IL TRIBUNALE CIVILE E PENALE All'esito della presentazione in cancelleria del ricorso per decreto ingiuntivo R.G. n. 1442/2011 vertente tra: NET Insurance Spa, in persona del legale rappresentante p.t. e Mecillo Luigi rappresentati e difesi come in atti, sciolta la riserva che precede; letti gli atti processuali; ha pronunciato la sotto estesa ordinanza di sollevazione d'ufficio della questione non manifestamente infondata d'illegittimita' costituzionale dell'art. 9, terzo comma (comma 3º), della legge 24 marzo 2012, n. 27 (pubblicata sul Supplemento ordinario n. 53/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed entrata in vigore in pari data), di conversione, contenente modificazioni ed integrazioni normative, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (pubblicato sul Supplemento ordinario n. 18/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari data), in applicazione delle disposizioni, di cui: 1. - All'art. 1, della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 20 febbraio 1948, n. 43, e recante l'intestazione «Norme sui giudizi di legittimita' costituzionale e sulle garanzie d'indipendenza della Corte costituzionale», che recita: «La questione d'illegittimita' costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge della Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio e non ritenuta dal giudice manifestamente infondata, e' rimessa alla Corte costituzionale per la sua decisione»; 2. - All'art. 23, secondo capoverso o terzo comma, della legge ordinaria 11 marzo 1953, n. 87, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 14 marzo 1953, n. 62, il cui testo normativo integrale recita: «Nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorita' giurisdizionale una delle parti o il Pubblico Ministero possono sollevare questione di legittimita' costituzionale mediante apposita istanza, indicando: a) le disposizioni della legge o dell'atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione, viziate da illegittimita' costituzionale; b) le disposizioni della Costituzione o delle leggi costituzionali, che si assumono violate. L'autorita' giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale o non ritenga che la questione sollevata sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti i termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la questione, dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio in corso. La questione di legittimita' costituzionale puo' essere sollevata, di ufficio, dall'autorita' giurisdizionale davanti alla quale verte il giudizio con ordinanza contenente le indicazioni previste alle lettere a) e b) del primo comma e le disposizioni di cui al comma precedente. L'autorita' giurisdizionale ordina che a cura della Cancelleria l'ordinanza di trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sia notificata, quando non se ne sia data lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al Pubblico Ministero quando il suo intervento sia obbligatorio, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri od al Presidente della Giunta regionale a seconda che sia in questione una legge o un atto avente forza di legge dello Stato o di una Regione. L'ordinanza viene comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti delle due Camere del Parlamento o al Presidente del Consiglio regionale interessato. Motivazione Ad avviso del giudicante la controversia non puo' essere decisa allo stato degli atti. Ed, invero, questo giudice nutre seri dubbi circa la legittimita' costituzionale dell'art. l'art. 9 della legge 24 marzo 2012, n. 27 (pubblicata sul Supplemento ordinario n. 53/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed entrata in vigore in pari data), di conversione, contenente modificazioni ed integrazioni normative, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (pubblicato sul Supplemento ordinario n. 18/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari data), in oggetto del seguente testo normativo: 3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, sino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. (1) La retroattivita' evidente della norma teste' cit., inesistente nel decreto-legge convertito e volta a disporre l'ultrattivita' delle sole tariffe giudiziarie dalla data d'entrata in vigore di quest'ultimo e non da quella della legge di conversione, va sottoposta al vaglio preliminare della Consulta, dacche', essendo il giudice obbligato a liquidare le spese processuali, ove mai le disposizioni cit. fossero dichiarate incostituzionali, non potrebbe procedervi, ricreandosi quel «vuoto normativo» ammesso dallo stesso Ministro della Giustizia nell'intervista del 7 febbraio u.s. - successiva all'intervento parlamentare «ex art. 2233 c.c.» del 31 gennaio precedente - per cui sono state varate le «norme transitorie» retroattive prefate. 1 - Premessa. E' noto come il Tribunale di Cosenza, con ordinanza del 1° febbraio 2012, ha gia' rimesso al vaglio della Corte costituzionale l'art. 9, commi 1 e 2, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (pubblicato nel Supplemento ordinario n. 18/L alla Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari data), sull'abolizione delle tariffe professionali, ritenendo che le nuove previsioni si pongono in contrasto con il principio costituzionale della ragionevolezza della legge, nella parte in cui non prevedono la disciplina transitoria limitata al periodo intercorrente tra l'entrata in vigore della norme e l'adozione da parte del Ministro competente di nuovi parametri per le liquidazioni giudiziali. Come sottolineato nell'ordinanza di rimessione della questione, il problema si pone proprio con riguardo alle liquidazioni da parte di un organo giurisdizionale, per le quali solamente il cd. decreto «Cresci Italia», dopo aver disposto l'abolizione di tutte le tariffe, minime e massime, ha previsto che il compenso del professionista va determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del Ministro della giustizia. Il cit. decreto-legge n. 1/2012 abolendo le tariffe professionali e rimandando l'indicazione dei parametri a un decreto del ministero della Giustizia, lascia un vuoto normativo che investe le liquidazioni giudiziali, non essendo ancora intervenuto il decreto ministeriale. La questione ha aperto la strada a differenti correnti interpretative all'interno della stessa magistratura e se alcuni hanno ipotizzato, in assenza di parametri determinati, il ricorso all'equita' da parte del giudice, altri hanno invece rilevato come l'equita' giudiziale possa essere esercitata per determinare l'ammontare preciso degli onorari di difesa solo dopo l'adozione di appositi parametri da parte del Ministero, non anche prima, individuando autonomamente i criteri della liquidazione. Ne', come ancora riportato nell'ordinanza di rimessione, potrebbe sostenersi, nella vacanza del provvedimento, l'applicazione ultrattiva delle tariffe ormai abrogate, vigendo in materia di norme processuali il principio del «tempus regit actum», per cui si impone l'applicazione delle leggi vigenti, e dunque del decreto-legge n. 1/2012, regolarmente entrato in vigore il 24 gennaio scorso. Il fenomeno non e' nuovo nell'ordinamento giuridico nazionale, ma non si e' mai verificato in dimensioni di questa portata, perche': A) Il decreto-legge n. 1 del 2012 ha sostituito un apparato tariffario con un sistema parametrale, affatto sconosciuto; B) In passato ogni intervento legislativo e' stato accompagnato da un decreto ministeriale contemporaneo e contestuale di determinazione delle tariffe professionali. Infatti, l'attuale Testo Unico sulle spese di giustizia, assicurando, a mezzo della previsione di cui agli articoli da 49 a 56, 275 e 299, 301 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 155, la permanenza in vigore dell'art. 4 della legge 8 luglio 1980, n. 319, e' stato preceduto dal decreto ministeriale 30 maggio 2002 - stessa data del decreto del Presidente della Repubblica teste' cit. - pubblicato nella Gazzetta Ufficiale in pari data n. 182, mentre il Testo Unico pure teste' cit. e' stato pubblicato sul Supplemento ordinario n. 126/L nella Gazzetta Ufficiale seguente 15 giugno 2002, n. 139. Nel caso di specie, invece, l'Italia e' stata condannata nel 2011 dalla Commissione dell'U.E. al pagamento di € 500.000,00 (Euro cinquecentomila) al giorno dal 31 gennaio 2012 se non si fosse adeguata alla liberalizzazione dei corrispettivi nei contratti di prestazione professionale intellettuale, stabiliti dall'art. 2233 c.c., e delle spese di giustizia (e stragiudiziali, arbitrali ed amministrative connesse a liti in potenza od in atto coinvolgenti due o piu' parti), fissate, per gli avvocati, dal decreto ministeriale 8 aprile 2004, n. 127, pubblicato sul Supplemento ordinario n. 95/L nella Gazzeta Ufficiale del 18 maggio 2004, n. 115, a titolo integrativo del rinvio recettizio, che si legge nell'art. 64, del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, nella Gazzetta Ufficiale del 5 dicembre 1933, n. 28, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, a sua volta pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 30 gennaio 1934, n. 24 (ma ora abrogato dalle disposizioni, di cui ai commi 1 e 5 del 24 gennaio 2012, n. 1 [pubblicato nel Supplemento ordinario n. 18/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari data], convertito, con modificazioni, dalla legge 24 marzo 2012, n. 27 [pubblicata sul Supplemento ordinario n. 53/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed entrata in vigore in pari data]). Le spese di giustizia, per gli altri professionisti ausiliari erano state finora salvaguardate dal combinato disposto degli articoli 50 e 275 del cit. decreto del Presidente della Repubblica n. 115/2002. Il legislatore italiano ha dovuto, quindi, rimediare senza indugio ne' dilazione alcuna alla situazione, derivante dalla sanzione comminata, intervenendo con la massima urgenza prima della scadenza del cit. dies a quo d'irrogazione: l'unico strumento possibile in materia era, logicamente, un decreto-legge. Il Tribunale di Cosenza, pertanto, ritenendo di non avere riferimenti normativi utilizzabili per la liquidazione delle spese processuali nel giudizio innanzi a lui pendente, ha sospeso la decisione relativa alla determinazione di tali spese e ha chiamato la Corte costituzionale ha giudicare della legittimita' delle previsioni di cui all'art. 9, commisi 1 e 2, del cit. decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, laddove le disposizioni, ivi previste, non prevedono alcuna disciplina transitoria per il tempo che va dall'abolizione delle tariffe' all'entrata in vigore dei nuovi parametri che il Ministero dovra' fissare. Ex intervallo, a giudizio di questo tribunale, l'entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge, gia' fulminato di denuncia d'incostituzionalita' in oggetto del testo normativo del comma 1° (e 2°, cit., non ha affatto migliorato la situazione. Ed, invero, l'art. 9 della legge 24 marzo 2012, n. 27 (pubblicata sul Supplemento ordinario n. 53/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed entrata in vigore in pari data), di conversione, contenente Modificazioni ed integrazioni normative, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (pubblicato sul Supplemento ordinario n. 18/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari data), dispone quanto segue: «Art. 9. (Disposizioni sulle professioni regolamentate). - 1. Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. 2. Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1 , nel caso di liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il compenso del professionista e' determinato con riferimento a parametri stabiliti con decreto del ministro vigilante, da adottarsi nel termine di centoventi giorni successivi alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Nello stesso termine, con decreto del Ministro della giustizia di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze sono anche stabiliti i parametri per oneri e contribuzioni alle casse professionali e agli archivi precedentemente basati sulle tariffe. Il decreto deve salvaguardare l'equilibrio finanziario, anche di lungo periodo, delle casse previdenziali professionali. 3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, sino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. 4. Il compenso per le prestazioni professionali e' pattuito, nelle forme previste dall'ordinamento, al momento del conferimento dell'incarico professionale. Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessita' dell'incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell'incarico e deve altresi' indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell'esercizio dell'attivita' professionale. In ogni caso la misura del compenso e' previamente resa nota al cliente con un preventivo di massima, deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi, Al tirocinante e' riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio. 5. Sono abrogate le disposizioni vigenti che per la determinazione del compenso del professionista rinviano alle tariffe di cui al colma 1. 6. La durata del tirocinio previsto per l'accesso alle professioni regolamentate non puo' essere superiore a diciotto mesi e, per i primi sei mesi, puo' essere svolto, in presenza di un'apposita convenzione quadro stipulata tra i consigli nazionali degli ordini e il Ministro dell'istruzione, universita' e ricerca, in concomitanza col corso di studio per il conseguimento della laurea di primo livello o della laurea magistrale o specialistica. Analoghe convenzioni possono essere stipulate tra i Consigli nazionali degli ordini e il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione per lo svolgimento del tirocinio presso pubbliche amministrazioni, all'esito del corso di laurea. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle professioni sanitarie, per le quali resta confermata la normativa vigente. 7. All'art. 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, sono apportate le seguenti modificazioni: a) all'alinea, nel primo periodo, dopo la parola «regolamentate» sono inserite le seguenti: «secondo i principi della riduzione e dell'accorpamento, su base volontaria, fra professioni che svolgono attivita' similari»; b) alla lettera c), il secondo, terzo e quarto periodo sono soppressi; c) la lettera d) e' abrogata. 8. Dall'attuazione del presente articolo non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Il testo normativa teste' riportato non risulta abbia soltanto ed unicamente convertito il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cit., ma contiene disposizioni normative aventi forza di legge estranee al testo originario del decreto-legge convertito, tra cui segnatamente il terzo comma, che stabilisce: 3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, sino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. Esse vanno lette - secondo i ben noti principi dell'interpretazione sistematica delle norme di legge e dei contratti, di cui agli articoli 12 delle preleggi al codice civile e 1362 ss. dello stesso c.c. - in combinato disposto con le altre seguenti statuizioni normative del decreto-legge ult. cit., assolutamente lasciate intatte e, percio', non modificate dalla legge di conversione in parola: 1. - Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico. 5. - Sono abrogate le disposizioni vigenti che per la determinazione del compenso del professionista rinviano alle tariffe di cui al comma 1. 2. - La norma legislativa ritenuta incostituzionale. Essa e' contenuta nell'art. 3, terzo comma (comma 3°), della legge 24 marzo 2012, n. 27 (pubblicata sul Supplemento ordinario n. 53/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed entrata in vigore in puri data), di conversione, contenente modificazioni ed integrazioni normative, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (pubblicato sul Supplemento ordinario n. 18/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari data), e recita: 3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali, sino alla data di entrata in vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2 e, comunque, non oltre il centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto. A giudizio dello scrivente, in combinato disposto con le disposizioni, di cui al primo e quinto comma dell'art. 9 cit., tale norma, contenuta esclusivamente nella legge di conversione, contenente modificazioni ed integrazioni non retroattive, 24 marzo 2012, n. 27 (pubblicata sul Supplemento ordinario n. 53/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 marzo 2012 n. 71 ed entrata in vigore in pari data), del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1 (pubblicato sul Supplemento ordinario n. 18/L nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale - 24 gennaio 2012 n. 19 ed entrato in vigore in pari data), si palesa incostituzionale, in quanto fissa la decorrenza dell'ultrattivita' o continuazione applicativa delle tariffe professionali abrogate non dalla data d'entrata in vigore della legge di conversione - il 24 marzo 2012 - ma dalla data d'entrata in vigore del «presente decreto» che altro non puo' essere se non il decreto-legge n. 1 del 2012. Infatti, il testo normativo statuisce che «le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto continuano ad applicarsi, limitatamente alla liquidazione delle spese giudiziali... ». Ne consegue che le sole norme «transitorie» del comma terzo dell'art. 9 - cosi' come modificato dalla legge di conversione 24 marzo 2012, n. 27, ma inesistenti nel decreto-legge convertito 24 gennaio 2012, n. 1 - impongono la retrotrazione effettuale o retroattivita' della decorrenza dell'ultrattivita' appena illustrata delle tariffe professionali abrogate, alla data d'entrata in vigore del decreto-legge in parola. In pratica, con le suddette norme «integrative», il legislatore, in sede di conversione del decreto-legge su ripetuto, ha realizzato, con efficacia retroattiva, rilevanti modifiche dell'ordinamento giudiziario, incidendo in modo irragionevole sul «legittimo affidamento nella sicurezza giuridica, che costituisce elemento fondamentale dello Stato di diritto» (sentenza n. 236 del 2009). Siffatta decorrenza retroattiva si manifesta, a tacer d'altro, con cristallina evidenza, affatto incostituzionale, secondo l'insegnamento della stessa Consulta, di cui alla sentenza della Corte costituzionale 4 - 5 aprile 2012, n. 78 (Presidente il Prof dott. Antonio Quaranta, relatore ed estensore l'ex collega Pres. di Sez. Cass. Cons. dott. Alessandro Criscuolo) che si riporta nel testo che procede nella sola motivazione in punto di diritto: Fermo il punto che alcune pronunzie adottate in sede di merito non sono idonee ad integrare l'attuale «diritto vivente», si deve osservare che, come questa Corte ha gia' affermato, l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimita' costituzionale (sentenza n. 26 del 2010, punto 2, del Considerato in diritto; sentenza n. 219 del 2008, punto 4, del Considerato in diritto). Nel caso in esame, il dettato della norma e', per l'appunto, univoco. Nel primo periodo essa stabilisce che, in ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente (il richiamo e' all'art. 1852 cod. civ.), l'art. 2935 cod. civ. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa (il principio e' da intendere riferito a tutti i diritti nascenti dall'annotazione in conto, in assenza di qualsiasi distinzione da parte del legislatore). Il secondo periodo dispone che, in ogni caso, non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge n. 225 del 2010; ed anche questa disposizione normativa e' chiara nel senso fatto palese dal significato proprio delle parole (art. 12 disposizioni sulla legge in generale), che e' quello di rendere non ripetibili gli importi gia' versati (evidentemente, nel quadro del rapporto menzionato nel primo periodo) alla data di entrata in vigore della legge di conversione. Questo e', dunque, il contesto normativo sul quale l'ordinanza di rimessione e' intervenuta. Esso non si prestava ad un'interpretazione conforme a Costituzione, come risultera' dalle considerazioni che saranno svolte trattando del merito. Pertanto, la presunta ragione d'inammissibilita' non sussiste. La questione e' fondata. L'art. 2935 cod. civ. stabilisce che «La prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto puo' essere fatto valere». Si tratta di una norma di carattere generale, dalla quale si evince che presupposto della prescrizione e' il mancato esercizio del diritto da parte del suo titolare. La formula elastica usata dal legislatore si spiega con l'esigenza di adattarla alle concrete modalita' dei molteplici rapporti dai quali i diritti soggetti a prescrizione nascono. Il principio posto dal citato articolo, peraltro, vale quando manchi una specifica statuizione legislativa sulla decorrenza della prescrizione. Infatti, sia nel codice civile sia in altri codici e nella legislazione speciale, sono numerosi i casi in cui la legge collega il dies a quo della prescrizione a circostanze o eventi determinati. In alcuni di questi casi l'indicazione espressa della decorrenza costituisce una specificazione del principio enunciato dall'art. 2935 cod. civ.; in altri, la determinazione della decorrenza stabilita dalla legge costituisce una deroga al principio generale che la prescrizione inizia il suo corso dal momento in cui sussiste la possibilita' legale di far valere il diritto (non rilevano, invece, gli impedimenti di mero fatto). In questo quadro, prima dell'intervento legislativo concretato dalla norma qui censurata, con riferimento alla prescrizione del diritto alla ripetizione dell'indebito nascente da operazioni bancarie regolate in conto corrente, nella giurisprudenza di merito si era formato un orientamento, peraltro minoritario, secondo cui la prescrizione del menzionato diritto decorreva dall'annotazione dell'addebito in conto, in quanto, benche' il contratto di conto corrente bancario fosse considerato come rapporto unitario, la sua natura di contratto di durata e la rilevanza dei singoli atti di esecuzione giustificavano quella conclusione. In particolare, gli atti di addebito e di accredito, fin dalla loro annotazione, producevano l'effetto di modificare il saldo, attraverso la variazione quantitativa, e di determinare in tal modo la somma esigibile dal correntista ai sensi dell'art. 1852 cod. civ. A tale indirizzo si contrapponeva, sempre nella giurisprudenza di merito, un orientamento di gran lunga maggioritario secondo cui la prescrizione del diritto alla ripetizione dell'indebito doveva decorrere dalla chiusura definitiva del rapporto, considerata la natura unitaria del contratto di conto corrente bancario, il quale darebbe luogo ad un unico rapporto giuridico, ancorche' articolato in una pluralita' di atti esecutivi: la serie successiva di versamenti e prelievi, accreditamenti e addebiti, comporterebbe soltanto variazioni quantitative del titolo originario costituito tra banca e cliente; soltanto con la chiusura del conto si stabilirebbero in via definitiva i crediti e i debiti delle parti e le somme trattenute indebitamente dall'istituto di credito potrebbero essere oggetto di ripetizione. Nella giurisprudenza di legittimita', prima della sentenza n. 24418 del 2 dicembre 2010, resa dalla Corte di cassazione a sezioni unite, non risulta che si fossero palesati contasti sul tema in esame. Infatti, essa aveva affermato, in linea con l'orientamento maggioritario emerso in sede di merito, che il termine di prescrizione decennale per il reclamo delle somme trattenute dalla banca indebitamente a titolo di interessi su un'apertura di credito in conto corrente decorre dalla chiusura definitiva del rapporto, trattandosi di un contratto unitario che da' luogo ad un unico rapporto giuridico, anche se articolato in una pluralita' di atti esecutivi, sicche' soltanto con la chiusura del conto si stabiliscono definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro (Corte di cassazione, sezione prima civile, sentenza 14 maggio 2005, n. 10127 e sezione prima civile, sentenza 9 aprile 1984, n. 2262). Con la citata sentenza n. 24418 del 2010 (affidata alle sezioni unite per la particolare importanza delle questioni sollevate: art. 374, secondo comma, cod. proc. civ.) la Corte di cassazione, con riguardo alla fattispecie al suo esame (contratto di apertura di credito bancario in conto corrente), ha tenuto ferma la conclusione alla quale la precedente giurisprudenza di legittimita' era pervenuta ed ha affermato, quindi, il seguente principio di diritto: «Se, dopo la conclusione di un contratto di apertura di credito bancario regolato in conto corrente, il correntista agisce per far dichiarare la nullita' della clausola che prevede la corresponsione di interessi anatocistici e per la ripetizione di quanto pagato indebitamente a questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui tale azione di ripetizione e' soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal correntista in pendenza del rapporto abbiano avuto solo finzione ripristinatoria della provvista, dalla data in cui e' stato estinto il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non dovuti sono stati registrati». Rispetto alle pronunzie precedenti, la sentenza n. 24418 del 2010 ha aggiunto che, quando nell'ambito del rapporto in questione e' stato eseguito un atto giuridico definibile come pagamento (consistente nell'esecuzione di una prestazione da parte di un soggetto, con conseguente spostamento patrimoniale a favore di altro soggetto), e il solvens ne contesti la legittimita' assumendo la carenza di una idonea causa giustificativa e percio' agendo per la ripetizione dell'indebito, la prescrizione decorre dalla data in cui il pagamento indebito e' stato eseguito. Ma cio' soltanto qualora si sia in presenza di un atto con efficacia solutoria, cioe' per l'appunto di un pagamento, vale a dire di un versamento eseguito su un conto passivo («scoperto»), cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, oppure di un versamento destinato a coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento (cosiddetto extra fido). In particolare, con riferimento alla fattispecie (relativa ad azione di ripetizione d'indebito proposta dal cliente di una banca, il quale lamentava la nullita' della clausola di capitalizzazione trimestrale degli interessi), la Corte di legittimita' non ha condiviso la tesi dell'istituto di credito ricorrente, che avrebbe voluto individuare il dies a quo del decorso della prescrizione nella data di annotazione in conto di ogni singola posta di interessi illegittimamente addebitati al correntista. Infatti, «L'annotazione in conto di una siffatta posta comporta un incremento del debito del correntista, una riduzione del credito di cui egli ancora dispone, ma in nessun modo si risolve in un pagamento, nei termini sopra indicati: perche' non vi corrisponde alcuna attivita' solutoria del correntista medesimo in favore della banca. Sin dal momento dell'annotazione, avvedutosi dell'illegittimita' dell'addebito in conto, il correntista potra' naturalmente agire per far dichiarare la nullita' del titolo su cui quell'addebito si basa e, di conseguenza, per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze del conto stesso. E potra' farlo, se al conto accede un'apertura di credito bancario, allo scopo di recuperare una maggiore disponibilita' di credito entro i limiti del fido concessogli. Ma non puo' agire per la ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non ha ancora avuto luogo». Come si vede, dunque, a parte la correzione relativa ai versamenti con carattere solutorio, la citata sentenza della Corte di cassazione a sezioni unite conferma l'orientamento della precedente giurisprudenza di legittimita', a sua volta in sintonia con l'orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito. 12. - In questo contesto e' intervenuto l'art. 2, comma 61, del decreto-legge n. 225 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 10 del 2011. La norma si compone di due periodi: come gia' si e' accennato, il primo dispone che «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 cod. civ. si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa». La disposizione si autoqualifica di interpretazione e, dunque, spiega efficacia retroattiva come, del resto, si evince anche dal suo tenore letterale che rende la stessa applicabile alle situazioni giuridiche nascenti dal rapporto contrattuale di conto corrente e non ancora esaurite alla data della sua entrata in vigore. Orbene, questa Corte ha gia' affermato che il divieto di retroattivita' della legge (art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale), pur costituendo valore fondamentale di civilta' giuridica, non riceve nell'ordinamento la tutela privilegiata di cui all'art. 25 Cost. (sentenze n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e n. 393 del 2006). Pertanto, il legislatore - nel rispetto di tale previsione - puo' emanare norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purche' la retroattivita' trovi adeguata giustificazione nell'esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU). La norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica, quindi, non puo' dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato gia' in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009). In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» (sentenza n. 311 del 2009), o di «ristabilire un'interpretazione piu' aderente alla originaria volonta' del legislatore» (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell'eguaglianza dei cittadini, cioe' di principi di preminente interesse costituzionale. Accanto a tale caratteristica, questa Corte ha individuato una serie di limiti generali all'efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civilta' giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparita' di trattamento; la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del 2010, citata, punto 5.1, del Considerato in diritto). Cio' posto, si deve osservare che la norma censurata, con la sua efficacia retroattiva, lede in primo luogo il canone generale della ragionevolezza delle norme (art. 3 Cost.). Invero, essa e' intervenuta sull'art. 2935 cod. civ, in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, perche', in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario in detta giurisprudenza, che aveva trovato riscontro in sede di legittimita' ed aveva condotto ad individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per il decorso del suddetto termine. Inoltre, la soluzione fatta propria dal legislatore con la norma denunziata non puo' sotto alcun profilo essere considerata una possibile variante di senso del testo originario della norma oggetto d' interpretazione. Come sopra si e' notato, quest'ultima pone una regola di carattere generale, che fa decorrere la prescrizione dal giorno in cui il diritto (gia' sorto) puo' essere fatto legalmente valere, in coerenza con la ratio dell'istituto che postula l'inerzia del titolare del diritto stesso, nonche' con la finalita' di demandare al giudice l'accertamento sul punto, in relazione alle concrete modalita' della fattispecie. La norma censurata, invece, interviene, con riguardo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, individuando, con effetto retroattivo, il dies a quo per il decorso della prescrizione nella data di annotazione in conto dei diritti nascenti dall'annotazione stessa. In proposito, si deve osservare che non e' esatto (come pure e' stato sostenuto) che con tale espressione si dovrebbero intendere soltanto i diritti di contestazione, sul piano cartolare, e dunque di rettifica o di eliminazione delle annotazioni conseguenti ad atti o negozi accertati come nulli, ovvero basati su errori di calcolo. Se cosi' fosse, la norma sarebbe inutile, perche' il correntista puo' sempre agire per far dichiarare la nullita' - con azione imprescrittibile (art. 1422 cod. civ.) - del titolo su cui l'annotazione illegittima si basa e, di conseguenza, per ottenere la rettifica in suo favore delle risultanze del conto. Ma non sono imprescrittibili le azioni di ripetizione (art. 1422 citato), soggette a prescrizione decennale. Orbene, come sopra si e' notato l'ampia formulazione della norma censurata impone di affermare che, nel novero dei «diritti nascenti dall'annotazione», devono ritenersi inclusi anche i diritti di ripetere somme non dovute (quali sono quelli derivanti, ad esempio, da interessi anatocistici o comunque non spettanti, da commissioni di massimo scoperto e cosi via, tenuto conto del fatto che il rapporto di conto corrente di cui si discute, come risulta dall'ordinanza di rimessione del Tribunale di Brindisi, si e' svolto in data precedente all'entrata in vigore del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342, recante modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia). Ma la ripetizione dell'indebito oggettivo postula un pagamento (art. 2033 cod. civ.) che, avuto riguardo alle modalita' di funzionamento del rapporto di conto corrente, spesso si rende configurabile soltanto all'atto della chiusura del conto (Corte di cassazione, sezioni unite, sentenza n. 24418 del 2010, citata). Ne deriva che ancorare con norma retroattiva la decorrenza del termine di prescrizione all'annotazione in conto significa individuarla in un momento diverso da quello in cui il diritto puo' essere fatto valere, secondo la previsione dell'art. 2935 cod. civ. Pertanto, la norma censurata, lungi dall'esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al citato art. 2935 cod, civ., ad esso nettamente deroga, innovando rispetto al testo previgente, peraltro senza alcuna ragionevole giustificazione. Anzi, l'efficacia retroattiva della deroga rende asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perche', retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finisce per ridurre irragionevolmente l'arco temporale disponibile per l'esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso, in particolare pregiudicando la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all'entrata in vigore della norma denunziata, abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme ai medesimi illegittimamente addebitate. Sussiste, dunque, la violazione dell'art. 3 Cost., perche' la norma censurata, facendo retroagire la disciplina in esso prevista, non rispetta i principi generali di eguaglianza e ragionevolezza (sentenza n. 209 del 2010). 13. - L'art. 2, comma 61, del decreto-legge n. 225 del 2010 (primo periodo), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 10 del 2011, e' costituzionalmente illegittimo anche per altro profilo. E' noto che, a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007, la giurisprudenza di questa Corte e' costante nel ritenere che le norme della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, specificamente istituita per dare ad esse interpretazione e applicazione - integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali (ex plurimis: sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010; sulla perdurante validita' di tale ricostruzione anche dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sentenza n. 80 del 2011). La Corte europea dei diritti dell'uomo ha piu' volte affermato che se, in linea di principio, nulla vieta al potere legislativo di regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata retroattiva, diritti risultanti da leggi in vigore, il principio della preminenza del diritto e il concetto di processo equo sanciti dall'art. 6 della Convenzione ostano, salvo che per imperative ragioni di interesse generale, all'ingerenza del potere legislativo nell'amministrazione della giustizia, al fine di influenzare l'esito giudiziario di una controversia (ex plurimis: Corte europea, sentenza sezione seconda, 7 giugno 2011, Agrati ed altri contro Italia; sezione seconda, 31 maggio 2011, Maggio contro Italia; sezione quinta, 11 febbraio 2010, Javaugue contro Francia; sezione seconda, 10 giugno 2008, Bortesi e altri contro Italia). Pertanto, sussiste uno spazio, sia pur delimitato, per un intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i limiti di cui all'art. 25 Cost.), se giustificato da «motivi imperativi d'interesse generale»», che spetta innanzitutto al legislatore nazionale e a questa Corte valutare, con riferimento a principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, nell'ambito del margine di apprezzamento riconosciuto dalla giurisprudenza della Cedu ai singoli ordinamenti statali (sentenza n. 15 del 2012). Nel caso in esame, come si evince dalle considerazioni dianzi svolte, non e' dato ravvisare quali sarebbero i motivi imperativi d'interesse generale, idonei a giustificare l'effetto retroattivo. Ne segue che risulta violato anche il parametro costituito dall'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della Convenzione europea, come interpretato dalla Corte di Strasburgo. Pertanto, deve essere dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'alt. 2, comma 61, del decreto-legge n. 225 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 10 del 2011 (comma introdotto dalla legge di conversione). La declaratoria di illegittimita' comprende anche il secondo periodo della norma («In ogni caso non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto»), trattandosi di disposizione strettamente connessa al primo periodo, del quale, dunque, segue la sorte. Ma v'e' di piu'. In virtu' d'un'interpretazione estensiva del testo normativo teste' cit. potrebbero, pero', risultare abrogate anche tanto le disposizioni che rinviano per la determinazione dettagliata delle tariffe professionali sia contrattuali, sia giudiziarie - rese retroattivamente (ed incostituzionalmente?) ultrattive dalle disposizioni contenute nel cit. terzo comma dell'art. 9 della legge n. 24 marzo 2012, n. 27, a far data dall'entrata in vigore del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, che non le prevede ne' contempla - al solito decreto ministeriale, e cioe' pure gli articoli 60 ss. e 64 ss. del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 5 dicembre 1933, n. 281, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, recante «Ordinamento delle professioni di avvocato [e procuratore]» e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 30 gennaio 1934, n. 24 con il decreto ministeriale n. 127/2004 d'accompagnamento; quanto, per gli altri professionisti, dagli articoli 4 della legge 8 luglio 1980, n. 319 e 49 ss., 59, 168, 170, 275, 299 del decreto del Presidente della Repubblica del 30 maggio 2002, n. 115 con uso delle Tabelle emanate con decreto ministeriale in pari data, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 5 agosto 2002, n. 182. Se la ratio legis di questa rivoluzionaria, formidabile operazione eliminatoria - denominata «abrogazione per incompatibilita' di norme di rinvio recettizio a periodici provvedimenti amministrativi conformativi» - fosse vera, quale ultrattivita' tariffaria, ancorche' forse incostituzionalmente e senza forse retroattiva, ne uscirebbe superstite? In proposito; si ricorda che gli usi richiamati dall'art. 2233 c.c sono negoziali e che il giudice non e' abilitato a creare «usi normativi» Irta soltanto ad applicare gli usi gia' definiti secondo le norme di legge esistenti; e che le modificazioni unicamente «aggiuntive» introdotte dalla legge di conversione d'un decreto-legge non hanno effetto retroattivo alla data di pubblicazione del decreto-legge convertito. Le enunciazioni del precedente capoverso valgono soprattutto, pero', perche' la norma dell'art. 2233 c.c. e' speciale rispetto all'art. 2225 c.c. ed e' intenta a perseguire la ratio legis di regolare il contratto di lavoro autonomo intellettuale privato tra cliente e professionista, senza impingere nelle spese processuali: tant'e' vero che, a parere dell'attuale giudicante, le disposizioni contenute nel cit. terzo comma dell'art. 9 della legge n. 24 marzo 2012, n. 27, decorrenti a far data dall'entrata in vigore del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, stabiliscono un limite invalicabile a pena di nullita' all'ultrattivita' retroattiva cit. nella materia delle tariffe relative alle sole spese giudiziali rispetto all'abrogazione di quelle volte alla libera regolamentazione negoziale delle parti. Ed allora molti autorevoli giuristi si pongono il terribile quesito: «Ultrattivita' retroattiva di che?!». 3. - Forma e contenuto dell'ordinanza di rimessione. Affinche' il giudizio di legittimita' costituzionale sia validamente instaurato, e' necessario che l'ordinanza di rimessione presenti i requisiti minimi di forma e, soprattutto, di contenuto. Per quanto attiene alla forma, la Corte ha evitato di adottare un atteggiamento eccessivamente rigoristico: cosi', ad esempio, non si e' ritenuta preclusiva dell'esame del merito la forma di «sentenza» adottata per sollevare la questione (sentenza n. 111); analogamente, nessuna conseguenza ha avuto la circostanza che il rimettente, anziche' «sollevare» la questione, avesse «ribadito» la questione gia' sollevata nel medesimo giudizio (ordinanza n. 238). Non ostativo all'ammissibilita' delle questioni e' stato implicitamente ritenuto l'eventuale ritardo con cui l'ordinanza di rimessione sia pervenuta alla cancelleria della Corte. (...) Con precipuo riferimento al contenuto dell'ordinanza di rimessione, sono numerose le decisioni con cui la Corte censura la carenza - assoluta o, in ogni caso, insuperabile - di descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo (ordinanze numeri 29, 90, 126, 155, 210, 226, 251, 288, 295, 297, 318, 364, 390, 396, 413, 434, 453, 472 e 476) o comunque il difetto riscontrato in ordine alla motivazione sulla rilevanza (sentenze numeri 66, 303 e 461, ed ordinanze numeri 3, 100, 140, 153, 183, 189, 195, 196, 207, 236, 237, 256, 328, 331, 340, 418, 482). Ad un esito analogo conducono i difetti riscontrabili in merito alla manifesta infondatezza (sentenza n. 147 ed ordinanze numeri 74, 197, 212, 266 e 382), a proposito della quale la sentenza n. 432 ha fornito un inquadramento di ordine generale, sottolineando che, «ai fini della sussistenza del presupposto di ammissibilita' [..], occorre che le «ragioni» del dubbio di legittimita' costituzionale, in riferimento ai singoli parametri di cui si assume la violazione, siano articolate in termini di sufficiente puntualizzazione e riconoscibilita' all'interno del tessuto argomentativo in cui si articola la ordinanza di rimessione; senza alcuna esigenza, da un lato, di specifiche formule sacramentali, o, dall'altro lato, di particolari adempimenti «dimostrativi», d'altra parte in se' incompatibili con lo specifico e circoscritto ambito entro il quale deve svolgersi lo scrutinio incidentale di «non manifesta infondatezza». Non mancano - sono anzi piuttosto frequenti - i casi in cui ad essere carente e' la motivazione tanto in ordine alla rilevanza quanto in ordine alla non manifesta infondatezza (sentenza n. 21 ed ordinanze numeri 84, 86, 92, 123, 139, 141, 142, 166, 228, 254, 298, 312, 314, 316, 333, 381, 435 e 448), carenze che rendono talvolta le questioni addirittura «incomprensibili» (ordinanza n. 448) e che sono alla base di declaratorie di (solitamente manifesta) inammissibilita' «per plurimi motivi» (cosi', testualmente, l'ordinanza n. 316). Altra condizione indispensabile onde consentire alla Corte una decisione sulla questione sollevata e' la precisa individuazione dei termini della questione medesima. A questo proposito, sono presenti decisioni che rilevano un difetto nella motivazione concernente uno o piu' parametri invocati (ordinanze numeri 23, 39, 86, 126, 311 e 414), talvolta soltanto enunciati (sentenze numeri 322 e 409, ed ordinanza n. 149), quando non indicati (ordinanza n. 166) o addirittura errati (ordinanze numeri 253 e 257). Del pari, sono da censurare l'errata identificazione dell'oggetto della questione - non di rado ridondante in una carenza di rilevanza (v. sopra, par. precedente) - che rende impossibile lo scrutinio della Corte (sentenza n. 21 ed ordinanze numeri 153, 197, 376, 436 e 454), l'omessa impugnazione dell'oggetto reale della censura (ordinanza n. 400), la sua mancata individuazione (ordinanza n. 140) od il riferimento alle disposizioni denunciate soltanto nella parte motiva della ordinanza di rinvio e non anche nel dispositivo (sentenza n. 243 ed ordinanza n. 228), alla stessa stregua della genericita' della questione sollevata (ordinanze numeri 23 e 328). In definitiva il giudice rimettente e' tenuto ad accertare la sussistenza dei presupposti di diritto, necessari a pena d'inammissibilita', per la sottoposizione alla Consulta della questione di legittimita' costituzionale di norme di legge ed equipollenti, mediante l'esercizio delle sotto elencate attivita' giurisdizionali di precisa e dettagliata individuazione, riguardante: a) Le norme ritenute incostituzionali; b) Le norme costituzionali eventualmente violate; c) La rilevanza nel processo di provenienza della questione di legittimita' costituzionale (il giudice rimettente e' chiamato, nel giudizio incidentale di legittimita' costituzionale, non solo ad indicare le circostanze che incidono sulla rilevanza delle questioni sollevate, ma anche ad illustrare, quando sia il caso, i presupposti interpretativi costituzionalmente orientari, che implicano, nel loro giudizio, la necessita' di fare applicazione della norma censurata (cosi' Corte costituzionale, sentenza 18 aprile 2012, n. 95; cfr., ex multis, l'ordinanza n. 61 del 2007 e la sentenza n. 249 del 2010); d) L'impossibilita d'un 'interpretazione costituzionalmente orientata del diritto vivente che consenta di ricondurre, nell'ambito dei principi sancito dalla Costituzione, il testo promulgato delle norme «sospette»; e) La precisa individuazione dell'efficacia della dichiarazione d'incostituzionalita' di queste ultime, ai fini dell'utilita' decisoria indispensabile nel caso di specie. Una mirabile sintesi dei compiti riservati al giudice a quo si rinviene nella sentenza della Corte costituzionale 15 dicembre 2010, n. 355, da cui sono estrapolabili le sotto enumerate massime: Sono inammissibili, per il carattere ancipite della prospettazione e l'insufficiente motivazione in ordine alla rilevanza, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 17, comma 30-ter, secondo, terzo e quarto periodo, decreto-legge 1° luglio 2009 n. 78, convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 2009 n. 102, modificato dall'art. 1, 1° comma, lett. c), n. 1, decreto-legge del 3 agosto 2009 n. 103, convertito, con modificazioni, in legge 3 ottobre 2009 n. 141, nella parte in cui prevede che l'azione per il risarcimento del danno erariale all'immagine delle pubbliche amministrazioni puo' essere esercitata soltanto quando sia intervenuta sentenza penale irrevocabile di condanna per i delitti previsti nel capo I del titolo II del libro II c.p., la prescrizione e' sospesa fino alla conclusione del procedimento penale ed e' nullo qualunque atto istruttorio o processuale compiuto in violazione di tali previsioni, salvo sia stata gia' pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del decreto, in riferimento agli artt. 3, 24, 1° comma, 54, 81, 4° comma, 97, 1° comma, 103, 2° comma, e 111 Cost. E' inammissibile, per carente descrizione della fattispecie, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, decreto-legge 1° luglio 2009 n. 78, convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 2009 n. 102, modificato dall'art. 1, 1° comma, lett. c), n. 1, decreto-legge del 3 agosto 2009 n. 103, convertito, con modificazioni, in legge 3 ottobre 2009 n. 141, nella parte in cui prevede la nullita' di qualunque atto istruttorio o processuale compiuto in violazione del divieto dell'esercizio dell'azione per il risarcimento del danno erariale all'immagine delle pubbliche amministrazioni prima che sia intervenuta sentenza penale irrevocabile di condanna per i delitti previsti nel capo I del titolo II del libro II c.p., in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 111 Cost. E' inammissibile, per difetto di motivazione in ordine alla rilevanza ed alla non manifesta infondatezza, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 17, comma 30-ter, quarto periodo, decreto-legge del 1° luglio 2009 n. 78, convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 2009 n. 102, modificato dall'art. 1, 1° comma, lett. c), n. 1, decreto-legge del 3 agosto 2009 n. 103, convertito, con modificazioni, in legge 3 ottobre 2009 n. 141, nella parte in cui prevede la nullita' di qualunque atto istruttorio o processuale compiuto in violazione del divieto dell'esercizio dell'azione per il risarcimento del danno erariale all'immagine delle pubbliche amministrazioni prima che sia intervenuta sentenza penale irrevocabile di condanna per i delitti previsti nel capo I del titolo 11 del libro II c.p., in riferimento agli artt. 3, 24 e 103 Cost. Sono inammissibili, in quanto il giudice a atto non ha dimostrato di aver sperimentato la possibilita' di una interpretazione costituzionalmente conforme delle disposizioni impugnate, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 17, comma 30-ter, secondo e terzo periodo, d.l. 1° luglio 2009 n. 78, convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 2009 n. 102, modificato dall'art. 1, 1° comma, lett. c), n. 1, decreto-legge 3 agosto 2009 n. 103, convertito, con modificazioni, in legge del 3 ottobre 2009 n. 141, nella parte in cui prevede che l'azione per il risarcimento del danno erariale all'immagine delle pubbliche amministrazioni puo' essere esercitata soltanto quando sia intervenuta sentenza penale irrevocabile di condanna per i delitti previsti nel capo I del titolo II del libro II c.p., e la prescrizione e' sospesa fino alla conclusione del procedimento penale, in riferimento all'art. 3 Cost. 4.- Le norme costituzionali violate La questione che ne occupa e' stata gia' affrontata e risolta nel senso dell'incostituzionalita' dalla sentenza della Corte costituzionale 4 - 5 aprile 2012, n. 78, che ha dichiarato costituzionalmente illegittime ed invalidate espressamente ex tunc - definendo nove ordinanze di rimessione esprimenti la non manifesta infondatezza dei dubbi di legittimita' costituzionale al riguardo - dichiarando l'incostituzionalita' dell'art. 2, comma 61°, del decreto-legge 29 dicembre 2010, n. 225 (c.d. Milleproroghe), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011, n. 10, limitatamente al testo normativo contemplato dal comma aggiunto dalla legge di conversione), il quale prevede che «In ordine alle operazioni bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione in conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa. In ogni caso non si fa luogo alla restituzione d'importi gia' versati alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». Secondo la Corte, la norma censurata violava, con la sua efficacia retroattiva, il canone generale della ragionevolezza delle norme (art. 3 Cost). La norma, infatti, era intervenuta sull'art. 2935 cod. civ. in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, perche', in materia di decorrenza del termine di prescrizione relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si era ormai formato un orientamento maggioritario in detta giurisprudenza, che aveva trovato riscontro in sede di legittimita' ed aveva condotto ad individuare nella chiusura del rapporto contrattuale o nel pagamento solutorio (od anche ripristinatorio) il dies a quo per il decorso del suddetto termine. La norma censurata, lungi dall'esprimere una soluzione ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al citato art. 2935 cod. civ., ad esso nettamente derogava, innovando rispetto al testo previgente e del decreto-legge convertito, peraltro senza alcuna ragionevole giustificazione. Cio' detto, secondo la Corte, l'efficacia retroattiva della deroga rendeva asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente perche', retrodatando il decorso del termine di prescrizione, finiva per ridurre irragionevolmente l'arco temporale disponibile per l'esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso, in particolare pregiudicando la posizione giuridica dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all'entrata in vigore della norma denunziata, abbiano avviato azioni dirette a ripetere somme ai medesimi illegittimamente addebitate. Sussisteva, dunque, la violazione dell'art. 3 Cost., perche' la norma censurata, facendo retroagire la disciplina in esso prevista, non rispettava i principi generali di eguaglianza e ragionevolezza, stabiliti dall'art. 3 Cost. Sennonche', le disposizioni legislative censurate d'incostituzionalita' violano anche altre norme della Costituzione, e cioe' gli articoli 3, 24, 101, 102, 104, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, Ad avviso del rimettente, la norma censurata viola i menzionati parametri costituzionali, in primo luogo, per contrasto col principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto: Infatti, la norma censurata si porrebbe, altresi', in contrasto con: A) Gli articoli 2, prima parte, 10, primo compia, ed 11, seconda parte, Cost. per flagrante violazione del diritto fondamentale dell'Uomo ad un «processo equo», trasposto in termini di «giusto processo», secondo il significato a tal espressione attribuito dall'art. 111 Cost., e dall'uniforme giurisprudenza della CEDU e della C.G.C.E., ai sensi dell'art. 6 della Convenzione di Roma 4 novembre 1950, del Protocollo addizionale di Parigi 20 marzo 1953, ratificati dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 24 settembre 1955, n. 224 nonche' degli ulteriori Protocolli addizionale successivi, tutti ratificati per legge, non potendo decidere de plano il giudicante sulla precisa determinazione dei diritti ed obblighi delle parti, in una controversia civile insorta, al pagamento delle spese processuali, una volta abrogate le tariffe professionali e non ancora stabiliti i parametri d' esse sostitutivi. B) L'art. 24 Cost., sotto il profilo dell'inviolabilita' della difesa del cittadino in ogni stato e grado del giudizio ed indefettibilita' della tutela giurisdizionale, in quanto la prima parte di essa farebbe decorrere l'ultrattivita' tariffaria da una scadenza cronologicamente retroatratta, esulante dalla sfera conoscitiva e di conoscibilita' del cliente ed el difensore, nonche' - in base ad una possibile opzione interpretativa, peraltro (ad avviso del rimettente) suscettibile di essere esclusa con un'esegesi della norma costituzionalmente orientata - introdurrebbe una palese disparita' di trattamento retroattiva nella liquidazione delle spese processuali nei confronti di quelle parti che hanno avuto la sfortuna d'imbattersi in provvedimenti liquidatori, non prima, ma durante e dopo l'entrata in vigore del decreto-legge cit., senza contare la condivisa opinione, evocata nella sentenza del Tribunale di Prato n. 1304 del 2011, secondo cui l'efficacia retroattiva della declaratoria d'incostituzionalita' del giudicato sarebbe eccepibile con apposita istanza - azione di parte, anche avverso un decreto ingiuntivo od una sentenza passata in giudicato, purche', ovviamente suffragata da un'ordinanza da parte del giudice adito in cui si affermi la non manifesta infondatezza della questione insorta. C) Gli articoli 101, 102 e 104 Cost., sotto il profilo dell'integrita' delle attribuzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario, trattandosi di stabilire «se la statuizione contenuta nella norma censurata integri effettivamente i requisiti del precetto di fonte legislativa, come tale dotato dei caratteri di generalita' e astrattezza, ovvero sia diretta ad incidere su concrete fattispecie sub iudice, a vantaggio di una delle due parti del giudizio»; D) L'art. 111 Cost., sotto il profilo del giusto processo, sub specie della parita' delle armi, in quanto la norma censurata, supportata da una espressa previsione di retroattivita', verrebbe a sancire - se non altro dalle ipotesi in cui dalle indebite annotazioni della banca sia gia' decorso un decennio - la paralisi processuale della pretesa fatta valere da chi abbia agito in giudizio, esperendo una qualsiasi impugnazione corrente ovvero una correzione d'errore materiale degl'importi liquidati. E) Infine, la norma di cui si tratta violerebbe l'art. 117, primo comma, Cost, attraverso la violazione dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), come diritto ad un giusto processo, in quanto il legislatore nazionale, in presenza di un notevole contenzioso e di un orientamento della Corte di cassazione contrario, avrebbe interferito nell'amministrazione della giustizia, assegnando alla norma, in assenza di «motivi imperativi di interesse generale», come enucleati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, un significato retroattivo svantaggioso per i contendenti. 5. - L'efficacia retroattiva della declaratoria d'incostituzionalita' delle norme di legge (retrospective overruling). Abrogazione e declaratoria di incostituzionalita' non sono termini equivalenti; anzi, di piu', sono termini del tutto eterogenei. L'abrogazione costituisce effetto giuridico di un atto (legge abrogatrice); dal canto suo, la declaratoria d'incostituzionalita' sta ad esprimere la formula di un atto (pronuncia «di accoglimento» della Corte) produttivo di effetti giuridici. Dunque, porsi un problema di differenza o di somiglianza tra l'abrogazione e la declaratoria d'incostituzionalita' sarebbe, ut sic, porsi uno pseudo-problema. Al contrario un problema del genere si pone ancora (entro certi limiti) come attuale, ove per essere termini omogenei si mettano a confronto: o la legge abrogativa e la declaratoria d'incostituzionalita', per quanto si riferisce specificamente al presupposto dell'una e dell'altra; oppure l'abrogazione e gli effetti che scaturiscono dalla declaratoria d'incostituzionalita'. Che tra la legge di abrogazione e la declaratoria d'incostituzionalita' esista un qualche punto di contatto, non pare da mettere seriamente in dubbio (cfr., in generale, sui rapporti tra l'abrogazione e la declaratoria di incostituzionalita', cfr. Pugliatti, op. ult. cit., 151 ss.; Cereti, Corso di diritto costituzionale, Torino, 1953, 440 ss. Per ulteriore bibliografia sull'argomento, v. infra, nt. 117. Cfr. anche la Relazione dell'onorevole Tesauro sul progetto di legge n. 87 del 1953, in Atti parl. Cam., II legislatura, doc. n. 469 A (17 aprile 1953), p. 38, ripresa successivamente dall'Abbamonte, il processo costituzionale italiano, I, Napoli, 1957, 245). Entrambe, infatti, rappresentano un rimedio avverso un vizio della legge: piu' precisamente, la legge abrogatrice postula un giudizio negativo sull'attuale opportunita' della legge abrogata (cfr. la tesi proposta da Costantino Mortati, Abrogazione legislativa ed instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale, in Scritti in onore di Pietro Calamandrei, V, Padova, 1958, 103 ss.: siffatta teoria, che riprende concetti amministrativistici [per tutti, Guicciardi, L'abrogazione degli atti amministrativi, in Raccolta di scritti di diritto pubblico in onore di G. Vacchelli, Milano, 1938, 268], sottolinea come il potere di abrogare nasca da «un potere-dovere di rivalutazione delle circostanze che ebbero a promuovere l'emanazione degli atti, onde accertare la permanenza della loro idoneita' a soddisfare il pubblico interesse» [Mortati, op. ult. cit., 112]), mentre la declaratoria d'incostituzionalita' esprime un giudizio negativo sulla legittimita' costituzionale della legge che ha formato oggetto del controllo per opera della Corte costituzionale. A questo punto, pero', la somiglianza cessa e subentra la differenza tra le due figure: la legge abrogativa colpisce una legge valida ancorche' viziata nel merito; la declaratoria d'incostituzionalita', al contrario, colpisce una legge (o singole sue disposizioni) invalida perche' difforme dalla norma-parametro di valore costituzionale, a prescindere dall'attuale opportunita' della legge medesima. Per un completa rassegna di dottrina e di giurisprudenza sul problema degli effetti delle pronunce dichiarative di illegittimita' costituzionale offre Lipari, Orientamenti in tema di effetti delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, in Giust. civ., 1963, I, 2225 ss.) e che in sede giurisprudenziale si trova ancora oggi accolta dalla sola Corte di cassazione penale (40), per cui le pronunce in questione sarebbero prive di una qualsiasi efficacia retroattiva, nessuna differenza sostanziale esisterebbe nella normalita' dei casi tra l'abrogazione e gli effetti che scaturiscono dalla declaratoria d'incostituzionalita' nei giudizi incidentali. Ex adverso, ad ammettere la tesi che in ordine all'efficacia delle pronunce «di accoglimento» venne proposta da un'autorevole dottrina (Calamandrei, in La illegittimita' costituzionale delle leggi nel processo civile, Padova, 1950, specialmente pp. 92-98, condivisa dal Redenti, Legittimita' delle leggi e Corte costituzionale, Milano, 1957, 77 e da Giuseppe Abbamonte, Manuale di diritto amministrativo, I edizione, p. 244 ss. passim) e che in sede giurisprudenziale si trova ancora oggi accolta dalla sola Corte di cassazione penale (cfr. Cass., sez, un., 27 ottobre 1962, in Riv. it. dir. proc. pen. , 1963, 229 ss., con nota critica di Gorlani, Sulla sorte delle sentenze pronunciate da un giudice successivamente ritenuto non naturale; Cass. 16 luglio 1963, ivi, 986, con nota critica di Marvulli, Gli effetti della declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 234 comma 2° c.p.p. sulle istruzioni precedentemente condotte dalla sezione istruttoria; Cass., sez. IV, 6 luglio 1965, ivi, 1965, 1101; Cass., sez. IV, 20 ottobre 1965,ivi, 1101, con nota critica di Cavallari, La dichiarazione d'illegittimita' costituzionale dell'art. 392 comma 1° c.p.p. e i suoi effetti sulle istruzioni sommarie gia' compiute; Cass., sez. un., 11 dicembre 1965, in Foro it., 1966, II, 65, con nota critica di Pizzorusso, Coincidentia oppositorum?; in Giur. it., 1966, II, 81, con nota critica di Chiavario, Primi appunti in margine alla sentenza delle Sezioni penali unite sulla sorte delle istruzioni sommarie compiute senza garanzie per la difesa, e in Riv. dir. proc., 1966, 118, con nota critica di Bianchi D'Espinosa, La «cessazione di efficacia» di norme dichiarate incostituzionali. Per ulteriore giurisprudenza, cfr. Podo, Successione di leggi penali, in Nss.D.I., XVIII, 1971, 684 nt. 9), per cui le pronunce in questione sarebbero prive di una qualsiasi efficacia retroattiva, nessuna differenza sostanziale esisterebbe nella normalita' dei casi tra l'abrogazione e gli effetti che scaturiscono dalla declaratoria d'incostituzionalita' nei giudizi incidentali. Ma ad una simile tesi si oppone anzitutto il diritto positivo. Infatti, se molti dubbi o molte perplessita' suscita l'opinione (avanzata da Marcello Gallo, La «disapplicazione» per la invalidita' costituzionale della legge penale incriminatrice, in Studi in onore di E. Crosa, II, Milano 1960, 916 ss., la cui esposizione confutativa trovasi in Pierandrei, Corte costituzionale, in questa Enciclopedia, X, 968 nt. 368) secondo cui anche dal solo art. 136 cost. sarebbe possibile dedurre l'efficacia retroattiva della pronuncia che qui ci occupa, nessun dubbio e nessuna perplessita' puo' esserci sul punto che lo stesso art. 136, disponendo che in seguito a declaratoria d'incostituzionalita' «la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione», nemmeno implicitamente vieta la retroattivita' medesima (Pierandrei). D'altra parte, a sancire implicitamente ma chiaramente l'efficacia retroattiva della pronuncia «di accoglimento» stanno, ciascuna per suo conto e a piu' forte ragione ancora l'uno in combinato disposto con l'altro, l'art. 1 della legge cost. 9 febbraio 1948, n. 1, nonche' gli art. 23 comma 2 e 30 comma 4 legge cost. 11 marzo 1953, n. 87: l'art. 1 legge cost. n. 1, cit., perche' nel fissare il principio della cosiddetta «incidentalita'», presuppone che gli effetti della pronuncia reagiscano almeno sul giudizio in corso (cfr. Cappelletti, La pregiudiziale costituzionale nel processo civile, Milano, 1957, 82 ss.); l'art. 23, capoverso o secondo comma, della legge cost. n. 87 del 1953, cit., perche' spinge alla medesima deduzione nel richiedere e la «rilevanza» della proposta questione in ordine alla definizione del processo pendente, e la sospensione del medesimo in attesa della pronuncia della Corte (come riconosce lo stesso Calamandrei, op. cit., 92.). Da qui a dire che per essere retroattiva in un caso la pronuncia della Corte retroagisce in ogni caso, il passo e' breve ed in breve si e' compiuto (cfr. Pierandrei, Le decisioni degli organi «della giustizia costituzionale» [Natura, efficacia, esecuzione], in RISG, 1954, 101 ss.; Aldo Mazzini Sandulli, in Manuale di diritto amministrativo, passim, ed in Natura, funzione, ed effetti delle pronunce della Corte costituzionale sulla illegittimita' delle leggi, in Riv. trim. dir. pubbl., 1959, 42. Per ulteriore dottrina conforme v. Lipari, op. cit., 2130 nt. 16.). A conferma di questa ulteriore deduzione sembra stare, del resto, l'art. 30 comma 4 legge cost. n. 87, cit. Detto articolo, stabilendo che «Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunziata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali», stabilisce un'eccezione (in materia penale) all'intangibilita' del giudicato che sarebbe del tutto priva di senso, ove la declaratoria d'incostituzionalita' non fosse retroattiva e retroattivamente efficace erga omnes. In secondo luogo, si oppone alla tesi, che qui si confuta, il rilievo secondo cui la Corte costituzionale, autorevolissima interprete della Costituzione, ha, con giurisprudenza costante (esplicitamente, cfr. C. cost. 29 dicembre 1966, n. 127, in Giur. cost., 1966, 1697; da ultimo, implicitamente, C. cost. 2 aprile 1970, n. 49, ivi, 1970, 555, cit.; conformi la giurisprudenza dominante dei giudici comuni e del Consiglio di Stato: fra le numerose altre, cfr. Cass., sez. I, 16 settembre 1957, n. 3491, in Giur. it., 1957, I, 1, 1211; Cass. 23 marzo 1959, n. 876, ivi, 1959, I, 1, 1335; Cass., sez, un., 22 luglio 1960, n. 2077, in Foro annui 1960, II, 131; Cass., sez. I, 27 marzo 1963, n. 757, in Giur. it., 1963, I, 1, 1112; Cass., sez. I, 16 giugno 1965, n. 1251, in Giust civ., 1965, I, 2239; Cons. St., ad. plen., 10 aprile 1963, n. 8, ivi, 1963, I, 2220 e 2276; e, piu' di recente, Cons. St. sez. VI, 18 marzo 1964, n. 247, in Cons. St., 1964, I, 135; Cons. St., sez. IV, 20 ottobre 1964, n. 1044, in Foro amm., 1964, I, 2, 1111.), attribuito all'art. 136 - anche alla luce degli altri sopraddetti - il significato di riconoscere alla pronuncia dichiarativa d'illegittimita' un'efficacia che retroagisce fin sulla soglia dei «rapporti esauriti», anche avverso un giudicato su norme dichiarate incostituzionali in seguito (giurisprudenza uniforma per quanto consta dalla remota sentenza della Corte cost. 2 aprile 1970, n. 49, in Giur. cost., 1970, 555, cit.). Una volta che si respinga la tesi dell'efficacia ex tunc e ad ammettere la tesi della retroattivita', emerge subito evidente la differenza sostanziale che separa l'abrogazione dagli effetti delle pronunce d'accoglimento. Infatti, mentre nel caso di abrogazione, infatti, la legge (o la norma) abrogata conserva piena applicabilita' sulle fattispecie insorte nel tempo della sua vigenza (secondo il principio «tempus regit actum» o di storicita' delle pronunce giurisdizionali) nel caso invece di una sentenza d'accoglimento la legge (o la norma) dichiarata incostituzionale non solo perde la propria applicabilita' sull'intera serie delle fattispecie da essa legge (o norma) prevista, ma inoltre ne cessa ogni effetto gia' prodotto che non sia irreversibile, neppure salvando i giudicati sostanziali antecedenti (cfr. Tribunale di Prato, sentenza Medita n. 1304/2011 e cosi', Crisafulli, Lezioni, cit, II, t. 1, 174). Altro e piu' complesso discorso viene da fare, se dalla normalita' dei casi si passa al caso eccezionale dell'abrogazione che sia nel contempo espressa ed espressamente retroattiva. E' ovvio che ogni dubbio ed ogni perplessita' verrebbe sul punto a cadere, qualora esatta fosse la tesi propugnata da Garbagnati, Sull'efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in Scritti giuridici in onore di F. Carnelutti, IV, Padova, 1950, 201 ss.; Valerlo Onida, Illegittimita' costituzionale di leggi limitatrici di diritti e decorso del termine di decadenza, in Giur. cost., 1965, 514 ss.; Onida, In tema di interpretazione delle norme sugli effetti delle pronunce di incostituzionalita', ivi, 1415 ss.) secondo cui la legge incostituzionale sarebbe nulla od inesistente e solo dichiarativa di codesta nullita' - inesistenza sarebbe la pronuncia d'accoglimento. Difatti, ove cosi' fosse, la differenza tra le due figure sarebbe netta e palese giacche', al contrario che nell'abrogazione espressa ed espressamente retroattiva, nessun problema di «rimozione» degli effetti riconducibili alla legge colpita si porrebbe nei confronti della declaratoria d'incostituzionalita', dato che l'atto legislativo (se ed in quanto) incostituzionale sarebbe fin dall'origine sprovvisto di efficacia e, dunque, privo di effetti giuridici. Ma, come pure l'altra sopra vista, nemmeno questa tesi sembra resistere all'obiezione che ad essa viene da un duplice rilievo. Anzitutto, che l'atto nullo-inesistente non produce assolutamente alcun effetto, mentre per comune consenso piu' di un effetto irrevocabile produce o puo' produrre la legge incostituzionale (cosi' Franco Modugno, Problemi e pseudo-problemi, cit., 667 s.). Secondo poi, che la formula di cui al comma I dell'art. 136 implica, se ha un senso, che la legge incostituzionale sia non gia' da sempre inefficace perche' nulla, ma medio tempore efficace per quanto invalida (cfr. Modugno, Esistenza della legge incostituzionale e autonomia del potere esecutivo, in Giur. cost., 1963, 1744). Confermata per altra via l'efficacia ex tunc erga omnes della dichiarazione di illegittimita', ci si torna a chiedere in cosa consista la differenza (ammesso che differenza vi sia) che separa un'abrogazione espressa ed espressamente retroattiva dagli effetti della pronuncia d'accoglimento. Precisamente, il problema si pone nei seguenti termini: atteso che dalla retroazione della declaratoria d'incostituzionalita' restano esclusi i cosiddetti «rapporti esauriti», si tratta di vedere se lo stesso limite valga anche per l'abrogazione retroattiva, oppure no. Nel caso l'area dei «rapporti esauriti» debba assumersi come sottratta e all'efficacia della pronuncia d'accoglimento e all'abrogazione retroattiva, nessuna differenza sostanziale esisterebbe tra le due figure; nel caso opposto, invece, la differenza in questo proprio starebbe, che l'ambito dei «rapporti esauriti» sarebbe travalicabile dall'una (ossia dall'abrogazione retroattiva) ed invalicabile dall'altra. E nell'eventualita' che si pervenga a quest'ultima conclusione, occorre ulteriormente spiegare, anche in termini piu' generali, quale sia il fondamento e insomma la ratio della differenza medesima. Ora che una legge retroattiva possa incidere, oltre che sui «diritti quesiti», anche sui «rapporti esauriti» sembra ormai ammesso dalla piu' recente e piu' avveduta dottrina, tra cui Paladin, Appunti sul principio di irretroattivita' delle leggi, in Foro amm., 1959, I, 946 ss.; Grottanelli De' Santi, Profili costituzionali della irretroattivita' delle leggi, Milano, 1970, 47 ss.; nel medesimo senso, in buona sostanza, Sandulli A. M., il principio della irretroattivita' delle leggi e la Costituzione, in Foro amm., 1947, II, 86 ss. In giurisprudenza, per la tesi che la retroattivita' della legge si estende anche ai «rapporti esauriti» ove cio' sia esplicitamente disposto dal legislatore, cfr. Cons. St., sez. IV, 22 dicembre 1948, in Foro amm., 1949, I, 2, 215: «Il principio della irretroattivita' delle norme legislative non costituisce un limite costituzionale all'attivita' del legislatore, dato che nella Costituzione vigente e' stato, soltanto, sancito all'art. 25 il principio della irretroattivita' della legge penale. Il legislatore, pertanto, puo' disporre che la legge abbia efficacia retroattiva.... Peraltro anche l'efficacia della legge retroattiva non si estende ai rapporti che si siano gia' completamente esauriti per transazione, pagamento, regiudicata, decadenza o per qualsiasi altra ipotesi che costituisca preclusione alla possibilita' di controversia... In deroga a tale principio generale, una determinata legge retroattiva puo' anche far rivivere cio' che era gia' estinto, ma occorre per cio' una particolare disposizione...». Nello stesso senso, militano C. conti 14 gennaio 1948, in Riv. C. conti, 1948, III, 82; Cons. St., sez. IV, 19 giugno 1959, in Foro amm., 1959, I, 950. Per la tesi ancora piu' estrema (e piu' comune) secondo cui la retroattivita' della legge si estende ai «rapporti esauriti» ogni volta che le disposizioni di questa risultino evidentemente incompatibili con la persistenza dei rapporti stessi, cfr. Cass. 28 febbraio 1948, in Foro pad., 1948, I, 490: «E' indiscutibile che la legge possa modificare, ridurre o anche sopprimere un diritto quesito. A cio', di solito, essa si e' indotta in tempi eccezionali e per gravi esigenze di interesse generale, e lo ha fatto o espressamente, o con una disposizione chiaramente incompatibile con la ulteriore integrale persistenza del suddetto diritto»; conf., per tutte, Cass. 5 maggio 1958, n. 1467, in Giust. civ., 1958, I, 2175. Ulteriore giurisprudenza in Grottanelli De' Santi, op. cit., 51 nt. 98. V. anche Capurso, Il problema della posizione di norme giuridiche sulla irretroattivita' delle leggi, in Rass. dir. pubbl., 1965, 426 ss. Solo, da essa si richiede, perche' cio' avvenga, un espresso disposto della legge in questione. Ma, qualora fossero esatte tanto la prima, quanto la seconda tesi, asserire apoditticamente (come di frequente si dice) che la clausola espressa serve a tutela della certezza del diritto (cfr. Grottanelli De' Santi, op. cit., 21 ss. e 41 ss.) ovvero dell'affidamento del privato nell'ordine giuridico positivo, getta un'ombra di dubbio e demolisce l'intera costruzione teorica avversata. Dato, infatti, che certezza del diritto e affidamento del privato non sono (per consenso ormai pressoche' unanime) principi di rango costituzionale ma valori politici e mere direttive, si potrebbe allora piu' esattamente dire che, da un punto di vista giuridico, la clausola espressa sarebbe richiesta come necessaria non gia' nel caso che la legge retroattiva incida sui «rapporti esauriti», bensi' nel caso opposto. Che se poi si volesse insistere nell'affermazione secondo cui certezza del diritto e affidamento del privato sono principi di rango costituzionale, allora nemmeno la clausola espressa basterebbe a derogarli. In realta', l'esattezza della tesi che la legge retroattiva (di pura abrogazione, nel caso che andiamo esaminando) possa incidere sui «rapporti esauriti» e che per fare questo occorra una clausola espressa, sembra vada posta su tutt'altro ordine di idee; ordine di idee che, a contrario, vale anche a spiegare perche' quanto e' possibile alla legge retroattiva non e' invece possibile alla pronuncia d'accoglimento. A questo proposito, giova muovere da un primo rilievo. La formula «rapporti esauriti» sta ad esprimere, se non ci inganniamo, quei rapporti e piu' in generale quelle situazioni che abbiano acquisito carattere di definitiva stabilita' nell'orbita del diritto (Intorno ai criteri da assumere per stabilire quando si sia in presenza di «rapporti esauriti», cfr. Barile P., La parziale retroattivita' della sentenza della Corte costituzionale in una pronuncia sul principio di eguaglianza, in Giur.it., 1960, 908 ss.; La Valle, Successione di leggi, inNss.D.I., XVIII, 1971, 640 ss.). D'altra parte, questo carattere di definitiva stabilita' si produce sui rapporti medesimi come effetto che una disposizione generale di legge collega a determinati fatti causativi. A mo' di esempio, l'inerzia del soggetto attivo durata un tempo prestabilito dalla legge comporta, a norma dell'art. 2934 comma 1 c.c., la prescrizione del diritto che ne sia oggetto e, dunque, l'«esaurimento» del rapporto o dei rapporti che ad esso sottostanno. Lo stesso concetto va ribadito riguardo ai rapporti coperti da giudicato (ex art. 2909 c.c. e 324 c.p.c.), da transazione (ex art. 1965 comma 1 c.c.), ecc. Da qui nasce un secondo rilievo critico, chiaramente insuperabile. Posto che un rapporto assume carattere di definitiva stabilita' nel modo che s'e' visto, la legge retroattiva allora puo' incidere sui «rapporti esauriti», quando contenga una clausola espressa cui deve riconoscersi una duplice valenza: quella, anzitutto, di recare una deroga (limitatamente ai rapporti nati dall'applicazione della legge o norma abrogata) alla disposizione generale di legge che ad un determinato fatto causativo collega l'effetto di rendere definitivi (per prescrizione, transazione, cosa giudicata, ecc.) quei rapporti che ad esso effetto soggiacciono; quella, poi, di rendere possibile la riconversione dei rapporti «esauriti» in rapporti «pendenti», cui si estende l'efficacia retroattiva della legge. Ove ci si muova in quest'ordine di idee, si puo' anche comprendere perche' mai l'area dei «rapporti esauriti» rimanga esclusa dagli effetti della pronuncia d'accoglimento. Quest'ultima, infatti, mentre rende inapplicabile la disposizione incostituzionale e ne rimuove gli effetti, non puo' invece rimuovere (per essere sentenza e non legge) quel particolare effetto che consiste nella definitiva stabilita' che viene al rapporto dal verificarsi di un evento previsto all'uopo da altra e diversa disposizione di legge; a meno che si tratti di una stabilita' solo apparentemente definitiva, come sarebbe nel caso della prescrizione e della decadenza ove incostituzionale fosse la disposizione che stabilisce il termine dell'una o dell'altra, oppure l'atto (per vizio di forma o di procedimento) dal quale essa disposizione promana. 6. - La rilevanza. Consiste nel nesso di pregiudizialita' - dipendenza tra giudizio a quo e giudizio di legittimita' costituzionale. Infatti, caratteristica peculiare del giudizio in via incidentale e' il rapporto di pregiudizialita' che collega il processo di costituzionalita' con il processo a quo: affinche' una questione di legittimita' costituzionale sia ammissibile, condizione imprescindibile e' che essa sia «rilevante» ai fini della decisione del processo nel corso del quale la questione e' stata sollevata. In realta', pero', alquanto dibattuta in dottrina e' la problematica che investe il requisito della «rilevanza», in particolare con riferimento al fatto se essa (rilevanza) vada intesa come mera applicabilita' della legge impugnata nel giudizio principale, o se piuttosto, vada configurata alla stregua di influenza della decisione della Corte sulle sorti del giudizio a quo. La questione, lungi dall'investire un profilo meramente teorico, comporta importanti conseguenze sul versante pratico concernenti la tutela del diritto obiettivo e la salvaguardia delle posizioni soggettive implicate nel giudizio di origine. Prima di esaminare il caso di specie e' opportuno fare alcune premesse sull'istituto della rilevanza. Il requisito della rilevanza e' esplicitamente previsto dall'art. 23 della legge n. 87 del 1953, che prevede l'obbligo per il giudice di sollevare la questione di costituzionalita' «qualora il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale». La dottrina e' concorde nel ritenere che tale disposizione non costituisca altro che una esplicitazione di quanto contenuto nell'art. 1 della legge costituzionale n. 1 del 1948, il quale prevede la possibilita' di adire la Corte solo «nel corso del giudizio». In altre parole, l'art. 23 menzionato, non farebbe che specificare «una realta' gia' insita nel sistema» essendo la rilevanza un requisito consustanziale alla logica stessa del giudizio incidentale. Tuttavia, come evidenziato da Massimo Luciani, «dire che la rilevanza sta nel sistema gia' prima della 1. n. 87, in quanto si ricollega naturaliter al principio dell'accesso incidentale, non significa allo stesso tempo dire cosa si intende per rilevanza» (cfr. fra i tanti V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale, Padova 1984, 280; M. Luciani, Le decisioni processuali e la logica del giudizio incidentale, Padova 1984, 101; L. Paladin, Diritto costituzionale, Padova 1995, 721. La prevalente dottrina intende la rilevanza quale pregiudizialita' costituzionale, di modo che «la questione deve avere ad oggetto disposizioni e norme delle quali si abbia a fare applicazione in quel giudizio», rappresentando «il legame fra il caso e il giudizio di costituzionalita', indispensabile perche' quest'ultimo possa iniziare». Recentemente la Corte con l'ord. n. 17 del 1999 e' ritornata sulla problematica, con una pronuncia di inammissibilita' emessa a fronte del fatto che «la sollevata questione di legittimita' costituzionale si presenta impropriamente come azione diretta contro una legge, dal momento che l'eventuale pronunzia di accoglimento di questa Corte verrebbe a concretare di per se' la tutela richiesta al rimettente e ad esaurirla, mentre il carattere di incidentalita' presuppone necessariamente che il petitum del giudizio nel corso del quale viene sollevata la questione non coincida con la proposizione della questione stessa» (Sul punto vedasi F. Dello Sbarba, L'inammissibile impugnazione della legge in mancanza di lite pregiudiziale, in questa Rivista 1999, 1301 e ss.; L. Imarisio, Lis fictae e principio di incidentalita': la dedotta incostituzionalita' quale unico motivo del giudizio a quo, in Giur. il 2001, 589; Vezio. Crisafulli, op. cit., 248. In tal senso vedasi anche V. Onida, Note su un dibattito in tenta di rilevanza delle questioni di costituzionalita' delle leggi, in questa Rivista 1978, I, 1997 e ss.). Secondo L. Carlassare (in L'influenza della Corte costituzionale, come giudice delle leggi, sull'ordinamento italiano, in Associazione per gli studi e le ricerche parlamentari 2000, 85). «e' qui la caratteristica del giudizio incidentale, la parte «mista» del nostro giudizio di costituzionalita', che non e' un giudizio completamente astratto perche' richiede un legame col caso, costituito appunto dalla rilevanza, senza il quale la Corte costituzionale non puo' iniziare il controllo; ne' un giudizio completamente accentrato perche' il primo vaglio appartiene al giudice del caso». Vi e' discordanza di opinioni, invece, in ordine al fatto se si tratti di una pregiudizialita' necessaria o meramente eventuale, e, quindi, se tale requisito vada valutato dal giudice remittente a seguito di una scrupolosa indagine o dopo una delibazione sommaria (per evitare «strozzature» impedienti sindacato di costituzionalita' F. Modugno, Riflessioni interlocutorie sull'autonomia del processo costituzionale, in Rass. dir. pubbl. 1969, propone un'interpretazione ampia del requisito, da intendersi come «mera applicabilita'» della legg; per una disamina delle varie posizioni, sia pure risalente al 1972, vedasi F. Pizzetti e G. Zagrebelsky, «Non manifesta infondatezza» e «rilevanza» nella instaurazione incidentale del giudizio sulle leggi, Milano 1972, 105-107). Inoltre non e' pacifico se essa vada considerata come mera applicabilita' (della norma, della cui conformita' a Costituzione si dubita, nel processo principale) o invece come influenza (della decisione della Corte sul giudizio a quo [cfr. in argomento V. Crisafulli, op. cit., 287, sottolinea che «se, parlandosi di influenza sul giudizio, si volesse mettere l'accento sul risultato, o meglio sulla diversita' di risultati che conseguirebbero alla risoluzione della quaestio legittimatis... non e' richiesto aversi influenza sul giudizio principale, l'esito ben potendo essere il medesimo, ma in applicazione di norme diverse da quelle che erano state denunciate e che la Corte avesse poi dichiarate costituzionalmente illegittime»; sed contra A. Ruggeri-A. Spadaro, Lineamenti di giustizia costituzionale, Torino 1998, 257, argomentando dal tenore letterale dell'art. 23 della legge n. 87 del 1953, sostengono che la tesi dell'influenza appare la piu' corretta, dovendosi intendere l'applicabilita' come un qualcosa di distinto, come «condizione necessaria, ma non sufficiente della q.l.c.). Ad ogni buon conto, va ricordato che, comunque si atteggi il controllo del giudice a quo, esso «non comporta alcun pregiudizio per l'interesse delle parti». Infatti, «e' vero che l'apprezzamento negativo impedira' l'accesso alla Corte, ma evidentemente, se il giudice del caso nega in concreto la rilevanza, cio' significa che ritiene di non dover applicare la norma» (L. Carlassare, I diritti davanti alla Corte costituzionale: ricorso individuale o rilettura dell'art. 27 legge 87/1953?, in Dir. soc. 1997, 4, 441 e ss.) Se il controllo sulla rilevanza dal parte del giudice del processo principale non desta inquietanti interrogativi in ordine all'effettivita' di tutela dei diritti in gioco e neppure del diritto obiettivo, dacche' anch'essa non sembra possa correre particolari pericoli dal controllo sulla rilevanza effettuato dal giudice del processo principale, perche' conte nota V. Crisafulli, «una questione seria finira' sempre per trovare un giudice che ne riconosca la non manifesta infondatezza... e, quanto alla rilevanza, ci sara' sempre, tra i moltissimi giudizi che si celebrano quotidianamente in Italia, quello la cui definizione dipende sotto l'uno o sotto l'altro aspetto, dalla soluzione di una seria questione di costituzionalita'» (conformi sia Gustavo. Zagrebelsky, La giustizia costituzionale, Bologna 1988, 220; sia V. Angiolini, La Corte senza il processo o il processo costituzionale senza processualisti, in La giustizia costituzionale ad una svolta, Atti del seminario di Pisa del 5 maggio 1990, a cura di R. Romboli, Torino 1991, 29-30, il quale ricorda che «un sindacato pieno... della Corte era stato escluso, con intenzioni opposte, sia dai sostenitori del giudizio costituzionale «obiettivo» (nell'interesse pubblico o dell'ordinamento) e «politico», sia dai sostenitori del giudizio costituzionale «concreto» (riallacciato alla controversia pendente presso il giudice a quo) e destinato a tutelare situazioni subiettive: gli uni avevano escluso il sindacato della Corte sulla rilevanza proprio per sottolineare il distacco degli interessi tutelati nel giudizio costituzionale da quelli del giudizio a quo, gli altri lo avevano escluso perche' il giudice remittente, come giudice primo e finale delle situazioni subiettive delle parti, avrebbe dovuto conservare sulla rilevanza una signoria intangibile»), lo stesso non puo' dirsi cosi' tranquillamente per la verifica che la Corte effettua su tale controllo, momento questo in cui le distinzioni precedentemente segnalate affiorano in tutta la loro importanza. Da piu' parti e' stata sottolineata la difficolta' ad ammettere la possibilita' per la Corte di effettuare un controllo sulla rilevanza poiche' «si verte su valutazioni gia' proprie del giudice a quo» in quanto «attengono ad un potere che appartiene all'essenza stessa della funzione giurisdizionale». Dal canto suo, V. Crisafulli, nelle sue note «Lezioni» nota al riguardo che le obiezioni tendenti a negare anche questo tipo di verifica sono infondate. Obiettare che il giudizio principale sia solo l'occasione del giudizio presso la Corte, non coglie nel segno poiche' «il cordone ombelicale che lega i due processi non si rompe mai del tutto, la decisione che la Corte emettera' sul merito della questione rivolgendosi anche, ed anzi, in primo luogo, al processo principale». D'altronde, come osserva l'autore, anche la tesi instaurante un parallelismo tra la «pregiudiziale costituzionale» e le altre pregiudiziali note alla prassi e alla legislazione processualistica non coglie nel segno quando sostiene che «il giudice investito dalla causa pregiudiziale non puo' ne' deve sindacare se la decisione di quest'ultima sia effettivamente rilevante per la decisione del processo a quo». Contro tale teoria Crisafulli obietta che, mentre nel caso delle pregiudiziali comuni sono certe l'autonomia ed estraneita' della questione pregiudiziale... rispetto all'oggetto originariamente proprio del giudizio principale, cio' non vale certo per quel che riguarda la questione costituzionale, potendo essa essere considerata «piuttosto come inerente all'oggetto stesso del giudizio a quo, in quanto attiene alle norme di legge in questo applicabili». Pertanto, conclude l'autore, «e' logico... che, a differenza delle altre pregiudiziali, la Corte sia tenuta a verificare in limine se sussistono i presupposti e le condizioni richieste affinche' possa giudicare nel merito della questione». In argomento, P. Veronesi (A proposito della rilevanza: la Corte come giudice del modo di esercizio del potere, 1996, 478 e ss), L. Carlassare (op. ult. cit., 453) e Valerio Onida (in Relazione di sintesi, in Giudizio a quo e promovimento del processo costituzionale, Atti del seminario svoltosi a Roma, Palazzo della Consulta, il 13-14 novembre 1989, Milano 1990, 307), quasi all'unisono rilevano che nella verifica della Corte sulla rilevanza «l'esigenza di fondo sia quella di trovare un giusto equilibrio tra il mantenimento necessario del nesso di incidentalita' (e' stato ricordato infatti come la rilevanza non sia null'altro che la traduzione esplicita del nesso di incidentalita'), e l'esigenza di lasciare al giudice a quo, per cosi' dire, la disponibilita' del proprio giudizio, cioe' di lasciare cosi' che sia il giudice a quo a decidere dell'impostazione del giudizio concreto: la Corte puo' esercitare un sindacato esterno sulla rilevanza, ma non puo' definire i termini del processo concreto». Peraltro, gia' nel 1957, Vezio Crisafulli (in Sulla sindacabilita' da parte della Corte costituzionale della «rilevanza» della questione di legittimita' costituzionale, 1957, 608 e ss.), osservando che il giudizio sulla fondatezza o meno della questione spetta alla Corte, mentre il giudizio sulla rilevanza spetta al giudice a quo, sostiene che la prima possa sindacare solo l'attendibilita' dell'accertamento compiuto dal giudice remittente e non direttamente l'accertamento in se stesso. Secondo l'autore, nel caso in cui il controllo effettuato da questo non sia attendibile, la Corte ricorrera' alla restituzione degli atti, mentre addiverra' ad una dichiarazione di irrilevanza solo nel caso in cui questa sai assolutamente certa, manifesta e non implicante indagini nel merito della causa principale. Senza dubbio consentito alla Corte e' un controllo esterno, che «possiede tutti i connotati tipici di un sindacato sul modo in cui i remittenti hanno esercitato il potere, loro assegnato, d'identificare le norme applicabili al caso». Infatti, se la rilevanza concerne il giudizio di provenienza, la sua valutazione non puo' non spettare al giudice remittente. In tal senso milita L. Carlassare (in L'influenza della Corte..., cit., 85). Cio' presupposto, si domanda l'autrice, «a chi infatti puo' competere il giudizio sulla rilevanza se non a chi, in concreto, deve fare applicazione della legge? La risposta sembrerebbe sicura: sta al giudice che deve risolvere il caso decidere quale norma applicare, non si puo' immaginare che una simile scelta sia attribuita ad altri; per Costituzione il giudice e' soggetto solo alla legge, nessuno puo' entrare nel suo giudizio, dirgli cio' che deve fare o quale legge applicare» (cfr., in termini, anche F. Pizzetti e G. Zagrebelsky, op. cit., 146-147 e le numerose ordinanze d'inammissibilita' della Corte costituzionale, tra cui, ex plurimis, la n. 305 del 1997; nonche' le sentenza un. 163 del 2000, 179 e 148 del 1999, 386 del 1996, 79 del 1994, n. 286 del 1997). Sul piano teorico non sembrano esserci dubbi di sorta, talche' e' lo stesso giudice costituzionale a ripetere a piu' riprese che «la valutazione della rilevanza spetta innanzitutto al giudice a quo, salvo il controllo esterno della Corte costituzionale», per cui «la valutazione... effettuata dal giudice remittente si puo' disattendere solo quando risulti del tutto implausibile». A partire, comunque, dalla fase dello smaltimento dell'arretrato, la Corte, non solo ha ristretto le maglie del proprio giudizio attraverso un irrigidimento delle coordinate logico-temporali entro le quali viene consentito al giudice a quo di sollevare la questione, ma ha attuato un controllo di una scrupolosita' maniacale in ordine alla corretta formulazione dell'ordinanza di rimessione), con particolare riferimento all'esigenza di una motivazione esaustiva in ordine alla rilevanza della questione. Ben vero, la dottrina ha individuato tre «stagioni» della rilevanza, in corrispondenza della diversa intensita' del controllo espletato dalla Corte su tale requisito. In particolare F. Sorrentino (in Considerazioni sul tema, in Giudizio..., cit., 239-241), sottolinea l'atteggiamento indulgente della Corte fino alla fine degli anni '50, periodo in cui la Corte tendeva a collocarsi piu' vicino al sistema giudiziario che a quello di governo, stringendo un rapporto piu' stretto con i giudici comuni. Egli nota che gia' nel corso degli anni '60 la Corte comincia ad operare un controllo piu' incisivo sulla rilevanza, controllo che tuttavia continua a mantenersi esterno, limitandosi la Corte a verificare semplicemente l'iter logico percorso dal giudice remittente. L'autore evidenzia, invece, che nella giurisprudenza piu' recente (lo scritto risale a quando il problema dello smaltimento dell'arretrato era quanto mai fresco) il controllo sulla rilevanza operato dalla Corte diviene «un vero e proprio controllo interno, volto a verificare se il giudice remittente debba oppure no applicare o comunque far uso della disposizione impugnata». La Corte diveniva sempre piu' costante nel dichiarare inammissibile la questione nel caso in cui la rilevanza non sia «attuale», in quanto la questione non inerisce a norma applicabile nel giudizio e nella fase in corso, non bastando che verta su norma gia' applicata in una fase anteriore (questione tardiva: ad es. ordd. nn. 59 del 1999 e 264 del 2002) o in una fase successiva (questione prematura: ad es. ord. n. 237 del 1999 e sent. n. 161 del 2000). Un'altra ipotesi confermativa dell'indirizzo giurisdizionale sulle leggi suddetto, concerne la sussistenza di questioni preliminari e pregiudiziali nel giudizio principale. Inizialmente la Corte ha ritenuto di esclusiva competenza del giudice a quo la determinazione dell'ordine logico delle eccezioni preliminari e pregiudiziali, compresa quella di costituzionalita' (vedasi ad es. sent. n. 59 del 1957). In contrario, di recente, la Corte ha ritenuto che il giudice remittente debba dar ragione nell'ordinanza di rimessione (ai fini della rilevanza) delle eccezioni preliminari e pregiudiziali sollevate o rilevabili con evidenza, occorrendo la giustificazione della precedenza accordata alla questione di costituzionalita' rispetto alle altre questioni nell'ordine logico preordinate o pariordinate (cfr. ex multis le ordinanze nn. 103 del 1995 e 15 del 1998). Tale fenomeno e' di tutta evidenza in riferimento all'inammissibilita' costantemente pronunciata dalla Corte di fronte a questioni contraddittorie (ad es. ordd. nn. 56 del 1991 e 164 del 1994), ambigue (ad es. sent. n. 344 del 1994 e ord. n. 449 del 1994) e alternative, ancipiti, ipotetiche o eventuali (ad es. ordd. nn. 414 del 1997, 94 del 1998 e 366 del 2002): epifenomeno dell'irrigidimento di cui si e' detto sono le decisioni di inammissibilita' per motivazione apodittica sulla rilevanza (ad es. ordd. nn. 219 e 279 del 2000). Tal orientamento potrebbe considerarsi ammissibile sono nel caso in cui non emerga in alcun modo il riscontro della rilevanza dal contesto dell'ordinanza o dagli atti di causa. A tal proposito L. Carlassare (in «La tecnica e il rito»: ovvero il formalismo nel controllo sulla rilevanza, 1979, 757 e ss.), sottolinea le conseguenze derivanti dall'intendere il controllo sulla rilevanza alla stregua di «un'esigenza meramente formalistica», il che comporta il «rischio del summum ius, summa iniuria». L'atteggiamento assunto dalla Corte e' dei piu' intransigenti, basti pensare che il giudice costituzionale esige a pena d'inammissibilita' non solo una dettagliata descrizione della fattispecie all'esame del remittente, ma anche una motivazione autosufficiente che non sia in alcun modo ricavata per relatione (cfr. le pronunce nn. 470 del 1998 e 251 del 1999 e le ordinanze nn. 139 del 2000 e 492 del 2002). L. Carlassare (in Le questioni inammissibili e la loro riproposizione, in questa Rivista 1985, 751), sottolinea che l'esigenza della «chiara e generale conoscenza» con la quale la Corte giustifica l'inammissibilita' delle questioni motivate per relationem, non e' sostenibile nei confronti della rilevanza, che si configura come un «requisito..., strettamente inerente giudizio a duo le cui vicende ben difficilmente possono interessare generalita' degli operatori giuridici». F. Ceffone (in Obiettivizzazione della questione di costituzionalita', rilevanza puntuale e rilevanza diffusa in un recente orientamento della giurisprudenza costituzionale, In Giur cost. 1983, 2419 e ss.) invece avvalla tale orientamento in virtu' della «funzione di pubblicita', posta a tutela di un interesse generale ad una chiara conoscenza delle questioni di legittimita' costituzionale, che non puo' ritenersi soddisfatto da un mero riferimento estraneo all'ordinanza medesima». Tuttavia quest'ultima osservazione, ad avviso del giudicante, non coglie nel segno, giacche' come nota la stessa L. Carlassare (in Le decisioni di inammissibilita' e di manifesta infondatezza della Corte costituzionale, in Foro it., 302), bisogna fare una distinzione, perche' se le ordinanze motivate per relationem «rinviano ad atti interni, non conoscibili dai terzi interessati lettori della Gazzetta Ufficiale, il fatto che la Corte le respinga, invocando l'esigenza della generale conoscenza collegata alla pubblicita' prescritta, si puo' comprendere», pero', costatando le pagine intere di Gazzetta Ufficiale occupate da istanze identiche, «quando il rinvio e' ad altre ordinanze di altri giudici o dello stesso giudice remittente su cui quest'ultimo modella la propria, si tratta di puro formalismo». Contro l'orientamento della Corte si schiera anche G. Zagrebelsky (in, La giustizia costituzionale, cit., 216, il quale osserva che dietro l'inammissibilita' pronunciata per l'esigenza di pubblicita' suddetta si cela in realta' un equivoco di fondo, creandosi «confusione fra la cosa (la rilevanza) e la sua motivazione-esposizione» e dimenticando invece che la stessa giurisprudenza costituzionale «afferma con rigore la necessita' di una motivazione propria, di ciascun giudice sui caratteri specifici che la rilevanza assume nel loro giudizio, senza rinvio a valutazioni altrui, nate in diversi contesti processuali». E' pur vero che da tale orientamento giurisprudenziale non puo' dedursi di per se' un'ingerenza della Corte nell'ambito riservato al giudice, ciononostante il rischio che il controllo della Corte non si mantenga piu' su un piano esterno, ma debordi in un sindacato interno e' tutt'altro che un'astratta possibilita', infatti, per dirla con le parole di Zagrebelsky, se «secondo la giurisprudenza della Corte la motivazione - perche' possa dirsi esistente - deve essere sufficiente, non contraddittoria, non incongrua rispetto alla fattispecie oggetto del giudizio e (se) su tali aspetti la Corte si riserva il sindacato.., e' chiaro che a questo punto puo' aprirsi la via per un controllo sostanziale delle valutazioni compiute dal giudice a quo». Occorre, dunque, indagare se una tale sovrapposizione di ruoli si sia effettivamente verificata, non fermandosi a quanto affermato dalla Corte nella motivazione delle proprie sentenze, o a quanto risulta dalle conferenze annuali del Presidente della Consulta, perche', per le ragioni addotte, «contrariamente alle intenzioni o alle proclamazioni, l'eventualita' di una sovrapposizione della Corte al giudice, in ordine alla rilevanza, e' all'ordine del giorno». Se e' possibile parlare di un controllo esterno nel caso di «errore evidente, che appare prima facie incontrovertibilmente» (sostenendo che essa sussiste nei casi di irrilevanza talmente palese da apparire ictu oculi, quando essa «risulta da dati obiettivi che non implicano una scelta di valore»), come nel caso in cui il giudice remittente abbia gia' fatto applicazione della norma censurata, altrettanto non puo' dirsi, come correttamente rilevato dal Veronesi, nel caso in cui la Corte ridefinisca i profili di fatto e il diritto su cui viene imperniata la causa nel giudizio principale, i quali invece dovrebbero giungere al suo controllo come dato immodificabile. Epifenomeni di una tale ingerenza della Corte nei compiti riservati ai giudici a quibus, dove si riscontra in modo evidente lo straripamento dagli argini che delimitano la sua funzione, sono riscontrabili all'interno del fenomeno comunemente chiamato della aberratio ictus, nel recente orientamento della Corte riguardante la sindacabilita' di norma abrogata e dello jus superveniens, per finire con la variante apportata in tema di controllo sulla rilevanza, risalente al 1990, e cioe' la c.d. irrilevanza sopravvenuta. Trattasi, com'e' evidente, della cosiddetta «aberratio ictus». Tale espressione, usata per indicare l'impugnazione di una disposizione diversa da quella, applicabile nel processo principale, a cui la censura proposta risulta effettivamente riferibile, viene utilizzata per la prima volta dalla Corte costituzionale nelle sentenze nn. 39 e 304 del 1986, ma ricorreva gia' da qualche tempo in dottrina. In particolare tale espressione era stata utilizzata di C. Mezzanotte (in Inammissibilita' e infondatezza per ragioni formali, in Giur cost. 1977), il quale ha distinto la diversa ottica retrostante al differente atteggiamento della Corte, talvolta pronunciante l'infondatezza altre volte l'inammissibilita' (negli ultimi anni sempre quest'ultima), di fronte ad ipotesi di aberratio ictus, esprimente nel primo caso la configurazione di un giudizio d costituzionalita' come radicalmente autonomo rispetto al giudizio principale mentre nel secondo la configurazione opposta, ossia il giudizio di costituzionalita' come «incidente» del giudizio a quo; la recente dottrina ritiene superata tale contrapposizione, rinvenendo nell'ipotesi in parola un vizio dell'oggetto della questione di costituzionalita'. La prima ipotesi, della c.d aberratio ictus, si ha nel caso in cui la censura del giudice a quo avrebbe dovuto riguardare un'altra norma, ma la Corte «invece di limitarsi a rilevare un generico difetto di rilevanza, per non essere quella sollevata dal giudice la norma applicabile al caso, indica al giudice anche l'altra norma che, a suo avviso, si sarebbe dovuta censurare». Se osserviamo i casi di aberratio spesso la Corte non rileva affatto un errore materiale del giudice remittente, ma «compie una vera e propria operazione interpretativa»), che, partendo dall'ordinanza di rimessione (e dal contesto in cui questa si inserisce), individua la norma da applicare alla fattispecie, «completamente estranea al ragionamento del giudice» remittente. Con questo comportamento la Corte riconfigura la stessa questione che le viene proposta dal giudice remittente, ridefinendo autonomamente l'oggetto stesso del suo sindacato. L. Cassetti (in L'aberratio ictus del giudice a quo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur cost.a 1990, 1387, osserva che il tipo di errore in cui puo' incappare il giudice remittente puo' essere «materiale» o «interpretativo» e asserisce che «fra le righe dell'aberratio e' infatti consentito leggere qualcosa di piu' della rilevazione del mero errore materiale e qualcosa di diverso dalla censura dell'errore interpretativo: il quid pluris e' rappresentato... dalla indicazione della disposizione o del sistema normativo cui il giudice a (pro deve riferirsi ai fini della definizione del giudizio pendente». Questo orientamento, come notano Marilisa D'amico e Paolo Veronesi, e' un chiaro indice di come il controllo esercitato dalla Corte non possa dirsi esterno rispetto a quello operato del giudice a quo, venendosi a configurare non come un controllo sull'iter logico percorso dal remittente, poiche' «la Corte costruisce i parametri per un proprio, autonomo, giudizio sulla rilevanza, che non coincide affatto con un riesame dell'attivita' delibativa compiuta dal giudice». Tali osservazioni non vanno limitate all'ipotesi di aberratio. Esse valgono anche in ipotesi d'abrogazione delle norme oggetto di censura e di valutazione diretta dello jus superveniens. Leopoldo Elia (in Giur cost., 1999, 687) evidenzia il cambiamento al riguardo incorso nella giurisprudenza piu' recente. L'illustre autore osserva che, mentre in un primo momento anche su tale profilo la Corte si limitava (come su ogni altro aspetto legato alla rilevanza) ad esigere una congrua motivazione, non contraddittoria sul punto (n. 117 del 1964), oggi la Consulta pretende che le venga fornita una puntigliosa motivazione da parte del giudice remittente in riferimento alla fattispecie concreta. Sebbene questa «per il principio della successione delle leggi nel tempo, e' disciplinata dalla norma impugnata vigente all'epoca in cui si e' realizzato il fatto» (vedasi la nota redaz. alla sentenza. n. 81 del 1998, a cura di A. Celotto) cio' non viene considerato dalla Corte sufficiente ai fini della motivazione sulla rilevanza. I proposito, e' necessario che la perdurante applicabilita' della normativa alla fattispecie concreta venga sostenuta «oltre che da un accurato esame di tutti gli elementi della fatti specie atti a collocarli temporalmente nella sua sfera di vigenza, da una descrizione dell'iter logico argomentativo in base al quale egli ha ritenuto di individuare in quei determinati confini l'ambito temporale di efficacia della norma impugnata» (cfr. le ordinanze nn. 419, 468 del 1997; 79, 343 del 1998). Non e' da escludere che la Corte esiga un tal corredo argomentativo per poter essere lei stessa messa in grado di valutare direttamente se la nuova normativa incida temporalmente sul caso in esame, confermando la tendenza osservata ad esercitare sul piano concreto il proprio controllo sulla rilevanza non dall'esterno, ma, per dirla con le parole di Elia, «in forme piu' penetranti, spesso vicine ad un vero e proprio controllo interno in cui Corte si sostituisce al giudice a quo affermando o negando la rilevanza prescindere da vizi della motivazione». In ogni evenienza, il rischio di una sovrapposizione del controllo della Corte a quello del giudice a quo, e' stato rinvenuto oltre che nell'orientamento della Corte particolarmente rigoroso ed esigente nel pretendere una dettagliata dimostrazione della rilevanza nel caso in cui le norme oggetto di censura siano abrogate o comunque modificate, anche nell'ipotesi in cui, in caso d'jus superveniens, la Corte, invece di provvedere, come solita fare, alla restituzione degli atti al giudice a quo, affinche' fornisca una motivazione adeguata in relazione alla modificazione sopraggiunta (essendo suo il compito di valuta la persistente rilevanza della questione), giudica direttamente sulla rilevanza della questione. Un'altra ipotesi da cui traspare in modo nitido l'evoluzione in tema di controllo sulla rilevanza di cui si e' detto, consiste nel fenomeno, che e' stato denominato dell'irrilevanza sopravvenuta». Tale figura si riscontra nel caso in cui «la rilevanza di una determinata questione di costituzionalita', che sussiste al momento dell'emanazione della ordinanza di rinvio, venga meno successivamente, a seguito del verificarsi di fatti nuovi (ad es. morte dell'imputato, transazione della causa, ecc)». In questo contesto, va rilevato che, di recente, la Corte sembra essere ritornata sui suoi passi quando afferma che «l'estinzione del giudizio a qua non e' di per se sufficiente a determinare la sopravvenuta inammissibilita' della prospettata questione di costituzionalita' poiche', secondo l'orientamento giurisprudenziale di questa Corte, in armonia con l'art. 22 delle «Norme integrative» del 16 marzo 1956, il requisito della rilevanza riguarda solo il momento genetico in cui il dubbio di costituzionalita' viene sollevato, e non anche il periodo successivo alla rimessione della questione alla Corte costituzionale» di' tal che non si puo' fare a meno di constatare come le decisioni richiamate, in tale ordinanza, per suffragare quello che e' a detta della stessa Corte il proprio costante orientamento, non tengano conto della giurisprudenza costituzionale degli anni '90. Va detto, inoltre, che sovente non si procede all'esame del merito della questione, ma si dichiara la manifesta l'inammissibilita' della questione dovuta al fatto che l'ordinanza di rimessione presenta delle carenze in ordine ai passaggi logici «necessari per ritenere la pregiudizialita' della questione». Come si vede l'apertura della Corte e' piu' apparente che reale, dal momento che, sebbene inammissibilita' sia pronunciata di fronte ad un vizio dell'ordinanza di rimessione da parte del giudice a quo, e a dire la verita' superabile dalla stessa Corte con un po' di buona volonta', la questione non potra' piu' essere sollevata dallo stesso giudice nello stesso grado di giudizio, dal momento che per l'appunto vi e' stata l'estinzione del giudizio a quo. Da tale orientamento, che fino ad oggi e' ancora (fortunatamente) sporadico, sembra dedursi una riformulazione da parte della Corte del concetto stesso di rilevanza, da intendersi come «concreta incidenza della pronuncia costituzionale sulla soluzione del giudizio principale» (40). E' curioso notare che le dispute dottrinali, di cui si e' detto, sul significato di rilevanza come «mera applicabilita'» o come «influenza decisiva» sull'esito del giudizio, fossero riferite al controllo del giudice a atto e non a quello della Corte! Secondo alcuni, fra i quali Roberto Romboli, in una situazione del genere ci si trova di fronte ad «processo costituzionale rigidamente dipendente dal giudizio principale, in quanto teso a tutelare gli stessi interessi presenti in quest'ultimo, visti nella loro specificita'. Un processo costituzionale quindi massimamente concreto ed attento agli interessi del giudizio a quo». Siffatto orientamento della Corte costituzionale (in particolare le decisioni di inammissibilita' per irrilevanza sopravvenuta) e' stato da piu' parti criticato, dato che una configurazione tanto concreta del giudizio costituzionale rischia di precludere la tutela dell'«integrita' costituzionale dell'ordinamento» oggettivo. Tuttavia, un cosi' penetrante controllo della Corte in ordine ai presupposti del caso concreto, determina dei seri rischi anche per la tutela delle posizioni soggettive implicate nel giudizio principale, in quanto comporta la trasformazione del giudice costituzionale in un vero e proprio giudice di secondo grado che opera un sindacato di carattere interno sulla rilevanza, a tal punto che «si puo' riscontrare come il profilo della rilevanza possa ... confondersi con il merito stesso della questione». Il pericolo dietro l'angolo e' che il thema decidendum venga delineato attraverso un dialogo che non vede piu' come interlocutori le parti e il giudice, ma quest'ultimo e la Corte costituzionale, dialogo che spesso si arresta di fronte alle, decisioni di inammissibilita' pronunciate da quest'ultima. Come nota Lorenza Carlassare, «non spetta al giudice costituzionale entrare nel merito del processo sospeso indicando quali norme deve, o non deve applicare» proprio perche' «altrimenti il pregiudizio delle parti puo' essere definitivo... se il giudice remittente, di fronte ad una decisione di inammissibilita', non ripropone la questione in modo corretto». Un sindacato della Corte cosi' penetrante da sfociare il piu' delle volte in decisioni di inammissibilita' in realta' implica una minor tutela dell'integrita' dell'ordinamento e rischia di arrecare pregiudizi definitivi alle parti in quanto contraddice alla ratio della legge cost. n. 1 del 1948 e quindi alla logica stessa del giudizio incidentale. A tal proposito la dottrina e' tuttora divisa sull'interpretazione dell'ordinanza n. 109 del 2001, in cui la Corte premettendo che, come risulta dall'ordinanza di rimessione, «i giudici ricusati hanno presentato dichiarazione di astensione, accolta dal Presidente del Tribunale; che a norma dell'art. 39 c.p.p. la dichiarazione di ricusazione, che ha dato luogo alla procedura nell'ambito della quale e' stata sollevata la questione di legittimita' costituzionale, si considera come non proposta quando il giudice, anche successivamente ad essa, dichiara di astenersi e l'astensione e' accolta; che l'astensione dei giudici ricusati, intervenuta successivamente alla ordinanza di rimessione, appare quindi suscettibile di incidere sul rapporto processuale instauratosi innanzi al giudice della ricusazione e sulla perdurante rilevanza della presente questione di legittimita' costituzionale (v. ordd. nn. 448 del 1994, 65 del 1991, 250 del 1990)», ha concluso «che non e' di ostacolo a questa conclusione la disciplina dettata dall'art. 22 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, che si riferisce ai diversi casi della sospensione, interruzione ed estinzione del giudizio a quo». Secondo R. Romboli (in Aggiornamenti in tema di processo costituzionale, Torino 2002, 63), «pare proprio che la Corte sia incorsa in una sorta di infortunio, dal momento che l'art. 22 N.I. stabilisce l'irrilevanza per il processo costituzionale di «qualsiasi causa» incidente sulla vita del giudizio a quo e non, come sembra ritenere la Corte, dei soli casi che conducono alla sospensione, interruzione ed estinzione del giudizio a quo, il quale ultimo riferimento infatti e' chiaramente riferito al processo costituzionale e non a quello che si svolge davanti al giudice comune». In senso analogo si e' espresso M. Dal Canto (in La rilevanza e il valore del fatto nel giudizio di costituzionalita' delle leggi in via incidentale, in E. Malfatti-R. Romboli-E. Rossi [a cura di], Il giudizio sulle leggi e la sua diffusione. Verso un controllo di costituzionalita' di tipo diffuso, Torino 2002, 147 e ss.; sul punto vedasi anche S. Pajno, La Corte torna nuovamente sul tenia dell'irrilevanza sopravvenuta, in Giur. it. 2001, 6 e ss.). Infatti, se, come ha osservato Vezio Crisafulli, «l'autonomia del processo costituzionale... deve comunque essere riferita al processo costituzionale dopo che sia stato validamente instaurato, mentre la rilevanza attiene al momento di instaurazione di esso, condizionandone il valido proseguimento», il cordone ombelicale che lega i due giudizi sara' reciso (46), nel momento in cui la questione supera positivamente il vaglio di ammissibilita' compiuto dalla Corte, che in sostanza deve controllare se la questione, oggettivamente configurata nell'ordinanza di remissione, possa condurre una vita autonoma. P. Veronesi (op. ult. cit., 499), parla efficacemente di «giudizio di appello anticipato». M. D'Amico (op. cit., 2154), osserva, altresi', che nel suo controllo la Corte «parte innanzitutto, da un esame dell'ordinanza di rimessione, intesa quasi come domanda del giudizio costituzionale», cosicche' «il problema centrale non sta piu' dalla parte dei giudici, ma del modo in cui la Corte intende risolvere il caso oggetto del suo giudizio», per cui «se il caso entra a far parte del giudizio costituzionale, quest'ultimo deve necessariamente trasformarsi, avvicinandosi sempre piu' ad un vero giudizio». Sul fatto che «la rilevanza entra a formare il c.d. petitum, ossia cio' che e' chiesto alla Corte e sul quale essa deve svolgere il proprio, autonomo, sindacato, concordano O. Berti, Considerazioni sul tema, in Giudizio a quo..., cit., 100, che rileva come «la rilevanza medesima finisce con il corrispondere, sia pure in termini obiettivi, alla formazione del contenuto della domanda da sottoporre al giudice costituzionale»; nonche' L. Pesale, Sull'inammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate in via incidentale, in Giur cost. 1992, 1592, che deduce come «qualsiasi vizio relativo alla formazione del contenuto di tale domanda sia logicamente riconducibile ad un problema di rilevanza». La Corte, compie la sua verifica stella presenza della rilevanza non in via «successiva al concreto esercizio del potere attribuito ai giudici.. (ma in via) preventiva sugli effetti che una sua eventuale pronuncia potra' generare». La Corte, cioe', ipotizza il passaggio della questione al vaglio di ammissibilita' e la sua eventuale soluzione in sede costituzionale, per poi, dopo avere valutato i possibili effetti della sua eventuale pronuncia nel merito, dichiararne l'inammissibilita', cosicche' la questione ha assunto vita autonoma solo nel pensiero della Corte: ma cosi' la decisione processuale rischia di tramutarsi in un vero e proprio «aborto costituzionale». Infatti, in tali ipotesi, non e' il giudizio di costituzionalita' a propendere verso un sempre maggiore tasso di concretezza, ma e' il controllo della Corte a rivelarsi proteso in tal senso. Un controllo del genere, infatti, «proprio in nome della concretezza del giudizio costituzionale, della sua aderenza al caso, e quindi di un piu' stretto legame col giudizio a in definitiva finisce per recidere ogni legame con quest'ultimo creando una barriera fra i due giudizi». A questo punto si pongono tre problemi, in ordine: a) alla possibilita' di risollevare medesima questione nello stesso giudizio da parte dello stesso giudice; b) alla perduranza della rilevanza in caso di cessazione della materia del contendere ai fini della soccombenza virtuale; c) alla necessita' per il giudice di decidere con sentenza la domanda dell'opponente per rendere attuale la rilevanza della questione. Va subito messo in evidenza che le prime due questioni non fanno sorgere particolari dubbi, Infatti, quanto alla riproposizione della questione a seguito di una pronuncia di inammissibilita' da parte del medesimo giudice nel corso dello stesso giudizio, la Corte dalla meta' degli anni '80, e' costante nel ritenere che «con riguardo, poi, ai giudizi nell'ambito dei quali la questione era gia' stata sollevata, e' solo da aggiungere che l'art. 24, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, preclude allo stesso giudice di adire nuovamente la Corte soltanto nel caso di' una pronunzia di «natura decisoria» (sentt. nn. 433 del 1995 e 451 del 1989) e non quando sia stata emessa una pronunzia che dichiara manifestamente inammissibile la questione, per ragioni puramente processuali» (sentt n. 189 del 2001). Del parii nel caso di vizi emendabili dell'ordinanza di rimessione, la Corte ha mostrato, adeguandosi a quanto avanzato in dottrina da Lorenza Carlassare, di non attribuire «alcun rilievo alla circostanza» che si tratti di questione gia' sollevata nel medesimo giudizio e dichiarata in precedenza inammissibile. Per quanto riguarda la perduranza della rilevanza della questione, in caso di cessazione della materia del contendere, essa si ricava dalla univoca giurisprudenza della Suprema Corte di Cassazione per cui «venuta meno la materia del contendere, ma persistendo tra le parti contrasto in ordine all'onere delle spese processuali, il giudice del merito deve decidere secondo il principio della soccombenza virtuale, previi gli accertamenti necessari» (Cass., 11 gennaio 1990, n. 46, in Giust. civ. 1990, I, 947; conf. ex multis Cass., 28 marzo 2001, n. 4442). Il vero nodo da sciogliere riguarda la terza questione. Puo' la Corte imporre al giudice di pronunciare una sentenza parziale, rompendo il principio dell'unita' del giudicato, sancito dall'art. 277 c.p.c., per cui il giudice «nel deliberare sul merito deve decidere tutte le domande proposte e le relative eccezioni, definendo il giudizio»? In ordine a tale problematica va innanzitutto ricordato che il codice ha esplicitamente previsto delle eccezioni al suddetto principio, nel comma 2 dell'art. 277 c.p.c., nell'art. 278 c.p.c. e nell'art. 279 c.p.c. Va subito sottolineato che nella fattispecie non ricorrono sicuramente i presupposti dell'art. 277, comma 2, c.p. c. idonei a giustificare un frazionamento della decisione. Infatti, e' pacifico che non occorresse nel caso di specie alcuna ulteriore istruzione in ordine alla domanda riconvenzionale, dal momento che il giudice ha sollevato la questione quando le parti avevano gia' precisato le conclusioni. Neppure puo' ritenersi che la sollecita decisione dell'opposizione fosse di interesse apprezzabile per una delle parti. Quali conseguenze puo' determinare allora la rottura del principio dell'unita' del giudicato, in ipotesi non previste dal codice? Prima di rispondere e' opportuno segnalare che, a seguito della riforma del 1950, la possibilita' di decidere singole questioni e' stata mantenuta, ma e' scomparsa la categoria delle sentenze parziali, la quale ha ceduto il passo alla distinzione fra sentenze definitive e non definitive, distinzione di difficile coordinamento con il principio di cui all'art. 277 c.p.c.. Senza entrare nei tortuosi meandri dell'art. 279 c.p.c., che ha visto divisa la stessa Corte di Cassazione nell'individuare i criteri di distinzione fra sentenze definitive e non definitive, in questa sede va rilevato che seguendo l'indirizzo c.d «sostanzialistico» - in considerazione del fatto che la sentenza sull'opposizione di terzo emessa dal Tribunale di Venezia ha esaurito l'intero rapporto processuale relativamente alla domanda stessa - la stessa decisione del Tribunale di Venezia (a dispetto del nomen juris adottato dallo stesso giudice) apparterrebbe alla categoria delle sentenze definitive. Che la rottura del principio dell'unita' del giudicato possa far ritenere la sentenza definitiva emessa sull'opposizione di terzo una sentenza definitiva dell'intero giudizio per mancanza dei presupposti che (ai sensi dell'art. 277, comma 2, c.p.c.) permettono il frazionamento del giudicato? In questo caso la Corte, pretendendo una motivazione sulla rilevanza tale da dimostrare la possibile concreta incidenza della questione sul giudizio principale, avrebbe spinto il giudice a decidere in via definitiva l'intero giudizio con la conseguenza, paradossale, che la questione risollevata dallo stesso con ord. 12 settembre 2002 sarebbe questa volta sicuramente davvero irrilevante (essendo il giudizio definito). Va immediatamente sottolineato, pero', che una tale soluzione si rivela una forzatura di un principio, quello dell'unita' del giudicato, la cui stessa permanenza nel codice a seguito della novella del 1950 e' stata da piu' parti messa in dubbio. In ogni caso, quand'anche si ritenesse tuttora vigente tale principio, esso assumerebbe una natura meramente programmatica, insuscettibile di determinare le conseguenze drastiche di cui si e' detto, come testimonia anche la giurisprudenza citata in ordine all'insindacabilita' in Cassazione dell'uso legittimo del giudice di frazionare la sua decisione: il nesso di incidentalita' puo' ritenersi salvo. L'analisi di un caso di specie, tuttavia, non puo' dirsi meramente oziosa, perche', come mettero' in luce nel prossimo paragrafo, e' idonea ad evidenziare il paradosso che una nozione di rilevanza come «influenza» (sul giudizio principale) puo' comportare. Le fattispecie analizzate mettono, pero', in luce un aspetto nascosto, ma consustanziale ad un controllo della Corte sulla rilevanza come «influenza». Portando alle estreme conseguenze tale impostazione, ogni questione sollevata dal remittente difetterebbe sempre del requisito della rilevanza. Se la Corte, infatti, pretendesse che la questione non sia prematura, ma «attuale», e non sia sollevata in via ipotetica ed eventuale, a tal punto da dichiarare l'inammissibilita' di quelle «ordinanze di rimessione (che) non esplicitano, invero, alcun elemento di valutazione circa l'incidenza in concreto delle stesse (disposizioni impugnate) sulla decisione che il giudice a quo e' tenuto ad assumere nei procedimenti innanzi a se' pendenti», il nesso di incidentalita' rischia di venir meno. In altre parole, se la Corte imporrebbe che il giudice remittente avesse risolto ogni altra questione pregiudiziale e preliminare, imponendogli nella sostanza di sollevare la questione al termine del processo in modo da permettere al giudice costituzionale stesso di verificare il differente esito del giudizio principale a seconda dell'accoglimento o meno della questione sollevata, allora sorgono seri dubbi sul fatto che la disposizione impugnata sia ancora applicabile nel giudizio a quo. Il giudice remittente, infatti, sarebbe chiamato ad emettere, sia pure nella forma di ordinanza (di rimessione), un provvedimento nella sostanza di carattere decisorio. A tal proposito va ricordato che, quanto meno in ambito civile, la giurisprudenza e gran parte della dottrina, sono concordi nel ritenere che «la natura di un provvedimento giurisdizionale, anche ai fini dell'impugnabilita', deve essere desunta non dalla forma ne' dalla qualificazione attribuita dal giudice che lo ha emesso, bensi' dal suo intrinseco contenuto in relazione alle particolari disposizioni che regolano la materia». Come evidenziato dalla Cassazione con la sent. 30 dicembre 1994, n. 11358, «la natura di un provvedimento giudiziale deve essere desunta non dalla forma in cui il provvedimento e' stato emanato o dalla qualificazione che gli e' stata attribuita dal giudice che lo ha emesso, ma dal suo effettivo contenuto in relazione alle particolari disposizioni che regolano la materia che ne forma oggetto, per cui anche una ordinanza (del giudice dotato di poteri decisori) puo' assumere la natura di sentenza impugnabile se risolve, con efficacia di giudicato, questioni attinenti ai presupposti, alle condizioni o al merito della controversia». Pertanto, se la Corte volendo sindacare il controllo sulla reale incidenza della disposizione impugnata sul giudizio principale pretenda che il giudice remittente esprima il proprio convincimento per il caso in cui la questione non venisse accolta, ecco che allora anche la rilevanza verrebbe irrimediabilmente meno, in quanto la stessa disposizione impugnata non sarebbe piu' applicabile in un giudizio gia' concluso. Da quanto suesposto si evince, dunque, che gli effetti paradossali di denegata tutela del diritto obiettivo e delle posizioni soggettive implicate nel giudizio principale sono frutto di un concetto di rilevanza inteso come influenza della decisione della Corte sulle sorti del giudizio principale; viceversa, qualora s'intenda la rilevanza come mera applicabilita' della legge impugnata nel giudizio a atro, le conseguenze predette vengono scongiurate. Inoltre, inteso in tal modo il requisito della rilevanza, viene salvaguardato anche il delicato equilibrio fra i giudici remittenti e la Corte, senza che la stessa si arroghi compiti riservati ai primi, ai quali soltanto spetta valutare l'applicabilita' di una determinata norma nel giudizio principale. Sul punto, si riscontrano varie decisioni nelle quali l'esame di merito e' stato precluso dal difetto di rilevanza, ora derivante dalla «estraneita' delle norme denunciate all'area decisionale del giudice rimettente» (cosi', espressamente, l'ordinanza n. 447), ora dal momento nel quale la questione era stata concretamente sollevata. Nel primo senso, possono menzionarsi le fattispecie nelle quali la Corte ha constatato che il giudice a quo non avrebbe in alcun caso avuto modo di applicare la disposizione denunciata (ordinanze numeri 81, 148, 340, 341, 382, 434 e 436), donde la non incidenza della questione sull'esito del giudizio (sentenza n. 266 ed ordinanze numeri 153, 213, 292, 296, 429, nonche', scil., la precitata ordinanza n. 447). A questa categoria possono associarsi le declaratorie di irrilevanza motivate dalla erronea individuazione delle norme da censurare (in tal senso, ordinanza n. 376) e quelle derivanti dalla decadenza con effetti retroattivi della disposizione censurata (come nel caso di un decreto-legge non convertito: ordinanza n. 443). Devesi peraltro evidenziare che, in linea generale, l'abrogazione o la modifica della disposizione, operando ex tunc, non esclude di per se' la rilevanza della questione, restando applicabile - in virtu' della successione delle leggi nel tempo - la disposizione abrogata o modificata al processo a quo (cosi le sentenze numeri 283 e 466). In relazione al momento nel quale la questione di legittimita' e' stata sollevata, la Corte ha ribadito l'inammissibilita' delle questioni c.d. «premature», quelle cioe', in cui «la rilevanza appare meramente futura ed ipotetica», in quanto il giudice rimettente non e' ancora nelle condizioni di fare applicazione della disposizione denunciata (ordinanza n. 375). Ad esiti analoghi si giunge con riferimento alle questioni «tardive», vale a dire promosse quando le disposizioni denunciate sono gia' state oggetto di applicazione (ordinanze numeri 55, 57, 208, 363, 370 e 377) ovvero quando la loro applicazione non e' piu', possibile (ordinanze numeri 90, 97 e 443), perche' il potere decisorio del giudice a qua si e' ormai esaurito: e' stato in proposito sottolineato che «la rilevanza di una questione di costituzionalita' non puo' essere fatta comunque discendere dalla mera impossibilita', per il giudice rimettente, di sollevare la questione stessa in una fase anteriore; essendo necessaria, al contrario, una oggettiva incidenza del quesito sulle decisioni che detto giudice e' ancora chiamato a prendere» (cosi', l'ordinanza n. 363). Nell'operare il controllo circa la rilevanza della questione sottopostale, la Corte costituzionale si attiene, in linea generale, alle prospettazioni del giudice rimettente. Cosi, ad esempio, di fronte ad una eccezione argomentata sulla base di un asserito difetto di legittimazione attiva del ricorrente nel giudizio a quo, la Corte ha sottolineato che la valutazione di tale profilo «e' esclusivamente riservata al giudice» (ordinanza n. 181). Questa impostazione non impedisce alla Corte di svolgere un vaglio relativo ad un eventuale difetto di giurisdizione o di competenza che infici in »rodo palese il giudizio principale: nel corso del 2005, la constatata carenza di giurisdizione del giudice rimettente ha precluso in tre occasioni l'esame del merito della questione (sentenza n. 345 ed ordinanza numeri 9 e 196; nella sentenza n. 144, invece, e' stato evidenziato che, «pur in presenza di orientamenti difformi [...], l'argomentazione svolta dal rimettente in ordine alla sussistenza della giurisdizione [...], non appar[iva]implausibile»); analogamente, nell'ordinanza n. 82, a suffragio della dichiarazione di manifesta inammissibilita', si e' precisato che «il difetto di competenza del giudice rimettente, ove sia manifesto, come tale rilevabile ictu oculi, comporta l'inammissibilita' della questione sollevata per irrilevanza». Un ultimo aspetto da menzionare e' la conferma dell'autonomia» che e' propria della questione pregiudiziale di costituzionalita' rispetto alle sorti del processo nell'ambito della quale e' stata promossa: onde disattendere una eccezione di inammissibilita' per irrilevanza sopravvenuta, nella sentenza n. 244 si e' chiarito, in conformita' ad una giurisprudenza consolidata, che «il giudizio di legittimita' costituzionale [...] una volta iniziato in seguito ad ordinanza di rinvio del giudice rimettente non e' suscettibile di essere influenzato da successive vicende di fatto concernenti il rapporto dedotto nel processo che lo ha occasionato, come previsto dall'art. 22 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale». Orbene, nel caso di specie, alla luce delle considerazioni prefate, non v'e' dubbio che sussista evidente rilevanza della pregiudiziale risoluzione del problema su descritto, giacche' nel dispositivo della sentenza o dell'ordinanza cautelare ovvero nel decreto di liquidazione dei c.t.u. il giudice adito e' obbligato a quantificare onorari e diritti dell'avvocato ovvero le competenze d'un perito d'ufficio. In particolare, la stessa Corte costituzionale ha sancito l'obbligo inderogabile e solo eventualmente differibile di liquidazione delle spese processuali ex art. 91 c.p.c., dichiarando infondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimita' costituzionale degli art. 669-octies e 703 c.p.c., nella parte in cui non stabiliscono che il provvedimento di accoglimento di una domanda in materia possessoria debba contenere la liquidazione delle spese della fase interdittale, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., con la precisazione, spiegata in motivazione, che costituisce principio generale dell'ordinamento che il giudice debba liquidare le spese ogniqualvolta emetta un provvedimento conclusivo di un procedimento, anche solo ipoteticamente idoneo a divenire definitivo. In ispecie, rilevato che era stata chiesta la liquidazione delle spese della fase interdittale, il Tribunale di Firenze, Sezione distaccata di Empoli, con l'ordinanza 10 maggio 2006, aveva sollevato, in rifirimento agli artt. 3 e 24 Cost, questione di legittimita' costituzionale degli art. 703 e 669-octies c.p.c., nella parte in cui non prevedono che, con il provvedimento di accoglimento della domanda possessoria, il giudice debba liquidare le spese del procedimento. Il giudice delle leggi ha, difatti, ritenuto non fondata la censura sollevata, in virtu' della sussistenza, appunto, nel nostro ordinamento di un principio generale, che impone al giudice di liquidare le spese ogniqualvolta emetta un provvedimento conclusivo di un procedimento, anche solo ipoteticamente idoneo a divenire definitivo. Va, pero', precisato che la natura del provvedimento interdittale nel nuovo contesto legislativo non e' affatto cosi' limpida come ritenuto dal giudice a quo (e presupposto dalla Consulta). Difatti, se la dottrina concorda nel ritenere che il provvedimento in esame sopravviva al mancato inizio o all'estinzione del giudizio di merito, si divide sulla natura che esso assume in tali ipotesi. Un primo orientamento, cui aderisce il giudice empolese, in analogia con la disciplina dei provvedimenti cautelari a strumentalita' attenuata e in applicazione dell'art. 669-octies, ultimo comma, c.p.c., ritiene che esso non acquisti un'efficacia diversa da quella di cui gia' godeva e sopravviva sino a quando in un eventuale nuovo giudizio tra le stesse parti, se l'azione possessoria sia ancora esperibile, sia emanata una sentenza di merito che lo contraddica. Un'opposta interpretazione e' fornita da coloro che sostengono che tale provvedimento non seguito da una sentenza sul merito possessorio acquisti la medesima autorita' di quest'ultima, sia pur all'esito di una cognizione sommaria, o che si realizzi, se non il giudicato, quanto meno una preclusione, di modo che in giudizio di merito sulle stesse circostanze di fatto, se introdotto separatamente dopo la scadenza del termine, sarebbe inammissibile. Aderendo a tale ricostruzione, nessun dubbio potrebbe sorgere in relazione alla necessita' che con esso il giudice provveda alla liquidazione delle spese - persino stando all'erronea ricostruzione del giudice a quo - per diretta applicazione dell'art. 91 c.p.c., trattandosi di provvedimento idoneo ad acquisire l'autorita' della cosa giudicata e, quindi, qualificabile come «sentenza che chiude il processo davanti a lui». 7. - Esperimento d'interpretazione costituzionalmente orientata del diritto vivente. La Corte costituzionale - come si e' visto - finisce con il pronunciarsi sulla norma oggetto dell'ordinanza di rimessione: in tale ipotesi la Corte, infatti, esplicitamente ammonisce il giudice a dare seguito alla interpretazione che reputa costituzionalmente corretta. L'autorita' giudiziaria - afferma la Corte - deve adempiere al compito che le e' proprio: scegliere, tra piu' interpretazioni dotate di una sufficiente consistenza logica e giuridica, quella che sia conforme a Costituzione. Detto diversamente: l'obbligo di rimettere una questione di legittimita' costituzionale dinanzi alla Corte nella sola ipotesi in cui, verificate tutte le possibilita' interpretative, non possa alla disposizione «attribuirsi (...) altro che un significato di (almeno) dubbia costituzionalita'». Il tema del conflitto (o della coesistenza) tra dottrina del diritto vivente e canone ermeneutico della interpretazione adeguatrice sembra allora (ri)proporsi all'attenzione della dottrina, per gli effetti che esplica nei confronti del giudice costituzionale e nei confronti del giudice rimettente. L'aderenza della Corte alla teoria del diritto vivente comprime - come e' noto - il suo potere di reinterpretare la disposizione indicata nell'ordinanza, suggerendone al giudice a quo una lettura adeguatrice, alle sole ipotesi in cui «non sia ravvisabile, in giurisprudenza, un univoco indirizzo interpretativo in ordine alla disposizione di legge impugnata (..), o all'ipotesi in cui il giudice a quo si discosti, appunto, dall'interpretazione prevalente». Il fatto in se' che venga sollevato un dubbio di costituzionalita' su di una norma vivente fa si' che il giudice costituzionale debba porre la stessa ad oggetto del proprio giudizio e debba astenersi dal reinterpretare la disposizione censurata, cosi' riconoscendo un valore impegnativo e inderogabile al diritto vivente. Questo impianto sembra trovare solo parziale conferma nella prassi delle ordinanze interpretative di (manifesta) inammissibilita'. In numerose pronunce la Consulta, chiamata sostanzialmente a giudicare dell'incostituzionalita' della disposizione nel suo significato «vivente», argomenta la propria scelta decisoria nel senso dell'inammissibilita' sulla base della possibilita' - teorica: e cioe' consentita dai riconosciuti canoni ermeneutici - di attribuire alla disciplina censurata un'interpretazione diversa da quella consolidata. La Corte afferma infatti a chiare lettere che «al giudice non e' precluso, nell'esercizio dei poteri interpretativi che gli sono propri e che non richiedono alcun avallo costituzionale, pervenire ad una lettura della norma secundum Constitutionem anche in presenza di un orientamento giurisprudenziale univoco» (cfr. l'ordinanza n. 2 del 2002). In concreto, agli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, «qualora anche essi fossero (...) univoci, non puo' assegnarsi un valore limitativo dell'autonomia interpretativa del giudice» (ord. n. 367 del 2001). Vi e' dunque la tendenza ad una sempre maggiore responsabilizzazione interpretativa del giudice comune, incoraggiato ad attribuire un autonomo significato alla disposizione nei cui confronti si presentano dubbi di costituzionalita'. Il giudice comune non puo' nascondersi dietro la maschera del diritto vivente: «in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente», la valutazione se uniformarsi o meno a tale orientamento e' una mera facolta' del giudice rimettente» (sentenza n. 91 del 2004). La Corte pretende allora qualcosa di piu' dal giudice in sede di valutazione della rimessione della questione: non reputa piu' sufficiente che questi indichi sommariamente nell'ordinanza i requisiti prescritti nell'art. 23 della legge n. 87/53, ma esige dallo stesso un impegno maggiore, uno «sforzo interpretativo» superiore, volto a risolvere autonomamente il dubbio di legittimita' costituzionale (e pertanto a sollevare la questione nel solo caso in cui non sia possibile attribuire alla disposizione alcun significato conforme a Costituzione). L'esplicito richiamo ai giudici a praticare il canone ermeneutico dell'interpretazione adeguatrice o d'un costituzionalmente orientata della norma «sospetta» alla luce del diritto vivente, va valutato secondo due profili. In primo luogo se sia soltanto l'affermazione di una loro pacifica liberta', cui non devono rinunciare per timore reverenziale o per paura dei successivi gradi del giudizio, o se non comporti invece uno sviamento dalla logica del diritto vivente; e in secondo luogo come ridefinisca il problema degli effetti della dottrina del diritto vivente nei confronti del giudice rimettente. Per quanto attiene al primo interrogativo ci si domanda se la Corte, quando invita il rimettente all'interpretazione adeguatrice, pur essendo la questione sollevata nei confronti di una norma sostenuta da un orientamento indiscutibilmente consolidato, non si ponga in una posizione di estraneita' rispetto alla dottrina del diritto vivente, per il fatto solo di assumere la possibilita' concettualmente accertata di altre, non identificate, interpretazioni, come fondamento di una propria pronuncia che elude l'alternativa secca accoglimento-rigetto. E ancor piu', ci si chiede se tale dottrina possa ritenersi rispettata in quelle ordinanze d'inammissibilita' con cui la Corte implicitamente avalla l'interpretazione adeguatrice prospettata dal rimettente (e non applicata) e implicitamente censura di incostituzionalita' la norma vivente. In effetti, la compatibilita' tra le due dottrine (diritto vivente e interpretazione conforme a Costituzione) e' fortemente messa in discussione nelle ipotesi in cui la Corte afferma che, pur in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il rimettente deve dare applicazione nel proprio giudizio alla interpretazione adeguatrice. Se e' vero che la norma vivente non comprime il potere interpretativo del giudice comune, per il quale permane la facolta' di aderirvi o di non aderirvi, e' altrettanto vero che la Corte costituzionale, pronunciandosi con una decisione d'inammissibilita' per non avere il rimettente adempiuto al dovere dell'interpretazione adeguatrice, elude il proprio dovere di attenersi alla norma vivente e di evitare di pronunciarsi sull'attribuzione di significato consolidata. Dal fatto che il giudice non sia vincolato non deriva affatto - o per lo meno non deriva affatto in erodo lineare - che la Corte possa far leva esplicita su quest'assenza di vincolo per pronunciarsi indirettamente - anziche' direttamente - sulla norma vivente. In tanto «la dottrina del diritto vivente (...) e' riconducibile al tentativo di perimetrare e rendere prevedibili il piu' possibile svolgimento ed esito del sindacato di costituzionalita'», in quanto l'atteggiamento «non piu' ondulatorio» della Corte certamente negli ultimi anni gioca a favore di tale obiettivo, rendendo incerta la delimitazione degli strumenti utilizzati e ampliando il margine di manovra nel decidere. Per cio' che concerne al secondo profilo - e cioe' al problema degli effetti che la dottrina del diritto vivente ha, nell'ottica della giurisprudenza della Corte qui in esame, nei confronti del giudice a quo - si deve distinguere il giudizio tecnico da quello di opportunita'. In relazione al primo, le pronunce interpretative d'inammissibilita' ribadiscono che la dottrina del diritto vivente non esplica alcun effetto nei confronti dell'autorita' giudiziaria; e che dunque pur in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato, il giudice rimettente gode di una piena autonomia, potendo valutare se aderirvi o allontanarsene. La giurisprudenza costituzionale, su questa base, ha stabilito una prevalenza della dottrina dell'interpretazione adeguatrice rispetto a quella del diritto vivente. E' venuta infatti attribuendo al canone dell'interpretazione adeguatrice una connotazione particolare, condizionando l'ammissibilita' della questione alla impossibilita' di attribuire alla disciplina impugnata un significato conforme a Costituzione. La Corte, quindi, oltre a valutare la sussistenza delle condizioni di ammissibilita' canonicamente riconosciute, valuta altresi' se il rimettente abbia cercato di individuare un'interpretazione conforme. La questione deve pertanto essere dichiarata inammissibile nei casi in cui il rimettente non abbia esperito tale tentativo e nei casi in cui - verrebbe da dire a maggior ragione -, pur avendo riscontrato la possibilita' di trarre dalla disposizione censurata una norma conforme a Costituzione, non abbia intrapreso tale strada, ed abbia invece sollevato la questione alla Corte. Questo sul piano tecnico. Su quello dell'opportunita' non si puo' pero' non riconoscere che l'affermata liberta' ermeneutica dell'autorita' giudiziaria in presenza di diritto vivente non e' - come del resto sottolineato da parte della dottrina - un dato realistico. In effetti, quando si e' formato un orientamento giurisprudenziale consolidato, la deviazione del singolo giudice da tale orientamento e' perlopiu' inefficace: la sua interpretazione, per quanto conforme a Costituzione, in presenza di un solido indirizzo contrario, non e' idonea a costituire un nuovo diritto vivente, essendo soggetta a impugnazione e possibile riforma da parte dell'autorita' giudiziaria di grado successivo. Questa semplice constatazione induce a dubitare della convenienza, sul piano costituzionale, di adottare pronunce d'inammissibilita' laddove si ritenga il giudice rimettente in grado di risolvere da se' la questione; e induce altresi' ad avanzare l'idea, contraria a quella ribadita dal giudice costituzionale nelle sue ordinanze, che la scelta dell'interpretazione adeguatrice abbia un valore solo sussidiario rispetto al diritto vivente anche per il giudice a quo. Ne discende che, a precludere una decisione di merito e' altresi' il mancato esperimento, da parte del giudice a quo, di un tentativo teso a rintracciare una interpretazione della disposizione censurata che la renda conforme alla Costituzione. Ancora, e' da considerarsi vizio insanabile la mancata presa in considerazione di modifiche legislative (ordinanze numeri 24 e 317 del 2005 [nel testo che procede i riferimenti provvedimentali della Consulta s'incentrano sull'anno 2005, ch'e' quello della svolta in materia di diritto vivente ed interpretazione costituzionalmente orientata del giudice rimettente]) o di dichiarazioni di illegittimita' costituzionale (sentenze numeri 27 e 468, ed ordinanza n. 313) intervenuti antecedentemente al promovimento della questione. Il vizio dell'ordinanza di rimessione puo' riguardare anche l'intervento che il giudice a quo richiede alla Corte costituzionale: prescindendo dai casi in cui il petitum non e' sufficientemente precisato (ordinanze numeri 188 e 400), sono colpite da inammissibilita' tutte quelle richieste volte ad ottenere dalla Corte una pronuncia «creativa», da adottarsi, cioe', attraverso l'utilizzo di poteri discrezionali di cui la Corte e' priva (sentenze numeri 109 e 470, ed ordinanze numeri 260, 273 e 399), una sentenza additiva in malam partem in materia penale (ordinanza n. 187) o, infine, una pronuncia che, con l'accoglimento, avrebbe il risultato di creare una situazione di (manifesta) incostituzionalita' (ordinanza n. 68). Riconducibili ai vizi che inficiano la richiesta del giudice a quo - oltre a quelle connesse all'esercizio dei poteri interpretativi da parte della Corte - sono anche le formulazioni delle questioni nell'ambito delle quali il rimettente non assume una posizione netta in merito alla questione: ne deriva l'inammissibilita' di questioni formulate in maniera contraddittoria (sentenze numeri 163 e 243, ed ordinanze numeri 58, 112 e 297), perplessa (ordinanza n. 246) o alternativa (ordinanze numeri 215 e 363). Pienamente ammissibili sono, di contro, le questioni poste in via subordinata rispetto ad altre (ad esempio, sentenze numeri 52, 53 e 174, ed ordinanze numeri 75 e 256). Le inesattezze che vengano riscontrate in merito all'indicazione del petitum, o anche relativamente ad oggetti e parametri, non sempre conducono alla inammissibilita' delle questioni: nei limiti in cui il tenore complessivo dell'ordinanza renda chiaro il significato della questione posta, e' la Corte stessa ad operare una correzione, cio' che e' avvenuto nella sentenza n. 471 e nell'ordinanza n. 342 (in ordine al petitum), nell'ordinanza n. 288 (per l'oggetto) e nell'ordinanza n. 318 (per il parametro). La sanatoria del vizio e' invece radicalmente esclusa nel caso di ordinanze motivate per relationem, vale a dire attraverso il riferimento ad altri atti, come scritti difensivi delle parti del giudizio principale (ordinanze numeri 92, 125, 312 e 423), sentenze parziali rese nel corso del giudizio medesimo (ordinanza n. 208) o precedenti ordinanze di rimessione, dello stesso o di altro giudice (ordinanze numeri 8, 22, 84, 141, 166 e 364): per costante giurisprudenza, infatti, «non possono avere ingresso nel giudizio incidentale di costituzionalita' questioni motivate solo per relationem, dovendo il rimettente rendere esplicite le ragioni per le quali ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione sollevata, mediante una motivazione autosufficiente» (cosi', l'ordinanza n. 364). Insomma, affinche' una questione di legittimita' costituzionale possa dirsi validamente sollevata, la Corte richiede che il giudice rimettente esperisca un previo tentativo diretto a dare alla disposizione impugnabile un'interpretazione tale da renderla conforme al dettato costituzionale. Cio' in quanto il principio di conservazione degli atti giuridici che non puo' non trovare applicazione anche nell'ambito degli atti fonte - fa si' che «le leggi non si dichiarano incostituzionali se esiste la possibilita' di dare loro un significato che le renda compatibili con i precetti costituzionali» (ordinanza n. 115), in quanto, «secondo un principio non discusso e piu' volte espressamente affermato [dalla] Corte, una normativa non e' illegittima perche' suscettibile di una interpretazione che ne comporta il contrasto con precetti costituzionali, ma soltanto perche' non puo' essere interpretata in modo da essere in armonia con la Costituzione» (ordinanza n. 89). E' in quest'ottica che debbono apprezzarsi le - invero piuttosto numerose - decisioni nelle quali lo scrutinio del merito delle questioni e' risultato precluso dalla omessa attivita' ermeneutica del giudice (ordinanze numeri 74, 130, 245, 250, 252, 306, 361, 381, 399, 419, 420, 427 e 452). L'attenzione della Corte a che i giudici comuni esercitino la funzione interpretativa alla quale sono chiamati non puo', pero', tradursi in una acritica accettazione di qualunque esito cui essa giunga. Ne discende il potere della Corte di censurare solitamente con una decisione in rito - l'erroneo presupposto interpretativo da cui il promuovimento della questione ha tratto origine (ordinanze numeri 1, 25, 54, 69, 118, 269, 310, 331 e 340). L'interpretazione delle disposizioni legislative, d'altra parte, non puo' essere configurata come un monopolio della giurisdizione comune: anche la Corte costituzionale ben puo' - e, entro certi limiti, deve - coadiuvare i giudici nella ricerca della interpretazione piu' «corretta», nel senso di «adeguata ai precetti costituzionali». Ne sono una patente testimonianza le decisioni c.d. «interpretative», con le quali la Corte dichiara infondata una determinata questione alla luce dell'interpretazione che essa stessa ha enucleato: in taluni casi, di questa attivita' si ha riscontro anche nel dispositivo della sentenza, che collega l'infondatezza «ai sensi di cui in motivazione» (sentenze numeri 63, 394, 410, 460, 471 e 480); sovente, pero', questo riscontro non viene esplicitato, cio' che non infirma, comunque, la portata del decisum (ex plurimis, sentenze numeri 163, 266, 379, 410, 437 e 441, ed ordinanze numeri 8, 347). Il «dialogo» che viene cosi' a strutturarsi - cadenzato da riferimenti, in motivazione, a decisioni rese dal Consiglio di Stato e, soprattutto, dalla Corte di cassazione (nella sentenza n. 303 si richiama anche «l'unanime opinione dottrinale») - non puo' prescindere, tuttavia, da una chiara ripartizione dei rispettivi compiti, veicolata, per un verso, da (a) la necessita' di tener conto dell'acquis ermeneutico sedimentatosi in seno alla giurisprudenza comune e, per l'altro, da (b) la considerazione del ruolo proprio della Corte costituzione, che e' avant tout il giudice chiamato ad annullare leggi contrastanti con la Costituzione. Sotto il primo profilo, viene in precipuo rilievo la nozione di «diritto vivente», definibile come l'interpretazione del diritto scritto consolidatasi nella prassi applicativa. In diverse circostanze, la Corte costituzionale ha constatato essa stessa la sussistenza di una uniformita' di giurisprudenza idonea a dimostrare l'esistenza di un «diritto vivente». Cosi' e' stato, ad esempio, nell'ordinanza n. 54, in cui il diritto vivente e' stato dedotto da «numerose pronunce della Corte di cassazione», confermate da una recente sentenza delle sezioni unite penali, oppure nell'ordinanza n. 427, nella quale l'individuazione del diritto vivente ha condotto a censurare l'operato del giudice a quo, che aveva omesso di riferirvisi onde assolvere «il compito di effettuare una lettura della norma conforme alla Costituzione». Alcune decisioni hanno - espressamente o meno - suffragato l'individuazione del diritto vivente operata dal giudice rimettente (sentenza n. 283 ed ordinanza n. 188), mentre altre decisioni hanno smentito quanto prospettato nell'ordinanza di rinvio, sia nel senso di escludere l'incidenza del diritto vivente sulla fattispecie oggetto del giudizio principale (sentenza n. 480), sia nel senso di negare l'esistenza stessa di un orientamento giurisprudenziale sufficientemente consolidato. A tale ultimo riguardo, se la rintracciabilita' di un orientamento della giurisprudenza di legittimita' divergente rispetto a quello prevalente impedisce radicalmente la configurabilita' di un diritto vivente (ordinanze numeri 58 e 332), alla stessa stregua di quanto constatatile in presenza di «diverse, contrarie soluzioni della giurisprudenza di merito» (ordinanza n. 452), a testimoniare l'inesistenza di un diritto vivente puo' essere sufficiente anche una recente decisione della Corte di cassazione (sentenza n. 460). Parzialmente differente e' il caso della sentenza n. 408, che ha escluso l'esistenza del «diritto vivente» invocato dalla Avvocatura dello Stato per fondare 'ma eccezione di irrilevanza della questione. Con riferimento ai profili ora in esame, la decisione piu' importante dell'anno, per il tema affrontato oltre che per la vicenda nella quale si e' inserita, e' comunque la sentenza n. 299. Con essa si e' compiuto un passo decisivo nella evoluzione della disciplina del computo dei periodi di custodia cautelare, in merito alla quale, nel recente passato, «la Corte costituzionale ha applicato il principio di astenersi dal pronunciare una dichiarazione di illegittimita' sin dove e' stato possibile prospettare una interpretazione della norma censurata conforme a Costituzione, anche al fine di evitare il formarsi di lacune nel sistema, particolarmente critiche quando la disciplina censurata riguarda la liberta' personale». Alla luce di cio', «la Corte ha [...] pronunciato la sentenza interpretativa di rigetto n. 292 del 1998, ed ha poi confermato la scelta della via interpretativa dopo i primi interventi delle sezioni unite della Cassazione, sollecitate a dirimere i contrasti insorti in materia tra le diverse sezioni, sino a quando la Corte di cassazione a sezioni unite ha confermato con particolare forza il proprio indirizzo interpretativo nella sentenza n. 23016 del 2004». A seguito di tali decisioni e, in particolare, di quest'ultima sentenza, alla Corte costituzione si e' imposta la constatazione che «l'indirizzo delle sezioni unite [dovesse] ritenersi oramai consolidato, si da costituire diritto vivente, rispetto al quale non [erano] piu' proponibili decisioni interpretative». L'impossibilita' di prospettare ulteriormente soluzioni volte a rendere la disciplina censurata conforme a Costituzione ha reso indefettibile una pronuncia di illegittimita' costituzionale. Questa vicenda illustra chiaramente l'importanza di una franca dialettica tra Corte costituzionale e giudici comuni, nell'ambito della quale confrontare le diverse posizioni al fine di addivenire a risultati (interpretativi o anche caducatori, come nella specie) che garantiscano il rispetto dei principi sanciti nella Carta costituzionale. b) Per quanto concerne i rapporti che sussistono tra l'attivita' interpretativa dei giudici comuni e la finzione che la Corte costituzionale ricopre nel sistema, deve evidenziarsi che (il coadiuvare ne) la ricerca di soluzioni ermeneutiche costituzionalmente orientate non puo' tradursi in una sorta di «tutela». Cio' e' reso evidente dal costante rifiuto della Corte di assecondare richieste volte ad ottenere un avallo all'interpretazione che il giudice a quo ritenga di dover dare (ordinanze numeri 112, 115 e 211) o addirittura richieste dirette a sollecitare la Corte a (Miniere contrasti interpretativi, per i quali sono altre le sedi istituzionalmente idonee (ordinanza n. 89). Alla stregua delle asserzioni sopra scritte, attesa la brevita' del testo normativo, del quale si denunzia l'illegittimita' costituzionale, il tentativo su descritto si riduce, ad avviso del giudicante, alla verifica se la locuzione «il presente decreto» possa riferirsi ai decreti ministeriali Muri di determinazione dei parametri liquidatori delle spese giudiziali. Ma l'aggettivo «presente» esclude in partenza siffatta interpretazione. In buona sostanza, trattasi d'una «missione impossibile»: «il presente decreto» cit. altro non puo' che essere il decreto-legge convertito e modificato n. 1 del 2012. 8. - L'utilita' decisoria di rito e di merito e la sospensione necessaria del processo. Si tratta d'un ulteriore presupposto d'ammissibilita' della delibazione da parte del giudice delle leggi in oggetto dell'ordinanza di rimessione pronunciata dal giudice a quo: essa individua come senza la certificazione della Consulta circa la legittimita' costituzionale o meno delle disposizioni di legge, sulle quali grava la convinzione del giudice adito circa la probabile difformita' di esse dalle norme e dai principi della Costituzione, la decisione eventualmente presa possa non possa che, con molta probabilita', esulare all'applicazione del principio del «giusto processo» in senso sostanziale alla fattispecie divisata, che, qui, concerne la «ingiusta» quantificazione delle spese processuali. Codesto aspetto e' sottolineato dalla Corte costituzionale medesima nella motivazione della sentenza 15 dicembre 2009 - 25/28 gennaio 2010, n. 26, con cui, dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art. 669-quaterdecies del codice di procedura civile, nella parte in cui, escludendo l'applicazione dell'art. 669-quinquies dello stesso codice ai provvedimenti di cui all'art. 696-bis ss. cod. proc. civ., impedisce, in caso di clausola compromissoria, di compromesso o di pendenza di giudizio arbitrale, la proposizione della domanda di accertamento tecnico preventivo al giudice che sarebbe competente a conoscere del merito, finisce con l'annoverare tra i procedimenti cautelari anche i cosiddetti accertamenti tecnici preventivi, sia ante causam, sia endoprocessuali. Scrive l'estensore Criscuolo: «Si deve condividere la conclusione alla quale e' pervenuto il giudice a quo, secondo cui il dettato dell'art. 669-quaterdecies c.p.c.. non consente una interpretazione diversa da quella da lui adottata. Come questa Corte ha gia' osservato, l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimita' costituzionale (sentenza n. 219 del 2008, punto 4 del Considerato in diritto)»: cio' rivela l'indispensabile utilita' di quest'ultimo affini decisori di rito e di merito (Francesco De Santis). Codesta indispensabile utilita' impone la sospensione necessaria del giudizio a quo, ex art. 23 della legge n. 87 del 1953. I rapporti tra le sospensioni per pregiudizialita' anche costituzionale ex art. 295 e art. 337, capoverso, c.p.c. sono, comunque, al vaglio delle Sezioni Unite civili, a seguito dell'ordinanza di rimessione pronunciata dalla VI Sezione civile 13 gennaio 2012, n. 407 (Presidente Pres. di Sez. Cons. dott. Francesco Felicetti, relatore ed estensore Cons. dott. Nicola Cerrato). 1. - L'ordianza si segnala perche' le sezioni unite, ai sensi dell'art. 374, 2° comma, c.p.c., potrebbero essere chiamate a pronunciarsi, in via generale, sui rapporti intercorrenti tra l'art. 295 c.p.c. e l'art. 337, 2° comma, c.p.c., ossia sul rispettivo ambito di applicabilita' e sui relativi presupposti di operativita', nonche', in via particolare, se vada disposta la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c. quando la causa pregiudiziale pendente in grado di appello attiene alla materia dello stato delle persone, dal momento che l'accertamento deve essere compiuto con sentenza passata in giudicato. Il tema dei rapporti tra le sospensioni necessaria ex art. 295 c.p.c. e discrezionale ex art. 337, 2° comma, c.p. c. e' stato oggetto di particolare attenzione da parte della dottrina soprattutto negli anni ottanta, allorquando le due disposizioni sono state esaminate congiuntamente al fine di meglio precisarne la rispettiva portata. E proprio questi studi consentono di fissare un dato di partenza: sia l'art. 295 sia l'art. 337, 2° comma, fanno capo ad uno stesso fenomeno: la pregiudizialita' tra rapporti giuridici, nel senso che uno si pone come l'antecedente logico giuridico dell'altro. La tesi, pur autorevolmente sostenuta, secondo cui l'art. 337, 2° comma, riguarderebbe invece quei casi nei quali la sentenza e' invocata per la sua autorita' logica o «efficacia di mero fatto», quale precedente non vincolante, non puo' condividersi perche' la norma non fa riferimento all'autorita' meramente logica della sentenza, e cio' sia perche' altrimenti si finirebbe per attribuire alla sentenza invocata effetti che la stessa neppure ha quando e' passata in giudicato, sia perche' la sospensione sarebbe del tutto inutile, non potendo il giudice essere vincolato dal provvedimento emesso. Riportate le due disposizioni all'interno di uno stesso campo bisogna verificare quando le stesse trovano applicazione, tenendo presente che la sospensione ex art. 295 e' necessaria e dura fino al passaggio in giudicato della sentenza pregiudiziale (art. 297 c.p.c.) e che quella ex art. 337, 2° comma, e' discrezionale e dura fino alla pronuncia della sentenza. In dottrina e in giurisprudenza sono state proposte almeno tre diverse ipotesi di coordinamento. Una prima ipotesi afferma che la sospensione necessaria ex art. 295 ricorre in due ipotesi: a) quando pendono due giudizi, fra loro in relazione di pregiudizialita', non e' possibile la loro riunione e sul rapporto pregiudiziale non e' stata ancora pronunciata sentenza; b) quando nel corso del giudizio sorge una questione pregiudiziale che deve essere decisa con efficacia di giudicato sulla quale non e' competente il giudice originariamente adito e non e' possibile realizzare la trattazione simultanea. La sospensione discrezionale ex art. 337, 2° comma, puo' essere disposta quando pendono due giudizi fra loro in relazione di pregiudizialita' e sul rapporto pregiudiziale e' gia' stata pronunciata sentenza, anche non passata in giudicato, sicche' la norma ricordata fa riferimento a tutte le impugnazioni sia ordinarie sia straordinarie. Una seconda ipotesi sostiene che la sospensione necessaria ex art. 295 ricorre sempre in due ipotesi: A) Nella prima quando pendono contemporaneamente due giudizi, anche in diverso grado, fra loro in relazione di pregiudizialita' e non e' possibile la loro riunione; B) Nella seconda quando nel corso del giudizio sorge una questione pregiudiziale che deve essere decisa con efficacia di giudicato sulla quale non e' competente il giudice originariamente adito e non e' possibile realizzare la trattazione simultanea; (-) la sospensione discrezionale ex art. 337, 2° comma, puo' essere disposta quando nel corso del processo viene invocata l'autorita' di una sentenza passata in giudicato, sicche' tale ultima norma riguarda solo le impugnazioni straordinarie. Una terza ipotesi riporta la sospensione ex art. 295 solo alla fattispecie disciplinata dall'art. 34 c.p.c., ossia allorquando il giudice viene a trovarsi nell'impossibilita' di decidere la, controversia perche' e' sorta una questione pregiudiziale che o a seguito di domanda di parte o per legge deve essere decisa con efficacia di giudicato e non e' possibile assicurare la trattazione simultanea delle due controversie. La sospensione ex art. 337, 2° comma, viene riferita all'ipotesi in cui nel corso del processo e' invocata l'autorita' di una sentenza passata in giudicato, sicche' tale ultima norma riguarda solo le impugnazioni straordinarie. Per quanto riguarda la sospensione discrezionale di cui all'art. 337, secondo comma, c.p.c. questa opera allorche' nel corso del processo viene invocata l'autorita' di una sentenza passata in giudicato, che ha deciso sul rapporto pregiudiziale, e tale sentenza e' impugnata in via straordinaria. Questa lettura trova non poche conferme, a prescindere dal dato letterale del termine utilizzato, «autorita' di una sentenza». In primo luogo la norma esaminata trova i suoi precedenti negli art. 504 e 515 del codice di rito del 1865, che prevedevano appunto la sospensione discrezionale allorche' nel corso del processo veniva invocata l'autorita' di una sentenza impugnata per revocazione e per opposizione di terzo, ossia due impugnazioni straordinarie. Queste due norme, nel passaggio al nuovo codice di rito, sono state fuse nel 2° comma dell'art. 337. In secondo luogo la sentenza, non ancora passata in giudicato, resa in un diverso processo, non puo' vincolare un altro giudice. L'art. 337, 2° comma, c.p.c. pone un'alternativa al giudice nel cui processo e' invocata l'autorita' della sentenza resa in altro giudizio ed oggetto di impugnazione: o procedere nella causa considerandosi vincolato alla soluzione data nella sentenza prodotta oppure sospendere il processo, in attesa dell'esito dell'impugnazione. Questa alternativa ricorre solo se la sentenza che viene invocata e' gia' passata in giudicato, perche' solo questa, avendo deciso un rapporto pregiudiziale, vincola il giudice dinanzi al quale quella sentenza e' invocata. Ma se la sentenza non e' passata in giudicato, il giudice che deve decidere il rapporto pregiudicato puo' anche procedere oltre nella causa senza essere vincolato a quella sentenza. In terzo luogo l'art. 297 c.p.c. ricollega la cessazione della causa della sospensione ex art. 295 al passaggio in giudicato della sentenza sul rapporto pregiudiziale e non alla pronuncia della sentenza di primo grado, e non distingue a seconda che la sospensione sia stata dichiarata quando era gia' stata oppure non era ancora stata pronunciata una decisione nel processo pregiudiziale. In conclusione, la sospensione discrezionale di cui all'art. 337, 2° comma, puo' essere disposta allorche' nel corso del processo viene invocata l'autorita' di una sentenza passata in giudicato che viene impugnata in via straordinaria (revocazione ex art. 395, nn. 1, 2, 3 e 6, ed ex art. 397 c.p.c.; opposizione di terzo ex art. 404 c.p.c.; impugnazione del contumace involontario ex art. 327, 2° comma, c.p.c.). Per quel che riguarda la sospensione necessaria ex art. 295 c.p.c., bisogna sottolineare che in questi ultimi anni si sono affermate interpretazioni che tendono a ridurre sempre piu' il suo campo di operativita', ponendo in risalto beni sicuramente piu' importanti della astratta esigenza di garantire l'uniformita' delle decisioni, come il diritto di difesa, l'effettivita' della tutela giurisdizionale, la ragionevole durata del processo. In numerose pronunce la Cassazione non solo esplicitamente riconosce il «disfavore» mostrato dal legislatore nei confronti della sospensione del processo civile, ma inoltre sottopone ad una lettura restrittiva le norme che contemplano la sospensione del processo. Limitandoci alle decisioni concernenti la sospensione necessaria si ricorda Cass. n. 10766/2002, nella quale il Supremo collegio pone in evidenza «come un'interpretazione diretta ad estendere in via interpretativa i casi di sospensione necessaria al di fuori delle ipotesi tipiche, espressamente previste dalla legge, possa determinare una lesione di diritti costituzionalmente garantiti, ed in special modo del principio di uguaglianza (art. 3, 1° comma, Cost.), del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24, 1° comma, Cost.), ed infine del diritto ad una 'ragionevole' durata del processo (art. 111, 1° comma, Cost.)»: tanto da affermare che «sulla base dello scrutinio delle innovazioni legislative e degli arresti giurisprudenziali e dottrinari in materia e' dato desumere, quindi, che una lettura dell'art. 295 c.p.c. non possa, per le considerazioni svolte, legittimare - in nome della ratio a tale norma sottesa - opzioni ermeneutiche dirette ad ampliare l'ambito applicativo» (9). Oppure Cass. 3105/02 per la quale «costituisce dunque dovere del giudice, tutte le volte che sia possibile, privilegiare strumenti alternativi alla sospensione del processo ex art. 295 c.p.c.» (10). O ancora Cass. 24859/06, che sottolinea che «l'esigenza di evitare giudicati ingiusti» «non rappresenta un valore costituzionale (Corte cost. 31/98, Foro it., 1999, I, 1419), a differenza del principio della ragionevole durata del processo ...». Si tratta di affermazioni di estremo interesse perche' dimostrano che la Cassazione e' ben consapevole dell'estrema pericolosita' dell'istituto della sospensione. Cio' posto, si deve escludere che la sospensione ex art. 295 possa trovare applicazione in caso di contemporanea pendenza, davanti a giudici differenti o allo stesso giudice, di due processi aventi ad oggetto rapporti giuridici sostanziali tra loro in relazione di pregiudizialita'. Infatti non solo l'art. 295 non fa alcun riferimento alla pendenza di un diverso processo (a differenza dell'art. 337, 2° comma, c.p.c.) o all'esistenza di una relazione tra rapporti giuridici sostanziali, ma anche e soprattutto perche' la mera contemporanea pendenza di un altro processo non e' di per se' sufficiente a privare il giudice del potere-dovere di conoscere incidente,- tantum le questioni pregiudiziali che si presentano nel corso del processo. Allorche' si verifica una siffatta situazione il giudice o dispone la riunione o prosegue nel giudizio, conoscendo incidente,- tantum la questione pregiudiziale, sicche' i due processi procedono in via autonoma e separata. Gli artt. 40 e 274 c.p.c., infatti, escludendo che la riunione possa essere disposta quando essa puo' determinare un rallentamento delle cause, non possono prevedere come alternativa la sospensione del processo sul rapporto pregiudicato: «E' un controsenso pretendere che nelle ipotesi in cui» l'art. 40 «esclude la riunione giust'appunto per evitare che le due cause subiscano un rallentamento, si debba applicare l'art. 295, che non accelera la pregiudiziale e che addirittura impone una lunghissima paralisi della dipendente. E il controsenso s'ingigantisce se si pensa di dover applicare l'art. 295 pur quando la dipendente si trova in appello e la pregiudiziale davanti ad altro giudice all'inizio del primo grado». D'altra parte gli artt. 103 e 104 c.p.c. contemplano che i processi connessi, in caso di separazione, proseguono ognuno la propria strada, senza subire alcuna sospensione. Ecco allora che gli artt. 40, 274, 103, 2° comma, e 104, 2° comma, 337, 2° comma, c.p.c. costituiscono la migliore dimostrazione che la priorita' logica dei rapporti giuridici non comporta sempre ed in ogni caso la priorita' cronologica dei relativi accertamenti. E un fondamentale ruolo nella materia in esame e' svolto dal principio - da sempre cardine nel nostro ordinamento - in base al quale il giudice conosce incidenter tantum le questioni pregiudiziali che si presentano nel corso del processo. Un principio che troviamo affermato in tutti i settori del nostro ordinamento (artt. 4 e 5 legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E; artt. 2 e 75 c.p.c.; art. 7 e art. 39 decreto legislativo del 31 dicembre 1992 n. 546; art. 63 decreto legislativo n. 165 del 2001; art. 819 c.p.c.; art. 5 legge del 31 maggio 1995 n. 218; art. 8 cod. proc. amm.), come riconosce la Cassazione e che porta ad affermare che l'art. 295, lungi dal disciplinare l'ipotesi della contemporanea pendenza di processi, fa riferimento ai casi in cui il giudice si trova nella temporanea impossibilita' di giudicare, sia pure incidenter tantum, la questione che si presenta nel corso del processo. Il collegamento con l'art. 34 c.p.c. e' evidente: la sospensione necessaria ex art. 295 trova il suo ambito di applicazione allorche' nel corso del processo sorge una questione pregiudiziale che deve essere decisa con efficacia di giudicato e non e' possibile assicurare la trattazione simultanea delle cause o vi sia differente giurisdizione esclusiva non civile sulla materia del contendere. L'art. 34 contempla due differenti ipotesi di trasformazione della questione in controversia pregiudiziale: l'istanza esplicita di una delle parti e la previsione legale. Sta di fatto che l'art. 34 prevede che in caso di domanda di accertamento incidentale allorche' su di essa non e' competente il giudice adito, tutta la causa deve essere trasferita al «giudice superiore», con la conseguenza che l'art. 34 ammette l'istanza di parte solo quando e' comunque possibile assicurare la trattazione simultanea dinanzi al giudice competente per la controversia pregiudiziale. Peraltro, proprio l'esigenza costituzionale che il processo abbia una ragionevole durata porta ad escludere che le parti possano trasformare la questione in controversia pregiudiziale, dando vita alla sospensione del processo, allorche' non e' possibile la trattazione simultanea. La questione sara' conosciuta incidenter tantum ed il diritto di difesa delle parti sara' garantito. Ne deriva allora che la sospensione del processo ricorre solo quando l'accertamento con autorita' di giudicato della questione pregiudiziale, ossia la trasformazione in «causa» di una «questione» pregiudiziale, e' richiesto dalla legge (ad esempio nell'ipotesi disciplinata nell'art. 124 c.c. oppure quando sorge una questione di stato e capacita' delle persone). Il coordinamento dell'art. 295 e dell'art. 337, 2° c.p.c., nella misura in cui circoscrive l'operativita' della sospensione, che comporta di per se' comunque un diniego, sia pure temporaneo, di giustizia, si presenta piu' rispondente anche all'esigenza di assicurare la tutela dei diritti in un tempo ragionevole. In questi ultimi tempi la Corte di cassazione ha letto diverse norme processuali alla luce del principio della ragionevole durata del processo, al punto da riscrivere lo stesso dato testuale (pensiamo per tutte alla interpretazione data all'ali. 37 c.p.c.). Ebbene, proprio le norme sulla sospensione, che comportano un indubbio allungamento dei tempi del processo devono essere interpretate in senso restrittivo e comunque in linea con i valori affermati nella nostra Carta costituzionale, come quello della ragionevole durata del processo. Tra l'esigenza di assicurare l'uniformita' e l'armonia delle decisioni, che non e' un valore costituzionale, e l'esigenza di pervenire alla decisione in tempi ragionevoli l'interprete non puo' non privilegiare la seconda esigenza. D'altro canto e' lo stesso giudice delle leggi che riconosce che l'esigenza di assicurare l'armonia e l'uniformita' delle decisioni non e' un valore costituzionale. In una decisione di alcuni anni fa, sia pure resa con riferimento al processo tributario, la corte ha affermato la legittimita' del sistema processuale tributario che limita la sospensione necessaria per pregiudizialita' ad alcuni specifici e tassativi casi (querela di falso, questione di stato e capacita' delle persone) e prevede la cognizione incidenter tantum per tutte le altre questioni pregiudiziali (art. 39 decreto legislativo del 31 dicembre 1992 n. 546). Sottolinea la corte che «il legislatore, limitando i casi di sospensione del processo, ha inteso rendere piu' rapida e agevole la definizione del processo tributario ... finalita' in se' del tutto legittima anche sotto l'aspetto, non certo secondario, della tutela dei diritti del contribuente»; «la limitazione della sospensione per pregiudizialita' del processo tributario rappresenta una scelta del legislatore che, in quanto non lesiva del criterio di ragionevolezza, si sottrae al sindacato di legittimita' costituzionale»; «la possibilita' accordata al contribuente, alla stregua di una corretta interpretazione del sistema, di far valere nel processo pregiudicato - indipendentemente dal corso e dall'esito del giudizio pregiudiziale - tutte le sue difese, rende priva di fondamento la violazione ... del precetto costituzionale di cui all'art. 24, 2° comma, Cost.». L'auspicio e' che le sezioni unite contribuiscano a fare chiarezza in ordine ai rapporti tra le sospensioni necessaria ex art. 295 e discrezionale ex art. 337, 2° comma, c.p.c., fornendo una lettura che privilegi l'esigenza di assicurare la ragionevole durata dei processi, limitando cosi' «il dovere di sospensione ex art. 295 c.p.c. ai casi in cui l'accertamento con autorita' di giudicato della questione pregiudiziale (ovvero la trasformazione in `causa' di una `questione' pregiudiziale) sia richiesta dalla legge». Una lettura che sarebbe peraltro in linea con le altre precedenti decisioni che le sezioni unite hanno offerto in tema di sospensione del processo in questi ultimi anni Restano chiaramente escluse dal vaglio delle Sezioni Unite civili quelle ipotesi nelle quali e' la legge ad imporre la sospensione necessaria del processo in corso, come quella imposta dall'art. 23 della legge n. 87 del 1953, in materia di non manifesta infondatezza d'una questione di legittimita' costituzionale in via incidentale insorta in un processo civile, penale, amministrativo, contabile o tributario. Non importa, in tal caso, se la forma del provvedimento di rimessione sia una «sentenza» Lo confermano: Corte costituzionale, 15 luglio 2010, n. 256 pubblicata ed annotata su: 1. - Foro amm. CDS 2010, 7-8, 1398 (s.m.); 2. - Giur. cost. 2010, 4, 3106. Massima Nei giudizi di legittimita' costituzionale degli artt. 30 e 33 del decreto del Presidente della Repubblica del 16 maggio 1960 n. 570, censurati, in riferimento agli artt. 49 e 51 Cost., la circostanza che la questione sia stata promossa dal giudice «a qua» con sentenza e non con ordinanza non ne determina l'inammissibilita', in quanto, posto che nel sollevare la questione, il rimettente ha disposto la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria della Corte costituzionale, a tali atti, anche se assunti con la forma di sentenza, deve essere riconosciuta sostanzialmente natura di ordinanza, in conformita' a quanto previsto dall'art. 23 legge 11 marzo 1953 n. 87 (sent. n. 151 del 2009). Si rammenta che, secondo la giurisprudenza della Corte, promuovere la questione di legittimita' costituzionale con sentenza, anziche' con ordinanza, «non comporta la inammissibilita' della questione, posto che, come si desume dalla lettura dei due atti di promovimento, nel sollevare la questione di legittimita' costituzionale, il giudice a quo - dopo la positiva valutazione concernente la rilevanza e la non manifesta infondatezza della stessa - ha disposto la sospensione del procedimento principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria di questa Corte; sicche' a tali atti, anche se assunti con la forma di sentenza, deve essere riconosciuta sostanzialmente natura di ordinanza, in conformita' a quanto previsto dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87» (sent. n. 151 del 2009) Corte costituzionale, 8 maggio 2009, n. 151 pubblicata ed annotata su Giur. cost. 2009, 3, 1656 (note di Manetti e Tripodina). Massima nel giudizio di legittimita' costituzionale degli art. 14, commi 2 e 3, legge 19 febbraio 2004 n. 40, va disattesa l'eccezione di inammissibilita' formulata sul rilievo che il rimettente ha sollevato le questioni con sentenza anziche' con ordinanza. Invero, posto che il giudice «a (Pio» ha disposto la sospensione del giudizio principale e la trasmissione del fascicolo alla cancelleria della Corte costituzionale, all'atto, pur formalmente definito «sentenza», deve essere riconosciuta natura di ordinanza (sent. n. 452 del 1997).