IL TRIBUNALE 
 
    Riunito in camera di consiglio all'esito della  riserva  espressa
nell'udienza camerale del 5 ottobre 2012 elette le note  autorizzate,
ha pronunziato la seguente ordinanza, nella causa civile iscritta  al
n. 34698 del Ruolo Generale degli Affari Contenziosi  dell'anno  2011
avente ad oggetto: contenzioso elettorale 
e vertente tra 
    C. R., rappresentato e  difeso,  giuste  procure  a  margine  del
ricorso e della memoria difensiva, dagli avvocati Alfonso  Capotorto,
Ciro Sito ed Alfonso Vuolo ed  elettivamente  domiciliato  presso  lo
studio degli avvocati Alfonso Capotorto e Ciro Sito ubicato in Napoli
al Centro Direzionale Is. E/2, ricorrente,e 
    Regione Campania, in persona del legale rappresentante Presidente
pro tempore della giunta Regionale, rappresentata e difesa  dall'avv.
Corrado  Grande,   giusta   procura   generale   ad   lites   nonche'
provvedimento autorizzativo e con la stessa elettivamente domiciliato
in Napoli alla via S. Lucia n. 81, controricorrente, 
    e S. C., rappresentato e difeso, in virtu' di procura  a  margine
della comparsa di costituzione, dall'avv.  Antonio  Manfredi  con  il
quale elettivamente domicilia presso lo  studio  dell'avv.  Salvatore
Della Corte sito  in  Napoli  alla  via  Vittorio  Veneto  n.  288/A,
controricorrente, 
    nonche' il Pubblico Ministero presso il Tribunale  di  Napoli  in
persona del sostituto procuratore della Repubblica  dott.ssa  Valeria
Gonzales y Reyero, interventore ex lege 
 
                              F a t t o 
 
    Con ricorso, proposto ex art. 22 d.lgs. n. 150/2011 e  depositato
il 5 dicembre 2011, C. R. rappresentava che: 
        nella  qualita'  di  Consigliere  Regionale  della   Campania
nell'attuale legislatura, ha subito un procedimento di  contestazione
definitiva di incompatibilita' alla  carica  ricoperta,  formalizzato
con Delibera adottata nella seduta del  Consiglio  Regionale  del  1°
agosto 2011 e notificatagli il successivo 3 agosto 2011; 
        il relativo procedimento non veniva concluso  in  alcun  modo
sicche' il Tribunale  di  Napoli  dichiarava  l'inammissibilita'  del
ricorso  r.g.  n.  29988/11   proposto   per   la   declaratoria   di
illegittimita' del predetto procedimento della Regione; 
        frattanto veniva pubblicato sul BURC n.  67  del  25  ottobre
2011, l'art. 9, comma 5 della legge regionale n.  1  del  19  gennaio
2007, cosi' come modificato dalla legge regionale n. 16/2011; 
        in virtu' di tale modifica normativa, veniva notificata al C.
in data 9 novembre 2011, la delibera del  Consiglio  Regionale  della
Campania  del  27  ottobre  2011  recante  la  presa   d'atto   della
sospensione dalla carica di consigliere regionale per tutta la durata
della consiliatura, ai sensi dell'art. 9 legge regionale  n.  1/2007,
come modificata dalla legge regionale n. 16/2011. 
    Pertanto  il  ricorrente  proponeva   ricorso   avverso   e   per
l'annullamento o  la  disapplicazione  della  delibera  in  questione
nonche' per la declaratoria del suo diritto a rivestire la carica  di
consigliere regionale stante l'incostituzionalita' della normativa di
sospensione applicata. 
    Nelle  conclusioni  dell'atto  introduttivo  chiedeva,   in   via
preliminare,  sollevarsi  questione  di  legittimita'  costituzionale
della legge regionale della Campania, reintegrando, in via cautelare,
il ricorrente nelle funzioni nelle more della decisione  della  Corte
costituzionale ed, all'esito della  declaratoria  di  illegittimita',
reintegrarsi,  in  via  definitiva,  il  predetto  nella  carica   di
consigliere regionale della Campania. 
    Si costituivano la Regione Campania e S. C.  che  eccepivano,  in
via  preliminare,  l'inammissibilita'  del  ricorso  e,  nel  merito,
l'infondatezza dello stesso. 
    All'udienza del 13  aprile  2012,  su  richiesta  concorde  delle
parti, il procedimento era sospeso, ex art. 297 c.p.c., per la durata
di tre mesi e rinviato all'udienza del 5 ottobre 2012. 
    Con memoria depositata il 3 ottobre 2012 si  costituiva,  per  il
C., in aggiunta ai precedenti, un  altro  difensore  che  chiedeva  a
questo Tribunale di: 
        dichiarare   l'illegittimita'   della   delibera   consiliare
impugnata in quanto nulla/inesistente  per  inesistenza  della  legge
regionale di cui costituiva applicazione e per l'effetto  reintegrare
- se del caso anche mediante pronuncia  cautelare  nelle  more  della
pubblicazione della decisione - il C. nel pieno esercizio  delle  sue
funzioni di consigliere regionale della Campania; 
        in via subordinata sollevare  la  questione  di  legittimita'
costituzionale della legge regionale della  Campania  n.  16  dell'11
ottobre 2011 sotto tutti i profili illustrati negli  atti  di  causa,
reintegrando, in via cautelare il ricorrente,  nelle  funzioni  nelle
more della decisione del Giudice delle Leggi ed,  all'esito  di  tale
pronuncia,  reintegrare  definitivamente  il  C.  nella   carica   di
consigliere regionale della Campania. 
    All'udienza camerale del 5 ottobre  2012  la  difesa  del  C.  ha
insistito nella  richiesta  di  reintegra  nell'esercizio  delle  sue
funzioni attesa  la  nullita'  e/o  inesistenza  della  delibera  del
Consiglio Regionale che ne ha decretato la sospensione in  quanto  il
suddetto vizio deriverebbe dalla nullita' o inesistenza  della  legge
regionale nel testo  rettificato  nel  Bollettino  Ufficiale  di  cui
costituiva applicazione; in subordine ha chiesto sollevarsi questione
di  legittimita'  costituzionale  e,   nelle   more,   adottarsi   un
provvedimento  cautelare  di  reintegra  nell'esercizio   delle   sue
funzioni. 
    La difesa del S. ha chiesto al Tribunale  di  non  anticipare  il
giudizio della Corte costituzionale. 
    Il Pubblico Ministero ha chiesto confermarsi la  sospensione  del
giudizio in attesa della decisione  della  Corte  costituzionale  sul
conflitto di attribuzione tra lo Stato  e  la  Regione  Campania;  in
subordine,   in   relazione   ai   motivi    nuovi,    ha    rilevato
l'inammissibilita'  degli  stessi  e,  nel  merito,   ritenendo   non
manifestamente fondata la questione di  legittimita'  costituzionale,
ha chiesto il rigetto del ricorso. 
 
                        Questioni processuali 
 
Sulla richiesta del Pubblico Ministero di sospensione del giudizio. 
    Ritiene il Collegio non meritevole di accoglimento l'istanza  del
Pubblico Ministero di sospensione del presente procedimento in attesa
della definizione, da parte della Corte costituzionale del  conflitto
di attribuzione tra Stato e Regione a seguito del ricorso  depositato
il 20 dicembre 2011 (udienza pubblica fissata per il 29 gennaio 2013)
perche', essendo stata la richiesta formulata ai sensi dell'art.  296
c.p.c., non sussistono i  presupposti  normativi  per  l'applicazione
della disposizione invocata. 
    Infatti, mentre  all'udienza  del  13  aprile  2012  su  concorde
richiesta delle parti il processo e' stato sospeso per  tre  mesi  ai
sensi della disposizione invocata, alla successiva udienza,  solo  il
Pubblico Ministero ha chiesto la reiterazione di  detta  sospensione,
tra l'altro, non consentita dal legislatore. 
    Pertanto va disattesa l'istanza de qua. 
    Per mera completezza di  motivazione  va,  comunque,  evidenziato
che, nel caso in esame, non ricorrono neppure i  presupposti  per  la
sospensione necessaria del giudizio contemplata dall'art. 295  c.p.c.
che recita «E giudice dispone che il processo  sia  sospeso  in  ogni
caso  in  cui  egli  stesso  o  altro  giudice  deve  risolvere   una
controversia  dalla  cui  definizione  dipende  la  decisione   della
causa.». 
    Infatti secondo  una  pronuncia  della  Suprema  Corte  piuttosto
risalente nel tempo (cfr. Cass. Civ. Sez. I, 1° aprile 1992, n. 3922)
-  emessa  con  riferimento  al  caso  in  cui  penda   giudizio   di
costituzionalita' di una norma  ed  in  relazione  alla  formulazione
dell'art. 295 c.p.c., prima della sostituzione  di  cui  all'art.  35
legge n. 353/1990 - «... la soluzione del dubbio se una norma  sia  o
no contraria alla  costituzione,  soluzione  appunto  riservata  alla
Corte  costituzionale,  non  puo'  equipararsi  alla  risoluzione  di
un'altra  controversia,  civile  o  amministrativa,  in   quanto   la
decisione della Corte costituzionale non risolve mai direttamente  ed
immediatamente una controversia, nemmeno quella che era di fronte  al
giudice della rimessione a norma dell'art. 23 legge n. 87/1953.». 
    Piu' di recente i Giudici di legittimita' (Cass. Civ. Sez. VI  n.
170 del 30  settembre  2011)  hanno  ribadito  che  «l'ipotesi  della
sospensione necessaria del processo,  che  non  sia  imposta  da  una
specifica  disposizione  di  legge,  ha  per  fondamento   non   solo
l'indispensabilita'   logica   dell'antecedente,   avente   carattere
pregiudiziale  nel  senso   che   la   definizione   della   relativa
controversia si ponga come momento ineliminabile del processo  logico
della causa dipendente, prendendo questa contenuto  anche  da  quanto
affermato con la pronuncia sulla controversia pregiudiziale ma  anche
l'indispensabilita'   giuridica   nel   senso   che    l'accertamento
dell'antecedente logico venga postulato con effetto di giudicato, per
modo che possa eventualmente verificarsi conflitto di giudicati.». 
    Applicando i  principi  esposti  al  caso  in  esame  e'  agevole
desumere che la risoluzione del  conflitto  di  attribuzione  tra  lo
Stato e la Regione non solo non costituisce un momento  ineliminabile
del processo logico del presente procedimento, atteso che quand'anche
la  Corte  risolvesse  il  conflitto  riconoscendo  la   potesta'   a
legiferare della Regione, tale decisione non  esaurirebbe,  comunque,
tutti gli altri possibili profili di incostituzionalita' della norma,
ma anche perche' la decisione della  Corte  non  produrrebbe  effetti
decisivi sulla controversia in  esame  e,  quindi,  giammai  potrebbe
verificarsi un contrasto di giudicati. 
Sull'ammissibilita' del ricorso. 
    Va premesso che, per orientamento  del  tutto  consolidato  nella
giurisprudenza di legittimita' (cfr. Cass. n. 6153 del 1996; Cass. n.
13588 del 2000; Cass. n. 5323 del 2004; Cass. Sez. I n. 9533  del  12
giugno 2012), nel contenzioso elettorale, il  giudice  ordinario  non
esercita una  giurisdizione  di  annullamento,  perche'  la  delibera
consiliare non costituisce l'oggetto,  ma  un  mero  presupposto  del
giudizio, che tende alla tutela del diritto soggettivo violato. 
    Orbene,  considerato  che  il  ricorrente  ha  chiesto,  in   via
alternativa, l'annullamento o la disapplicazione della delibera ed in
quest'ultima   ipotesi   ha   invocato   il    previo    vaglio    di
costituzionalita' ad opera del Giudice delle leggi, del  tutto  privi
di pregio si appalesano i rilievi  di  inammissibilita'  del  ricorso
prospettati dal controinteressato S. 
    Infatti   non   ignora   il   Collegio   che,   per   consolidata
giurisprudenza costituzionale formatasi in merito alla sospensione ex
art, 15 della legge n. 55/1990, assimilabile a  quella  applicata  al
caso in questione, il  provvedimento  amministrativo  con  cui  viene
acclarato l'intervenuto effetto sospensivo connesso alla condanna non
definitiva per alcune ipotesi di reato ha valore di mera presa d'atto
di un effetto che si ricollega di diritto al dettato normativo. 
    Pertanto, promanando l'effetto sospensivo direttamente  dall'art.
9 legge regionale n. 1/2007, come modificato dalla legge regionale n.
16/2011, il ricorso de quo  costituisce  l'unico  rimedio  esperibile
dall'istante per ottenere,  previo  accertamento  dell'illegittimita'
costituzionale della legge,  l'eliminazione  dell'effetto  sospensivo
della carica di consigliere regionale. 
    Sull'ammissibilita' di motivi nuovi e/o aggiunti al ricorso. 
    Osserva  preliminarmente  il  Collegio  che,   come   si   ricava
agevolmente   dalla   concisa   esposizione   dello   sviluppo    del
procedimento, parte ricorrente, sulla base di motivi, in gran  parte,
nuovi ed esposti in una memoria depositata ben oltre il deposito  del
ricorso, ha modificato  le  originarie  richieste  cristallizate  nel
primo atto difensivo e, nel corso dell'ultima  udienza  camerale,  ha
ribadito le istanze difensive illustrate nella memoria in questione. 
    Orbene e' evidente che l'iniziale richiesta di annullamento o  di
disapplicazione di delibera consiliare fondata su di un solo motivo -
costituito  dalla  prospettata  illegittimita'  costituzionale  della
normativa di cui l'atto costituirebbe  mera  applicazione  -  e'  ben
diversa dalla successiva  richiesta  diretta  alla  dichiarazione  di
illegittimita' della delibera  de  qua  per  prospettata  nullita'  o
inesistenza della legge regionale. Cio' e'  tanto  piu'  vero  se  si
considera che se e' indubbio che, in  entrambi  gli  atti  difensivi,
l'ulteriore consequenziale richiesta e' quella della reintegra del C.
nel pieno esercizio delle sue funzioni di consigliere regionale della
Campania, e' anche certo che,  mentre  nel  ricorso,  tale  risultato
viene richiesto, in via principale, attraverso la  previa  rimessione
degli atti al Giudice delle Leggi per  il  giudizio  di  legittimita'
costituzionale della normativa  regionale  e  la  reintegra,  in  via
cautelare,  del  ricorrente  nelle  more  della  decisione  su  detta
questione,  nell'ulteriore  memoria  difensiva  tale  effetto   viene
richiesto, in via principale, mediante  una  pronuncia  cautelare  da
adottarsi nelle more della pubblicazione della decisione del  giudice
a  quo  e,  solo  in  via  subordinata,  attraverso  il  giudizio  di
legittimita' costituzionale. 
    Tra l'altro va evidenziato che l'ulteriore domanda del ricorrente
- volta ad ottenere la definitiva reintegra del C.  nella  carica  di
consigliere regionale -  e'  prospettata,  in  entrambi  gli  scritti
difensivi,  come  imprescindibile  conseguenza  della  pronuncia   di
incostituzionalita' della normativa regionale. 
    Tanto premesso, considerati anche  i  rilievi  della  difesa  del
controinteressato S. nonche' del Pubblico Ministero, il Tribunale  e'
chiamato a stabilire se la peculiarita' del rito - di recente  scelto
dal legislatore per la controversia in oggetto - consenta il deposito
di una memoria contenente  motivi  aggiunti  e/o  diversi  da  quelli
contenuti in ricorso. 
    L'esame del quesito impone di ricordare che il  procedimento  del
contenzioso elettorale e' stato novellato  dal  d.lgs.  1°  settembre
2011, n. 150 - pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 21 settembre 2011,
n. 220, ed in vigore dal 6 ottobre  2011  -  contenente  disposizioni
complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e
semplificazione  dei  procedimenti  civili  di  cognizione  ai  sensi
dell'art. 54 della legge 18 giugno 2009, n. 69. 
    Per effetto di tale normativa - applicabile ratione  temporis  al
giudizio in esame ai sensi all'art. 36 comma  1  del  citato  decreto
legislativo, essendo stato il ricorso proposto il 5 dicembre  2011  -
in particolare in base all'art. 22, le  controversie  in  materia  di
eleggibilita', decadenza ed incompatibilita' nelle elezioni comunali,
provinciali  e  regionali,  sono  regolate  dal  rito   sommario   di
cognizione, ove non diversamente disposto dal citato articolo. 
    Va precisato, altresi', che per effetto  del  combinato  disposto
degli articoli 3 e  22  del  decreto  legislativo  e  degli  articoli
702-bis e ter c.p.c, il rito speciale da applicarsi alla  fattispecie
in esame, sebbene inserito nella tipologia del procedimento  sommario
di cognizione (contemplato nel capo III-bis aggiunto al Titolo I  del
Libro Quarto del Codice di rito), presenta una serie di  peculiarita'
tali da renderlo  contrassegnato,  per  un  verso,  da  una  maggiore
celerita' in ragione della  rilevanza  della  materia  elettorale  da
trattare e, per un altro, da una maggiore  garanzia  di  ponderatezza
della decisione attraverso la collegialita' della stessa. 
    Volendosi soffermare, in estrema sintesi, sulle peculiarita' piu'
significative  del  rito  da  applicare  al  caso  sub   iudice,   va
evidenziato che: la domanda, da proporsi con ricorso, deve  contenere
i requisiti di cui agli articoli 1, 2, 3, 4, 5, 6 e l'avvertimento di
cui all'art. 7 del terzo comma dell'art. 163 c.p.c.; la competenza  a
decidere -  come  gia'  detto  -  e'  collegiale  con  partecipazione
necessaria del Pubblico Ministero; sono previsti termini brevi per la
notifica del ricorso e per la costituzione delle parti e tali termini
sono tutti  perentori;  non  e'  possibile  ne'  una  valutazione  di
ammissibilita' della domanda in punto di rito ne' il mutamento  dello
stesso;  e'  consentita  un'istruttoria  priva  di   formalita';   la
controversia deve essere trattata, in ogni grado, in via d'urgenza. 
    Orbene dalla previsione legislativa della natura  perentoria  dei
termini  per  la  costituzione  delle  parti  deriva,  come  naturale
conseguenza processuale, la cristallizzazione del thema decidendum in
quello risultante dai rispettivi atti difensivi  (ricorso  e  memorie
dei controinteressati) e, dunque, la conseguente inammissibilita'  di
qualsiasi mutamento dell'originaria domanda. 
    Soccorre,  in  proposito,  la  giurisprudenza  di   legittimita',
formatasi  per  lo  piu'  in   riferimento   al   rito   del   lavoro
caratterizzato da una rigorosa scansione di termini  per  l'esercizio
di facolta' processuali e, come tale, piu' vicino al rito speciale in
esame. In particolare, in alcune decisioni, i Supremi  Giudici  hanno
detto che: «Nel rito del lavoro, mentre  e'  consentita  -  sia  pure
previa autorizzazione del giudice - la  modificazione  della  domanda
(emendatio libelli),  non  e'  ammissibile  la  proposizione  di  una
domanda nuova per mutamento della "causa petendi"  o  del  "petitum",
neppure con il consenso della controparte  manifestato  espressamente
con l'esplicita accettazione del  contraddittorio  od  implicitamente
con la difesa nel merito. La mutatio libelli non consentita dall'art.
420  c.p.c.  e'  solo  quella  che  si   traduce   in   una   pretesa
obiettivamente  diversa  da  quella  originaria,   introducendo   nel
processo  un  tema  di  indagine  completamente  nuovo,  in  modo  da
determinare uno spostamento dei termini della contestazione,  con  la
conseguenza di disorientare la difesa predisposta dalla  controparte,
e,  quindi,  di  alterare  il  regolare  svolgimento  del   processo,
sussistendo, invece, soltanto una emendatio quando la modifica  della
domanda iniziale incide sulla "causa petendi" unicamente nel senso di
una diversa interpretazione  o  qualificazione  giuridica  del  fatto
costitutivo del  diritto  e  sul  "petitum"  nel  solo  senso  di  un
ampliamento o di una limitazione di questo, al fine di renderlo  piu'
idoneo al concreto ed effettivo soddisfacimento della  pretesa  fatta
valere in giudizio» (cfr. tra le altre Cass. Civ. Sez. lav. 8 ottobre
2007,  n.  21017,  in   Giust.   Civ.   Mass.   2007,10)   o   ancora
«L'introduzione di un diverso fatto costitutivo  della  pretesa,  pur
potendo comportare le stesse conseguenze, in tema di attribuzione del
bene della vita, costituisce domanda nuova.  E'  possibile,  infatti,
che da una sola  situazione  scaturisca  una  pluralita'  di  diritti
connotati da requisiti propri e suscettibili di  formare  oggetto  di
domande diverse, mentre  puo'  considerarsi  virtualmente  in  quella
originaria solo la domanda  fondata  su  fatti  e  comportamenti  non
diversi,  per  consistenza  ontologica,  struttura  e  qualificazione
giuridica, da quelli prospettati con la domanda originaria e  diretta
a precisarne o restringerne il "petitum".» (Cass, Civ. Sez. 4 ottobre
2007, n. 20798, in Guida al Diritto 2008,1,41). 
    Ebbene, applicando i  principi  esposti  al  caso  in  esame,  il
Collegio ritiene che, dal raffronto tra la causa petendi  di  cui  al
ricorso  e  quella  di  cui  alla  memoria,  emerga  una  sostanziale
diversita' dal  momento  che,  mentre  nel  primo  atto,  l'unico  ed
assorbente profilo per annullare  e/o  disapplicare  la  delibera  e'
l'illegittimita' costituzionale della legge regionale  sull'implicito
presupposto  del  regolarita'   formale   e   sostanziale   dell'iter
procedimentale per l'adozione e per la  proclamazione  della  stessa,
nel  secondo  atto  l'unico  ed  assorbente  profilo  per  dichiarare
illegittima la delibera e' costituito, al contrario, da vizi  formali
e/o  sostanziali  del  procedimento  per  la  promulgazione  e/o   di
approvazione della stessa. Di conseguenza il  risultato  invocato  in
entrambi gli atti, cioe'  il  petitum  (costituito  dalla  reintegra,
prima, in via cautelare e, poi, in via  definitiva  nella  carica  di
consigliere regionale),  nel  primo  atto,  presuppone  l'investitura
della Corte costituzionale della relativa questione  e,  nel  secondo
atto, prescinde del tutto dalla stessa. 
    Una volta stabilito il principio in forza del quale, ai fini  che
occupano, non  possono  essere  presi  in  considerazioni  i  rilievi
difensivi esposti nella citata memoria,  va  poi  accertato  se,  nel
rassegnare le conclusioni a verbale la difesa del C. abbia, comunque,
inteso  insistere  nelle  sue   richieste   formulate   nel   ricorso
introduttivo. 
    Ebbene, considerato che, seppure in  via  subordinata,  l'istante
ha, comunque, ribadito la  sua  richiesta  di  rimettere  alla  Corte
costituzionale il vaglio di legittimita'  della  legge  regionale  in
esame e le ulteriori istanze consequenziali, il Collegio  ritiene  di
essere  tutt'ora  chiamato  ad  esaminare  la   domanda   cos/   come
originariamente formulata. 
 
                      Merito della controversia 
 
1. Ricostruzione della vicenda sulla base delle  deduzioni  difensive
non contestate e/o della documentazione in atti. 
    C.  R.  ha  impugnato,  per  ottenerne  l'annullamento   e/o   la
disapplicazione, la delibera del Consiglio Regionale  della  Campania
del 27 ottobre 2011 - notificata il 9 novembre 2011 - nella quale  lo
stesso Consiglio ha preso atto della sospensione del  predetto  dalla
carica di consigliere regionale ai  sensi  dell'art.  9  della  legge
regionale del 19 gennaio 2007, n. 1 (Disposizioni per  la  formazione
del bilancio annuale e pluriennale della  Regione  Campania  -  Legge
Finanziaria regionale 2007) come modificata ed integrata dalla  legge
regionale 11 ottobre 2011, n. 16. 
    In detta delibera si da' atto che il 18 ottobre 2011  e'  entrata
in vigore la disposizione della legge citata che recita  testualmente
«i consiglieri regionali che  hanno  riportato  condanna,  anche  non
definitiva per il delitto di cui all'art. 416-bis del  codice  penale
restano sospesi dalla  carica  fino  alla  sentenza  definitiva».  In
virtu'   di   detta   disposizione   il   Consiglio   prendeva   atto
dell'intervenuta sospensione dal momento che il ricorrente era  stato
condannato, il 4 giugno 2009,  dal  g.u.p.  presso  il  Tribunale  di
Napoli alla pena di anni due e mesi otto di reclusione per i reati di
cui agli articoli 110-416-bis commi primo,  secondo,  terzo,  quarto,
quinto ed ottavo del codice penale ascritti nella richiesta di rinvio
a giudizio della Procura della  Repubblica  presso  il  Tribunale  di
Napoli, proc. pen. n. 54040/08 con esclusione dell'aggravante di  cui
all'art. 416-bis comma 6 del codice penale. 
    A fondamento dell'azione promossa il ricorrente ha esposto che: 
        e' stato  eletto  consigliere  regionale  della  Campania  in
occasione della competizione elettorale del 2010; 
        in  forza  di  un  precedente  provvedimento  di  sospensione
(adottato l'8 maggio 2010 dalla Presidenza del Consiglio dei ministri
per il periodo di diciotto mesi a decorrere dal 18 aprile 2010,  data
di avvenuta proclamazione degli eletti, ai sensi dell'art.  15  comma
4-bis della legge n.  55  del  19  marzo  1990,  avendo  il  predetto
riportato la gia' menzionata condanna del 4 giugno 2009,  soggetta  a
gravame) al suo posto siede S. C.; 
        l'istante  ha  subito  un   procedimento   di   contestazione
definitiva di incompatibilita' con la delibera adottata dal Consiglio
Regionale del 1° agosto 2011 che,  tuttavia,  non  veniva  portato  a
termine; 
        dopo la pausa estiva, a seguito di una proposta  di  modifica
dell'art. 9 legge regionale del 19 gennaio 2007 era aggiunto  a  tale
disposizione normativa un ultimo comma del seguente  tenore  testuale
«5. La disposizione di cui al comma  4  non  trova  applicazione  nei
confronti di coloro che hanno riportato condanna anche non definitiva
per il delitto previsto dall'art. 416-bis del codice  penale,  per  i
quali,  nelle  more  dell'approvazione  della   legge   organica   di
disciplina  dei  casi  di  ineleggibilita'  ed  incompatibilita'  del
Presidente, dei componenti della Giunta e dei Consiglieri  regionali,
si applicano le disposizioni della  legge  23  aprile  1981,  n.  154
(Norme in materia di ineleggibilita' ed incompatibilita' alle cariche
di Consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale ed
in materia di incompatibilita' degli addetti  al  Servizio  sanitario
nazionale)»; 
        tale norma, pubblicata nel BURC n. 64 del  17  ottobre  2011,
era ripubblicata nel BURC n. 67  del  25  ottobre  2011  recante  tra
l'altro «Errata corrige legge regionale 11 ottobre 2011, n. 16» ed il
testo corretto era quello posto a  base  della  delibera  oggetto  di
impugnativa. 
2. Profili di incostituzionalita' prospettati dalla difesa del  Conte
ed i rilevi dei controricorrenti. 
    Va premesso che, sebbene nelle conclusioni del suo ricorso, il C.
chieda che venga sollevata questione di  legittimita'  costituzionale
dell'intera legge regionale della  Campania  n.  16  dell'11  ottobre
2011, in realta', alla luce  delle  specifiche  doglianze  illustrate
nell'atto difensivo, il Collegio ritiene che l'istante  abbia  inteso
agire per  ottenere  l'eliminazione  dal  mondo  giuridico  solo  del
disposto della legge regionale di cui all'art. 1, comma 1 - nel testo
corretto ed oggetto di ripubblicazione nel  BURC  -  e  recepito  nel
comma 5 dell'art. 9 della legge regionale n. 1/2007. 
    Cio' detto, va evidenziato, in estrema sintesi, che i profili  di
incostituzionalita' sarebbero integrati  dal  contrasto  della  norma
indicata con: 
        1) gli articoli 117, secondo comma, lettera h) e lettera l) e
122 Cost., per avere la regione legiferato in materia riservata  alla
competenza statale; 
        2) gli articoli  2  e  3  Cost.:  a)  per  la  disparita'  di
trattamento dei consiglieri  regionali  della  Campania  rispetto  ai
consiglieri regionali di altra regione, posto che la normativa per la
prevenzione della delinquenza di tipo mafioso sarebbe  di  competenza
statale ed uniforme su tutto  il  territorio  nazionale;  b)  per  la
disparita' di trattamento tra i consiglieri regionali della Campania,
sottoposti a procedimento  penale  per  l'ipotesi  di  reato  di  cui
all'art. 416-bis c.p., e quelli perseguiti per tutte le altre ipotesi
criminose di pari gravita' della legge statale  n.  55/1990,  per  le
quali  non  sarebbe  previsto  alcun  inasprimento  del   regime   di
sospensione; c) per il mancato rispetto dei  criteri  di  necessita',
adeguatezza e proporzionalita' delle  ipotesi  previste  nella  legge
regionale rispetto allo scopo perseguito dal legislatore,  posto  che
la sospensione finirebbe con l'avere pari durata rispetto al  mandato
elettorale terminando con l'adozione della sentenza definitiva; 
        3) gli articoli  24  e  113  Cost.  per  l'automatismo  della
sospensione associato alla sua  durata  pari  a  quella  del  mandato
elettivo  dal  momento  che  sarebbe  sottratta  all'interessato   la
possibilita' di far valere concretamente le proprie ragioni  in  sede
amministrativa e di giurisdizione amministrativa contro la misura  di
sospensione; 
        4) la presunzione di non  colpevolezza  di  cui  all'art.  27
secondo comma Cost., dal momento che, per la durata della sospensione
equiparata a quella della durata del mandato, la misura  verrebbe  ad
assumere il carattere di una vera e propria  sanzione  anticipata  in
contrasto con la funzione cautelare della stessa; 
        5)  i  principi  di  imparzialita'  e   di   buon   andamento
dell'amministrazione  di  cui  all'art.  97  Cost.,  per  il   rigido
automatismo della sospensione tale da escludere ogni possibilita'  di
apprezzamento,   in   concreto,   da    parte    dell'amministrazione
dell'adeguatezza della misura al caso concreto, sia, sotto il profilo
della gravita' del reato, che, sotto quello della sua connessione con
la funzione della vita dell'organo elettivo interessato; 
        6) gli articoli 2 e 51 Cost., perche', data l'assenza  di  un
termine finale certo e la  piu'  che  probabile  parificazione  della
sospensione all'intero mandato elettivo, la sospensione costituirebbe
una limitazione del diritto di  elettorato  passivo  non  rispondente
all'esigenza  di  salvaguardare  altri  beni  o  interessi  parimenti
tutelati dalla Costituzione ed a quella della stretta  strumentalita'
rispetto all'obiettivo perseguito. 
    Dal canto suo la difesa del  S.  ha  puntualmente  contrastato  i
rilievi del ricorrente sulla base delle considerazioni sinteticamente
riportate: 
        1) in materia di cause di sospensione dalle cariche  elettive
non vi e' un'espressa riserva di legge statale e, pertanto, ai  sensi
dell'art. 117, quarto comma Cost., legittimamente la Regione Campania
ha legiferato in detta materia; 
        2) quand'anche  si  volesse  ritenere  la  materia  in  esame
rientrante nell'ambito di quelle oggetto di legislazione  concorrente
tra lo Stato e  la  Regione,  in  assenza  di  principi  generali  di
provenienza   statale,   l'attivita'   legislativa   regionale    non
incontrerebbe alcuna limitazione; 
        3)  la  durata  della  sospensione  dalla   carica   non   e'
commisurata alla durata del mandato perche'  la  sentenza  definitiva
ben potrebbe intervenire prima della scadenza del mandato elettivo; 
        4) non vi sarebbe diversita' di trattamento tra i consiglieri
della regione Campania, condannati con sentenza non  definitiva,  per
il delitto di cui  all'art.  416-bis  c.p.  con  quelli  delle  altre
regioni perche' gli amministratori locali ben potrebbero attivare  la
propria  competenza  legislativa  e  perche',  data  la   particolare
situazione della regione  Campania,  in  cui  piu'  frequente  e'  il
fenomeno dell'infiltrazione della  malavita  organizzata  nell'ambito
delle  istituzioni,  non  sarebbe  irragionevole  una  diversita'  di
trattamento tra i consiglieri sottoposti a procedimenti penali per il
delitto di cui all'art. 416-bis c.p. rispetto a quelli perseguiti  in
tutte le altre ipotesi criminose considerate dalla legge  statale  n.
55 del 1990. 
Sulla  giurisdizione  del  giudice  adito  e  sulla  rilevanza  della
questione di legittimita' rispetto all'oggetto del giudizio. 
    Una  volta  stabilito  che   le   uniche   doglianze   sottoposte
all'attenzione del Collegio sono costituite dai  prospettati  rilievi
di incostituzionalita' della normativa in esame, la  prima  questione
da risolvere e' quella dell'esatta individuazione del petitum. 
    E' noto, infatti, che il secondo comma dell'art. 23  della  legge
11 marzo 1953, n. 87, stabilisce  che  «l'autorita'  giurisdizionale,
qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla
risoluzione della questione  di  legittimita'  costituzionale  o  non
ritenga che la  questione  sollevata  sia  manifestamente  infondata,
emette ordinanza con, la quale, riferiti i termini ed i motivi  della
istanza con  cui  fu  sollevata  la  questione,  dispone  l'immediata
trasmissione degli atti  alla  Corte  costituzionale  e  sospende  il
giudizio in corso». 
    Pertanto, se dalla  valutazione  dell'oggetto  della  domanda  in
relazione alla  normativa  vigente  ed  ai  consolidati  orientamenti
giurisprudenziali  consegue  l'infondatezza,  e'  evidente   che   la
questione di legittimita'  costituzionale  si  appalesa  prima  facie
irrilevante dal momento che il giudizio ben puo' -  ed  anzi  deve  -
essere definito indipendentemente dalla risoluzione della stessa. 
    Fatte queste doverose premesse, per una piu' esatta  comprensione
dei  termini  del  problema,   e'   opportuno   un   breve   excursus
sull'evoluzione  normativa  in  materia  di  ineleggibilita'   e   di
incompatibilita' alle cariche di consigliere regionale. 
    Sia  prima  della  modifica  dell'art.  122  Cost.,  per  effetto
dell'art. 2 legge Cost. 22 novembre 1999,  n.  1  (in  vigore  dal  6
gennaio 2000) che dopo detta  modifica,  per  effetto  dell'art.  274
comma 1 lettera l) del d.lgs. 18 agosto 2000, n.  267,  le  cause  di
ineleggibilita' e di incompatibilita'  alle  cariche  di  consigliere
regionale sono state, da ultimo, disciplinate dalla legge  23  aprile
1981, n. 154, che, agli articoli 2, 3, 4 ed 8, contempla dette cause,
all'art.  6  le  conseguenze  della  perdita  delle   condizioni   di
eleggibilita' e della sussistenza di cause  di  incompatibilita'  ed,
infine, all'art. 7 il procedimento di contestazione di una  causa  di
ineleggibilita' sopravvenuta  o  di  una  causa  di  incompatibilita'
antecedente e/o sopravvenuta. 
    Con la novella del primo comma dell'art. 122 Cost., come e' noto,
e' stato riconosciuto alle Regioni il potere di legiferare in  ordine
al  sistema  di  elezione  ed  ai  casi  di  ineleggibilita'   e   di
incompatibilita' del Presidente e degli altri componenti della Giunta
regionale nonche' dei consiglieri regionali nei limiti  dei  principi
fondamentali stabiliti con la legge della Repubblica  che  stabilisce
anche la durata degli organi elettivi. 
    In  attuazione  di  quanto  disposto  da  tale  norma  e'   stata
promulgata la legge 2 luglio 2004, n. 165, che, agli articoli 2  e  3
ha  previsto   le   disposizioni   di   principio   in   materia   di
ineleggibilita' e di incompatibilita'. 
    Orbene, come detto,  pur  dopo  la  modifica  della  disposizione
costituzionale, sino alla data - di entrata  in  vigore  della  legge
regionale 19 gennaio 2007, n.  1  (contenente  «Disposizioni  per  la
formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione  Campania
- Legge finanziaria regionale 2007), per effetto  della  disposizione
sopra richiamata, hanno  continuato  ad  applicarsi,  ai  consiglieri
regionali, le disposizioni di cui alla legge n. 154/1981. 
    Nella menzionata legge regionale, all'art. 9 comma 4 e'  previsto
che «In armonia con i principi fondamentali della legge 2004  n.  165
ai consiglieri regionali, ai componenti della Giunta ed al Presidente
si applica la disciplina di cui all'art.  63,  comma  1,  n.  4,  del
decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico  delle  leggi
sull'ordinamento degli enti locali) e successive modifiche». 
    Tale disposizione, concernente le cause di  incompatibilita',  al
comma 1, n. 4, nel testo novellato dalla legge 24 aprile 2002, n.  75
(conversione in legge con modificazioni del decreto-legge 22 febbraio
2002,  n.  13,  recante  disposizioni  urgenti  per   assicurare   la
funzionalita' degli enti locali) - da  leggersi  con  riferimento  ai
consiglieri regionali - prevede tra le incompatibilita'  a  ricoprire
detta carica il caso di: «colui che ha lite pendente, in quanto parte
in un procedimento civile od amministrativo, rispettivamente  con  il
comune o la provincia»  e,  nel  seguito,  tale  disposizione  recita
testualmente «La pendenza di una lite in materia tributaria ovvero di
una lite promossa ai sensi  dell'art.  9  del  presente  decreto  non
determina incompatibilita'.  Qualora  il  contribuente  venga  eletto
amministratore comunale, competente a decidere sul suo ricorso e'  la
commissione del comune capoluogo di  circondario  sede  di  tribunale
ovvero sezione staccata di tribunale. Qualora il ricorso sia proposto
contro tale comune, competente  a  decidere  e'  la  commissione  del
comune capoluogo di provincia. Qualora il ricorso sia proposto contro
quest'ultimo comune, competente a  decidere  e',  in  ogni  caso,  la
commissione del comune capoluogo di regione. Qualora il  ricorso  sia
proposto contro quest'ultimo comune,  competente  a  decidere  e'  la
commissione del capoluogo di provincia territorialmente piu'  vicino.
La lite promossa a seguito di o conseguente a  sentenza  di  condanna
determina incompatibilita'  soltanto  in  caso  di  affermazione  con
sentenza passata in giudicato. La costituzione di  parte  civile  nel
processo  penale  non  costituisce  causa  di  incompatibilita'.   La
presente disposizione si applica anche ai procedimenti in corso». 
    In  ordine  alle  cause  di  ineleggibilita'   alla   carica   di
consigliere  regionale,  va  ricordato  che,   oltre   alle   ipotesi
contemplate dalla legislazione sinora esaminata, la legge n.  55  del
19 marzo 1990 (intitolata  «Nuove  disposizioni  per  la  prevenzione
della  delinquenza  di  tipo  mafioso  e  di  altre  gravi  forme  di
manifestazione di pericolosita' sociale») contempla,  all'art.  15  -
disposizione  abrogata  ma  tutt'ora   applicabile   ai   consiglieri
regionali ex art. 274, comma 1, lettera  p),  d.P.R.  n.  267/2000  -
ulteriori cause di incandidabilita' conseguenti a condanne definitive
per  reati  destanti  maggiore  allarme  sociale  ed  a   misure   di
prevenzione definitive. 
    Inoltre la medesima disposizione prevede una  serie  di  casi  di
sospensione  di  diritto  dalla  carica  di   consigliere   regionale
conseguenti o a condanne, non definitive,  per  alcune  tipologie  di
delitti o alla pena della reclusione non inferiore  a  due  anni  per
delitto non colposo o all'applicazione di misure di  prevenzione  non
definitive o, ancora, delle misure coercitive di  cui  agli  articoli
284, 285 e 286 c.p.p. e la stessa  norma  stabilisce  un  periodo  di
durata massima di tale sospensione. 
    La breve sintesi normativa e' prodromica all'inquadramento  degli
esatti termini della controversia dal momento  che,  come  ampiamente
esposto, a base del presente ricorso vi e' una delibera contenente la
presa d'atto della sospensione del C.  dalla  carica  di  consigliere
regionale fino al passaggio in  giudicato  della  relativa  sentenza,
avendo lo stesso riportato - prima della proclamazione degli eletti -
una condanna di primo grado per il reato di cui all'art. 416-bis c.p. 
    E', dunque, pacifico che, oltre a non essere intervenuta sino  ad
ora  alcuna  delibera   del   Consiglio   Regionale   contenente   la
dichiarazione di decadenza del C. dalla carica  (il  procedimento  di
contestazione non e' stato portato a termine), la delibera oggetto di
impugnativa, nel prevedere la sospensione del predetto dalla  carica,
necessariamente presuppone la persistente titolarita' della carica in
capo al predetto. 
    Ne consegue che la controversia sub iudice verte sulla  richiesta
di annullamento e/o disapplicazione di una delibera  regionale  sulla
base della prospettata illegittimita' della norma regionale di cui la
delibera costituisce applicazione. 
    Se questa, dunque, e'  la  causa  petendi  facilmente  desumibile
dalle ragioni di fatto e di diritto di cui al  ricorso,  diversamente
per  l'individuazione  del  petitum  dello   stesso   e'   necessaria
un'attivita' interpretativa dal momento che, mentre nella -  premessa
dell'atto introduttivo, l'istante  chiede  la  declaratoria  del  suo
diritto  a  rivestire  la  carica  di  consigliere  regionale,  nelle
conclusioni finali chiede di essere reintegrato, in  via  definitiva,
nella carica. 
    Tornando  all'interpretazione  del  petitum  va  detto  che,  pur
volendo  considerare  meramente  funzionale  alla  seconda  richiesta
quella volta all'affermazione del diritto del ricorrente a  rivestire
la carica di consigliere, non vi e' chi non veda  l'inutilita'  della
stessa dal momento che non viene neppure prospettata  la  sussistenza
di una causa di ineleggibilita' del ricorrente,  ne'  precedente  ne'
successiva alle elezioni,  tale  da  giustificare  la  necessita'  di
un'eventuale  accertamento  -  evidentemente  incidentale   -   della
sussistenza di tale diritto. 
    Ai fini che occupano e' utile soffermarsi  sulle  differenze  tra
gli istituti dell'ineleggibilita' e dell'incompatibilita' in  ragione
delle diverse esigenze sottostanti la previsione di tali istituti. 
    Il diritto di elettorato passivo di  cui  all'art.  51  Cost.  e'
riconducibile nell'alveo dei diritti inviolabili di cui  all'art.  2,
e' considerato una specificazione del principio di uguaglianza di cui
all'art.  3  Cost.  ed  espressione  di  un  sistema  di   democrazia
rappresentativa.  Ne   consegue   che   sono   ritenute   ammissibili
limitazioni a tale diritto o a garanzia della sostanziale correttezza
della competizione elettorale ed,  in  particolare,  dell'uguaglianza
effettiva tra candidati,  nel  rispetto  anche  del  principio  posto
dall'art. 48 Cost. in tema di elettorato attivo, oppure a tutela  del
principio di  imparzialita'  e  buon  andamento  dell'amministrazione
discendente dall'art. 97 Cost. il quale ha  ispirato  la  costruzione
dell'istituto dell'incompatibilita' per le ipotesi in cui non vi  sia
pericolo di inquinamento della  competizione  elettorale  ma  vi  sia
anche il rischio che l'eletto  non  svolga  correttamente  i  compiti
connessi al suo ufficio, trovandosi in una situazione di conflitto di
interessi. Da tali principi e' sorta  l'esigenza  di  distinguere  le
cause ostative in cause di ineleggibilita' e di  incompatibilita'  in
base  alla  loro  diversa  finalita'  per  adattare  a  ciascuna  una
disciplina   differente   nell'ottica   di   limitare    al    minimo
indispensabile la lesione del diritto stabilito  dall'art.  51  Cost.
Tali principi, uniti a quello che considera l'eleggibilita' la regola
e l'ineleggibilita' l'eccezione, sono, tra l'altro, desumibili  dalla
giurisprudenza costante della Corte  costituzionale  (cfr.  sent.  n.
46/1969; n.  166/1972;  n.  5/1978;  n.  571/1989;  n.  467/1991;  n.
344/1993 e n. 141/1996). 
    In definitiva,  alla  stregua  di  quanto  sinora  esposto,  deve
ritenersi che il fine delle cause di  ineleggibilita'  e',  in  primo
luogo, rinvenuto nella determinazione di garantire  la  par  conditio
tra  i  candidati  e  la  libera  manifestazione  di  volonta'  degli
elettori,  attraverso  l'esclusione  di  soggetti  che,  per  ragioni
d'ufficio, si trovano in una particolare condizione  tale  da  potere
incidere, anche solo  psicologicamente,  sulla  libera  scelta  degli
elettori. 
    Diversamente quello delle cause di incompatibilita' consiste  nel
garantire l'imparzialita' ed  il  disinteresse  nell'esercizio  delle
pubbliche funzioni vietando, ad esempio, il cumulo fra  piu'  cariche
in capo allo stesso soggetto ed il conseguente crearsi di  situazioni
di conflitto di interessi. 
    A tutela di finalita' social-preventive presiedono,  inoltre,  le
norme (tra le quali la legge n. 55/1990 ed il decreto legislativo  n.
267/2000) che contemplano quali cause ostative alla  candidatura  (se
la condanna  definitiva  e'  intervenuta  prima)  o  quali  cause  di
decadenza dalla  carica  (se  la  condanna  e'  intervenuta  dopo  la
proclamazione  degli  eletti  o  dopo  l'assunzione  delle   relative
funzioni)  l'aver  riportato  condanne  definitive  per   determinati
delitti e/o  per  determinati  periodi  di  tempo  o  l'essere  stati
sottoposti a  misure  di  prevenzione  definitive.  Rispetto  a  tali
esigenze le  previsioni  di  cause  di  sospensione  obbligatoria  di
diritto dalla carica assumono gli effetti di una tutela anticipata di
natura cautelare. 
    Quanto all'individuazione  delle  citate  esigenze  e  di  quelle
sottostanti alle menzionate cause di  sospensione  di  diritto  dalla
carica soccorrono, tra l'altro, i principi desumibili dalla pronuncia
della Corte costituzionale n. 206/1999 chiamata a pronunciarsi  sulla
legittimita' costituzionale dell'art. 4-septies della legge 19  marzo
1990, n. 55, nella parte in cui prevede la  sospensione  obbligatoria
dalla funzione o  dall'ufficio  nei  confronti  di  dipendenti  delle
amministrazioni  pubbliche  rinviati   a   giudizio   per   i   reati
complessivamente considerati dalla lettera a) della disposizione.  In
detta sentenza, intervenuta dopo diverse pronunce concernenti le piu'
varie questioni di legittimita' costituzionale di alcune norme  dalla
legge in esame, la Corte, nel  ritenere  non  fondata  la  questione,
afferma, tra l'altro, che «La norma ...  censurata  non  comporta  la
privazione della capacita' di accesso a uffici  o  cariche  pubbliche
...  e  ...  "nemmeno  l'applicazione  di  una   misura   destitutiva
conseguente  ad  una  accertata  responsabilita'  penale   ...   Essa
configura invece una tipica misura cautelare, collegata alla pendenza
di un'accusa penale nei confronti del  funzionario  pubblico».  E  la
Corte continua affermando che «... La misura in  questione,  risponde
ad esigenze proprie della funzione amministrativa  e  della  pubblica
amministrazione presso  cui  il  soggetto  colpito  presta  servizio:
logicamente, dunque, essa e' svincolata da esigenze processuali e  da
finalita'  di  prevenzione  speciale,   ed   e'   disposta   con   un
provvedimento dell'amministrazione, sia pure, nella specie, vincolato
dalla legge (e sottoposto, com'e' ovvio, a controllo  giurisdizionale
per quanto riguarda la  sua  rispondenza  ai  presupposti  legalmente
stabiliti). L'esigenza cautelare e' qui collegata  all'accusa  penale
solo in quanto e' la pendenza dell'accusa, come tale,  che  mette  in
pericolo interessi connessi all'amministrazione, che la espone  cioe'
ad   un   pregiudizio   direttamente   derivante   dalla   permanenza
dell'impiegato nell'ufficio. Il  pregiudizio  possibile  concerne  in
particolare  la   "credibilita'"   dell'amministrazione   presso   il
pubblico,  cioe'  il  rapporto  di  fiducia   dei   cittadini   verso
l'istituzione, che puo' rischiare di  essere  incrinato  dall'"ombra"
gravante su di essa a causa dell'accusa da cui e' colpita una persona
attraverso la quale l'istituzione stessa opera».  Aggiunge  la  Corte
che «I delitti per i quali l'art. 15  della  legge  n.  55  del  1990
prevede la sospensione obbligatoria vuoi a seguito  di  condanna  non
definitiva  (lettera  a),  vuoi  a  seguito  di  rinvio  a   giudizio
dell'impiegato (lettera e), sono qualificati  non  tanto  dalla  loro
gravita' in relazione al "valore" del bene offeso o all'entita' della
pena comminata dalla legge, quanto da una caratteristica che tutti li
accomuna:  di  essere  cioe'  delitti  di  criminalita'   organizzata
(associazione  per  delinquere  di  stampo   mafioso,   traffico   di
stupefacenti, traffico di armi,  favoreggiamento  in  relazione  agli
stessi reati). Si tratta cioe' di delitti per i quali la  sussistenza
di un'accusa a carico di pubblici impiegati fa sorgere immediatamente
il sospetto di un inquinamento dell'apparato  pubblico  da  parte  di
quelle organizzazioni criminali, la cui pericolosita' sociale  va  al
di la' della gravita' dei singoli  delitti  che  vengono  commessi  o
contestati». 
    Conclusa la disamina delle differenze ontologiche sottostanti  le
diverse limitazioni del diritto di elettorato passivo e chiarito  che
la delibera, oggetto  di  gravame,  e'  meramente  attuativa  di  una
disposizione normativa che contempla, come detto, non  un'ipotesi  di
incandidabilita' e/o di incompatibilita' ma solo una misura cautelare
del tipo di quella sopra esaminata,  resta  da  stabilire,  in  primo
luogo, se la controversia verta in materia di diritto  soggettivo  la
cui risoluzione rientri nella giurisdizione del giudice adito ed,  in
caso di risposta affermativa al primo quesito,  se  la  questione  di
legittimita' costituzionale sia rilevante nel presente giudizio. 
    Per la risposta al primo quesito e' indispensabile  un  sintetico
richiamo alle piu' significative pronunce della Corte  costituzionale
e della Corte di Cassazione in materia di  riparto  di  giurisdizione
tra il giudice ordinario ed il giudice amministrativo. 
    Quanto alle decisioni dei Giudici  Costituzionali  va,  in  primo
luogo, ricordata la  sentenza  n.  377/2008  in  cui,  a  seguito  di
incidente  di  costituzionalita'  sollevato  dal  TAR  -  Puglia   in
relazione dell'art. 69, comma 5, del decreto  legislativo  18  agosto
2000, n. 267 (Testo unico delle  leggi  sull'ordinamento  degli  enti
locali), «nella parte in cui devolve al Tribunale ordinario la tutela
giurisdizionale avverso la delibera  di  decadenza  dalla  carica  di
consigliere, per incompatibilita'»,  nonche',  con  riferimento  agli
articoli 3, 24 e 51 della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 63, comma 1, numero 4), dello stesso decreto
legislativo, «nella parte in cui prevede, anche agli effetti  di  cui
al successivo art. 68, comma 2, che,  colui  il  quale  ha  una  lite
pendente,  in  quanto  parte   di   un   procedimento,   civile   (od
amministrativo) con il comune, e'  incompatibile  con  la  carica  di
consigliere  comunale»,  la  Corte,  nel  ritenere  non  fondata   la
questione in relazione all'art. 69, quinto comma del  citato  decreto
legislativo  afferma,  tra  l'altro,  che  «Non  e'  convincente  ...
l'affermazione secondo  la  quale,  in  materia  elettorale,  possono
essere fatte  valere  soltanto  situazioni  soggettive  di  interesse
legittimo, con esclusione di diritti soggettivi» e che il  fatto  che
venga emanato un  provvedimento  amministrativo,  per  dichiarare  la
decadenza dell'amministratore locale, non e' sufficiente a  escludere
la sussistenza di diritti soggettivi, sui quali  detto  provvedimento
possa incidere, ribadendo, al  contrario,  un  costante  orientamento
della  giurisprudenza   di   legittimita',   secondo   il   quale   i
provvedimenti che dichiarano la decadenza dell'amministratore  locale
incidono sul diritto di elettorato passivo. 
    Degna di nota e' anche la sentenza n.  259/2009  nella  quale  la
Corte, nel dichiarare  inammissibile  la  questione  di  legittimita'
costituzionale degli articoli 23 e  87  del  decreto  del  Presidente
della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo  unico
delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati),
sollevata dal Consiglio di giustizia amministrativa  per  la  Regione
Siciliana,  sezione  giurisdizionale,  oltre  a  non  condividere  la
prospettazione del remittente che qualifica interessi legittimi -  la
cui  tutela  spetta,  in  linea  di  principio,  alla   giurisdizione
amministrativa - le situazioni giuridiche soggettive che  vengono  in
rilievo   nel   procedimento   elettorale   preparatorio,   ribadisce
l'orientamento della giurisprudenza di legittimita', che ha  statuito
appartenere  alla  giurisdizione  ordinaria   la   cognizione   delle
controversie, pur sorte  nel  procedimento  elettorale  preparatorio,
coinvolgenti il diritto a prendere parte al procedimento medesimo (ex
plurimis, cfr. Cass. Sez. U. 22 gennaio 2002, n. 717). 
    Nell'ambito delle piu' rilevanti  pronunce  dei  Supremi  Giudici
vanno ricordate le seguenti: 1) Cass. Sez. prima sez. n. 9533 del  12
giugno 2012 secondo la quale «nel contenzioso elettorale, il  giudice
ordinario non esercita una giurisdizione di annullamento, perche'  la
delibera consiliare non costituisce l'oggetto, ma un mero presupposto
del giudizio, che tende alla tutela del diritto  soggettivo  violato»
(la pronuncia e' stata resa in riferimento ad un caso di  impugnativa
di una delibera di convalida dell'elezione di  un  consigliere  della
regione Lombardia sulla base di una prospettata  sussistenza  di  una
causa di ineleggibilita'); 3) Cass. Sez. U. n. 22640 del  29  ottobre
2007  secondo  la  quale   «In   tema   di   contenzioso   elettorale
amministrativo, la giurisdizione e' distribuita tra giudice ordinario
e amministrativo - ai sensi degli articoli 82 e seguenti  del  d.P.R.
n. 570 del 1960 e dell'art. 6 della legge n.  1034  del  1971  -  nel
senso che al primo spettano  tutte  le  controversie  che  concernono
l'ineleggibilita', le incompatibilita' e le decadenze,  ossia  aventi
ad oggetto diritti soggettivi,  mentre  al  secondo  spettano  quelle
aventi  ad  oggetto  in  via  diretta   l'annullamento   degli   atti
amministrativi  attinenti  alle   operazioni   elettorali;   ne'   la
giurisdizione del giudice ordinario viene meno per il  fatto  che  la
questione    sull'ineleggibilita'    venga    introdotta     mediante
l'impugnazione del provvedimento di convalida  degli  eletti»  (Conf.
Cass. S.U. n. 8469 del 4 maggio 2004); 4) Cass. Sez. U. n.  3601  del
12 marzo 2003 secondo la quale: «In tema  di  contenzioso  elettorale
amministrativo, le controversie aventi ad oggetto, in  modo  diretto,
l'accertamento della titolarita' o meno  del  diritto  di  elettorato
attivo in capo alle persone ammesse  alla  votazione,  sono  devolute
alla giurisdizione del giudice ordinario, quale  che  sia  la  natura
(pubblica o privata) dell'ente interessato, atteso che i  diritti  di
elettorato rilevano quali diritti soggettivi pubblici  e,  in  quanto
tali, non possono essere degradati dalla  pubblica  amministrazione»;
5) Cass. S.U. n. 717  del  22  gennaio  2002  secondo  la  quale  «La
giurisdizione in tema di  contenzioso  elettorale  amministrativo  e'
distribuita tra giudice ordinario e giudice amministrativo, spettando
al  primo  le  questioni  che,  ancorche'  insorte  nel  procedimento
elettorale preparatorio, attengono alla eleggibilita', e  al  secondo
quelle che riguardano le operazioni elettorali; e' devoluta  pertanto
all'autorita' giudiziaria ordinaria la cognizione della  controversia
promossa da un candidato alle elezioni comunali escluso  dalla  lista
elettorale  dalla  commissione   elettorale   circondariale   perche'
versante in una situazione di incandidabilita' in  quanto  condannato
per uno dei reati previsti dall'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n.
55». 
    Orbene alla stregua dei  consolidati  principi  giurisprudenziali
ritiene il Collegio sussistente la giurisdizione del giudice adito. 
    Ed invero, premesso che ai fini del riparto  della  giurisdizione
tra giudice ordinario e giudice amministrativo rileva  non  tanto  la
prospettazione compiuta delle parti quanto il petitum sostanziale che
va identificato soprattutto in funzione della  causa  petendi,  ossia
dell'intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio (cfr.  tra
le molte altre Cass. S.U. n. 20902 dell'11 ottobre 2011), in  base  a
detti parametri deve ritenersi che,  nel  caso  in  esame,  l'istante
agisca al fine di ripristinare  tutte  le  prerogative  insite  nella
carica dallo stesso tutt'ora rivestita, previa disapplicazione  della
delibera consiliare. 
    Affermata la giurisdizione del giudice adito, rileva il  Collegio
che, dall'attenta  lettura  del  contenuto  del  ricorso  come  sopra
riportato, si ricava agevolmente che il ricorrente  ha  proposto  due
domande: una diretta all'accertamento del suo diritto a rivestire  la
carica  -  rectius  ad  esercitare  le  funzioni  -  di   consigliere
regionale, stante la prospettata incostituzionalita' della  normativa
di sospensione applicata, e  l'altra  di  reintegra  nella  carica  -
rectius nelle funzioni. 
    E' evidente che la risoluzione della prima domanda dipende  dalla
definizione della questione  di  costituzionalita'  laddove,  per  la
seconda, logicamente dipendente dalla  prima,  si  pone  il  problema
dell'ambito dei poteri del giudice ordinario nei confronti della p.a. 
    Quindi il primo  nodo  da  sciogliere  e'  quello  relativo  alla
rilevanza, nel caso in  esame,  dei  rilievi  di  incostituzionalita'
sollevati tenendo presente che la delibera, oggetto  di  impugnativa,
costituisce diretta applicazione  della  normativa  regionale  e  che
l'eventuale decisione della  Corte  costituzionale  consentirebbe  al
giudice adito di dirimere solo la prima delle due domande proposte. 
    Ebbene, premesso che spetta al giudice a quo ritenere  quale  sia
l'ordine logico di esame delle varie domande, oltre che  valutare  se
la controversia non possa essere decisa senza affrontare la questione
di costituzionalita' (si vedano le sentenze n. 73 del 1991, n. 97 del
1987, n. 139 del 1980, n. 100 del 1993 della  Corte  costituzionale),
va ricordato che, secondo la stessa Corte (cfr.  sent.  n.  108/1995)
«Perche'  sussista  la  rilevanza  della  questione  incidentale   di
costituzionalita', e'  sufficiente  che  le  disposizioni  indubbiate
debbano essere applicate per  risolvere  una  o  piu'  delle  domande
formulate nel giudizio "a quo", pur  se  l'ambito  complessivo  delle
domande degli attori sia piu' ampio di quello cui si  riferiscono  le
disposizioni censurate. Ne' in tal caso l'ordinanza di rimessione  e'
tenuta a motivare in merito alla capacita' delle norme indubbiate  di
"paralizzare" le altre azioni esercitate nel giudizio "a quo"». 
    Sulla scorta di tali principi, e' evidente la rilevanza, nel caso
di specie, della questione di costituzionalita' della legge regionale
dal momento che, senza la risoluzione della stessa, il giudice  adito
non e' messo in condizione di decidere ne' sulla  prima  domanda  ne'
sulla seconda, direttamente collegata alla prima. 
    D'altronde non va sottaciuto  che  l'eventuale  dichiarazione  di
illegittimita' costituzionale della normativa a base  della  delibera
con la quale il C. e'  stato  sospeso  dalla  carica  di  consigliere
regionale comporterebbe effetti diretti  sulla  possibilita'  per  il
ricorrente di esercitare le funzioni connesse  alla  sua  carica  dal
momento che risulta  ormai  definitivamente  decorso  il  termine  di
durata  della   precedente   sospensione   ex   lege   disposta   con
provvedimento dell'8 maggio  2010;  dato  fattuale  che  avvalora  la
rilevanza della questione di legittimita' costituzionale. 
Sulla  non  manifesta  infondatezza  di  alcune  delle  questioni  di
legittimita' costituzionale prospettate dal ricorrente. 
    In ordine all'ulteriore requisito imposto dall'art. 23  legge  n.
53/1987 per sollevare la questione di legittimita' costituzionale, ad
avviso del Collegio tale parametro discende dalla funzione di  filtro
del giudice a quo, il  quale  deve  sottoporre  all'attenzione  della
Corte  questioni  di  legittimita'  costituzionale  «serie»   e   non
meramente  dilatorie.  Sebbene  con  l'espressione   «non   manifesta
infondatezza» il legislatore abbia  indicato  uno  stato  dubitativo,
ossia una condizione psicologica minima, anche  al  fine  di  evitare
eventuali conflitti tra giudici «a quibus» e Corte costituzionale, la
giurisprudenza della Consulta ha  sempre  richiesto,  sul  punto,  un
esame approfondito e non semplicemente delibatorio, giungendo  a  non
ritenere sufficiente - nelle sentenze additive - un  semplice  dubbio
ed esigendosi, invece, da parte del giudice a quo  l'indicazione  del
verso dell'addizione. Inoltre vi deve essere identita' tra  l'istanza
di parte e l'ordinanza di rimessione del giudice. 
    Tanto premesso, vanno singolarmente esaminate le censure proposte
dal ricorrente sulla base del citato parametro. 
a. Sulla prospettata violazione dell'art. 117 comma 2, lettere h)  ed
l) Cost. e dell'art. 122 Cost.  dall'art.  1  della  legge  regionale
della Campania 11 ottobre 2011, n. 16, nel testo corretto  pubblicato
nel Burc n. 67 del 25 ottobre 2011. 
    La norma in questione  -  intitolata  «Modifica  ed  integrazione
dell'art.  9  della  legge  regionale  19   gennaio   2007,   n.   1»
(Disposizioni per la formazione del bilancio  annuale  e  pluriennale
della Regione Campania - Legge regionale finanziaria regionale  2007)
testualmente recita: l. All'art. 9 della legge regionale  19  gennaio
2007, n.  1,  e'  aggiunto  il  seguente  comma:  "5.  I  consiglieri
regionali che hanno riportato condanna, anche non definitiva, per  il
delitto di cui all'art. 416-bis del  codice  penale  restano  sospesi
dalla carica fino alla sentenza definitiva".». 
    E' evidente che, avendo la norma introdotto  un  ulteriore  comma
all'art. 9 della legge regionale 19 gennaio 2007, n. 1, la  questione
deve necessariamente intendersi estesa, con  riferimento  alle  norme
costituzionali sopra indicate ed a tutte le altre che si andranno  ad
esaminare, anche al comma 5 della disposizione citata. 
    In  ordine  alle  questioni  prospettate,  come  gia'  ampiamente
esposte, ritiene il Collegio non manifestamente infondata solo quella
integrata dal prospettato contrasto della disposizione in  esame  con
l'art. 117, comma 2, lettera  h)  Cost.  per  essere  il  legislatore
regionale intervenuto in una materia -  qual  e'  quella  dell'ordine
pubblico e della sicurezza - riservata  alla  legislazione  esclusiva
dello Stato. 
    Diversamente non sono  condivisibili  gli  ulteriori  rilievi  di
parte  prospettati  in   ordine   alla   lettera   l)   della   norma
costituzionale teste' menzionata ed all'art. 122  della  Costituzione
dal momento che, per un verso, la disposizione in esame, contemplando
esclusivamente una causa di  sospensione  ex  lege  dalla  carica  di
consigliere regionale, non contiene alcuna normativa, direttamente  o
indirettamente, inquadrabile nelle ulteriori materie  riservate  alla
legislazione statale esclusiva (giurisdizione  e  norme  processuali;
ordinamento civile e penale;  giustizia  amministrativa)  e,  per  un
altro, non introduce un'ulteriore ipotesi di ineleggibilita'  e/o  di
incompatibilita'  rispetto   alla   quale,   essendo   alle   regioni
riconosciuta una potesta' legislativa concorrente, potrebbe porsi  il
problema del rispetto o meno dei principi fondamentali stabiliti  con
legge della Repubblica. 
    Tornando alla censura di incostituzionalita' che si  ritiene  non
manifestamente infondata, ritiene il Collegio che  elementi  decisivi
ai fini dell'esatto inquadramento delle cause di sospensione ex  lege
da una carica elettiva, per effetto di condanne  non  definitive  per
alcune tipologie di reati,  si  traggono  dall'inserimento  di  dette
ipotesi nell'ambito della legislazione statale  ed,  in  particolare,
nella  legge  19  marzo  1990,  n.  55  (Nuove  disposizioni  per  la
prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi  forme
di  manifestazione  di  pericolosita'  sociale)  che  all'art.  15  -
formalmente abrogato tra gli altri, dall'art. 274,  comma  1  lettera
p), del sopravvenuto d.lgs. n. 18 agosto 2000, n.  267  (Testo  unico
delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), ma il cui  contenuto
precettivo e' stato integralmente riprodotto dal  combinato  disposto
degli articoli 58, comma 1 lettera a), e 59, comma 1, lettera  a),  e
comma 4 del medesimo  decreto  legislativo  -  nonche'  dai  principi
desumibili nei vari interventi dei Giudici  delle  leggi  su  diverse
disposizioni di cui alla legge citata. 
    A titolo meramente  semplificativo  va  ricordato  che  la  Corte
costituzionale, nella sentenza n. 25 del  2002,  nel  dichiarare  non
fondata la questione di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  15,
commi 1  lettera  a),  4-bis  lettera  a)  (che  prevede  ipotesi  di
sospensione di diritto da cariche elettive conseguenti a condanne non
definitive per determinate tipologie di reato), e 4-ter  della  legge
19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni  per  la  prevenzione  della
delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di  manifestazione
di  pericolosita'  sociale),  sostituiti,  come  gia'  detto,   dalle
menzionate  disposizioni  del  legge  n.  18  agosto  2000,  n.  267,
sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione, ha
ribadito l'orientamento secondo il quale le norme dell'art. 15  della
legge n. 55 del 1990 e successive modificazioni perseguono  finalita'
di salvaguardia dell'ordine e della  sicurezza  pubblica,  di  tutela
della libera determinazione degli organi elettivi, di buon  andamento
e  trasparenza  delle  amministrazioni  pubbliche,  contro  i   gravi
pericoli di inquinamento derivanti dalla criminalita'  organizzata  e
dalle sue infiltrazioni (sentenze n. 407 del 1992, n. 141  del  1996,
n. 288 del 1993, n. 118  e  n.  295  del  1994),  coinvolgendo  cosi'
esigenze ed interessi  dell'intera  comunita'  nazionale  connessi  a
«valori costituzionali di rilevanza primaria» (sentenza n. 197, 218 e
288 del 1993). 
    Ne consegue che, prospettandosi un'invasione da parte della legge
regionale della Campania dell'ambito di competenza legislativa  dello
Stato in materia di ordine pubblico  e  sicurezza,  va  sollevata  la
questione di legittimita'  costituzionale  per  violazione  dell'art.
117, comma 2, lettera h) Cost. 
b. Sugli ulteriori profili di incostituzionalita'. 
    Passando   alla   valutazione   degli   ulteriori   profili    di
incostituzionalita' della normativa in  esame  -  dal  cui  esame  il
Collegio non puo' prescindere dal momento che la Corte costituzionale
ben potrebbe non condividere la  censura  di  incostituzionalita'  in
relazione al primo ed assorbente profilo - ritiene  il  Collegio  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
delle disposizioni sopra menzionate in relazione agli articoli  2,  3
primo comma e 51 primo comma della Costituzione. 
    In ordine a tali profili, ritiene il Tribunale che, sulla  scorta
dei consolidati  principi  espressi  dalla  Corte  costituzionale  in
relazione alle disposizioni della legge n. 55/1990, la  normativa  in
esame, nella parte in cui fa coincidere la durata  della  sospensione
dalla carica  di  consigliere  regionale  della  Campania,  dopo  una
condanna non definitiva per il solo delitto di cui  all'art.  416-bis
c.p.,  alla  durata  del  processo  penale  fino  alla  sua  naturale
conclusione con la sentenza definitiva,  appare  contrastante  con  i
principi di uguaglianza, ragionevolezza  e  proporzionalita'  di  cui
all'art.  3  della  Costituzione  nonche'   con   il   principio   di
inviolabilita' di un diritto fondamentale dell'uomo, qual  e'  quello
all'elettorato passivo,  codificato  negli  articoli  2  e  51  della
Costituzione  (cfr.  Corte  cost.  sent.  n.  571/1989  e  sent.   n.
235/1998). 
    Quanto alle prime censure va, innanzi tutto, rimarcato  che,  dal
raffronto tra le cause  di  sospensione  ex  lege  contemplate  dalla
normativa statale  (art.  15  comma  4-bis  legge  n.  55/1990,  come
integralmente riformulato dall'art. 1 comma 4 della legge 13 dicembre
1999, n.  475;  norma  tutt'ora  applicabile,  come  gia'  detto,  ai
consiglieri regionali) e quella prevista  dalla  legge  regionale  in
esame, risulta che i consiglieri regionali della Campania  vengono  a
subire, in caso di condanna non definitiva per il solo delitto di cui
all'art.  416-bis  c.p.,  un  trattamento  deteriore   sia   rispetto
all'ipotesi di condanna non definitiva riportata  per  una  qualunque
delle altre ipotesi di delitti, analiticamente previste  dalla  legge
statale al comma 1 lettera a) del  medesimo  articolo,  che  rispetto
alla condanna non definitiva per il delitto di cui  all'art.  416-bis
c.p. riportata da tutti gli altri consiglieri regionali eletti in una
qualunque delle restanti regioni  d'Italia.  Infatti  mentre  per  le
altre ipotesi di reato e/o per i consiglieri  regionali  delle  altre
regioni la sospensione dalla carica, ai sensi dell'ultima  parte  del
secondo comma del comma 4-bis legge n. 55/1990, come riformulato,  ha
una durata massima predeterminata dalla legge (diciotto mesi a cui si
possono aggiungere, in caso di rigetto dell'impugnazione, in punto di
responsabilita' anche con sentenza non definitiva,  ulteriori  dodici
mesi dalla sentenza di rigetto), in caso di condanna  non  definitiva
riportata da un consigliere regionale della Campania solo per delitto
di cui all'art. 416-bis c.p. la sospensione non  avrebbe  una  durata
predeterminata dipendendo dai tempi imprevisti ed imprevedibili della
durata del procedimento penale. 
    Ebbene  la  scelta  del  legislatore   regionale   si   appalesa,
innanzitutto, irragionevole. A tal fine giova ricordare che i delitti
per i quali l'art. 15 citato prevede - dopo la condanna definitiva  -
la decadenza o anche - in  caso  di  condanna  non  definitiva  -  la
sospensione obbligatoria  dalla  carica  elettiva  sono  qualificati,
secondo la giurisprudenza costituzionale (n. 184/1994, n. 132/2001  e
n. 206/1999), non tanto dalla loro gravita' in relazione al  «valore»
del bene offeso o all'entita' della pena comminata, ma piuttosto  dal
fatto di essere considerati tutti dal legislatore come manifestazione
di  delinquenza  di  tipo  mafioso  o  di  altre   gravi   forme   di
pericolosita'   sociale,   non   irragionevolmente   ritenendoli   il
legislatore stesso, nell'ambito delle proprie,  insindacabili  scelte
di  politica  criminale,  parimenti  forniti  di  alta  capacita'  di
inquinamento degli apparati pubblici da  parte  delle  organizzazioni
criminali. Si giustifica in questo modo una disciplina molto rigorosa
ispirata alla comune ratio  di  prevenire  e  combattere  tali  gravi
pericoli allo scopo appunto di salvaguardare «interessi  fondamentali
dello Stato». Questa  disciplina  e'  stata,  dunque,  formulata  dal
legislatore in modo unitario, pur prendendo in considerazione diverse
figure di reato, proprio  per  realizzare  un  efficace  strumento  -
secondo la  precisazione  contenuta  nel  titolo  della  legge  -  di
«prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme
di   manifestazione    di    pericolosita'    sociale»,    attraverso
l'individuazione, sulla base di criteri omogenei,  di  una  serie  di
reati la cui commissione e' appunto valutata - di per  se'  stessa  e
senza distinzione alcuna - come indice di oggettiva pericolosita'. 
    Ebbene se, dunque, i delitti contemplati dalla normativa  statale
sono considerati tutti come manifestazione  di  delinquenza  di  tipo
mafioso o di altre gravi forme di pericolosita'  sociale,  la  scelta
discrezionale del legislatore regionale contrasta con il canone della
ragionevolezza in quanto non e' dato comprendere la  ragione  per  la
quale dalla condanna non definitiva riportata, esclusivamente, da  un
consigliere regionale  della  Campania  e  per  uno  solo  dei  reati
ugualmente espressivi  della  delinquenza  di  tipo  mafioso  debbano
discendere conseguenze piu'  limitative  del  diritto  all'elettorato
passivo. 
    Inoltre va sottolineato che sempre secondo i Giudici delle  leggi
la sospensione ex lege dalla carica elettiva a  seguito  di  condanna
non definitiva  non  si  configura  come  sanzione  disciplinare,  ma
consiste in un  provvedimento  cautelare  di  carattere  speciale  ed
obbligatorio (sent. n. 184/1994)  o  anche  come  una  tipica  misura
cautelare, collegata alla pendenza di un'accusa penale nei  confronti
del funzionario pubblico (sent. n. 206/1999). In considerazione della
funzione cautelare di detta sanzione, proprio perche'  finalizzata  a
proteggere  l'interesse   pubblico   nelle   more   dell'accertamento
giudiziale definitivo, la norma che la contempla, per essere adeguata
allo   scopo   e   non   ingiustificatamente   lesiva   del   diritto
all'elettorato passivo, non solo deve prevedere limiti di  durata  ma
tali limiti non devono neppure apparire irragionevoli. 
    Infatti le restrizioni del contenuto di  un  diritto  inviolabile
sono ammissibili solo nei limiti indispensabili alla tutela di  altri
interessi di rango costituzionale, e cio' in base alla  regola  della
necessarieta'  e   della   ragionevole   proporzionalita'   di   tale
limitazione (sentenza n. 467 del 1991, cons. dir., n. 5;  sui  limiti
posti a diritti inviolabili da esigenze di conservazione  dell'ordine
pubblico, v., fra le varie, le sentenze nn. 138 del 1985  e  102  del
1975). In altri termini, per valutare se una limitazione del  diritto
di elettorato passivo sia conforme ai  principi  costituzionali  deve
valutarsi se sia indispensabile per  assicurare  la  salvaguardia  di
detti valori, se sia misura proporzionata al fine  perseguito  o  non
finisca piuttosto per alterare i  meccanismi  di  partecipazione  dei
cittadini alla vita politica, delineati dal titolo IV, parte 1, della
Carta  costituzionale,  comprimendo  un  diritto  inviolabile   senza
adeguata giustificazione di rilievo costituzionale. Nel compiere tale
verifica, non bisogna dimenticare che «l'eleggibilita' e' la  regola,
e l'ineleggibilita' l'eccezione»: le norme che derogano al  principio
della generalita' del diritto  elettorale  passivo  sono  di  stretta
interpretazione e devono contenersi  entro  i  limiti  di  quanto  e'
necessario a soddisfare le esigenze di pubblico  interesse  cui  sono
preordinate (v. gia' la sentenza n. 46 del 1969, indi la sentenza  n.
166 del 1972, fino alle sentenze nn. 571 del 1989 e 344 del 1993). 
    Orbene ritiene il Collegio  che  dall'assenza  di  un  limite  di
durata predeterminato nella normativa  regionale  consegua  il  serio
sospetto di contrasto della previsione di una causa di sospensione ex
lege collegata alla durata del processo penale anche con gli articoli
2 e 51 comma 1 Cost. 
    Considerazioni diverse  valgono  per  gli  ulteriori  profili  di
incostituzionalita' prospettati dal ricorrente in quanto,  ad  avviso
del Collegio, l'automatismo  della  sospensione  e  l'assenza  di  un
termine di durata predeterminato  non  appare  contrastante  ne'  con
l'art. 24 comma 1 Cost. (diritto di difesa) ne' con l'art. 113  comma
1 Cost. (diritto  di  tutela  dei  diritti  soggettivi  ed  interessi
legittimi in sede giurisdizionale avverso  gli  atti  della  pubblica
amministrazione) dal momento che la normativa regionale non contempla
alcuna limitazione al diritto di impugnare in sede giurisdizionale la
delibera contenente la presa d'atto  della  sospensiva;  circostanza,
tra  l'altro,  confermata  dalla  proposizione  dell'odierno  ricorso
dinanzi a questo giudice. 
    Parimenti la disposizione regionale non si appalesa in  contrasto
con l'art. 97 comma 1 della Costituzione (principio di buon andamento
e  di  imparzialita'  dell'amministrazione)   perche'   l'automatismo
dell'applicazione della causa di sospensione rispetto  alla  condanna
non definitiva anche per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p.,  e'
stato ripetutamente considerato  dal  Giudice  delle  leggi  -  nelle
pronunce gia' richiamate in relazione all'art. 117 Cost. - funzionale
all'esigenza di buon andamento e di trasparenza delle amministrazioni
pubblica contro i gravi  pericoli  di  inquinamento  derivanti  dalla
criminalita' organizzata e dalle sue infiltrazioni. 
    Infine ritiene il Tribunale che l'assenza di un  termine  massimo
di durata della sospensione ex lege di cui alla  normativa  regionale
sub iudice non contrasti  con  la  presunzione  di  non  colpevolezza
dell'imputato sino alla condanna definitiva (art. 27 comma  1  Cost.)
perche' la norma contempla esclusivamente una  causa  di  sospensione
dalla  carica  destinata,  comunque,  a  cessare  per  effetto  della
definizione del giudizio penale. 
    In   conclusione   il   Tribunale   ritiene   rilevante   e   non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dall'art. 1 della legge regionale della Campania 11 ottobre 2011,  n.
16, nel testo corretto pubblicato nel Burc n. 67 del 25 ottobre  2011
nonche' dell'art. 9 comma 5 della legge regionale della  Campania  19
gennaio 2007, n. 1, per  contrasto  con  gli  articoli  117  comma  2
lettera h), 2, 3, primo comma e 51 primo comma della Costituzione. 
    Pertanto, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87,
va  disposta  l'immediata  trasmissione   degli   atti   alla   Corte
costituzionale e la sospensione del  presente  giudizio.  Sara'  cura
della cancelleria provvedere agli  adempimenti  previsti  nell'ultima
parte della citata disposizione  ed  analiticamente  riportati  nella
parte dispositiva. 
Sulla richiesta di reintegra nelle funzioni nelle more  del  giudizio
di costituzionalita'. 
    Ritiene il Collegio - per le considerazioni di seguito esposte  -
non meritevole di accoglimento la  richiesta  di  reintegra,  in  via
cautelare,  del  ricorrente,   nell'esercizio   delle   funzioni   di
consigliere regionale durante il tempo necessario per la  trattazione
dall'incidente di costituzionalita'. 
    Ed invero, premesso che, come si ricava  dal  chiaro  tenore  del
ricorso,  l'istante  non  ha  chiesto,  in  via  cautelare,  la  mera
disapplicazione della delibera e, dunque, della normativa  sottoposta
al vaglio di costituzionalita', bensi' ha sollecitato l'emissione  di
un  provvedimento  di  reintegra  nell'esercizio  delle  funzioni  di
consigliere regionale, ritiene  il  Tribunale  che,  in  ossequio  ai
consolidati principi giurisprudenziali, non rientri nelle prerogative
del giudice ordinario l'adozione del provvedimento invocato  in  base
alle norme generali di cui agli articoli 2, 4 e 5 allegato E legge n.
2248/1865. 
    E' noto che l'art. 2 della  legge  citata  stabilisce  che  «Sono
devolute  alla   giurisdizione   ordinaria   tutte   le   cause   per
contravvenzioni e tutte le materie nelle quali  si  faccia  questione
d'un diritto civile o politico, comunque vi possa essere  interessata
la pubblica amministrazione, e ancorche' siano emanati  provvedimenti
del potere esecutivo o dell'autorita' amministrativa» e che l'art.  4
recita «1. Quando la contestazione  cade  sopra  un  diritto  che  si
pretende leso da un atto dell'autorita' amministrativa,  i  tribunali
si  limiteranno  a  conoscere  degli  effetti  dell'atto  stesso   in
relazione all'oggetto dedotto in giudizio. 2.  L'atto  amministrativo
non potra' essere revocato o modificato se  non  sovra  ricorso  alle
competenti autorita' amministrative, le  quali  si  conformeranno  al
giudicato dei Tribunali in quanto riguarda il caso deciso». 
    Dunque, senza volersi  soffermare  sulla  copiosa  giurisprudenza
formatasi in ordine ai poteri del giudice  ordinario  e  del  giudice
amministrativo, va detto che,  in  linea  di  principio,  il  giudice
ordinario,  oltre   ad   avere   cognizione   incidentale   sull'atto
amministrativo, ha il potere di disapplicazione dell'atto illegittimo
nei casi in cui esso venga in  rilievo  non  gia'  come  causa  della
lesione del diritto soggettivo dedotto in giudizio, ma solo come mero
antecedente sicche' la  questione  della  sua  legittimita'  venga  a
prospettarsi come pregiudiziale in senso  tecnico,  restando  esclusa
dalla sua giurisdizione l'azione risarcitoria avente  ad  oggetto  il
pregiudizio  derivante  da  un  atto  amministrativo  definitivo  per
difetto di tempestiva impugnazione, essendogli precluso il sindacato,
in via  principale,  sull'atto  o  sul  provvedimento  amministrativo
(Cassazione civile Sez. Un. 23 gennaio 2006, n. 1207). 
    Orbene, secondo  l'orientamento  espresso,  in  alcune  pronunce,
dalla Suprema Corte (cfr. per il caso di sospensione dalla carica  di
consigliere regionale: Cass. Sez. I n. 17020 del 12 novembre  2003  e
per il caso di sospensione dalla carica di consigliere comunale Cass.
Sez. I n. 1990 del 20 gennaio 2003 e Cass. Sez.  I  n.  16052  dell'8
luglio 2009), nelle controversie - come quella in esame -  aventi  ad
oggetto l'impugnativa di una delibera applicativa di una  sospensione
dalla carica si applicano - secondo un'interpretazione estensiva  del
concetto di «delibere in materia di eleggibilita'» - le  disposizioni
di cui all'art. 82 d.P.R. 16 maggio 960, n.  570,  in  quanto  l'art.
9-bis del citato decreto - abrogato dall'art. 274, comma  1,  lettera
e) del d.lgs. 8 agosto 2000, n.  267,  fatta  salva  l'applicabilita'
agli amministratori regionali -  ai  sensi  dell'art.  19,  legge  17
febbraio 1968, n. 108, richiama per  i  relativi  giudizi  i  termini
stabiliti dall'art. 82. 
    Quanto, poi, all'ambito dei poteri del  giudice  adito  in  detta
materia, ritiene il Collegio che, pur nell'ampiezza delle prerogative
allo  stesso   riconosciute   nel   contenzioso   elettorale,   oltre
all'eventuale disapplicazione dell'atto amministrativo, non spetti al
giudice ordinario anche il potere di  sostituirsi,  del  tutto,  alla
pubblica  amministrazione  al   punto   da   immettere   direttamente
nell'esercizio delle funzioni il consigliere precedentemente sospeso. 
    D'altronde  un'indiretta  conferma  della  correttezza  di   tale
interpretazione si ricava dal fatto che, in tutti  i  casi  esaminati
dai Giudici di legittimita', di impugnativa  di  delibere  aventi  ad
oggetto la sospensione da una carica, i giudici di merito,  nei  casi
di accoglimento, si  sono  limitati  a  disapplicare  le  delibere  a
seguito  dell'accertamento   dell'inesistenza   di   una   causa   di
sospensione  di  diritto  dalla  carica,  senza  adottare   ulteriori
provvedimenti consequenziali, evidentemente, demandati alla  pubblica
amministrazione. 
    Pertanto, considerato che, per  sua  natura,  ogni  provvedimento
cautelare  destinato  ad  anticipare  gli  effetti  di   un'eventuale
pronuncia favorevole nel merito al fine di evitare il pregiudizio  al
diritto vantato  connesso  al  tempo  necessario  per  l'accertamento
dell'esistenza  dello  stesso,  e'  evidente   che,   a   prescindere
dall'ammissibilita' in astratto della disapplicazione  di  una  legge
oggetto di un giudizio di costituzionalita', la carenza del potere  -
in capo al giudice adito - di reintegra  del  C.  nelle  funzioni  e'
ostativa  all'accoglimento  della  richiesta  di   un   provvedimento
cautelare.