LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza: 1. - Con istanza presentata in data 11 novembre 1999 il difensore di Erich Priebke ha chiesto l'applicazione - nei confronti dello stesso Priebke, condannato all'ergastolo con sentenza di questa Corte militare di appello in data 7 marzo 1998 (irr. il 16 novembre 1998) per il reato di concorso in violenza con omicidio aggravato e continuato in danno di cittadini italiani - dell'indulto di cui al d.P.R. 19 dicembre 1953, n. 922. Nell'istanza si rileva, in ordine alla applicabilita' del suddetto provvedimento di indulto: che appare certa la inerenza dei fatti per cui e' stata pronunciata sentenza di condanna agli eventi bellici; che parimenti va ritenuta sussistente la condizione soggettiva, dell'essere il condannato appartenente a "formazioni armate", in relazione alla sua qualita' di appartenente alle forze armate tedesche. Al riguardo si ritiene non condivisibile l'orientamento fatto proprio dalla Corte di cassazione (sez. un., 24 luglio 1954) che "ha inteso limitare l'applicazione del provvedimento di clemenza ai soli ''partigiani'' e agli appartenenti ai raggruppamenti armati di cittadini a carattere contingente costituitisi nel Paese, da ambo le parti contendenti, con esclusione degli appartenenti alle forze armate dello Stato e di quelle straniere". Tale interpretazione appare infatti alla difesa contrastare con il principio di ragionevolezza sancito dall'art. 3 della Costituzione, venendo a discriminare gli appartenenti alle forze armate; che per i militari italiani sarebbero stati emanati, "con riferimento a fatti in qualche modo collegati ad eventi bellici", altri provvedimenti clemenziali, per cui gli unici esclusi da qualsivoglia beneficio risulterebbero gli appartenenti alle "forze regolari" straniere, in violazione degli artt. 2 e 7 della Dich. Univ. diritti dell'uomo e di altre norme internazionali. 2. - L'istanza della difesa di Erich Priebke non puo' trovare accoglimento in base alla legislazione vigente. Ritiene infatti questa Corte di condividere pienamente l'affermazione della Corte di cassazione, Sez. un. pen., 24 luglio 1954, Cianciulli, secondo cui ai fini dell'applicazione dell'indulto concesso con l'art. 2, lett. b) del D.P. 19 dicembre 1953, n. 922, la locuzione "formazioni armate" si riferisce soltanto ai raggruppamenti armati di cittadini (forze della resistenza e fascisti collaborazionisti) costituitisi nel Paese, con carattere contingente, a seguito degli eventi bellici. Il beneficio dell'indulto non e' invece, secondo la Suprema Corte, riferibile agli appartenenti alle forze regolari, tenuti all'adempimento del proprio dovere all'infuori ed al disopra di qualsiasi ideologia o contingenza politica e, quindi, non equiparabili alle formazioni partigiane o del campo opposto. A confortare la soluzione interpretativa cui pervengono le sezioni unite convergono plurimi argomenti: la locuzione tecnica utilizzata dal legislatore, "formazioni armate", piuttosto che "formazioni militari"; la circostanza che il legislatore, quando ha voluto riferirsi agli appartenenti alle Forze armate, li ha sempre considerati distintamente dai componenti delle forze di liberazione; la ratio legis, consistente nel raggiungimento del fine di pacificazione generale degli animi e nella chiusura di un doloroso e tormentato periodo della vita nazionale. Ne' appare al riguardo assumere rilievo l'affermazione difensiva secondo cui l'ambito di applicazione del provvedimento indulgenziale in esame (tutti i reati inerenti a eventi bellici) sarebbe assai piu' esteso di quello del d.l. 29 marzo 1946, n. 3 e del r.d. 5 aprile 1944, n. 96, si' da giustificare una piu' generica e comprensiva dizione normativa. Il principio di diritto sopra indicato e' stato peraltro successivamente applicato in modo costante dalla giurisprudenza e ribadito piu' volte sia dalla Corte di cassazione che dal Tribunale supremo militare (cfr. ad. es.: Cass., sez. II, 24 gennaio 1956, Bregoli; Cass. Sez. II, 23 aprile 1956, Ferrante; Cass., Sez. I, 16 gennaio 1958, Tommaselli; T.S.M., 26 giugno 1958, Malvagni). In particolare il Tribunale supremo militare (21 febbraio 1956, Reder) ha affermato che "gli appartenenti alle forze armate tedesche non possono essere considerati, ai fini dell'applicazione del condono disposto con d.P.R. 19 dicembre 1953, n. 922, appartenenti a formazioni armate". Quanto al rilievo secondo cui, in sostanza, un militare italiano avrebbe potuto usufruire di benefici negati ad un appartenente alle forze armate tedesche, va osservato che l'assunto difensivo sembra basato su presupposti erronei. Va infatti considerato che: l'art. 7 del D.L.LGT. 29 marzo 1946, n. 132 (Amnistia e condono per reati militari) esclude dall'amnistia e dall'indulto previsti dagli articoli precedenti "i reati contro le leggi e gli usi di guerra"; parimenti esclude ogni beneficio per i reati contro le leggi e gli usi di guerra l'art. 3 del D.C.P.S. 1 marzo 1947, n. 92 (Concessione di amnistia e indulto per reati militari, in occasione del giuramento delle Forze armate); i successivi provvedimenti di amnistia e condono (a partire dal d.P.R. 9 febbraio 1948, n. 32, il cui art. 3 esclude, peraltro tutti i reati militari) non risultano aver mai distinto la posizione dell'appartenente alle Forze armate italiane dall'appartenente alle Forze armate straniere. In definitiva, poiche' il condannato Priebke faceva parte di reparti regolari dell'esercito tedesco ed era "appartenente alle forze armate nemiche" (Cass., sez. I, 10 febbraio 1997) va esclusa, nei suoi confronti, l'applicabilita' del citato provvedimento di clemenza. 3. - A parere del collegio va ritenuta rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale del citato art. 2 del d.P.R. 922/1953, nella parte in cui non estende, alle stesse condizioni, l'indulto concesso agli appartenenti alle "formazioni armate", a chi faceva parte delle forze armate. La rilevanza della questione appare anzitutto palese, dal momento che, in caso di accoglimento da parte della Corte costituzionale, il provvedimento di indulto di cui trattasi dovrebbe essere applicato nel presente procedimento di esecuzione. La suddetta questione di costituzionalita' appare inoltre non manifestamente infondata, in quanto la norma in esame stabilisce una disparita' di trattamento, priva di ragionevole giustificazione, nei confronti degli autori degli stessi crimini, in ragione soltanto della diversa condizione soggettiva, cio' in violazione dell'art. 3 della Costituzione. Va preliminarmente considerato, al riguardo, che, sulla base di valutazioni acquisite alla coscienza odierna, e sancite nelle convenzioni internazionali in tema di diritti dell'uomo e di diritto umanitario bellico, sembrerebbe radicalmente inammissibile l'emanazione, oggi, di un provvedimento normativo che preveda il condono delle pene per delitti contro l'umanita' e per crimini di guerra: le stesse disposizioni internazionali relative alla imprescrittibilita' di tali delitti confermano il carattere inderogabile della tutela penale che nella materia e' assicurata dagli ordinamenti nazionali. Cio' non esclude, tuttavia, che, nell'apprezzamento circa l'applicabilita' di norme entrate ormai comunque a far parte dell'ordinamento giuridico (e che si riferiscono peraltro solo a fatti commessi prima del 18 giugno 1946), il giudice debba tenere sempre in considerazione il rispetto del fondamentale principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. Proprio in relazione a tale principio non si vede quale giustificazione possa esservi nell'aver previsto il condono delle pene in relazione ai reati (anche gravissimi e corrispondenti a quello per cui si e' proceduto nei confronti del Priebke) commessi, ad esempio, dalle "formazioni armate" dei fascisti collaborazionisti, e nell'averlo invece escluso per i reati commessi da appartenenti a formazioni regolari delle forze armate. Cio' in particolare se si consideri che - quando il fatto sia commesso in esecuzione di un ordine superiore, come nel caso di specie - il vincolo della disciplina militare, che riguarda ovviamente in misura diversa chi fa parte di forze irregolari, se non necessariamente determina l'applicazione di esimenti o attenuanti, nemmeno sembra poter essere considerato ragione di una ritenuta maggior gravita' e quindi della esclusione dalla applicazione di provvedimenti di clemenza. Nemmeno possono essere considerati rilevanti, secondo questo collegio, per giustificare la discriminazione fra formazioni regolari e irregolari, gli argomenti utilizzati dalla Suprema Corte, nella sentenza sopra citata, relativi: alla scelta ideologica di chi militava nelle formazioni armate costituitesi spontaneamente nel periodo bellico; alla finalita' di riconciliazione nazionale. Sotto il primo profilo va comunque osservato che anche chi aderiva alle SS, come il condannato Priebke, aveva compiuto una precisa scelta ideologica e che comunque non appare plausibile che una legge della Repubblica italiana preveda un trattamento preferenziale per chi abbia agito in obbedienza al proprio credo ideologico, anche se ispirato alla dottrina fascista, rispetto al soggetto inquadrato in un reparto militare. Quanto alla finalita' di riconciliazione nazionale, va comunque osservato che, se il legislatore, nella sua discrezionalita', ha ritenuto, per soddisfare tale esigenza di riconciliazione, di condonare le pene per certi reati, avrebbe dovuto tuttavia prevedere lo stesso trattamento di favore per tutti, gli autori degli stessi reati, senza dar luogo a discriminazioni di trattamento che, in quanto basate su presupposti non oggettivi, ma inerenti alle qualita' personali dell'agente, appaiono comunque odiose e inammissibili. In ultimo va anche considerato che le precedenti osservazioni, se valgono per gli appartenenti alle Forze Armate dello Stato, non possono non valere anche per i militari nemici, ai quali si applicano, ai sensi dell'art. 13 c.p.m.g., le stesse disposizioni, relative alla perseguibilita' dei crimini di guerra, che valgono per i militari italiani, e ai quali non possono quindi non applicarsi, nelle stesse condizioni, eventuali provvedimenti di clemenza. A tal fine puo' richiamarsi anche, nell'ambito della normativa internazionale, l'art. 75 del I Protocollo aggiuntivo alle Convezioni di Ginevra (ratificato con legge 11 dicembre 1985, n. 762) secondo cui non e' ammessa, nei confronti delle persone in potere di una parte in conflitto, alcuna distinzione di carattere sfavorevole fondata sulla origine nazionale.