsi al passivo come qualunque altro creditore, con il rischio, del tutto comune (rischio tanto piu' prevedibile trattandosi di credito chirografario) di restare insoddisfatto. Non si comprende allora perche' la deroga alla par condicio debba per lo stesso legalmonopolista valere solo in caso di pagamento spontaneo del debitore, e non invece negli altri casi ora considerati. Per la verita' questa sfasatura e' comune anche a tutte le altre ipotesi (previste da leggi speciali) in cui determinate categorie di creditori beneficiano dell'esenzione dalla revocatoria dei pagamenti. Cio' tuttavia, lungi dal rendere legittima questa sfasatura, imporrebbe semmai di verificare, con riferimento a tutte le ipotesi stesse, se davvero esse siano conformi a Costituzione e ancor prima se davvero il legislatore sia libero di stabilire deroghe al regime revocatorio dei pagamenti. Se e' vero, infatti, che l'art. 67, terzo comma, ultimo inciso, L.F. sembra prevedere in via di principio la possibilita' che con leggi speciali vengano stabilite deroghe all'operare della revocatoria, resta tuttavia ancora tutto da dimostrare che questa possibilita' riguardi anche la revocatoria dei pagamenti quale sanzione volta ad attuare la par condicio (regola che dovrebbe per definizione rifiutare qualunque trattamento disparitario di favore, ancorche' regolato da leggi speciali), e non piuttosto o non soltanto le altre fattispecie di revocatoria regolate dalla norma ed aventi ad oggetto atti dispositivi del fallito idonei ad incidere sull'integrita' della garanzia patrimoniale. In conclusione, vi sono sufficienti ragioni per sospettare che il trattamento di favore riservato al monopolista rispetto a quello destinato a tutti gli altri creditori nell'ambito della revocatoria dei pagamenti non sia conforme con il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, primo comma, della Costituzione. 3.b) Mentre l'orientamento di favore della S. Corte verso il legalmonopolista autorizza il sospetto di costituzionalita' alla luce dell'art. 3, primo comma, Costituzione; il profilo dell'"ingiustizia", soggiacente ad un'azione volta a sanzionare d'inefficacia relativa atti leciti e doverosi compiuti quando un fallimento non sia stato ancora dichiarato, autorizza un dubbio di incostituzionalita' della predetta norma in relazione ai diritti d'azione e di difesa, nonche' di tutela della libera iniziativa economica, come rispettivamente sanciti dagli artt. 24, primo e secondo comma, e 41, primo comma, della Costituzione. 3.c) Quanto alla sospetta non conformita' con l'art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione, essa emerge in base alla considerazione che nessun creditore e' munito di un'adeguata tutela processuale di carattere "preventivo" contro il rischio di una revocatoria dei pagamenti. In alcune decisioni giurisprudenziali, per il vero, si e' sostenuta la tesi contraria invocandosi l'art. 1461 c.c., nel punto in cui tale norma accorda a una delle due parti contrattuali una speciale tutela, la cd. facolta' di sospensione della prestazione, quando le condizioni patrimoniali dell'altra siano divenute tali da porre in evidente pericolo il conseguimento della controprestazione. Si e' cosi' ritenuto che tale norma possa essere invocata anche dal contraente che rischi di essere pregiudicato dal fallimento della controparte nell'ipotesi in cui sussista il pericolo di perdita di cio' che ha ricevuto, o deve ricevere e viene offerto, in conseguenza del (possibile) esercizio di un'azione revocatoria (Cass. 30 marzo 1994, n. 3165; App. Milano 25 marzo 1986). Se ne e' dedotto che, potendo avvalersi del potere di sospensione, il creditore potrebbe anche "sottrarsi agli effetti della revocatoria fallimentare attraverso il debito rifiuto del pagamento dell'utente fallito, il conseguente inadempimento dello stesso e la risoluzione del contratto" (Cass. 21 aprile 1993, n. 4712). Questa interpretazione e' stata peraltro richiamata dalla S. Corte anche quando si e' accinta a valutare se l'esenzione dalla revocatoria da essa prospettata a favore del monopolista si traducesse in violazione al principio costituzionale di uguaglianza. Essa ha ritenuto di poter escludere tale lesione sul presupposto che il potere di sospensione della prestazione possa essere invocato da qualunque creditore e che sia di per se' sufficiente a garantirlo contro il rischio di revocatoria. Si tratta, pero', di un'interpretazione manifestamente incongrua. Il problema della tutela preventiva del creditore del fallito rispetto alla revocatoria si pone infatti se ed in quanto un pagamento venga effettuato dal debitore poi fallito, laddove invece la tutela preventiva, di cui in assetto potrebbe fruire qualunque creditore del fallito (anche in asserto il monopolista) ex art. 1461 c.c.; presupporrebbe il realizzarsi dell'ipotesi esattamente contraria, che cioe' sia prevedibile che l'utente non possa o non voglia pagare. Nessun creditore, dunque, potrebbe mai avvalersi del potere sospensivo di cui all'art. 1461 c.c. quando l'altro contraente sia regolarmente adempiente, a prescindere dallo stato di difficolta' finanziaria in cui egli possa per avventura trovarsi. Cio' perche' la facolta' di sospendere l'esecuzione della propria prestazione e' espressamente subordinata alla condizione che sia in pericolo il conseguimento della controprestazione, mentre non puo' essere invocata quando il contraente tema semplicemente di non poter conservare la controprestazione gia' ricevuta o quella gia' offertagli, non potendo avere alcun rilievo, in tal caso, l'eventuale stato di dissesto della controparte adempiente: il rifiuto o la sospensione della prestazione ex altero latere non potrebbe che configurare allora, secondo i principi generali, una fattispecie di inadempimento colpevole. D'altra parte, il fatto stesso che l'altro contraente possa impedire l'effetto della sospensione prestando idonea garanzia dimostra come, a fortiori, l'offerta di adempimento sia preclusiva della possibilita' di sospendere la prestazione. Le due ipotesi considerate, quella dell'adempimento e quella del rischio dell'inadempimento, sono evidentemente opposte, ed e' percio' semplicemente impensabile sussumerle entrambe nella medesima disciplina apprestata dall'art. 1461 c.c. Peraltro non e' dubitabile che la facolta' di autotutela accordata dall'art. 1461 c.c. non implichi assolutamente la risoluzione del contratto, cosi' come non e' dubitabile che la risoluzione non possa essere affatto richiesta adducendo l'insolvenza della controparte quando essa, invece, risulti adempiente, volta che, nell'attuazione dei rapporti obbligatori privati, l'adempimento di una parte - per definizione - non puo' che privare di qualunque rilievo l'eventuale e piu' generale stato di dissesto in cui versi il contraente medesimo (Cass. 11 febbraio 1966 n. 419; Cass. 21 marzo 1983, n. 1990; Cass. 28 marzo 1988, n. 2615). Infine, ipotizzare che l'autotutela accordata dall'art. 1461 c.c. possa estendersi contra tenorem rationis fino a coprire il rischio di revocatoria di un pagamento potrebbe a sua volta dar luogo ad un'ulteriore profilo di lesione al principio costituzionale di uguaglianza, riservandosi un trattamento irragionevolmente diverso ai creditori di un imprenditore commerciale insolvente rispetto a quelli di un insolvente civile (cui la revocatoria dei pagamenti non potrebbe applicarsi), in presenza di un'identica situazione sostanziale e della medesima causa obligandi. Cio' induce in conclusione a ritenere che, se proprio non v'e', ne' puo' esservi, a maggior conforto di quanto gia' detto, alcuna rilevante differenza tra il monopolista e qualunque altro creditore rispetto all'adempimento o all'offerta di pagamento del debitore, cio' derivi dal fatto che non soltanto il monopolista, ma nessun altro creditore ha mai la possibilita' di invocare la tutela sospensiva di cui all'art. 1461 c.c. (o addirittura una tutela risolutiva) quando gli sia stato offerto dalla controparte, in periodo anteriore al fallimento, il regolare pagamento del suo credito. In realta' l'unico modo per sottrarsi agli effetti restitutori di tale azione sarebbe quello di ... rinunciare a ricevere il pagamento, l'unica facolta' che, salvi i pur non secondati effetti negativi della mora credendi, dovrebbe sempre riconoscersi a ciascun contraente. Ma nessun creditore puo' mai considerarsi addirittura obbligato a rifiutare un pagamento che gli sia dovuto, anche perche' tale pagamento - come ammette la stessa Cassazione - resta pur sempre un atto valido e lecito sul piano sostanziale ed e' idoneo a produrre effetti del tutto legittimi, come del pari legittimo e lecito e' il pagamento del corrispettivo (Cass. 24 gennaio 1998, n. 690). Ciascun contraente e' invece sempre obbligato ad effettuare la sua prestazione se la controparte offra di adempiere a sua volta la sua, anche qualora possa sospettarne lo stato di decozione e pur essendo dunque consapevole del rischio di una futura revocatoria. E' ben comprensibile che questa situazione senza apparente via d'uscita possa apparire "ingiusta" (come afferma la stessa Cassazione) e suggerire, di conseguenza, un dubbio di costituzionalita': sarebbe infatti difficile negare che per i creditori non sia un valido rimedio contro il rischio di revocatoria il dover adempiere la propria prestazione, rinunciando al tempo stesso a ricevere il pagamento cui sia tenuta l'altra parte contraente ed incorrendo perdippiu' nei negativi effetti della mora credendi| Solo che, sgombrato il capo dall'equivoco annidato nel ragionamento della S. Corte, laddove essa ha postulato una (inesistente) differenza di posizione del monopolista rispetto a qualunque altro contraente, quest'ingiustizia si ripropone allo stesso modo per qualunque creditore del fallito. Si diceva poc'anzi che l'unica facolta' di cui dispone il creditore per sottrarsi alla revocatoria e' quella di rinunciare a ricevere un pagamento che pure avrebbe il diritto di ricevere; essa, com'e' evidente, non puo' pero' considerarsi un valido mezzo di tutela, ne' sul piano sostanziale, ne' su quello processuale. E' peraltro significativo che finora non sia stato mai addotto, nemmeno docendi causa, un solo caso concreto in cui un creditore abbia rifiutato un pagamento sul presupposto che il suo debitore fosse insolvente; ed un precetto giuridico che per un malinteso e male applicato solidarismo pretenda dai consociati comportamenti inesigibili o inattuabili sarebbe gia' solo per questo in potenziale conflitto con i principi costituzionali. Perdippiu' questo sempre piu' evanescente solidarismo, cui dovrebbe considerarsi ispirata la regola della par condicio, non ha nemmeno alcuna dignita' costituzionale: la par condicio e' infatti solo una modalita' processuale di soddisfazione dei creditori che si attua in sede concorsuale, ma non invece nei rapporti comuni (ove vige l'opposta regola della priorita' di scadenza del credito), modalita' che il legislatore e' del tutto libero di stabilire preferendola ad altre modalita' diverse, benche' pur sempre con il limite del rispetto dei principi costituzionali. Pertanto non deve meravigliare che tale regola, in quanto dettata da una semplice legge ordinaria, possa eventualmente confliggere, nella sua essenza o nel suo modo di porsi, con tali principi. Quanto al principio costituzionale che tutela i diritti d'azione e di difesa, la limitazione che l'art. 67, secondo comma, L.F. sembra produrre in loro danno non sembra in effetti trovare adeguato bilanciamento in alcun altro valido contrappeso. Il pagamento sottoposto a revoca dall'art. 67, secondo comma, L.F. e' infatti, come si e' ripetuto, un atto lecito e doveroso; la fattispecie revocatoria ad esso applicabile non rinviene percio' la sua ragion d'essere in quella presunzione di "frode" alle ragioni dei creditori che sembra invece giustificare la revocatoria di tutti gli atti dispositivi tesi a disperdere la garanzia patrimoniale del debitore, perche' altrimenti non avrebbe neppure senso revocare un pagamento ricevuto in sede esecutiva, la cui liceita' e' senza alcun dubbio dimostrata dal fatto stesso che, a disporlo, e' addirittura un organo dell'esecuzione, un giudice dello Stato. Non sembra poi costituire adeguato bilanciamento del sacrificio imposto ai creditori assoggettati a revocatoria, nemmeno la condizione, cui e' subordinato l'accoglimento dell'azione revocatoria dei pagamenti normali, che venga dimostrata dal curatore la scientia decoctionis dell'accipiens. L'essere o meno a conoscenza dello stato di insolvenza della controparte, infatti, non rappresenta null'altro che un limite sovrastrutturale (processuale) all'esercizio dell'azione, mentre cio' che conta e' che, sia quando il creditore abbia tale conoscenza, sia quando non l'abbia, in entrambi i casi l'unica scelta a cui egli si trova astretto per non subire l'azione e' di rinunciare a un pagamento che pure sarebbe legittimato a ricevere in base al diritto sostanziale della lex contractus. Non costituisce adeguato bilanciamento nemmeno l'utilita' perequativa (tutela della par condicio) cui l'azione dovrebbe essere finalizzata. A ben vedere il fine che dovrebbe ispirare quest'ultima, quello cioe' di sottoporre il creditore soddisfatto ad un concorso con tutti gli altri creditori secondo la gerarchia della graduazione, si traduce in realta' in un'immeritata sanzione per il creditore piu' diligente, ma meno forte: perche' solo il creditore piu' diligente, realizzando la sua pretesa a scadenza, o sinanche in via esecutiva dopo essersi munito di apposito titolo, vede poi redistribuito il pagamento da lui ricevuto a favore anche dei creditori meno diligenti che non abbiano ricevuto pagamenti per aver omesso di coltivare in tempo le proprie pretese; e perche' solo il creditore meno forte puo' rischiare di restare poi del tutto insoddisfatto in sede ripartitoria, per effetto di una redistribuzione del pagamento attuata a vantaggio di creditori magari meno diligenti, o titolari di crediti incerti, illiquidi o non scaduti, ma tuttavia muniti di prelazione. Il sacrificio imposto ai creditori in funzione dell'attuazione della par condicio potrebbe in ultima analisi giustificarsi solo quando una procedura concorsuale sia gia' iniziata e per i pagamenti successivi a tale momento. Solo allora, infatti, ha senso sostituire alla regola di diritto comune del pagamento dei debiti a scadenza (prior in tempore), quella del pagamento secondo le regole della graduazione e del riparto nel rispetto delle cause di prelazione, essendo questa una modalita' satisfattiva connaturata solo ad un procedimento esecutivo (generale ed universale) gia' in essere, e non essendo riproducibile - se non a costo di un irragionevole forzatura - quando invece il fallimento non sia stato ancora dichiarato. Per tale ragione, mentre appare del tutto coerente con le finalita' del sistema concorsuale e con le regole del diritto comune la sanzione obiettiva di inefficacia dei pagamenti prevista dall'art. 44 L.F. con riferimento a quelli effettuati o ricevuti dal fallito dopo la dichiarazione di fallimento (sanzione la cui ritenuta "obbiettivita'", peraltro, siccome derivante dall'immediata compressione dei poteri dispositivi del fallito determinata dal fallimento, prescinde dallo stato di buona o mala fede dell'accipiens e da' per cio' stesso, di conseguenza, la garanzia che l'inefficacia colpisca indiscriminatamente e paritariamente qualunque creditore); non pare esserlo altrettanto l'azione revocatoria che colpisce i pagamenti compiuti in un periodo in cui, mancando una procedura concorsuale, il debitore ha ancora la piena capacita', ed anzi l'obbligo, di compierli, ed il creditore ha la piena legittimazione, ed anzi il diritto, di riceverli. La conclusione sostanzialmente non cambia nemmeno a voler ipotizzare che l'obblio di pagamento secondo le regole della par condicio possa retroagire ad un periodo antecedente al fallimento in funzione non gia' del dato formale costituito dalla pendenza della procedura fallimentare, ma del dato sostanziale costituito dallo stato d'insolvenza in cui gia' versi il debitore. L'insolvenza di un debitore, nel diritto comune, sarebbe infatti il presupposto per una maggior tutela del singolo creditore, e non per un trattamento deteriore: e' previsto ad esempio, come si e' detto, che egli possa sospendere la sua prestazione (art. 1461 c.c.) o che possa invocare la decadenza del debitore dal beneficio del termine "esigendo immediatamente la prestazione" (art. 1186 c.c.), regola, quest'ultima, evidentemente opposta a quella in base alla quale egli dovrebbe invece rifiutare il pagamento. Inoltre, se l'anteatta insolvenza puo' giustificare, come fenomeno meramente sostanziale (per definizione non accertato dal giudice prima che intervenga la dichiarazione di fallimento), il prodursi di effetti retroattivi ricollegabili ad uno stato psicologico caratterizzato da "frode" (revoca degli atti dispositivi), al contrario non puo' affatto giustificare, da sola, la retroattivita' di un obbligo di pagamento secondo quelle regole della par condicio che possono trovare coerente applicazione solo a fallimento gia' pendente. In primo luogo perche' la soddisfazione dei creditori secondo le regole della par condicio puo' essere per definizione attuata solo per il tramite di organi giudiziari e non potrebbe mai invece demandarsi al debitore in bonis. Costui in verita' non sarebbe nemmeno in grado di effettuare i pagamenti secondo la par condicio e nemmeno ciascun singolo creditore sarebbe in grado di valutare quando il pagamento ricevuto sia rispettoso di tale principio: la stessa Cassazione, del resto, afferma che nemmeno il curatore, quando esperisce la revocatoria, sia in grado di provare (e di conseguenza non deve provare), che il pagamento oggetto di revoca sia in concreto lesivo della par condicio, giacche' solo al momento del riparto finale, redigendosi il progetto di graduazione, e' possibile in effetti stabilire se i singoli creditori abbiano diritto ad essere soddisfatti. Dal che consegue, con ragionamento a fortiori, che sarebbe a maggior ragione impossibile esigere che, dell'eventuale lesione alla parita' di trattamento, possano essere consapevoli, ex ante, il debitore o il creditore accipiens. Cio' di fatto trasforma il preteso obbligo del fallito di non pagare i suoi creditori ledendo la par condicio (ed il preteso obbligo di questi ultimi di non ricevere pagamenti che abbiano quest'attitudine lesiva), in un obbligo piu' generale di non pagare e di non ricevere. Ma sarebbe del tutto ragionevole imporre al debitore insolvente un vero e proprio obbligo di non pagare senza scriminarlo, al contempo, dall'obbligo opposto (di pagare) sanzionato dal diritto comune. Ed e' appena il caso di ricordare che nessuna norma scrimina il debitore, benche' insolvente, dall'obbligo di pagamento, ad esempio sottraendolo al rischio di risoluzione del contratto o esonerandolo dalla mora debendi. Al contrario, la stessa legge fallimentare prevede che il debitore, assoggetto a fallimento perche' insolvente, sia comunque tenuto, in quanto inadempiente, a ristorare i creditori per gli interessi moratori maturati prima del fallimento a causa del suo inadempimento (artt. 54 e 55 L.F.). In ogni caso l'insolvenza non potrebbe mai da sola, sul piano civilistico, rendere attuale un obbligo per il fallito di non pagare secondo le regole del trattamento paritario (con il corrispettivo obbligo per i creditori di rifiutare il pagamento) o addirittura un obbligo di non pagare tout court: occorrerebbe in piu' che sussistesse ancor prima un obbligo, incombente non solo sul fallito, ma anche e soprattutto sui suoi creditori, di richiederne subito il fallimento in presenza dei primi sintomi d'insolvenza, obbligo la cui esistenza, pero', e' semplicemente indimostrabile. Non basterebbe che un obbligo di tale natura facesse carico solo al fallito, perche' allora non sarebbe sufficiente a spiegare, ex altero latere, il venir meno del diritto del creditore a ricevere un pagamento in base alla lex contractus. Inoltre, almeno finche' il debitore non richiedesse il suo fallimento, il suo obbligo contrattuale di pagamento non potrebbe comunque ritenersi caducato. Che poi l'obbligo di richiedere il fallimento non possa far carico ai creditori e' di intuitiva evidenza, anche perche', tra l'altro, non avrebbe senso imporlo anche quando i creditori fossero impossibilitati a proporre istanza di fallimento: essi, ad esempio, potrebbero non essere muniti di una sentenza che avesse accertato la loro pretesa o di un altro titolo esecutivo che fosse stato gia' inutilmente azionato in sede espropriativa e quindi potrebbero non essere in grado di comprovare con successo il presunto stato di decozione del debitore, pur quando esso esista. Sarebbe peraltro contraddittorio chiedere il fallimento del proprio debitore quando costui, benche' in ipotesi insolvente, offrisse di adempiere. In conclusione, nessun creditore puo' considerarsi munito di adeguata tutela contro il rischio di revocatoria, mentre e' costretto, in caso di esercizio di quest'ultima, a restituire un pagamento che era prima legittimato a ricevere, avendone il diritto. Da cio' appunto il dubbio, da reputarsi non manifestamente infondato, di contrasto dell'art. 67, secondo comma, L.F. con l'art. 24, primo e secondo comma della Costituzione. 3.c) In via meramente consequenziale emerge peraltro anche il dubbio di un contrasto di tale norma con l'art. 41, primo comma, della Costituzione, per sospetta lesione al principio di libera intrapresa economica. Basti al riguardo considerare che, con la revoca dei pagamenti, si pretende di dare una peculiare attuazione ad un evanescente principio di solidarismo commerciale (perdippiu' facendo salve alcune categorie di creditori con vari esoneri e discriminazioni) imponendolo, retroattivamente e forzosamente, in danno di atti solutori che in nessun caso potrebbero qualificarsi come atti illeciti o riprovevoli. L'attuazione di una regola siffatta sembra percio' tradursi in una lesione alla liberta' economica, proprio in quanto pone un limite insormontabile alla autodeterminazione dei terzi contraenti del fallito anche nel libero esercizio di un'attivita' economica perfettamente lecita, non gia' impedendola direttamente nella fase della genesi negoziale, ma sanzionandola successivamente nella fase del rapporto riguardante l'esecuzione satisfattiva, si' da giocare, per questa via, come deterrente anche rispetto alla prima: non potendo negarsi che stipulare un contratto (in ipotesi irrevocabile perche' ricadente in periodo non sospetto), senza poter poi ricevere l'atteso pagamento o poterlo conservare, impedisca gia' ex ante una libera scelta del terzo contraente nella fase genetica del rapporto ed anzi lo sospinga verso una scelta di segno negativo.