TRIBUNALE CIVILE E PENALE DI NOCERA INFERIORE 
 
    Il Tribunale  di  Nocera  Inferiore  (Salerno),  in  persona  del
giudice  monocratico  cons.  dott.  Rocco   De   Giacomo,   all'esito
dell'udienza di precisazione delle esclusioni  tenutasi  in  data  21
novembre 2011, e della  scadenza  dei  termini  massimi,  contemplati
dagli articoli 190, 281-quater s del codice di procedura civile;  118
ss.  delle  disposizioni  d'attuazione  transitorie  del  codice   di
procedura  civile,  nel  procedimento   contenzioso   R.G.A.C.C.   n.
1482/2003 vertente tra Vaccaro Tobia e  Benilli  Fabrizio  ed  altri,
rappresentati e difesi come in atti, 
    sciolta la riserva che precede; 
    letti gli atti processuali; 
    ha  pronunciato  la  sotto  estesa  ordinanza   di   sollevazione
d'ufficio    della    questione    non    manifestamente    infondata
d'illegittimita' costituzionale dell'art. 9, terzo comma (comma  3°),
della  legge  24  marzo  2012,  n.  27  (pubblicata  nel  supplemento
ordinario n. 53/L alla Gazzetta Ufficiale - serie generale  -  n.  71
del 24 marzo 2012 ed entrata in vigore in pari data), di conversione,
contenente modificazioni ed integrazioni normative, del decreto-legge
24 gennaio 2012, n. 1 (pubblicato nel supplemento ordinario  n.  18/L
alla Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 19 del 24 gennaio  2012
ed  entrato  in  vigore  in  pari  data),   in   applicazione   delle
disposizioni, di cui: 
        1. - All'art. 1, della legge costituzionale 9 febbraio  1948,
n. 1, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, 20 febbraio 1948, n. 43, e
recante   l'intestazione   «Norme   sui   giudizi   di   legittimita'
costituzionale  e   sulle   garanzie   d'indipendenza   della   Corte
costituzionale»,   che   recita:   «La   questione   d'illegittimita'
costituzionale di una legge o di un atto avente forza di legge  della
Repubblica, rilevata d'ufficio o sollevata da  una  delle  parti  nel
corso di un  giudizio  e  non  ritenuta  dal  giudice  manifestamente
infondata,  e'  rimessa  alla  Corte  costituzionale   per   la   sua
decisione»; 
        2. - All'art. 23, secondo  capoverso  o  terzo  comma,  della
legge ordinaria 11 marzo  1953,  n.  87,  pubblicata  nella  Gazzetta
Ufficiale 14 marzo 1953, n. 62,  il  cui  testo  normativo  integrale
recita:  «Nel  corso  di  un  giudizio  dinanzi  ad   una   autorita'
giurisdizionale una delle  parti  o  il  Pubblico  Ministero  possono
sollevare questione di legittimita' costituzionale mediante  apposita
istanza, indicando: 
          a) le disposizioni della legge o dell'atto avente forza  di
legge dello  Stato  o  di  una  regione,  viziate  da  illegittimita'
costituzionale; 
          b)  le  disposizioni  della  Costituzione  o  delle   leggi
costituzionali, che si assumono violate. 
    L'autorita' giurisdizionale, qualora il giudizio non possa essere
definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
legittimita' costituzionale o non ritenga che la questione  sollevata
sia manifestamente infondata, emette ordinanza con la quale, riferiti
termini ed i motivi della istanza con cui fu sollevata la  questione,
dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale
e sospende il giudizio in corso. 
    La  questione  di   legittimita'   costituzionale   puo'   essere
sollevata, di ufficio, dall'autorita'  giurisdizionale  davanti  alla
quale verte il  giudizio  con  ordinanza  contenente  le  indicazioni
previste alle lettere a) e b) del primo comma e  le  disposizioni  di
cui al comma precedente. L'autorita'  giurisdizionale  ordina  che  a
cura della Cancelleria l'ordinanza di trasmissione  degli  atti  alla
Corte costituzionale sia  notificata,  quando  non  se  ne  sia  data
lettura nel pubblico dibattimento, alle parti in causa ed al Pubblico
Ministero quando il  suo  intervento  sia  obbligatorio,  nonche'  al
Presidente del Consiglio dei Ministri od al Presidente  della  Giunta
regionale a seconda che sia in questione una legge o un  atto  avente
forza di legge dello  Stato  o  di  una  Regione.  L'ordinanza  viene
comunicata dal cancelliere anche ai Presidenti delle due  Camere  del
Parlamento o al Presidente del Consiglio regionale interessato. 
    Motivazione 
    Ad avviso del giudicante la controversia non puo'  essere  decisa
allo stato degli atti. 
    Ed, invero, questo giudice nutre seri dubbi circa la legittimita'
costituzionale  dell'art.  9  della  legge  24  marzo  2012,  n.   27
(pubblicata nel supplemento ordinario n. 53/L alla Gazzetta Ufficiale
- serie generale - n. 71 del 24 marzo 2012 ed entrata  in  vigore  in
pari data), di conversione, contenente modificazioni ed  integrazioni
normative, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n.  1  (pubblicato  nel
supplemento  ordinario  n.  18/L  alla  Gazzetta  Ufficiale  -  serie
generale - n. 19 del 24 gennaio 2012 ed entrato  in  vigore  in  pari
data), in oggetto del seguente testo normativo: 
        3. Le tariffe vigenti alla data  di  entrata  in  vigore  del
presente  decreto  continuano  ad  applicarsi,   limitatamente   alla
liquidazione delle spese giudiziali, sino alla  data  di  entrata  in
vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2  e,  comunque,  non
oltre centoventesimo giorno dalla data di  entrata  in  vigore  della
legge di conversione del presente decreto  (1) 
    La retroattivita' evidente della norma teste'  cit.,  inesistente
nel decreto-legge convertito e volta a disporre l'ultrattivita' delle
sole  tariffe  giudiziarie  dalla  data  d'entrata   in   vigore   di
quest'ultimo, va sottoposta al  vaglio  preliminare  della  Consulta,
dacche',  essendo  il  giudice  obbligato  a   liquidare   le   spese
processuali,  ove  mai  le  disposizioni  cit.   fossero   dichiarate
incostituzionali, non potrebbe procedervi,  ricreandosi  quel  «vuoto
normativo»   ammesso   dallo   stesso   Ministro   della    giustizia
nell'intervista del  7  febbraio  u.s.  -  successiva  all'intervento
parlamentare  «ex  art.  2233  del  codice  civile»  del  31  gennaio
precedente -  per  cui  sono  state  varate  le  «norme  transitorie»
retroattive prefate. 
1. - Premessa. 
    E' noto come il  Tribunale  di  Cosenza,  con  ordinanza  del  1°
febbraio 2012, ha gia' rimesso al vaglio della  Corte  costituzionale
l'art. 9, commi 1 e 2,  del  decreto-legge  24  gennaio  2012,  n.  1
(pubblicato nel supplemento ordinario n. 18/L alla Gazzetta Ufficiale
- serie generale - n. 19 del 24 gennaio 2012 ed entrato in vigore  in
pari data), sull'abolizione delle  tariffe  professionali,  ritenendo
che le  nuove  previsioni  si  pongono  in  contrasto  con  principio
costituzionale della ragionevolezza della legge, nella parte  in  cui
non  prevedono  la  disciplina  transitoria   limitata   al   periodo
intercorrente tra l'entrata in vigore delle  norme  e  l'adozione  da
parte del Ministro competente di nuovi parametri per le  liquidazioni
giudiziali. 
    Come sottolineato nell'ordinanza di rimessione  della  questione,
il problema si pone proprio con riguardo alle liquidazioni  da  parte
di un organo giurisdizionale, per le quali solamente il  cd.  decreto
«CRESCI ITALIA», dopo aver disposto l'abolizione di tutte le tariffe,
minime e massime, ha previsto che il compenso del  professionista  va
determinato con riferimento a parametri  stabiliti  con  decreto  del
Ministro della giustizia. 
    Il  cit.   decreto-legge   n.   1/2012,   abolendo   le   tariffe
professionali e rimandando l'indicazione dei parametri a  un  decreto
del Ministero della giustizia, lascia un vuoto normativo che  investe
le liquidazioni giudiziali, non essendo ancora intervenuto il decreto
ministeriale. 
    La  questione  ha  aperto  la  strada   a   differenti   correnti
interpretative all'interno della  stessa  magistratura  e  se  alcuni
hanno ipotizzato, in assenza di  parametri  determinati,  il  ricorso
all'equita' da parte del giudice, altri hanno  invece  rilevato  come
l'equita'  giudiziale  possa  essere   esercitata   per   determinare
l'ammontare preciso degli onorari di difesa solo dopo  l'adozione  di
appositi  parametri  da  parte  del  Ministero,  non   anche   prima,
individuando autonomamente i criteri della  liquidazione.  Ne',  come
ancora riportato nell'ordinanza di rimessione,  potrebbe  sostenersi,
nella vacanza  del  provvedimento,  l'applicazione  ultrattiva  delle
tariffe ormai abrogate, vigendo in materia di  norme  processuali  il
principio del «tempus regit actum», per cui si impone  l'applicazione
delle  leggi  vigenti,  e  dunque  del   decreto-legge   n.   1/2012,
regolarmente entrato in vigore il 24 gennaio scorso. 
    Il fenomeno non e' nuovo nell'ordinamento giuridico nazionale, ma
non si e' mai verificato in dimensioni di questa portata, perche': 
        A) il decreto-legge n. 1 del 2012 ha sostituito  un  apparato
tariffario con un sistema parametrale, affatto sconosciuto; 
        B)  in  passato  ogni   intervento   legislativo   e'   stato
accompagnato da un decreto ministeriale contemporaneo  e  contestuale
di determinazione delle tariffe professionali. 
    Infatti,  l'attuale  testo  unico  sulle  spese   di   giustizia,
assicurando, a mezzo della previsione di cui agli articoli  da  49  a
56, 275 e 299, 301 del decreto del  Presidente  della  Repubblica  30
maggio 2002, n. 155, la permanenza in vigore dell'art. 4 della  legge
8 luglio 1980, n. 319, e' stato preceduto dal decreto ministeriale 30
maggio 2002 - stessa data del decreto del Presidente della Repubblica
teste' cit. - pubblicato nella Gazzetta Ufficiale  in  pari  data  n.
182, mentre il testo unico pure teste' cit. e' stato  pubblicato  nel
supplemento ordinario n. 126/L alla Gazzetta  Ufficiale  seguente  15
giugno 2002, n. 139. 
    Nel caso di specie, invece, l'Italia e' stata condannata nel 2011
dalla Commissione  dell'U.E.  al  pagamento  di  e  500.000,00  (euro
cinquecentomila) al giorno dal  31  gennaio  2012  se  non  si  fosse
adeguata alla liberalizzazione dei  corrispettivi  nei  contratti  di
prestazione professionale intellettuale, stabiliti dall'art. 2233 del
codice  civile,  e  delle  spese  di  giustizia  (e   stragiudiziali,
arbitrali ed amministrative connesse a liti in  potenza  od  in  atto
coinvolgenti due o  piu'  parti),  fissate,  per  gli  avvocati,  dal
decreto  ministeriale  8  aprile  2004,  n.   127,   pubblicato   nel
supplemento ordinario n. 95/L alla Gazzetta Ufficiale n. 115  del  18
maggio 2004, a titolo integrativo del rinvio recettizio, che si legge
nell'art. 64, del regio decreto-legge  27  novembre  1933,  n.  1578,
pubblicato  nella  Gazzetta  Ufficiale  5  dicembre  1933,   n.   28,
convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36,  a
sua volta pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 30 gennaio 1934, n.  24
(ma ora abrogato dalle disposizioni, di cui ai commi 1  e  5  del  24
gennaio 2012, n. 1 [pubblicato nel supplemento ordinario n. 18/L alla
Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 19 del 24  gennaio  2012  ed
entrato in vigore in pari data], convertito, con modificazioni, dalla
legge 24 marzo 2012, n. 27 [pubblicata nel supplemento  ordinario  n.
53/L alla Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 71  del  24  marzo
2012 ed entrata in vigore in pari data]). 
    Le spese di giustizia, per  gli  altri  professionisti  ausiliari
erano  state  finora  salvaguardate  dal  combinato  disposto   degli
articoli 50 e 275 del cit. decreto  Presidente  della  Repubblica  n.
115/2002. 
    Il  legislatore  italiano  ha  dovuto,  quindi,  rimediare  senza
indugio  ne'  dilazione  alcuna  alla  situazione,  derivante   dalla
sanzione comminata, intervenendo con la massima urgenza  prima  della
scadenza  del  cit.  dies  a  quo  d'irrogazione:  l'unico  strumento
possibile in materia era, logicamente, un decreto-legge. 
    Il  Tribunale  di  Cosenza,  pertanto,  ritenendo  di  non  avere
riferimenti normativi utilizzabili per la  liquidazione  delle  spese
processuali nel giudizio  innanzi  a  lui  pendente,  ha  sospeso  la
decisione relativa alla determinazione di tali spese e ha chiamato la
Corte costituzionale a giudicare della legittimita' delle  previsioni
di cui all'art. 9, commi 1 e 2, del  cit.  decreto-legge  24  gennaio
2012, n. 1, laddove le  disposizioni,  ivi  previste,  non  prevedono
alcuna disciplina transitoria per il  tempo  che  va  dall'abolizione
delle tariffe all'entrata  in  vigore  dei  nuovi  parametri  che  il
Ministero dovra' fissare. 
    Ex intervallo, a  giudizio  di  questo  tribunale,  l'entrata  in
vigore della legge di conversione del decreto-legge,  gia'  fulminato
di denuncia d'incostituzionalita' in oggetto del testo normativo  del
comma 1° (e 2°) cit., non ha affatto migliorato la situazione. 
    Ed, invero, l'art. 9 della legge 24 marzo 2012, n. 27 (pubblicata
nel supplemento ordinario n. 53/L alla  Gazzetta  Ufficiale  -  serie
generale - n. 71 del 24 marzo 2012  ed  entrata  in  vigore  in  pari
data),  di  conversione,  contenente  modificazioni  ed  integrazioni
normative, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n.  1  (pubblicato  nel
supplemento  ordinario  n.  18/L  alla  Gazzetta  Ufficiale  -  serie
generale - n. 19 del 24 gennaio 2012 ed entrato  in  vigore  in  pari
data), dispone quanto segue: 
        Art. 9 (Disposizioni sulle professioni regolamentate). 
    1. Sono abrogate le tariffe delle professioni  regolamentate  nel
sistema ordinistico. 
    2. Ferma restando l'abrogazione di cui al comma 1,  nel  caso  di
liquidazione da parte di un organo giurisdizionale, il  compenso  del
professionista e' determinato con riferimento a  parametri  stabiliti
con decreto del Ministro  vigilante,  da  adottarsi  nel  termine  di
centoventi giorni successivi alla data di  entrata  in  vigore  della
legge di conversione del presente decreto. 
    Nello stesso termine, con decreto del Ministro della giustizia di
concerto con il Ministro dell'economia e  delle  finanze  sono  anche
stabiliti  i  parametri  per  oneri  e   contribuzioni   alle   casse
professionali e agli archivi precedentemente basati sulle tariffe. Il
decreto deve salvaguardare l'equilibrio finanziario, anche  di  lungo
periodo, delle casse previdenziali professionali. 
    3. Le tariffe vigenti alla data di entrata in vigore del presente
decreto continuano ad  applicarsi,  limitatamente  alla  liquidazione
delle spese giudiziali, sino alla  data  di  entrata  in  vigore  dei
decreti ministeriali di cui al comma 2  e,  comunque,  non  oltre  il
centoventesimo giorno dalla data di entrata in vigore della legge  di
conversione del presente decreto. 
    4. Il compenso per  le  prestazioni  professionali  e'  pattuito,
nelle forme previste dall'ordinamento, al  momento  del  conferimento
dell'incarico professionale. Il professionista deve rendere  noto  al
cliente il grado di complessita'  dell'incarico,  fornendo  tutte  le
informazioni utili circa  gli  oneri  ipotizzabili  dal  momento  del
conferimento fino alla  conclusione  dell'incarico  e  deve  altresi'
indicare i dati della polizza  assicurativa  per  i  danni  provocati
nell'esercizio dell'attivita' professionale. In ogni caso  la  misura
del compenso e' previamente resa nota al cliente con un preventivo di
massima, deve essere adeguata all'importanza dell'opera e va pattuita
indicando  per  le  singole  prestazioni  tutte  le  voci  di  costo,
comprensive  di  spese,  oneri  e  contributi.  Al   tirocinante   e'
riconosciuto un rimborso spese  forfettariamente  concordato  dopo  i
primi sei mesi di tirocinio. 
    5.  Sono  abrogate   le   disposizioni   vigenti   che   per   la
determinazione del compenso del professionista rinviano alle  tariffe
di cui al comma 1. 
    6.  La  durata  del  tirocinio  previsto   per   l'accesso   alle
professioni regolamentate non puo' essere superiore a  diciotto  mesi
e, per  i  primi  sei  mesi,  puo'  essere  svolto,  in  presenza  di
un'apposita convenzione quadro stipulata  tra  i  consigli  nazionali
degli ordini e il Ministro dell'istruzione, dell'universita' e  della
ricerca, in concomitanza col corso di  studio  per  il  conseguimento
della  laurea  di  primo  livello  o  della   laurea   magistrale   o
specialistica. Analoghe convenzioni possono essere  stipulate  tra  i
Consigli nazionali  degli  ordini  e  il  Ministro  per  la  pubblica
amministrazione e la semplificazione per lo svolgimento del tirocinio
presso pubbliche amministrazioni, all'esito del corso di  laurea.  Le
disposizioni del presente comma non  si  applicano  alle  professioni
sanitarie, per le quali resta confermata la normativa vigente. 
    7. All'art. 3, comma 5, del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138,
convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148,
sono apportate le seguenti modificazioni: 
        a)  all'alinea,   nel   primo   periodo,   dopo   la   parola
«regolamentate» sono inserite le seguenti: «secondo i principi  della
riduzione e dell'accorpamento, su base  volontaria,  fra  professioni
che svolgono attivita' similari»; 
        b) alla lettera c), il secondo, terzo e quarto  periodo  sono
soppressi; 
        e) la lettera d) e' abrogata. 
    8. Dall'attuazione del  presente  articolo  non  devono  derivare
nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. 
    Il testo normativo teste' riportato non risulta abbia soltanto ed
unicamente convertito il decreto-legge 24 gennaio 2012, n.  1,  cit.,
ma contiene disposizioni normative aventi forza di legge estranee  al
testo originario del decreto-legge convertito, tra  cui  segnatamente
il terzo comma, che stabilisce: 
        3. Le tariffe vigenti alla data  di  entrata  in  vigore  del
presente  decreto  continuano  ad  applicarsi,   limitatamente   alla
liquidazione delle spese giudiziali, sino alla  data  di  entrata  in
vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2  e,  comunque,  non
oltre centoventesimo giorno dalla data di  entrata  in  vigore  della
legge di conversione del presente decreto. 
    Esse vanno lette secondo i ben noti principi dell'interpretazione
sistematica delle norme  di  legge  e  dei  contratti,  di  cui  agli
articoli 12 delle preleggi al codice civile e 1362 ss.  dello  stesso
codice  civile  -  in  combinato  disposto  con  le  altre   seguenti
statuizioni normative  del  decreto-legge  ult.  cit.,  assolutamente
lasciate  intatte  e,  percio',  non  modificate   dalla   legge   di
conversione in parola: 
        1. - Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate
nel sistema ordinistico. 
        5. -  Sono  abrogate  le  disposizioni  vigenti  che  per  la
determinazione del compenso del professionista rinviano alle  tariffe
di cui al comma 1. 
2. - La norma legislativa ritenuta incostituzionale. 
    Essa e' contenuta nell'art. 3,  terzo  comma  (comma  3°),  della
legge 24 marzo 2012, n. 27 (pubblicata nel supplemento  ordinario  n.
53/L alla Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 71  del  24  marzo
2012 ed entrata in vigore in pari data), di  conversione,  contenente
modificazioni ed integrazioni normative, del decreto-legge 24 gennaio
2012, n.  1  (pubblicato  nel  supplemento  ordinario  n.  18/L  alla
Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 19 del 24  gennaio  2012  ed
entrato in vigore in pari data), e recita: 
        3. Le tariffe vigenti alla data  di  entrata  in  vigore  del
presente  decreto  continuano  ad  applicarsi,   limitatamente   alla
liquidazione delle spese giudiziali, sino alla  data  di  entrata  in
vigore dei decreti ministeriali di cui al comma 2  e,  comunque,  non
oltre centoventesimo giorno dalla data di  entrata  in  vigore  della
legge di conversione del presente decreto. 
    A  giudizio  dello  scrivente,  in  combinato  disposto  con   le
disposizioni, di cui al primo e quinto comma dell'art. 9  cit.,  tale
norma,  contenuta  esclusivamente   nella   legge   di   conversione,
contenente modificazioni ed integrazioni non  retroattive,  24  marzo
2012, n. 27  (pubblicata  nel  supplemento  ordinario  n.  53/L  alla
Gazzetta Ufficiale - serie generale - n. 71  del  24  marzo  2012  ed
entrata in vigore in pari data), del decreto-legge 24  gennaio  2012,
n. 1 (pubblicato nel supplemento  ordinario  n.  18/L  alla  Gazzetta
Ufficiale - serie generale - n. 19 del 24 gennaio 2012 ed entrato  in
vigore in pari data), si palesa incostituzionale, in quanto fissa  la
decorrenza  dell'ultrattivita'  o  continuazione  applicativa   delle
tariffe professionali abrogate non dalla  data  d'entrata  in  vigore
della legge di conversione - 24 marzo 2012 - ma dalla data  d'entrata
in vigore del «presente decreto» che altro non puo' essere se non  il
decreto-legge n. 1 del 2012. 
    Infatti, il testo normativo statuisce  che  «le  tariffe  vigenti
alla data di entrata in vigore del  presente  decreto  continuano  ad
applicarsi, limitatamente alla liquidazione  delle  spese  giudiziali
...». 
    Ne consegue che le  sole  norme  «transitorie»  del  comma  terzo
dell'art. 9 - cosi' come modificato dalla  legge  di  conversione  24
marzo 2012, n. 27, ma inesistenti  nel  decreto-legge  convertito  24
gennaio  2012,  n.  1  -  impongono  la  retrotrazione  effettuale  o
retroattivita' della decorrenza dell'ultrattivita' appena  illustrata
delle tariffe professionali abrogate, alla data d'entrata  in  vigore
del decreto-legge in parola. 
    In pratica, con le suddette norme «integrative», il  legislatore,
in sede di conversione del decreto-legge su ripetuto, ha  realizzato,
con  efficacia  retroattiva,  rilevanti  modifiche   dell'ordinamento
giudiziario,  incidendo  in   modo   irragionevole   sul   «legittimo
affidamento  nella  sicurezza  giuridica,  che  costituisce  elemento
fondamentale dello Stato di diritto» (sentenza n. 236 del 2009). 
    Siffatta decorrenza retroattiva si manifesta,  a  tacer  d'altro,
con   cristallina   evidenza,   affatto   incostituzionale,   secondo
l'insegnamento della stessa Consulta,  di  cui  alla  sentenza  della
Corte costituzionale 4-5 aprile 2012,  n.  78  (presidente  il  prof.
dott. Antonio Quaranta, relatore ed estensore collega pres.  di  sez.
cass. cons. dott. Alessandro Criscuolo) che si riporta nel testo  che
procede nella sola motivazione in punto di diritto: 
    Fermo il punto che alcune pronunzie adottate in  sede  di  merito
non sono idonee ad integrare l'attuale  «diritto  vivente»,  si  deve
osservare che, come questa Corte ha gia' affermato, l'univoco  tenore
della norma segna il confine  in  presenza  del  quale  il  tentativo
interpretativo deve cedere il  passo  al  sindacato  di  legittimita'
costituzionale (sentenza n. 26 del 2010, punto 2, del Considerato  in
diritto; sentenza n. 219  del  2008,  punto  4,  del  Considerato  in
diritto). 
    Nel caso in esame, il dettato  della  norma  e',  per  l'appunto,
univoco. 
    Nel primo periodo essa stabilisce che, in ordine alle  operazioni
bancarie regolate in conto corrente (il richiamo e' all'art. 1852 del
codice civile), l'art. 2935 del codice civile si interpreta nel senso
che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione  in
conto inizia a  decorrere  dal  giorno  dell'annotazione  stessa  (il
principio e'  da  intendere  riferito  a  tutti  i  diritti  nascenti
dall'annotazione in conto, in assenza  di  qualsiasi  distinzione  da
parte del legislatore). Il secondo periodo dispone che, in ogni caso,
non si fa luogo alla restituzione di importi gia' versati  alla  data
di entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge  n.
225 del 2010; ed anche questa disposizione normativa  e'  chiara  nel
senso fatto palese dal significato  proprio  delle  parole  (art.  12
disposizioni sulla legge in generale), che e' quello di  rendere  non
ripetibili gli importi gia' versati (evidentemente,  nel  quadro  del
rapporto menzionato nel primo periodo) alla data di entrata in vigore
della legge di conversione. 
    Questo e', dunque, il contesto normativo sul quale l'ordinanza di
rimessione e' intervenuta. Esso non si prestava ad un'interpretazione
conforme a Costituzione, come  risultera'  dalle  considerazioni  che
saranno svolte trattando del merito. Pertanto,  la  presunta  ragione
d'inammissibilita' non sussiste. 
    La questione e' fondata. 
    L'art. 2935 del codice civile  stabilisce  che  «La  prescrizione
comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto puo'  essere  fatto
valere». Si tratta di una norma di carattere generale, dalla quale si
evince che presupposto della prescrizione e' il mancato esercizio del
diritto da parte del suo titolare.  La  formula  elastica  usata  dal
legislatore si spiega  con  l'esigenza  di  adattarla  alle  concrete
modalita' dei molteplici rapporti dai  quali  i  diritti  soggetti  a
prescrizione nascono. 
    Il principio posto dal citato  articolo,  peraltro,  vale  quando
manchi una specifica statuizione legislativa sulla  decorrenza  della
prescrizione. Infatti, sia nel codice civile sia in  altri  codici  e
nella legislazione speciale, sono numerosi i casi  in  cui  la  legge
collega il dies a quo  della  prescrizione  a  circostanze  o  eventi
determinati. In alcuni di questi casi  l'indicazione  espressa  della
decorrenza costituisce una  specificazione  del  principio  enunciato
dall'art. 2935 del codice civile; in altri, la  determinazione  della
decorrenza stabilita dalla legge costituisce una deroga al  principio
generale che la prescrizione inizia il suo corso dal momento  in  cui
sussiste la  possibilita'  legale  di  far  valere  il  diritto  (non
rilevano, invece, gli impedimenti di mero fatto). 
    In questo quadro, prima  dell'intervento  legislativo  concretato
dalla norma qui censurata,  con  riferimento  alla  prescrizione  del
diritto  alla  ripetizione  dell'indebito  nascente   da   operazioni
bancarie regolate in conto corrente, nella giurisprudenza  di  merito
si era formato un orientamento, peraltro minoritario, secondo cui  la
prescrizione  del  menzionato  diritto   decorreva   dall'annotazione
dell'addebito in conto, in quanto,  benche'  il  contratto  di  conto
corrente bancario fosse considerato come rapporto  unitario,  la  sua
natura di contratto di durata e la  rilevanza  dei  singoli  atti  di
esecuzione giustificavano quella conclusione. 
    In particolare, gli atti di addebito e di  accredito,  fin  dalla
loro annotazione,  producevano  l'effetto  di  modificare  il  saldo,
attraverso la variazione quantitativa, e di determinare in  tal  modo
la somma esigibile dal correntista ai sensi dell'art. 1852 del codice
civile. 
    A tale indirizzo si contrapponeva, sempre nella giurisprudenza di
merito, un orientamento di gran lunga maggioritario  secondo  cui  la
prescrizione  del  diritto  alla  ripetizione  dell'indebito   doveva
decorrere dalla chiusura  definitiva  del  rapporto,  considerata  la
natura unitaria del contratto di conto corrente  bancario,  il  quale
darebbe luogo ad un unico rapporto giuridico, ancorche' articolato in
una pluralita' di atti esecutivi: la serie successiva di versamenti e
prelievi,   accreditamenti   e   addebiti,   comporterebbe   soltanto
variazioni quantitative del titolo originario costituito tra banca  e
cliente; soltanto con la chiusura del conto si stabilirebbero in  via
definitiva i crediti e i debiti delle parti  e  le  somme  trattenute
indebitamente dall'istituto di credito potrebbero essere  oggetto  di
ripetizione. 
    Nella giurisprudenza di legittimita',  prima  della  sentenza  n.
24418 del 2 dicembre 2010, resa dalla Corte di cassazione  a  sezioni
unite, non risulta che si  fossero  palesati  contasti  sul  tema  in
esame. Infatti, essa aveva affermato,  in  linea  con  l'orientamento
maggioritario  emerso  in  sede  di  merito,  che   il   termine   di
prescrizione decennale per il reclamo delle  somme  trattenute  dalla
banca indebitamente a titolo di interessi su un'apertura  di  credito
in conto corrente decorre dalla  chiusura  definitiva  del  rapporto,
trattandosi di un contratto  unitario  che  da'  luogo  ad  un  unico
rapporto giuridico, anche se articolato in  una  pluralita'  di  atti
esecutivi, sicche' soltanto con la chiusura del conto si stabiliscono
definitivamente i crediti e i debiti delle parti tra loro  (Corte  di
cassazione, sezione prima civile, sentenza 14 maggio 2005, n. 10127 e
sezione prima civile, sentenza 9 aprile 1984, n. 2262). 
    Con la citata sentenza n. 24418 del 2010 (affidata  alle  sezioni
unite per la particolare importanza delle questioni  sollevate:  art.
374, secondo comma, codice procedura civile) la Corte di  cassazione,
con riguardo alla fattispecie al suo esame (contratto di apertura  di
credito bancario in conto corrente), ha tenuto ferma  la  conclusione
alla quale la precedente giurisprudenza di legittimita' era pervenuta
ed ha affermato, quindi, il seguente principio di diritto: «Se,  dopo
la conclusione di  un  contratto  di  apertura  di  credito  bancario
regolato in conto corrente, il correntista agisce per far  dichiarare
la nullita' della clausola che prevede la corresponsione di interessi
anatocistici e per la ripetizione di quanto  pagato  indebitamente  a
questo titolo, il termine di prescrizione decennale cui  tale  azione
di ripetizione e' soggetta decorre, qualora i versamenti eseguiti dal
correntista in pendenza del  rapporto  abbiano  avuto  solo  funzione
ripristinatoria della provvista, dalla data in cui e'  stato  estinto
il saldo di chiusura del conto in cui gli interessi non  dovuti  sono
stati registrati». 
    Rispetto alle pronunzie precedenti, la sentenza n. 24418 del 2010
ha aggiunto che, quando nell'ambito  del  rapporto  in  questione  e'
stato  eseguito  un  atto   giuridico   definibile   come   pagamento
(consistente nell'esecuzione  di  una  prestazione  da  parte  di  un
soggetto, con conseguente spostamento patrimoniale a favore di  altro
soggetto), e il solvens ne  contesti  la  legittimita'  assumendo  la
carenza di una idonea causa giustificativa e percio'  agendo  per  la
ripetizione dell'indebito, la prescrizione decorre dalla data in  cui
il pagamento indebito e' stato eseguito. Ma cio' soltanto qualora  si
sia in presenza  di  un  atto  con  efficacia  solutoria,  cioe'  per
l'appunto di un pagamento, vale a dire di un versamento  eseguito  su
un conto passivo («scoperto»), cui  non  accede  alcuna  apertura  di
credito a favore del correntista, oppure di un versamento destinato a
coprire un passivo eccedente i limiti dell'accreditamento (cosiddetto
extra fido). 
    In particolare, con riferimento  alla  fattispecie  (relativa  ad
azione di ripetizione d'indebito proposta dal cliente di  una  banca,
il quale lamentava la nullita'  della  clausola  di  capitalizzazione
trimestrale  degli  interessi),  la  Corte  di  legittimita'  non  ha
condiviso la tesi dell'istituto di credito  ricorrente,  che  avrebbe
voluto individuare il dies a quo del decorso della prescrizione nella
data di annotazione in conto  di  ogni  singola  posta  di  interessi
illegittimamente addebitati al correntista.  Infatti,  «L'annotazione
in conto di una siffatta posta comporta un incremento del debito  del
correntista, o una riduzione del credito di cui egli ancora  dispone,
ma in nessun modo si risolve  in  un  pagamento,  nei  termini  sopra
indicati: perche' non vi corrisponde alcuna attivita'  solutoria  del
correntista  medesimo  in  favore  della  banca.  Sin   dal   momento
dell'annotazione,  avvedutosi  dell'illegittimita'  dell'addebito  in
conto, il correntista potra' naturalmente agire per far dichiarare la
nullita' del titolo su cui quell'addebito si basa e, di  conseguenza,
per ottenere una rettifica in suo favore delle risultanze  del  conto
stesso. E potra' farlo, se al conto  accede  un'apertura  di  credito
bancario, allo scopo di recuperare  una  maggiore  disponibilita'  di
credito entro i limiti del fido concessogli. Ma non puo' agire per la
ripetizione di un pagamento che, in quanto tale, da parte sua non  ha
ancora avuto luogo». 
    Come  si  vede,  dunque,  a  parte  la  correzione  relativa   ai
versamenti con carattere solutorio, la citata sentenza della Corte di
cassazione a sezioni unite conferma l'orientamento  della  precedente
giurisprudenza  di  legittimita',  a  sua  volta  in   sintonia   con
l'orientamento maggioritario della giurisprudenza di merito. 
    12. - In questo contesto e' intervenuto l'art. 2, comma  61,  del
decreto-legge n. 225 del 2010, convertito, con  modificazioni,  dalla
legge n. 10 del 2011. 
    La norma si compone di due periodi: come gia' si e' accennato, il
primo dispone che «In ordine alle  operazioni  bancarie  regolate  in
conto corrente l'art. 2935 del codice civile si interpreta nel  senso
che la prescrizione relativa ai diritti nascenti dall'annotazione  in
conto inizia a decorrere dal giorno dell'annotazione stessa». 
    La disposizione si autoqualifica di  interpretazione  e,  dunque,
spiega efficacia retroattiva come, del resto, si evince anche dal suo
tenore letterale che rende  la  stessa  applicabile  alle  situazioni
giuridiche nascenti dal rapporto contrattuale di conto corrente e non
ancora esaurite alla data della sua entrata in vigore. 
    Orbene,  questa  Corte  ha  gia'  affermato  che  il  divieto  di
retroattivita' della legge (art. 11 delle disposizioni sulla legge in
generale), pur costituendo valore fondamentale di civilta' giuridica,
non riceve nell'ordinamento la tutela privilegiata di cui all'art. 25
Cost. (sentenze n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e n. 393 del  2006).
Pertanto, il legislatore - nel rispetto di  tale  previsione  -  puo'
emanare  norme  retroattive,  anche  di  interpretazione   autentica,
purche'   la   retroattivita'    trovi    adeguata    giustificazione
nell'esigenza  di  tutelare  principi,  diritti  e  beni  di  rilievo
costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi  imperativi  di
interesse generale», ai sensi della Convenzione europea  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU). 
    La norma che deriva dalla  legge  di  interpretazione  autentica,
quindi, non puo'  dirsi  costituzionalmente  illegittima  qualora  si
limiti ad assegnare alla  disposizione  interpretata  un  significato
gia' in  essa  contenuto,  riconoscibile  come  una  delle  possibili
letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e  n.  257
del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009). In tal caso, infatti, la
legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva
incertezza  del  dato  normativo»,  in  ragione  di   «un   dibattito
giurisprudenziale  irrisolto»  (sentenza  n.  311  del  2009),  o  di
«ristabilire  un'interpretazione  piu'   aderente   alla   originaria
volonta' del legislatore» (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela
della certezza del diritto e dell'eguaglianza dei cittadini, cioe' di
principi di  preminente  interesse  costituzionale.  Accanto  a  tale
caratteristica, questa Corte  ha  individuato  una  serie  di  limiti
generali  all'efficacia  retroattiva  delle  leggi,  attinenti   alla
salvaguardia,  oltre  che  dei  principi  costituzionali,  di   altri
fondamentali  valori  di  civilta'  giuridica,  posti  a  tutela  dei
destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno
ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza,  che
si riflette nel divieto di introdurre  ingiustificate  disparita'  di
trattamento; la  tutela  dell'affidamento  legittimamente  sorto  nei
soggetti quale  principio  connaturato  allo  Stato  di  diritto;  la
coerenza e la certezza dell'ordinamento giuridico; il rispetto  delle
funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza
n. 209 del 2010, citata, punto 5.1, del Considerato in diritto). 
    Cio' posto, si deve osservare che la norma censurata, con la  sua
efficacia retroattiva, lede in primo luogo il canone  generale  della
ragionevolezza delle norme (art. 3 Cost.). 
    Invero, essa e' intervenuta sull'art. 2935 del codice  civile  in
assenza di una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo,
perche',  in  materia  di  decorrenza  del  termine  di  prescrizione
relativo alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a parte
un indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza di merito, si
era  ormai   formato   un   orientamento   maggioritario   in   detta
giurisprudenza, che aveva trovato riscontro in sede  di  legittimita'
ed  aveva  condotto  ad  individuare  nella  chiusura  del   rapporto
contrattuale o nel pagamento solutorio il dies a quo per  il  decorso
del suddetto termine. 
    Inoltre, la soluzione fatta propria dal legislatore con la  norma
denunziata non  puo'  sotto  alcun  profilo  essere  considerata  una
possibile variante di senso del testo originario della norma  oggetto
di interpretazione. 
    Come  sopra  si  e'  notato,  quest'ultima  pone  una  regola  di
carattere generale, che fa decorrere la prescrizione  dal  giorno  in
cui il diritto (gia' sorto) puo' essere fatto legalmente  valere,  in
coerenza  con  la  ratio  dell'istituto  che  postula  l'inerzia  del
titolare del diritto stesso, nonche' con la finalita' di demandare al
giudice  l'accertamento  sul  punto,  in  relazione   alle   concrete
modalita' della fattispecie. La norma censurata, invece,  interviene,
con riguardo alle operazioni bancarie  regolate  in  conto  corrente,
individuando, con effetto retroattivo, il dies a quo per  il  decorso
della prescrizione nella data di annotazione  in  conto  dei  diritti
nascenti dall'annotazione stessa. 
    In proposito, si deve osservare che non e' esatto (come  pure  e'
stato sostenuto) che con tale  espressione  si  dovrebbero  intendere
soltanto i diritti di contestazione, sul piano cartolare, e dunque di
rettifica o di eliminazione delle annotazioni conseguenti ad  atti  o
negozi accertati come nulli, ovvero basati su errori di  calcolo.  Se
cosi' fosse, la norma sarebbe inutile, perche'  il  correntista  puo'
sempre  agire  per  far  dichiarare  la   nullita'   -   con   azione
imprescrittibile (art. 1422 del codice  civile)  del  titolo  su  cui
l'annotazione illegittima si basa e, di conseguenza, per ottenere  la
rettifica in suo favore delle  risultanze  del  conto.  Ma  non  sono
imprescrittibili  le  azioni  di  ripetizione  (art.  1422   citato),
soggette a prescrizione decennale. 
    Orbene, come sopra si e' notato l'ampia formulazione della  norma
censurata impone di affermare che, nel novero dei  «diritti  nascenti
dall'annotazione»,  devono  ritenersi  inclusi  anche  i  diritti  di
ripetere somme non dovute (quali sono quelli derivanti,  ad  esempio,
da interessi anatocistici o comunque non spettanti, da commissioni di
massimo scoperto e cosi' via, tenuto conto del fatto che il  rapporto
di conto corrente di cui si discute, come risulta  dall'ordinanza  di
rimessione del Tribunale di Brindisi, si e' svolto in data precedente
all'entrata in vigore del decreto legislativo 4 agosto 1999, n.  342,
recante modifiche al decreto legislativo 1° settembre  1993,  n.  385
(testo unico delle leggi in materia bancaria  e  creditizia).  Ma  la
ripetizione dell'indebito oggettivo postula un pagamento  (art.  2033
del  codice  civile)  che,   avuto   riguardo   alle   modalita'   di
funzionamento  del  rapporto  di  conto  corrente,  spesso  si  rende
configurabile soltanto all'atto della chiusura del  conto  (Corte  di
cassazione, sezioni unite, sentenza n. 24418 del 2010, citata). 
    Ne deriva che ancorare con norma retroattiva  la  decorrenza  del
termine  di   prescrizione   all'annotazione   in   conto   significa
individuarla in un momento diverso da quello in cui il  diritto  puo'
essere fatto valere, secondo la previsione dell'art. 2935 del  codice
civile. 
    Pertanto, la norma censurata, lungi dall'esprimere una  soluzione
ermeneutica rientrante tra significati  ascrivibili  al  citato  art.
2935 del codice civile, ad esso nettamente deroga, innovando rispetto
al   testo   previgente,   peraltro    senza    alcuna    ragionevole
giustificazione. 
    Anzi, l'efficacia retroattiva della deroga rende  asimmetrico  il
rapporto contrattuale di conto corrente perche', retrodatando decorso
del termine di prescrizione, finisce  per  ridurre  irragionevolmente
l'arco temporale disponibile per l'esercizio dei diritti nascenti dal
rapporto stesso, in particolare pregiudicando la posizione  giuridica
dei correntisti che, nel contesto giuridico anteriore all'entrata  in
vigore della norma  denunziata,  abbiano  avviato  azioni  dirette  a
ripetere somme ai medesimi illegittimamente addebitate. 
    Sussiste, dunque, la violazione dell'art.  3  Cost.,  perche'  la
norma censurata, facendo retroagire la disciplina in  esso  prevista,
non rispetta i principi  generali  di  eguaglianza  e  ragionevolezza
(sentenza n. 209 del 2010). 
    13. - L'art. 2, comma 61,  del  decreto-legge  n.  225  del  2010
(primo periodo), convertito, con modificazioni, dalla legge n. 10 del
2011, e' costituzionalmente illegittimo anche per altro profilo. 
    E' noto che, a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del  2007,  la
giurisprudenza di questa Corte e' costante nel ritenere che le  norme
della CEDU - nel significato loro attribuito dalla Corte europea  dei
diritti  dell'uomo,  specificamente  istituita  per  dare   ad   esse
interpretazione e applicazione - integrino, quali «norme interposte»,
il parametro costituzionale  espresso  dall'art.  117,  primo  comma,
Cost., nella parte in cui impone la conformazione della  legislazione
interna  ai  vincoli  derivanti  dagli  obblighi  internazionali  (ex
plurimis: sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138  del  2010;
sulla perdurante validita' di tale ricostruzione anche dopo l'entrata
in vigore del Trattato di Lisbona, sentenza n. 80 del 2011). 
    La Corte europea dei diritti dell'uomo ha  piu'  volte  affermato
che se, in linea di principio, nulla vieta al potere  legislativo  di
regolamentare in materia civile, con nuove disposizioni dalla portata
retroattiva, diritti risultanti da  leggi  in  vigore,  il  principio
della preminenza del diritto e il concetto di processo  equo  sanciti
dall'art. 6  della  Convenzione  ostano,  salvo  che  per  imperative
ragioni di interesse generale, all'ingerenza del  potere  legislativo
nell'amministrazione della giustizia, al fine di influenzare  l'esito
giudiziario di una controversia (ex plurimis: Corte europea, sentenza
sezione seconda, 7  giugno  2011,  Agrati  ed  altri  contro  Italia;
sezione seconda,  31  maggio  2011,  Maggio  contro  Italia;  sezione
quinta, 11 febbraio 2010, Javaugue contro Francia;  sezione  seconda,
10 giugno 2008, Bortesi e altri contro Italia). 
    Pertanto,  sussiste  uno  spazio,  sia  pur  delimitato,  per  un
intervento del legislatore con efficacia retroattiva (fermi i  limiti
di cui all'art. 25 Cost.),  se  giustificato  da  «motivi  imperativi
d'interesse  generale»,  che  spetta  innanzitutto   al   legislatore
nazionale e a questa Corte  valutare,  con  riferimento  a  principi,
diritti e beni di rilievo costituzionale, nell'ambito del margine  di
apprezzamento riconosciuto dalla giurisprudenza della Cedu ai singoli
ordinamenti statali (sentenza n. 15 del 2012). 
    Nel caso in esame, come si  evince  dalle  considerazioni  dianzi
svolte, non e' dato ravvisare quali  sarebbero  i  motivi  imperativi
d'interesse generale, idonei a giustificare l'effetto retroattivo. Ne
segue che risulta violato anche  il  parametro  costituito  dall'art.
117, primo comma, Cost., in relazione all'art.  6  della  Convenzione
europea, come interpretato dalla Corte di Strasburgo. 
    Pertanto, deve essere dichiarata l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 2, comma 61, del decreto-legge n. 225 del 2010, convertito,
con modificazioni, dalla legge n. 10 del 2011 (comma introdotto dalla
legge di conversione). La declaratoria  di  illegittimita'  comprende
anche il secondo periodo della norma («In ogni caso non si  fa  luogo
alla restituzione di importi gia' versati alla  data  di  entrata  in
vigore della legge di conversione del presente decreto»), trattandosi
di disposizione strettamente connessa al primo  periodo,  del  quale,
dunque, segue la sorte. 
    Ma v'e' di piu'. 
    In virtu'  d'un'interpretazione  estensiva  del  testo  normativo
teste' cit. potrebbero, pero',  risultare  abrogate  anche  tanto  le
disposizioni che rinviano per  la  determinazione  dettagliata  delle
tariffe  professionali  sia  contrattuali,  sia  giudiziarie  -  rese
retroattivamente   (ed   incostituzionalmente?)   ultrattive    dalle
disposizioni contenute nel cit. terzo comma dell'art. 9  della  legge
n. 24 marzo 2012, n. 27,  a  far  data  dall'entrata  in  vigore  del
decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, che non le prevede ne' contempla
- al solito decreto ministeriale, e cioe' pure gli articoli 60 ss.  e
64 ss. del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578,  pubblicato
nella Gazzetta Ufficiale 5 dicembre 1933,  n.  281,  convertito,  con
modificazioni,  dalla  legge  22  gennaio  1934,   n.   36,   recante
«Ordinamento  delle  professioni  di  avvocato  [e  procuratore]»   e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 30 gennaio 1934, n.  24,  con  il
decreto ministeriale n. 127/2004 d'accompagnamento; quanto,  per  gli
altri professionisti, dagli articoli 4 della legge 8 luglio 1980,  n.
319 e 49 ss., 59, 168, 170, 275, 299 del decreto del Presidente della
Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, con uso delle tabelle emanate  con
decreto  ministeriale  in  pari  data,  pubblicato   nella   Gazzetta
Ufficiale 5 agosto 2002, n. 182. 
    Se  la  ratio  legis  di   questa   rivoluzionaria,   formidabile
operazione    eliminatoria    -    denominata    «abrogazione     per
incompatibilita'  di  norme  di   rinvio   recettizio   a   periodici
provvedimenti  amministrativi  conformativi»  -  fosse  vera,   quale
ultrattivita'  tariffaria,  ancorche'  forse  incostituzionalmente  e
senza forse retroattiva, ne uscirebbe superstite? 
    In proposito, si ricorda che gli usi  richiamati  dall'art.  2233
del codice civile sono negoziali e che il giudice non e' abilitato  a
creare «usi normativi» ma soltanto ad applicare gli usi gia' definiti
secondo  le  norme  di  legge  esistenti;  e  che  le   modificazioni
unicamente «aggiuntive» introdotte dalla legge  di  conversione  d'un
decreto-legge  non   hanno   effetto   retroattivo   alla   data   di
pubblicazione del decreto-legge convertito. 
    Le enunciazioni del  precedente  capoverso  valgono  soprattutto,
pero', perche' la norma dell'art. 2233 del codice civile e'  speciale
rispetto all'art. 2225 del codice civile ed e' intenta  a  perseguire
la  ratio  legis  di  regolare  il  contratto  di   lavoro   autonomo
intellettuale privato tra cliente e professionista,  senza  impingere
nelle spese processuali: tant'e'  vero  che,  a  parere  dell'attuale
giudicante, le disposizioni contenute nel cit. terzo comma  dell'art.
9  della  legge  24  marzo  2012,  n.  27,  decorrenti  a  far   data
dall'entrata in vigore del  decreto-legge  24  gennaio  2012,  n.  1,
stabiliscono   un   limite   invalicabile   a   pena   di    nullita'
all'ultrattivita'  retroattiva  cit.  nella  materia  delle   tariffe
relative alle  sole  spese  giudiziali  rispetto  all'abrogazione  di
quelle volte alla libera regolamentazione negoziale delle parti. 
    Ed allora molti  autorevoli  giuristi  si  pongono  il  terribile
quesito: «Ultrattivita' retroattiva di che?!». 
3. - Forma e contenuto dell'ordinanza di rimessione. 
    Affinche'  il  giudizio  di   legittimita'   costituzionale   sia
validamente instaurato, e' necessario che l'ordinanza  di  rimessione
presenti i requisiti minimi di forma e,  soprattutto,  di  contenuto.
Per quanto attiene alla forma, la Corte ha  evitato  di  adottare  un
atteggiamento eccessivamente rigoristico: cosi', ad esempio,  non  si
e' ritenuta preclusiva dell'esame del merito la forma  di  «sentenza»
adottata per sollevare la questione (sentenza n. 111);  analogamente,
nessuna conseguenza  ha  avuto  la  circostanza  che  il  rimettente,
anziche' «sollevare» la questione,  avesse  «ribadito»  la  questione
gia' sollevata nel medesimo giudizio (ordinanza n. 238). Non ostativo
all'ammissibilita' delle questioni e' stato  implicitamente  ritenuto
l'eventuale ritardo con cui l'ordinanza di rimessione  sia  pervenuta
alla cancelleria della Corte (...). 
    Con  precipuo  riferimento   al   contenuto   dell'ordinanza   di
rimessione, sono numerose le decisioni con cui la  Corte  censura  la
carenza - assoluta o, in ogni caso,  insuperabile  -  di  descrizione
della fattispecie oggetto del giudizio a quo  (ordinanze  numeri  29,
90, 126, 155, 210, 226, 251, 288, 295, 297, 318, 364, 390, 396,  413,
434, 453, 472 e 476) o comunque il difetto riscontrato in ordine alla
motivazione sulla rilevanza  (sentenze  numeri  66,  303  e  461,  ed
ordinanze numeri 3, 100, 140, 153, 183, 189, 195, 196, 207, 236, 237,
256, 328, 331, 340, 418,  482).  Ad  un  esito  analogo  conducono  i
difetti riscontrabili in merito alla manifesta infondatezza (sentenza
n. 147 ed ordinanze numeri 74, 197, 212,  266  e  382),  a  proposito
della quale la sentenza n. 432 ha fornito un inquadramento di  ordine
generale,  sottolineando   che,   «affini   della   sussistenza   del
presupposto di ammissibilita' [...], occorre  che  le  "ragioni"  del
dubbio di legittimita'  costituzionale,  in  riferimento  ai  singoli
parametri di cui si assume la violazione, siano articolate in termini
di sufficiente puntualizzazione e  riconoscibilita'  all'interno  del
tessuto argomentativo in cui si articola la ordinanza di  rimessione;
senza  alcuna  esigenza,  da   un   lato,   di   specifiche   formule
sacramentali,  o,  dall'altro  lato,   di   particolari   adempimenti
"dimostrativi", d'altra parte in se' incompatibili con lo specifico e
circoscritto ambito  entro  il  quale  deve  svolgersi  lo  scrutinio
incidentale di "non manifesta infondatezza"». 
    Non mancano - sono anzi piuttosto frequenti - i casi  in  cui  ad
essere carente e' la  motivazione  tanto  in  ordine  alla  rilevanza
quanto in ordine alla non manifesta infondatezza (sentenza n.  21  ed
ordinanze numeri 84, 86, 92, 123, 139, 141, 142, 166, 228, 254,  298,
312, 314, 316, 333, 381, 435 e 448), carenze che rendono talvolta  le
questioni addirittura «incomprensibili» (ordinanza n. 448) e che sono
alla base di declaratorie di (solitamente manifesta) inammissibilita'
«per plurimi motivi» (cosi', testualmente, l'ordinanza n. 316). 
    Altra condizione indispensabile onde consentire  alla  Corte  una
decisione sulla questione sollevata e' la precisa individuazione  dei
termini della questione medesima. 
    A questo proposito,  sono  presenti  decisioni  che  rilevano  un
difetto nella motivazione concernente uno o piu'  parametri  invocati
(ordinanze numeri 23, 39, 86, 126,  311  e  414),  talvolta  soltanto
enunciati (sentenze numeri 322 e 409, ed ordinanza  n.  149),  quando
non indicati (ordinanza  n.  166)  o  addirittura  errati  (ordinanze
numeri  253  e  257).  Del   pari,   sono   da   censurare   l'errata
identificazione dell'oggetto della questione - non di rado ridondante
in una carenza di rilevanza (v. supra, par. precedente) -  che  rende
impossibile lo scrutinio della Corte (sentenza  n.  21  ed  ordinanze
numeri 153, 197, 376, 436 e 454), l'omessa impugnazione  dell'oggetto
reale della censura (ordinanza n. 400), la sua mancata individuazione
(ordinanza n. 140) od il  riferimento  alle  disposizioni  denunciate
soltanto nella parte motiva della ordinanza di rinvio e non anche nel
dispositivo (sentenza n.  243  ed  ordinanza  n.  228),  alla  stessa
stregua della genericita' della questione sollevata (ordinanze numeri
23 e 328). 
    In definitiva il giudice rimettente e'  tenuto  ad  accertare  la
sussistenza  dei   presupposti   di   diritto,   necessari   a   pena
d'inammissibilita',  per  la  sottoposizione  alla   Consulta   della
questione  di  legittimita'  costituzionale  di  norme  di  legge  ed
equipollenti, mediante l'esercizio  delle  sotto  elencate  attivita'
giurisdizionali di precisa e dettagliata individuazione, riguardante: 
        a) le norme ritenute incostituzionali; 
        b) le norme costituzionali eventualmente violate; 
        c) la rilevanza nel processo di provenienza  della  questione
di legittimita' costituzionale (il giudice  rimettente  e'  chiamato,
nel giudizio incidentale di legittimita' costituzionale, non solo  ad
indicare le circostanze che incidono sulla rilevanza delle  questioni
sollevate, ma anche ad illustrare, quando sia il caso, i  presupposti
interpretativi costituzionalmente orientari, che implicano, nel  loro
giudizio, la necessita' di fare applicazione  della  norma  censurata
(cosi' Corte costituzionale, sentenza 18 aprile 2012, n. 95; cfr., ex
multis, l'ordinanza n. 61 del 2007 e la sentenza n. 249 del 2010); 
        d) l'impossibilita'  d'un'interpretazione  costituzionalmente
orientata del diritto vivente che consenta di ricondurre, nell'ambito
dei principi sancito dalla Costituzione, il  testo  promulgato  delle
norme «sospette»; 
        e)   la   precisa   individuazione    dell'efficacia    della
dichiarazione  d'incostituzionalita'  di  queste  ultime,   ai   fini
dell'utilita' decisoria indispensabile nel caso di specie. 
    Una mirabile sintesi dei compiti riservati al giudice  a  quo  si
rinviene nella sentenza della Corte costituzionale 15 dicembre  2010,
n. 355, da cui sono estrapolabili le sotto enumerate massime: 
        Sono  inammissibili,  per   il   carattere   ancipite   della
prospettazione  e  l'insufficiente   motivazione   in   ordine   alla
rilevanza, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  17,
comma 30-ter, secondo,  terzo  e  quarto  periodo,  decreto-legge  1°
luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, in legge 3  agosto
2009, n. 102, modi nato dall'art. 1, 1°  comma,  lettera  c),  n.  1,
decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito,  con  modificazioni,
in legge 3 ottobre 2009, n. 141,  nella  parte  in  cui  prevede  che
l'azione per il risarcimento del danno  erariale  all'immagine  delle
pubbliche amministrazioni puo' essere esercitata soltanto quando  sia
intervenuta sentenza penale irrevocabile di condanna  per  i  delitti
previsti nel capo I del titolo II del libro II c.p., la  prescrizione
e' sospesa fino alla conclusione del procedimento penale ed e'  nullo
qualunque atto istruttorio o processuale compiuto  in  violazione  di
tali previsioni, salvo sia stata gia' pronunciata sentenza anche  non
definitiva alla data di entrata in vigore della legge di  conversione
del decreto, in riferimento agli articoli 3, 24, 1° comma, 54, 81, 4°
comma, 97, 1° comma, 103, 2° comma, e 111 Cost. 
        E' inammissibile, per carente descrizione della  fattispecie,
la questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  17,  comma
30-ter,  quarto  periodo,  decreto-legge  1°  luglio  2009,  n.   78,
convertito, con modificazioni,  in  legge  3  agosto  2009,  n.  102,
modificato dall'art. 1, 1° comma, lettera c), n. 1,  decreto-legge  3
agosto 2009, n.  103,  convertito,  con  modificazioni,  in  legge  3
ottobre 2009, n. 141, nella parte  in  cui  prevede  la  nullita'  di
qualunque atto istruttorio o processuale compiuto in  violazione  del
divieto  dell'esercizio  dell'azione  per  risarcimento   del   danno
erariale all'immagine delle pubbliche amministrazioni prima  che  sia
intervenuta sentenza penale irrevocabile di condanna  per  i  delitti
previsti nel capo I del titolo II del libro II c.p.,  in  riferimento
agli articoli 3, 24, 103 e 111 Cost. 
        E' inammissibile, per difetto di motivazione in  ordine  alla
rilevanza  ed  alla  non  manifesta  infondatezza,  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  17,  comma  30-ter,   quarto
periodo,  decreto-legge  1°  luglio  2009,  n.  78,  convertito,  con
modificazioni, in legge 3 agosto 2009, n. 102,  modificato  dall'art.
1, 1° comma, lettera c), n. 1, decreto-legge 3 agosto 2009,  n.  103,
convertito, con modificazioni, in legge 3 ottobre 2009, n. 141, nella
parte in cui prevede la nullita'  di  qualunque  atto  istruttorio  o
processuale  compiuto  in  violazione  del   divieto   dell'esercizio
dell'azione per il risarcimento del danno erariale all'immagine delle
pubbliche amministrazioni prima che sia intervenuta  sentenza  penale
irrevocabile di condanna per i delitti previsti nel capo I del titolo
II del libro II c.p., in riferimento agli articoli 3, 24 e 103 Cost. 
        Sono inammissibili,  in  quanto  il  giudice  a  quo  non  ha
dimostrato   di   aver   sperimentato   la   possibilita'   di    una
interpretazione  costituzionalmente   conforme   delle   disposizioni
impugnate, le questioni di legittimita' costituzionale dell'art.  17,
comma 30-ter, secondo e terzo periodo, decreto-legge 1° luglio  2009,
n. 78, convertito, con modificazioni, in legge 3 agosto 2009, n. 102,
modificato dall'art. 1, 1° comma, lettera c), n. 1,  decreto-legge  3
agosto 2009, n.  103,  convertito,  con  modificazioni,  in  legge  3
ottobre 2009, n. 141, nella parte in cui prevede che l'azione per  il
risarcimento  del  danno  erariale   all'immagine   delle   pubbliche
amministrazioni  puo'   essere   esercitata   soltanto   quando   sia
intervenuta sentenza penale  irrevocabile  di  condanna  per  delitti
previsti  nel  capo  I  del  titolo  II  del  libro  II  c.p.,  e  la
prescrizione  e'  sospesa  fino  alla  conclusione  del  procedimento
penale, in riferimento all'art. 3 Cost. 
4. - Le norme costituzionali violate. 
    La questione che ne occupa e' stata gia' affrontata e risolta nel
senso   dell'incostituzionalita'   dalla   sentenza    della    Corte
costituzionale  4-5  aprile  2012,   n.   78,   che   ha   dichiarato
costituzionalmente illegittime ed invalidate espressamente ex tunc  -
definendo nove ordinanze di rimessione esprimenti  la  non  manifesta
infondatezza dei dubbi di legittimita' costituzionale al  riguardo  -
dichiarando  l'incostituzionalita'  dell'art.  2,  comma   61°,   del
decreto-legge  29  dicembre  2010,  n.  225   (c.d.   Milleproroghe),
convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2011,  n.  10,
limitatamente al testo normativa contemplato dal comma aggiunto dalla
legge di conversione, il quale prevede che «In ordine alle operazioni
bancarie regolate in conto corrente l'art. 2935 del codice civile  si
interpreta nel senso che la prescrizione relativa ai diritti nascenti
dall'annotazione   in   conto   inizia   a   decorrere   dal   giorno
dell'annotazione  stessa.  In  ogni  caso  non  si  fa   luogo   alla
restituzione d'importi gia' versati alla data di  entrata  in  vigore
della legge di conversione del presente decreto». 
    Secondo  la  Corte,  la  norma  censurata  violava,  con  la  sua
efficacia retroattiva, canone  generale  della  ragionevolezza  delle
norme (art. 3 Cost.). 
    La norma, infatti, era  intervenuta  sull'art.  2935  del  codice
civile in assenza di una situazione di oggettiva incertezza del  dato
normativo,  perche',  in  materia  di  decorrenza  del   termine   di
prescrizione relativo 
    alle operazioni bancarie regolate in conto corrente, a  parte  un
indirizzo del tutto minoritario della giurisprudenza  di  merito,  si
era  ormai   formato   un   orientamento   maggioritario   in   detta
giurisprudenza, che aveva trovato riscontro in sede  di  legittimita'
ed  aveva  condotto  ad  individuare  nella  chiusura  del   rapporto
contrattuale o nel pagamento solutorio (od anche ripristinatorio)  il
dies a quo per il decorso del suddetto termine. 
    La  norma   censurata,   lungi   dall'esprimere   una   soluzione
ermeneutica rientrante tra i significati ascrivibili al  citato  art.
2935 del  codice  civile,  ad  esso  nettamente  derogava,  innovando
rispetto al testo previgente e del decreto-legge convertito, peraltro
senza alcuna ragionevole giustificazione. 
    Cio' detto,  secondo  la  Corte,  l'efficacia  retroattiva  della
deroga rendeva asimmetrico il rapporto contrattuale di conto corrente
perche', retrodatando il decorso del termine di prescrizione,  finiva
per  ridurre  irragionevolmente  l'arco  temporale  disponibile   per
l'esercizio dei diritti nascenti dal rapporto stesso, in  particolare
pregiudicando  la  posizione  giuridica  dei  correntisti  che,   nel
contesto  giuridico  anteriore  all'entrata  in  vigore  della  norma
denunziata, abbiano  avviato  azioni  dirette  a  ripetere  somme  ai
medesimi illegittimamente addebitate. 
    Sussisteva, dunque, la violazione dell'art. 3 Cost.,  perche'  la
norma censurata, facendo retroagire la disciplina in  esso  prevista,
non rispettava i principi generali di eguaglianza  e  ragionevolezza,
stabiliti dall'art. 3 Cost. 
    Sennonche',     le     disposizioni     legislative     censurate
d'incostituzionalita' violano anche altre norme della Costituzione, e
cioe' gli articoli 3, 24, 101, 102, 104,  111  e  117,  primo  comma,
della Costituzione, 
    Ad avviso del rimettente, la norma censurata viola  i  menzionati
parametri costituzionali, in primo luogo, per contrasto col principio
di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto: 
    Infatti, la norma censurata si porrebbe, altresi',  in  contrasto
con: 
        A) Gli articoli 2, prima  parte,  10,  primo  comma,  ed  11,
seconda  parte,  Cost.   per   flagrante   violazione   del   diritto
fondamentale dell'Uomo ad un «processo equo», trasposto in termini di
«giusto  processo»,  secondo  il  significato   a   tal   espressione
attribuito dall'art. 111 Cost., e dal l'uniforme giurisprudenza della
CEDU e della C.G.C.E., ai sensi dell'art. 6 della Convenzione di Roma
4 novembre 1950, del Protocollo addizionale di Parigi 20 marzo  1953,
ratificati dalla legge  4  agosto  1955,  n.  848,  pubblicata  nella
Gazzetta Ufficiale 24 settembre 1955, n. 224, nonche' degli ulteriori
Protocolli addizionale successivi, tutti ratificati  per  legge,  non
potendo decidere de plano il giudicante sulla precisa  determinazione
dei diritti ed obblighi  delle  parti,  in  una  controversia  civile
insorta, al pagamento delle spese processuali, una volta abrogate  le
tariffe professionali e  non  ancora  stabiliti  i  parametri  d'esse
sostitutivi. 
        B) L'art. 24  Cost.,  sotto  il  profilo  dell'inviolabilita'
della difesa del cittadino in ogni stato  e  grado  del  giudizio  ed
indefettibilita' della tutela giurisdizionale,  in  quanto  la  prima
parte di essa farebbe decorrere  l'ultrattivita'  tariffaria  da  una
scadenza  cronologicamente   retroatratta,   esulante   dalla   sfera
conoscitiva e di conoscibilita' del cliente e del difensore,  nonche'
- in base ad  una  possibile  opzione  interpretativa,  peraltro  (ad
avviso del rimettente) suscettibile di essere esclusa con  un'esegesi
della norma costituzionalmente orientata - introdurrebbe  una  palese
disparita' di trattamento retroattiva nella liquidazione delle  spese
processuali nei confronti di quelle parti che hanno avuto la sfortuna
d'imbattersi in provvedimenti liquidatori, non prima,  ma  durante  e
dopo l'entrata in vigore del decreto-legge  cit.,  senza  contare  la
condivisa opinione, evocata nella sentenza del Tribunale di Prato  n.
1304 del 2011, secondo cui l'efficacia retroattiva della declaratoria
d'incostituzionalita' del giudicato sarebbe eccepibile  con  apposita
istanza - azione di parte, anche avverso un decreto ingiuntivo od una
sentenza passata in  giudicato,  purche',  ovviamente  suffragata  da
un'ordinanza da parte del giudice adito in  cui  si  affermi  la  non
manifesta infondatezza della questione insorta. 
        C) Gli articoli 101,  102  e  104  Cost.,  sotto  il  profilo
dell'integrita' delle attribuzioni  costituzionalmente  riservate  al
potere giudiziario,  trattandosi  di  stabilire  «se  la  statuizione
contenuta nella norma censurata integri  effettivamente  i  requisiti
del precetto di fonte legislativa, come tale dotato dei caratteri  di
generalita' e astrattezza, ovvero sia diretta ad incidere su concrete
fattispecie sub iudice, a  vantaggio  di  una  delle  due  parti  dei
giudizio». 
        D) L'art. 111 Cost., sotto il profilo  del  giusto  processo,
sub specie della parita' delle armi, in quanto  la  norma  censurata,
supportata da una espressa previsione di retroattivita',  verrebbe  a
sancire  -  se  non  altro  dalle  ipotesi  in  cui  dalle   indebite
annotazioni della banca sia gia' decorso un decennio  -  la  paralisi
processuale  della  pretesa  fatta  valere  da  chi  abbia  agito  in
giudizio, esperendo una qualsiasi impugnazione  corrente  ovvero  una
correzione d'errore materiale degl'importi liquidati. 
        E) Infine, la norma di cui si tratta violerebbe  l'art.  117,
primo comma,  Cost.,  attraverso  la  violazione  dell'art.  6  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), come diritto ad un giusto processo,  in
quanto  il  legislatore  nazionale,  in  presenza  di   un   notevole
contenzioso e di un orientamento della Corte di cassazione contrario,
avrebbe interferito nell'amministrazione della giustizia,  assegnando
alla norma, in assenza di «motivi imperativi di interesse  generale»,
come enucleati dalla giurisprudenza della Corte europea  dei  diritti
dell'uomo, un significato retroattivo svantaggioso per i contendenti. 
5. - L'efficacia retroattiva della declaratoria d'incostituzionalita'
delle norme di legge. 
    Abrogazione  e  declaratoria  di  incostituzionalita'  non   sono
termini  equivalenti;  anzi,  di  piu',  sono   termini   del   tutto
eterogenei. 
    L'abrogazione costituisce effetto giuridico  di  un  atto  (legge
abrogatrice); dal canto suo,  la  declaratoria  d'incostituzionalita'
sta ad esprimere la formula di un atto (pronuncia  «di  accoglimento»
della Corte)  produttivo  di  effetti  giuridici.  Dunque,  porsi  un
problema di differenza  o  di  somiglianza  tra  l'abrogazione  e  la
declaratoria  d'incostituzionalita'  sarebbe,  ut  sic,   porsi   uno
pseudo-problema. 
    Al contrario un problema del genere si pone ancora  (entro  certi
limiti) come attuale, ove per essere termini omogenei  si  mettano  a
confronto:   o   la    legge    abrogativa    e    la    declaratoria
d'incostituzionalita', per  quanto  si  riferisce  specificamente  al
presupposto dell'una e dell'altra; oppure l'abrogazione e gli effetti
che scaturiscono dalla declaratoria d'incostituzionalita'. 
    Che   tra   la   legge   di   abrogazione   e   la   declaratoria
d'incostituzionalita' esista un qualche punto di contatto,  non  pare
da mettere seriamente in dubbio (cfr., in generale, sui rapporti  tra
l'abrogazione  e  la  declaratoria   di   incostituzionalita',   cfr.
Pugliatti,  op.  ult,  cit.,  151  ss.;  Cereti,  Corso  di   diritto
costituzionale, Torino, 1953,  440  ss.  Per  ulteriore  bibliografia
sull'argomento,  v.  infra,  nt.  117.  Cfr.   anche   la   Relazione
dell'onorevole Tesauro sul progetto di legge n. 87 del 1953, in  Atti
parl. Cam., II legislatura, doc. n. 469 A (17 aprile  1953),  p.  38,
ripresa successivamente dall'Abbamonte,  Il  processo  costituzionale
italiano, I, Napoli, 1957, 245). 
    Entrambe, infatti, rappresentano  un  rimedio  avverso  un  vizio
della legge: piu'  precisamente,  la  legge  abrogatrice  postula  un
giudizio negativo  sull'attuale  opportunita'  della  legge  abrogata
(cfr. la tesi proposta da Costantino Mortati, Abrogazione legislativa
ed instaurazione di un nuovo ordinamento costituzionale,  in  Scritti
in onore di Pietro Calamandrei, V, Padova, 1958,  103  ss.:  siffatta
teoria,  che  riprende  concetti  amministrativistici   [per   tutti,
Guicciardi, L'abrogazione degli atti amministrativi, in  Raccolta  di
scritti di diritto pubblico in onore di G. Vacchelli,  Milano,  1938,
268],  sottolinea  come  il  potere  di   abrogare   nasca   da   «un
potere-dovere  di  rivalutazione  delle  circostanze  che  ebbero   a
promuovere l'emanazione degli  atti,  onde  accertare  la  permanenza
della loro idoneita' a soddisfare il  pubblico  interesse»  [Mortati,
op. ult. cit., 112]), mentre  la  declaratoria  d'incostituzionalita'
esprime un giudizio negativo sulla legittimita' costituzionale  della
legge che ha formato oggetto del  controllo  per  opera  della  Corte
costituzionale. 
    A questo  punto,  pero',  la  somiglianza  cessa  e  subentra  la
differenza tra le due figure: la legge abrogativa colpisce una  legge
valida   ancorche'    viziata    nel    merito;    la    declaratoria
d'incostituzionalita', al contrario, colpisce una  legge  (o  singole
sue disposizioni) invalida perche' difforme dalla norma-parametro  di
valore costituzionale, a prescindere dall'attuale opportunita'  della
legge medesima. 
    Per una completa rassegna di dottrina  e  di  giurisprudenza  sul
problema degli effetti delle pronunce dichiarative di  illegittimita'
costituzionale offre Lipari, Orientamenti in tema  di  effetti  delle
sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, in Giust.  civ.,
1963, I, 2225 ss.) e che in sede giurisprudenziale  si  trova  ancora
oggi accolta dalla sola Corte di cassazione penale (40), per  cui  le
pronunce in questione sarebbero  prive  di  una  qualsiasi  efficacia
retroattiva,  nessuna  differenza   sostanziale   esisterebbe   nella
normalita' dei casi tra l'abrogazione e gli effetti che  scaturiscono
dalla declaratoria d'incostituzionalita' nei giudizi incidentali. 
    Ex adverso, ad ammettere la  tesi  che  in  ordine  all'efficacia
delle pronunce «di  accoglimento»  venne  proposta  da  un'autorevole
dottrina (Calamandrei,  in  La  illegittimita'  costituzionale  delle
leggi nel processo civile,  Padova,  1950,  specialmente  pp.  92-98,
condivisa   dal   Redenti,   Legittimita'   delle   leggi   e   Corte
costituzionale, Milano, 1957, 77 e da Giuseppe Abbamonte, Manuale  di
diritto amministrativo, I edizione, p. 244 ss. passim) e che in  sede
giurisprudenziale si trova ancora oggi accolta dalla  sola  Corte  di
cassazione penale (cfr. Cass., sez. un., 27 ottobre 1962, in Riv. it.
dir. proc. pen., 1963, 229 ss., con nota critica  di  Gorlani,  Sulla
sorte  delle  sentenze  pronunciate  da  un  giudice  successivamente
ritenuto non naturale; Cass. 16  luglio  1963,  ivi,  986,  con  nota
critica di Marvulli, Gli effetti della declaratoria di illegittimita'
costituzionale dell'art. 234, comma 2° del codice di procedura penale
sulle istruzioni precedentemente condotte dalla sezione  istruttoria;
Cass., sez. IV, 6 luglio 1965, ivi, 1965, 1101; Cass.,  sez.  IV,  20
ottobre  1965,  ivi,  1101,  con  nota  critica  di   Cavallari,   La
dichiarazione d'illegittimita' costituzionale dell'art. 392, comma 1°
del codice di procedura penale e  i  suoi  effetti  sulle  istruzioni
sommarie gia' compiute; Cass., sez. un., 11 dicembre  1965,  in  Foro
it., 1966, II, 65,  con  nota  critica  di  Pizzorusso,  Coincidentia
oppositorum?; in Giur.  it.,  1966,  II,  81,  con  nota  critica  di
Chiavario, Primi appunti  in  margine  alla  sentenza  delle  Sezioni
penali unite sulla sorte delle  istruzioni  sommarie  compiute  senza
garanzie per la difesa, e in Riv. dir. proc.,  1966,  118,  con  nota
critica di Bianchi D'Espinosa, La «cessazione di efficacia» di  norme
dichiarate incostituzionali. Per ulteriore giurisprudenza, cfr. Podo,
Successione di leggi penali, in Nss.D.I., XVIII, 1971,  684  nt.  9),
per cui le pronunce in questione sarebbero  prive  di  una  qualsiasi
efficacia retroattiva,  nessuna  differenza  sostanziale  esisterebbe
nella normalita'  dei  casi  tra  l'abrogazione  e  gli  effetti  che
scaturiscono dalla  declaratoria  d'incostituzionalita'  nei  giudizi
incidentali. 
    Ma ad una simile tesi si oppone anzitutto il diritto positivo. 
    Infatti, se molti dubbi o molte perplessita'  suscita  l'opinione
(avanzata da Marcello Gallo, La «disapplicazione» per la  invalidita'
costituzionale della legge penale incriminatrice, in Studi  in  onore
di E. Crosa, II, Milano 1960, 916 ss., la cui esposizione confutativa
trovasi in Pierandrei, Corte costituzionale, in questa  Enciclopedia,
X, 968 nt. 368) secondo cui anche dal solo  art.  136  Cost.  sarebbe
possibile dedurre l'efficacia retroattiva della pronuncia che qui  ci
occupa, nessun dubbio e nessuna perplessita' puo' esserci  sul  punto
che lo stesso art. 136, disponendo  che  in  seguito  a  declaratoria
d'incostituzionalita' «la norma cessa di avere efficacia  dal  giorno
successivo   alla    pubblicazione    della    decisione»,    nemmeno
implicitamente vieta la retroattivita' medesima (Pierandrei). 
    D'altra  parte,   a   sancire   implicitamente   ma   chiaramente
l'efficacia retroattiva della  pronuncia  «di  accoglimento»  stanno,
ciascuna per suo conto  e  a  piu'  forte  ragione  ancora  l'uno  in
combinato disposto con l'altro, l'art. 1 della legge costituzionale 9
febbraio 1948, n. 1, nonche' gli articoli 23, comma 2 e 30,  comma  4
legge  costituzionale  11  marzo  1953,  n.  87;   l'art.   1   legge
costituzionale n. 1, cit., perche' nel  fissare  il  principio  della
cosiddetta  «incidentalita'»,  presuppone  che  gli   effetti   della
pronuncia reagiscano almeno sul giudizio in corso (cfr.  Cappelletti,
La pregiudiziale costituzionale nel processo civile, Milano, 1957, 82
ss.);  l'art.  23,   capoverso   o   secondo   comma,   della   legge
costituzionale n. 87 del 1953, cit.,  perche'  spinge  alla  medesima
deduzione nel richiedere e la «rilevanza» della proposta questione in
ordine alla definizione del processo pendente, e la  sospensione  del
medesimo in attesa della pronuncia della  Corte  (come  riconosce  lo
stesso Calamandrei, op. cit., 92.). 
    Da qui a dire che per essere retroattiva in un caso la  pronuncia
della Corte retroagisce in ogni caso, il passo e' breve ed  in  breve
si e' compiuto (cfr. Pierandrei, Le  decisioni  degli  organi  «della
giustizia costituzionale» [Natura, efficacia, esecuzione],  in  RISG,
1954,  101  ss.;  Aldo  Mazzini  Sandulli,  in  Manuale  di   diritto
amministrativo, passim, ed in  Natura,  funzione,  ed  effetti  delle
pronunce della Corte costituzionale sulla illegittimita' delle leggi,
in Riv. trim. dir. pubbl., 1959, 42. Per ulteriore dottrina  conforme
v. Lipari, op. cit., 2130 nt. 16). 
    A conferma di questa ulteriore deduzione sembra stare, del resto,
l'art. 30, comma 4 legge costituzionale n. 87, cit.  Detto  articolo,
stabilendo  che  «Quando  in  applicazione  della  norma   dichiarata
incostituzionale  e'  stata  pronunziata  sentenza  irrevocabile   di
condanna, ne  cessano  l'esecuzione  e  tutti  gli  effetti  penali»,
stabilisce un'eccezione (in materia  penale)  all'intangibilita'  del
giudicato che sarebbe del tutto priva di senso, ove  la  declaratoria
d'incostituzionalita'  non  fosse  retroattiva   e   retroattivamente
efficace erga omnes. 
    In secondo luogo, si oppone alla tesi, che  qui  si  confuta,  il
rilievo  secondo  cui  la   Corte   costituzionale,   autorevolissima
interprete  della  Costituzione,  ha,  con  giurisprudenza   costante
(esplicitamente, cfr. C. cost. 29 dicembre 1966,  n.  127,  in  Giur.
cost., 1966, 1697; da ultimo, implicitamente, C. cost. 2 aprile 1970,
n. 49, ivi, 1970, 555, cit.; conformi la giurisprudenza dominante dei
giudici comuni e del Consiglio di Stato: fra le numerose altre,  cfr.
Cass., sez. I, 16 settembre 1957, n. 3491, in Giur. it., 1957, I,  1,
1211; Cass. 23 marzo 1959, n. 876, ivi, 1959, I, 1, 1335; Cass., sez.
un., 22 luglio 1960, n. 2077, in Foro amm.,  1960,  II,  131;  Cass.,
sez. I, 27 marzo 1963, n. 757, in Giur. it., 1963, I, 1, 1112; Cass.,
sez. I, 16 giugno 1965, n. 1251, in Giust. civ., 1965, I, 2239; Cons.
St., ad plen., 10 aprile 1963, n. 8, ivi, 1963, I, 2220  e  2276;  e,
piu' di recente, Cons. St., sez. VI, 18 marzo 1964, n. 247, in  Cons.
St., 1964, I, 135; Cons. St., sez. IV, 20 ottobre 1964, n.  1044,  in
Foro amm., 1964, I, 2, 1111.), attribuito all'art. 136 -  anche  alla
luce degli altri sopraddetti - il  significato  di  riconoscere  alla
pronuncia dichiarativa d'illegittimita' un'efficacia che  retroagisce
fin sulla soglia dei «rapporti esauriti», anche avverso un  giudicato
su  norme  dichiarate  incostituzionali  in  seguito  (giurisprudenza
uniforma per quanto consta dalla remota sentenza della Corte cost.  2
aprile 1970, n. 49, in Giur. cost., 1970, 555, cit.). 
    Una volta che si respinga la tesi dell'efficacia  ex  nunc  e  ad
ammettere la tesi della retroattivita',  emerge  subito  evidente  la
differenza sostanziale che separa l'abrogazione dagli  effetti  delle
pronunce d'accoglimento. 
    Infatti, mentre nel caso di abrogazione, infatti, la legge (o  la
norma)  abrogata  conserva  piena  applicabilita'  sulle  fattispecie
insorte nel tempo della sua vigenza  (secondo  il  principio  «tempus
regit acum» o di storicita' delle pronunce giurisdizionali) nel  caso
invece  di  una  sentenza  d'accoglimento  la  legge  (o  la   norma)
dichiarata incostituzionale non solo perde la propria  applicabilita'
sull'intera serie delle fattispecie da essa legge (o norma) prevista,
ma  inoltre  ne  cessa  ogni  effetto  gia'  prodotto  che  non   sia
irreversibile, neppure salvando i giudicati  sostanziali  antecedenti
(cfr. Tribunale di Prato, sentenza  inedita  n.  1304/2011  e  cosi',
Crisafulli, Lezioni, cit., II, t. 1, 174). 
    Altro  e  piu'  complesso  discorso  viene  da  fare,  se   dalla
normalita' dei casi si passa al caso eccezionale dell'abrogazione che
sia nel contempo espressa ed espressamente retroattiva. 
    E' ovvio che ogni dubbio ed ogni perplessita' verrebbe sul  punto
a cadere, qualora esatta fosse la  tesi  (propugnata  da  Garbagnati,
Sull'efficacia delle decisioni della Corte costituzionale, in Scritti
giuridici in onore di F.  Carnelutti,  IV,  Padova,  1950,  201  ss.;
Valerio Onida, Illegittimita' costituzionale di leggi limitatrici  di
diritti e decorso del termine di decadenza, in Giur. cost., 1965, 514
ss.; Onida, in tema di  interpretazione  delle  norme  sugli  effetti
delle pronunce di incostituzionalita', ivi, 1415 ss.) secondo cui  la
legge  incostituzionale  sarebbe  nulla   od   inesistente   e   solo
dichiarativa di  codesta  nullita-inesistenza  sarebbe  la  pronuncia
d'accoglimento. 
    Difatti, ove cosi' fosse, la differenza tra le due figure sarebbe
netta e palese giacche', al contrario che  nell'abrogazione  espressa
ed  espressamente  retroattiva,  nessun  problema  «rimozione»  degli
effetti riconducibili alla legge colpita si  porrebbe  nei  confronti
della declaratoria d'incostituzionalita', dato che l'atto legislativo
(se  ed  in  quanto)  incostituzionale   sarebbe   fin   dall'origine
sprovvisto di efficacia e, dunque, privo di effetti giuridici. 
    Ma, come pure l'altra sopra vista,  nemmeno  questa  tesi  sembra
resistere all'obiezione che ad essa  viene  da  un  duplice  rilievo.
Anzitutto, che l'atto  nullo-inesistente  non  produce  assolutamente
alcun  effetto,  mentre  per  comune  consenso  piu'  di  un  effetto
irrevocabile produce o puo' produrre la legge incostituzionale (cosi'
Franco Modugno, Problemi e pseudo-problemi, cit., 667 s.). 
    Secondo poi, che la formula di  cui  al  comma  1  dell'art.  136
implica, se ha un senso, che la legge incostituzionale sia  non  gia'
da sempre inefficace perche' nulla, ma  medio  tempore  efficace  per
quanto invalida (cfr. Modugno, Esistenza della legge incostituzionale
e autonomia del potere esecutivo, in Giur. cost., 1963, 1744.). 
    Confermata per altra via l'efficacia ex tunc della  dichiarazione
di illegittimita', ci  si  torna  a  chiedere  in  cosa  consista  la
differenza (ammesso che differenza vi sia) che separa  un'abrogazione
espressa ed espressamente retroattiva dagli effetti  della  pronuncia
d'accoglimento.  Precisamente,  il  problema  si  pone  nei  seguenti
termini:   atteso   che   dalla   retroazione   della    declaratoria
d'incostituzionalita'  restano   esclusi   i   cosiddetti   «rapporti
esauriti», si tratta di vedere se lo stesso limite  valga  anche  per
l'abrogazione retroattiva, oppure no. Nel caso l'area  dei  «rapporti
esauriti»  debba  assumersi  come  sottratta  e  all'efficacia  della
pronuncia  d'accoglimento  e  all'abrogazione  retroattiva,   nessuna
differenza sostanziale  esisterebbe  tra  le  due  figure;  nel  caso
opposto, invece,  la  differenza  in  questo  proprio  starebbe,  che
l'ambito  dei  «rapporti  esauriti»  sarebbe  travalicabile  dall'una
(ossia dall'abrogazione retroattiva) ed invalicabile dall'altra. 
    E nell'eventualita' che si pervenga a  quest'ultima  conclusione,
occorre ulteriormente spiegare, anche in termini piu' generali, quale
sia il fondamento e insomma la ratio della differenza medesima. 
    Ora che una legge  retroattiva  possa  incidere,  oltre  che  sui
«diritti quesiti», anche sui «rapporti esauriti» sembra ormai ammesso
dalla piu' recente e piu' avveduta dottrina, tra cui Paladin, Appunti
sul principio di irretroattivita' delle leggi, in Foro amm., 1959, I,
946  ss.;  Grottanelli  De'  Santi,  Profili   costituzionali   della
irretroattivita' delle leggi, Milano,  1970,  47  ss.;  nel  medesimo
senso,  in  buona  sostanza,  Sandulli  A.M.,  Il   principio   della
irretroattivita' delle leggi e la Costituzione, in Foro  amm.,  1947,
II, 86 ss. 
    In giurisprudenza, per la tesi che la retroattivita' della  legge
si estende anche ai «rapporti esauriti» ove cio'  sia  esplicitamente
disposto dal legislatore, cfr. Cons. St., sez. IV, 22 dicembre  1948,
in Foro amm., 1949, I, 2, 215: «Il principio  della  irretroattivita'
delle norme legislative  non  costituisce  un  limite  costituzionale
all'attivita' del legislatore, dato che nella Costituzione vigente e'
stato,   soltanto,   sancito   all'art.   25   il   principio   della
irretroattivita' della legge penale. Il legislatore,  pertanto,  puo'
disporre che la legge abbia efficacia retroattiva ... Peraltro  anche
l'efficacia della legge retroattiva non si estende ai rapporti che si
siano  gia'  completamente  esauriti  per   transazione,   pagamento,
regiudicata, decadenza o per qualsiasi altra ipotesi che  costituisca
preclusione alla possibilita' di controversia ... In  deroga  a  tale
principio generale, una determinata legge retroattiva puo' anche  far
rivivere  cio'  che  era  gia'  estinto,  ma  occorre  per  cio'  una
particolare disposizione ...». 
    Nello stesso senso, militano C. conti 14 gennaio 1948, in Riv. C.
conti, 1948, III, 82; Cons. St., sez. IV, 19  giugno  1959,  in  Foro
amm., 1959, I, 950. Per la tesi ancora piu' estrema (e  piu'  comune)
secondo cui la retroattivita' della legge  si  estende  ai  «rapporti
esauriti»  ogni  volta  che  le  disposizioni  di  questa   risultino
evidentemente incompatibili con la persistenza dei  rapporti  stessi,
cfr. Cass. 28  febbraio  1948,  in  Foro  pad.,  1948,  I,  490:  «E'
indiscutibile  che  la  legge  possa  modificare,  ridurre  o   anche
sopprimere un diritto quesito. A cio', di solito, essa si e'  indotta
in tempi eccezionali e per gravi esigenze di interesse generale, e lo
ha  fatto  o  espressamente,  o  con  una  disposizione   chiaramente
incompatibile con la ulteriore  integrale  persistenza  del  suddetto
diritto»; conf., per tutte, Cass. 5 maggio 1958, n. 1467,  in  Giust.
civ., 1958, 1, 2175.  Ulteriore  giurisprudenza  in  Grottanelli  De'
Santi, op. cit., 51 nt. 98.  V.  anche  Capurso,  Il  problema  della
posizione di norme giuridiche sulla irretroattivita' delle leggi,  in
Rass. dir. pubbl., 1965, 426 ss. 
    Solo, da essa si richiede,  perche'  cio'  avvenga,  un  espresso
disposto della legge in questione. 
    Ma, qualora fossero esatte tanto  la  prima,  quanto  la  seconda
tesi, asserire apoditticamente (come di frequente  si  dice)  che  la
clausola espressa serve a tutela della  certezza  del  diritto  (cfr.
Grottanelli  De'  Santi,  op.  cit.,  21  ss.  e   41   ss.)   ovvero
dell'affidamento del privato nell'ordine  giuridico  positivo,  getta
un'ombra  di  dubbio  e  demolisce   l'intera   costruzione   teorica
avversata. Dato, infatti, che certezza del diritto e affidamento  del
privato non sono (per consenso ormai pressoche' unanime) principi  di
rango costituzionale ma valori politici e mere direttive, si potrebbe
allora piu' esattamente dire che, da un punto di vista giuridico,  la
clausola espressa sarebbe richiesta come necessaria non gia' nel caso
che la legge retroattiva incida sui «rapporti esauriti»,  bensi'  nel
caso opposto. Che  se  poi  si  volesse  insistere  nell'affermazione
secondo cui certezza del  diritto  e  affidamento  del  privato  sono
principi di rango costituzionale, allora nemmeno la clausola espressa
basterebbe a derogarli. 
    In realta', l'esattezza della tesi che la legge  retroattiva  (di
pura abrogazione, nel caso che andiamo esaminando) possa incidere sui
«rapporti esauriti» e  che  per  fare  questo  occorra  una  clausola
espressa, sembra vada posta su tutt'altro ordine di idee;  ordine  di
idee che, a contrario,  vale  anche  a  spiegare  perche'  quanto  e'
possibile  alla  legge  retroattiva  non  e'  invece  possibile  alla
pronuncia d'accoglimento. 
    A questo proposito, giova muovere da un primo rilievo. La formula
«rapporti esauriti» sta ad esprimere,  se  non  ci  inganniamo,  quei
rapporti e piu' in generale quelle situazioni che  abbiano  acquisito
carattere di definitiva stabilita' nell'orbita del  diritto  (Intorno
ai criteri da assumere per stabilire quando si  sia  in  presenza  di
«rapporti esauriti», cfr. Barile P., La parziale retroattivita' della
sentenza della Corte costituzionale in una pronuncia sul principio di
eguaglianza, in Giur. it., 1960, 908 ss.; La  Valle,  Successione  di
leggi, inNss.D.I., XVIII, 1971, 640 ss.). 
    D'altra parte,  questo  carattere  di  definitiva  stabilita'  si
produce sui rapporti  medesimi  come  effetto  che  una  disposizione
generale di legge collega a determinati fatti  causativi.  A  mo'  di
esempio, l'inerzia del soggetto attivo durata un  tempo  prestabilito
dalla legge comporta, a norma dell'art.  2934,  comma  1  del  codice
civile, la prescrizione del diritto che ne  sia  oggetto  e,  dunque,
l'«esaurimento» del rapporto o dei rapporti che ad esso sottostanno. 
    Lo stesso concetto va ribadito riguardo ai  rapporti  coperti  da
giudicato (ex art. 2909  del  codice  civile  e  324  del  codice  di
procedura civile), da transazione (ex art. 1965, comma 1  del  codice
civile), ecc. 
    Da  qui   nasce   un   secondo   rilievo   critico,   chiaramente
insuperabile. 
    Posto che un rapporto assume carattere di  definitiva  stabilita'
nel modo che s'e' visto, la legge retroattiva  allora  puo'  incidere
sui «rapporti esauriti», quando contenga una  clausola  espressa  cui
deve riconoscersi una duplice valenza: quella, anzitutto,  di  recare
una deroga (limitatamente ai rapporti  nati  dall'applicazione  della
legge o norma abrogata) alla disposizione generale di legge che ad un
determinato fatto causativo collega l'effetto di  rendere  definitivi
(per prescrizione, transazione, cosa giudicata, ecc.)  quei  rapporti
che ad esso effetto soggiacciono; quella, poi, di  rendere  possibile
la riconversione dei rapporti «esauriti» in rapporti «pendenti»,  cui
si estende l'efficacia retroattiva della legge. 
    Ove  ci  si  muova  in  quest'ordine  di  idee,  si  puo'   anche
comprendere  perche'  mai  l'area  dei  «rapporti  esauriti»  rimanga
esclusa dagli effetti della pronuncia d'accoglimento. 
    Quest'ultima, infatti, mentre rende inapplicabile la disposizione
incostituzionale e ne rimuove gli effetti, non puo' invece  rimuovere
(per essere sentenza  e  non  legge)  quel  particolare  effetto  che
consiste nella  definitiva  stabilita'  che  viene  al  rapporto  dal
verificarsi di  un  evento  previsto  all'uopo  da  altra  e  diversa
disposizione di legge; a meno che si tratti di  una  stabilita'  solo
apparentemente definitiva, come sarebbe nel caso della prescrizione e
della  decadenza  ove  incostituzionale  fosse  la  disposizione  che
stabilisce il termine dell'una o dell'altra, oppure l'atto (per vizio
di forma o di procedimento) dal quale essa disposizione promana. 
6. - La rilevanza. 
    Consiste nel nesso di pregiudizialita' - dipendenza tra  giudizio
a quo e giudizio di legittimita' costituzionale. 
    Infatti, caratteristica peculiare del giudizio in via incidentale
e' il  rapporto  di  pregiudizialita'  che  collega  il  processo  di
costituzionalita' con il processo a quo: affinche' una  questione  di
legittimita'    costituzionale    sia     ammissibile,     condizione
imprescindibile e' che essa sia «rilevante» ai fini  della  decisione
del processo nel corso del quale la questione e' stata sollevata. 
    In  realta',  pero',  alquanto  dibattuta  in  dottrina   e'   la
problematica che investe il requisito della «rilevanza»,  particolare
con riferimento al fatto se essa (rilevanza) vada  intesa  come  mera
applicabilita' della legge impugnata nel giudizio  principale,  o  se
piuttosto, vada configurata alla stregua di influenza della decisione
della Corte sulle sorti del giudizio a quo. 
    La questione, lungi dall'investire un profilo meramente  teorico,
comporta importanti conseguenze sul versante pratico  concernenti  la
tutela del  diritto  obiettivo  e  la  salvaguardia  delle  posizioni
soggettive implicate nel giudizio di origine. 
    Prima di esaminare il caso di specie  e'  opportuno  fare  alcune
premesse sull'istituto della rilevanza. Il requisito della  rilevanza
e' esplicitamente previsto dall'art. 23 della legge n. 87  del  1953,
che prevede l'obbligo per il giudice di  sollevare  la  questione  di
costituzionalita' «qualora il  giudizio  non  possa  essere  definito
indipendentemente dalla risoluzione della questione  di  legittimita'
costituzionale». 
    La dottrina e' concorde nel ritenere che  tale  disposizione  non
costituisca altro che una esplicitazione quanto contenuto nell'art. 1
della legge costituzionale  n.  1  del  1948,  il  quale  prevede  la
possibilita' di adire la Corte solo «nel corso del giudizio». 
    In  altre  parole,  l'art.  23  menzionato,   non   farebbe   che
specificare  «una  realta'  gia'  insita  nel  sistema»  essendo   la
rilevanza un requisito consustanziale alla logica stessa del giudizio
incidentale. 
    Tuttavia, conte evidenziato da  Massimo  Luciani,  «dire  che  la
rilevanza sta nel sistema gia' prima della legge n. 87, in quanto  si
ricollega naturaliter  al  principio  dell'accesso  incidentale,  non
significa allo stesso tempo dire cosa si intende per rilevanza» (cfr.
fra i tanti V. Crisafulli, Lezioni di diritto costituzionale,  Padova
1984, 280; M. Luciani, Le  decisioni  processuali  e  la  logica  del
giudizio  incidentale,  Padova  1984,  101;   L.   Paladin,   Diritto
costituzionale, Padova 1995, 721. 
    La   prevalente   dottrina    intende    la    rilevanza    quale
pregiudizialita' costituzionale, di modo che «la questione deve avere
ad  oggetto  disposizioni  e  norme  delle  quali  si  abbia  a  fare
applicazione in quel giudizio», rappresentando «il legame fra il caso
e  il   giudizio   di   costituzionalita',   indispensabile   perche'
quest'ultimo possa iniziare». 
    Recentemente la Corte con l'ord. n.  17  del  1999  e'  ritornata
sulla problematica, con una pronuncia di  inammissibilita'  emessa  a
fronte  del  fatto  che  «la  sollevata  questione  di   legittimita'
costituzionale si presenta impropriamente come azione diretta  contro
una legge, dal momento che l'eventuale pronunzia di  accoglimento  di
questa Corte verrebbe a concretare di per se' la tutela richiesta  al
rimettente e ad esaurirla,  mentre  il  carattere  di  incidentalita'
presuppone necessariamente che il petitum del giudizio nel corso  del
quale viene sollevata la questione non coincida con  la  proposizione
della  questione  stessa»  (Sul  punto  vedasi   F.   Dello   Sbarba,
L'inammissibile  impugnazione  della  legge  in  mancanza   di   lite
pregiudiziale, in questa Rivista 1999, 1301 e ss.; L.  Imarisio,  Lis
fictae e principio di incidentalita': la dedotta  incostituzionalita'
quale unico motivo del giudizio a quo, in Giur. it. 2001, 589; Vezio.
Crisafulli, op. cit., 248. In tal senso vedasi anche V.  Onida,  Note
su  un  dibattito  in  tema   di   rilevanza   delle   questioni   di
costituzionalita' delle leggi, in questa  Rivista  1978,  I,  1997  e
ss.). 
    Secondo L. Carlassare (in L'influenza della Corte costituzionale,
come giudice delle leggi, sull'ordinamento italiano, in  Associazione
per gli studi e le  ricerche  parlamentari  2000,  85),  «e'  qui  la
caratteristica del giudizio incidentale, la parte «mista» del  nostro
giudizio di costituzionalita', che non e' un  giudizio  completamente
astratto perche' richiede un  legame  col  caso,  costituito  appunto
dalla rilevanza, senza il quale  la  Corte  costituzionale  non  puo'
iniziare il  controllo;  ne'  un  giudizio  completamente  accentrato
perche' il primo vaglio appartiene al giudice del caso». 
    Vi e' discordanza di opinioni, invece, in ordine al fatto  se  si
tratti di una pregiudizialita' necessaria o meramente  eventuale,  e,
quindi, se tale requisito vada  valutato  dal  giudice  remittente  a
seguito di una scrupolosa indagine o dopo  una  delibazione  sommaria
(per   evitare   «strozzature»    impedienti    il    sindacato    di
costituzionalita'    F.    Modugno,    Riflessioni     interlocutorie
sull'autonomia del processo  costituzionale,  in  Rass.  dir.  pubbl.
1969, propone un'interpretazione ampia del requisito,  da  intendersi
come «mera applicabilita'» della legge; per una disamina delle  varie
posizioni, sia pure risalente  al  1972,  vedasi  F.  Pizzetti  e  G.
Zagrebelsky,  «Non  manifesta  infondatezza»  e   «rilevanza»   nella
instaurazione incidentale del  giudizio  sulle  leggi,  Milano  1972,
105-107). 
    Inoltre non e'  pacifico  se  essa  vada  considerata  come  mera
applicabilita' (della norma, della cui conformita' a Costituzione  si
dubita, nel processo  principale)  o  invece  come  influenza  (della
decisione della Corte sul  giudizio  a  quo  [cfr.  in  argomento  V.
Crisafulli,  op.  cit.,  287,  sottolinea  che  «se,  parlandosi   di
influenza sul giudizio, si volesse mettere l'accento sul risultato, o
meglio  sulla  diversita'  di  risultati  che  conseguirebbero   alla
risoluzione della quaestio legittimatis ... non e'  richiesto  aversi
influenza sul giudizio principale,  l'esito  ben  potendo  essere  il
medesimo, ma in applicazione di norme diverse  da  quelle  che  erano
state   denunciate   e   che   la   Corte   avesse   poi   dichiarate
costituzionalmente illegittime»; sed contra  A.  Ruggeri-A.  Spadaro,
Lineamenti   di   giustizia   costituzionale,   Torino   1998,   257,
argomentando dal tenore letterale dell'art. 23 della legge n. 87  del
1953, sostengono che la tesi dell'influenza appare la piu'  corretta,
dovendosi intendere l'applicabilita' come un  qualcosa  di  distinto,
come «condizione necessaria, ma non sufficiente della q.l.c.). 
    Ad ogni buon conto, va ricordato  che,  comunque  si  atteggi  il
controllo del giudice a quo, esso «non comporta alcun pregiudizio per
l'interesse delle parti». 
    Infatti,  «e'  vero  che   l'apprezzamento   negativo   impedira'
l'accesso alla Corte, ma evidentemente, se il giudice del  caso  nega
in concreto la rilevanza, cio' significa che  ritiene  di  non  dover
applicare la norma» (L. Carlassare,  I  diritti  davanti  alla  Corte
costituzionale: ricorso individuale o rilettura dell'art.  27,  legge
n. 87/1953?, in Dir. soc. 1997, 4, 441 e ss.). 
    Se il  controllo  sulla  rilevanza  dal  parte  del  giudice  del
processo principale non desta  inquietanti  interrogativi  in  ordine
all'effettivita' di tutela dei diritti in gioco e neppure del diritto
obiettivo, dacche' anch'essa non  sembra  possa  correre  particolari
pericoli dal controllo sulla rilevanza  effettuato  dal  giudice  del
processo principale, perche' come nota V. Crisafulli, «una  questione
seria finira' sempre per trovare un giudice che ne riconosca  la  non
manifesta infondatezza ... e, quanto alla rilevanza, ci sara' sempre,
tra i moltissimi giudizi che si celebrano quotidianamente in  Italia,
quello la  cui  definizione  dipende  sotto  l'uno  o  sotto  l'altro
aspetto, dalla soluzione di una seria questione di costituzionalita'»
(conformi sia  Gustavo.  Zagrebelsky,  La  giustizia  costituzionale,
Bologna 1988, 220; sia V. Angiolini, La Corte senza il processo o  il
processo  costituzionale  senza  processualisti,  in   La   giustizia
costituzionale ad una svolta, Atti del seminario di Pisa del 5 maggio
1990, a cura di R. Romboli, Torino 1991, 29-30, il quale ricorda  che
«un sindacato pieno ... della Corte era stato escluso, con intenzioni
opposte, sia dai sostenitori del giudizio costituzionale  "obiettivo"
(nell'interesse pubblico o dell'ordinamento) e  "politico",  sia  dai
sostenitori del giudizio costituzionale "concreto" (riallacciato alla
controversia pendente presso il giudice a quo) e destinato a tutelare
situazioni subiettive: gli uni avevano  escluso  il  sindacato  della
Corte sulla rilevanza proprio  per  sottolineare  il  distacco  degli
interessi tutelati nel giudizio costituzionale da quelli del giudizio
a quo, gli altri lo avevano escluso perche'  il  giudice  remittente,
come giudice primo e finale delle situazioni subiettive delle  parti,
avrebbe dovuto conservare sulla rilevanza una signoria intangibile»),
lo stesso non puo' dirsi cosi' tranquillamente per la verifica che la
Corte  effettua  su  tale  controllo,  momento  questo  in   cui   le
distinzioni precedentemente segnalate  affiorano  in  tutta  la  loro
importanza. 
    Da piu' parti e' stata sottolineata la difficolta'  ad  ammettere
la possibilita'  per  la  Corte  di  effettuare  un  controllo  sulla
rilevanza poiche' «si verte su valutazioni gia' proprie del giudice a
quo» in quanto «attengono ad un  potere  che  appartiene  all'essenza
stessa della funzione giurisdizionale». 
    Dal canto suo, V. Crisafulli, nelle sue note  «Lezioni»  nota  al
riguardo che le obiezioni tendenti a  negare  anche  questo  tipo  di
verifica sono infondate. 
    Obiettare che il giudizio principale  sia  solo  l'occasione  del
giudizio presso la Corte, non coglie nel segno  poiche'  «il  cordone
ombelicale che lega i due processi non si rompe  mai  del  tutto,  la
decisione  che  la  Corte  emettera'  sul  merito   della   questione
rivolgendosi anche, ed anzi, in primo luogo, al processo principale». 
    D'altronde, come osserva l'autore, anche la tesi  instaurante  un
parallelismo  tra  la  «pregiudiziale  costituzionale»  e  le   altre
pregiudiziali note alla prassi e alla  legislazione  processualistica
non coglie nel segno quando sostiene che «il giudice investito  dalla
causa pregiudiziale non puo' ne' deve sindacare se  la  decisione  di
quest'ultima  sia  effettivamente  rilevante  per  la  decisione  del
processo a quo». Contro tale teoria Crisafulli  obietta  che,  mentre
nel  caso  delle  pregiudiziali  comuni  sono  certe  l'autonomia  ed
estraneita' della questione pregiudiziale  ...  rispetto  all'oggetto
originariamente proprio del giudizio principale, cio' non vale  certo
per quel che  riguarda  la  questione  costituzionale,  potendo  essa
essere considerata «piuttosto come inerente  all'oggetto  stesso  del
giudizio a quo, in quanto attiene  alle  norme  di  legge  in  questo
applicabili». 
    Pertanto, conclude l'autore, «e' logico  ...  che,  a  differenza
delle altre pregiudiziali, la Corte sia tenuta a verificare in limine
se sussistono i presupposti e le condizioni richieste affinche' possa
giudicare nel merito della questione». 
    In argomento, P. Veronesi (A proposito della rilevanza: la  Corte
come giudice del modo di esercizio del potere, 1996, 478 e  ss.),  L.
Carlassare (op. ult. cit., 453) e  Valerio  Onida  (in  Relazione  di
sintesi,  in   Giudizio   a   quo   e   promovimento   del   processo
costituzionale, Atti del seminario svoltosi  a  Roma,  Palazzo  della
Consulta,  il  13-14  novembre  1989,  Milano   1990,   307),   quasi
all'unisono rilevano che nella verifica della Corte  sulla  rilevanza
«l'esigenza di fondo sia quella di trovare un giusto  equilibrio  tra
il mantenimento necessario del  nesso  di  incidentalita'  (e'  stato
ricordato infatti  come  la  rilevanza  non  sia  null'altro  che  la
traduzione esplicita del nesso di incidentalita'),  e  l'esigenza  di
lasciare al giudice a quo, per  cosi'  dire,  la  disponibilita'  del
proprio giudizio, cioe' di lasciare cosi' che sia il giudice a quo  a
decidere dell'impostazione  del  giudizio  concreto:  la  Corte  puo'
esercitare un sindacato esterno sulla rilevanza, ma non puo' definire
i termini del processo concreto». 
    Peraltro,   gia'   nel   1957,   Vezio   Crisafulli   (in   Sulla
sindacabilita' da parte della Corte costituzionale della  «rilevanza»
della questione di legittimita' costituzionale,  1957,  608  e  ss.),
osservando che il giudizio sulla fondatezza o  meno  della  questione
spetta alla Corte, mentre  il  giudizio  sulla  rilevanza  spetta  al
giudice  a  quo,  sostiene  che  la  prima   possa   sindacare   solo
l'attendibilita' dell'accertamento compiuto dal giudice remittente  e
non direttamente l'accertamento in se stesso. Secondo  l'autore,  nel
caso in cui il controllo effettuato da questo non sia attendibile, la
Corte ricorrera' alla restituzione degli atti, mentre  addiverra'  ad
una dichiarazione di irrilevanza solo nel  caso  in  cui  questa  sia
assolutamente certa, manifesta e non implicante indagini  nel  merito
della causa principale. 
    Senza dubbio consentito alla Corte e' un controllo  esterno,  che
«possiede tutti i connotati tipici di un sindacato sul modo in cui  i
remittenti hanno esercitato il potere, loro assegnato, d'identificare
le norme applicabili al caso». 
    Infatti, se la rilevanza concerne il giudizio di provenienza,  la
sua valutazione non puo' non spettare al giudice remittente. 
    In tal senso milita L. Carlassare  (in  L'influenza  della  Corte
..., cit., 85). 
    Cio' presupposto, si  domanda  l'autrice,  «a  chi  infatti  puo'
competere giudizio sulla rilevanza se non a chi,  in  concreto,  deve
fare applicazione della legge? La risposta sembrerebbe sicura: sta al
giudice che deve risolvere il caso decidere  quale  norma  applicare,
non si puo' immaginare che una simile scelta sia attribuita ad altri;
per Costituzione il giudice e' soggetto solo alla legge, nessuno puo'
entrare nel suo giudizio, dirgli cio' che deve  fare  o  quale  legge
applicare» (cfr., in termini, anche Pizzetti e  G.  Zagrebelsky,  op.
cit., 146-147 e le numerose ordinanze d'inammissibilita' della  Corte
costituzionale, tra cui, ex plurimis, la n. 305 del 1997; nonche'  le
sentenze numeri 163 del 2000, 179 e 148 del 1999, 386  del  1996,  79
del 1994, n. 286 del 1997). 
    Sul piano teorico non sembrano esserci dubbi di sorta, talche' e'
lo stesso giudice costituzionale a ripetere a piu'  riprese  che  «la
valutazione della rilevanza spetta innanzitutto  al  giudice  a  quo,
salvo il controllo esterno della Corte costituzionale», per  cui  «la
valutazione  ...  effettuata   dal   giudice   remittente   si   puo'
disattendere solo quando risulti del tutto implausibile». 
    A partire, comunque, dalla fase dello smaltimento dell'arretrato,
la Corte, non solo  ha  ristretto  le  maglie  del  proprio  giudizio
attraverso un irrigidimento delle coordinate  logico-temporali  entro
le quali viene consentito al giudice a quo di sollevare la questione,
ma ha attuato un controllo di una scrupolosita' maniacale  in  ordine
alla  corretta  formulazione  dell'ordinanza   di   rimessione,   con
particolare riferimento all'esigenza di una motivazione esaustiva  in
ordine alla rilevanza della questione. 
    Ben  vero,  la  dottrina  ha  individuato  tre  «stagioni»  della
rilevanza, in corrispondenza della diversa intensita'  del  controllo
espletato dalla Corte su tale requisito. 
    In particolare F. Sorrentino  (in  Considerazioni  sul  tema,  in
Giudizio ..., cit., 239-241), sottolinea  l'atteggiamento  indulgente
della Corte fino alla fine degli anni '50, periodo in  cui  la  Corte
tendeva a collocarsi piu' vicino al sistema giudiziario che a  quello
di governo, stringendo un rapporto piu' stretto con i giudici comuni.
Egli nota che gia' nel corso degli anni  '60  la  Corte  comincia  ad
operare un controllo piu' incisivo  sulla  rilevanza,  controllo  che
tuttavia continua  a  mantenersi  esterno,  limitandosi  la  Corte  a
verificare  semplicemente  l'iter   logico   percorso   dal   giudice
remittente. 
    L'autore evidenzia, invece, che nella giurisprudenza piu' recente
(lo  scritto  risale  a  quando   il   problema   dello   smaltimento
dell'arretrato era quanto mai fresco) il  controllo  sulla  rilevanza
operato dalla Corte diviene «un vero  e  proprio  controllo  interno,
volto a verificare se il giudice remittente debba oppure no applicare
o comunque far uso della disposizione impugnata». 
    La  Corte  diveniva   sempre   piu'   costante   nel   dichiarare
inammissibile la questione nel caso  in  cui  la  rilevanza  non  sia
«attuale», in quanto la questione non inerisce  a  norma  applicabile
nel giudizio e nella fase in corso, non bastando che verta  su  norma
gia' applicata in una fase anteriore (questione tardiva: ad es. ordd.
nn. 59 del 1999 e 264 del 2002) o in una fase  successiva  (questione
prematura: ad es. ord. n. 237 del 1999 e sent. n. 161 del 2000). 
    Un'altra  ipotesi  confermativa  dell'indirizzo   giurisdizionale
sulle  leggi  suddetto,  concerne   la   sussistenza   di   questioni
preliminari e pregiudiziali nel giudizio principale. 
    Inizialmente la Corte ha ritenuto  di  esclusiva  competenza  del
giudice a quo la determinazione dell'ordine  logico  delle  eccezioni
preliminari e pregiudiziali,  compresa  quella  di  costituzionalita'
(vedasi ad es. sent. n. 59 del 1957). 
    In contrario, di recente, la Corte ha  ritenuto  che  il  giudice
remittente debba dar ragione nell'ordinanza di  rimessione  (ai  fini
della  rilevanza)  delle  eccezioni   preliminari   e   pregiudiziali
sollevate o rilevabili con evidenza,  occorrendo  la  giustificazione
della  precedenza  accordata  alla  questione  di   costituzionalita'
rispetto  alle  altre  questioni  nell'ordine  logico  preordinate  o
pariordinate (cfr. ex multis le ordinanze nn. 103 del 1995 e  15  del
1998). 
    Tale   fenomeno   e'   di   tutta   evidenza    in    riferimento
all'inammissibilita' costantemente pronunciata dalla Corte di  fronte
a questioni contraddittorie (ad es. ordd. nn. 56 del 1991 e  164  del
1994), ambigue (ad es. sent. n. 344 del 1994 e ord. n. 449 del  1994)
e alternative, ancipiti, ipotetiche o eventuali (ad es. ordd. nn. 414
del 1997, 94 del 1998 e 366 del 2002): epifenomeno dell'irrigidimento
di cui  si  e'  detto  sono  le  decisioni  di  inammissibilita'  per
motivazione apodittica sulla rilevanza (ad es. ordd. nn.  219  e  279
del 2000). 
    Tal orientamento potrebbe considerarsi ammissibile sono nel  caso
in cui non emerga in alcun modo  il  riscontro  della  rilevanza  dal
contesto dell'ordinanza o dagli atti di causa. 
    A tal proposito L. Carlassare (in «La tecnica e il rito»:  ovvero
il formalismo nel  controllo  sulla  rilevanza,  1979,  757  e  ss.),
sottolinea le conseguenze derivanti dall'intendere il controllo sulla
rilevanza alla stregua di «un'esigenza  meramente  formalistica»,  il
che comporta il «rischio del summum ius, summa iniuria». 
    L'atteggiamento assunto dalla Corte e'  dei  piu'  intransigenti,
basti  pensare  che  il   giudice   costituzionale   esige   a   pena
d'inammissibilita'  non  solo  una  dettagliata   descrizione   della
fattispecie  all'esame  del  remittente,  ma  anche  una  motivazione
autosufficiente che non sia in  alcun  modo  ricavata  per  relatione
(cfr. le pronunce nn. 470 del 1998 e 251 del 1999 e le ordinanze  nn.
139 del 2000 e 492 del 2002). 
    L.  Carlassare  (in  Le  questioni  inammissibili   e   la   loro
riproposizione,  in  questa  Rivista  1985,  751),   sottolinea   che
l'esigenza della «chiara e generale conoscenza» con la quale la Corte
giustifica   l'inammissibilita'   delle   questioni   motivate    per
relationem, non e' sostenibile nei confronti della rilevanza, che  si
configura come un «requisito ..., strettamente  inerente  giudizio  a
quo le cui vicende ben difficilmente possono interessare  generalita'
degli operatori giuridici». 
    F.   Cerrone   (in   Obiettivizzazione   della    questione    di
costituzionalita', rilevanza  puntuale  e  rilevanza  diffusa  in  un
recente orientamento della giurisprudenza  costituzionale,  In  Giur.
cost. 1983, 2419 e ss.) invece avvalla tale  orientamento  in  virtu'
della «funzione di  pubblicita',  posta  a  tutela  di  un  interesse
generale ad una chiara conoscenza  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale,  che  non  puo'  ritenersi  soddisfatto  da  un  mero
riferimento estraneo all'ordinanza medesima». 
    Tuttavia quest'ultima osservazione, ad avviso del giudicante, non
coglie nel segno, giacche' come nota la stessa L. Carlassare  (in  Le
decisioni di inammissibilita' e di manifesta infondatezza della Corte
costituzionale, in Foro it.,  302),  bisogna  fare  una  distinzione,
perche' se le ordinanze motivate per  relationem  «rinviano  ad  atti
interni, non conoscibili dai terzi interessati lettori della Gazzetta
Ufficiale, il fatto che la Corte le  respinga,  invocando  l'esigenza
della generale conoscenza collegata alla pubblicita'  prescritta,  si
puo' comprendere», pero', costatando le  pagine  intere  di  Gazzetta
Ufficiale occupate da istanze identiche,  «quando  il  rinvio  e'  ad
altre ordinanze di altri giudici o dello stesso giudice remittente su
cui quest'ultimo modella la propria, si tratta di puro formalismo». 
    Contro l'orientamento della Corte si schiera anche G. Zagrebelsky
(in, La giustizia costituzionale, cit., 216,  il  quale  osserva  che
dietro l'inammissibilita' pronunciata per l'esigenza  di  pubblicita'
suddetta  si  cela  in  realta'  un  equivoco  di  fondo,   creandosi
«confusione   fra   la    cosa    (la    rilevanza)    e    la    sua
motivazione-esposizione»  e  dimenticando  invece   che   la   stessa
giurisprudenza costituzionale «afferma con rigore  la  necessita'  di
una motivazione propria, di ciascun giudice sui  caratteri  specifici
che la rilevanza assume nel loro giudizio, senza rinvio a valutazioni
altrui, nate in diversi contesti processuali». 
    E' pur vero che da tale orientamento giurisprudenziale  non  puo'
dedursi di per se' un'ingerenza della Corte nell'ambito riservato  al
giudice, ciononostante il rischio che il controllo della Corte non si
mantenga piu' su un piano esterno, ma debordi in un sindacato interno
e' tutt'altro che un'astratta possibilita', infatti, per dirla con le
parole di Zagrebelsky, se «secondo la giurisprudenza della  Corte  la
motivazione  -  perche'  possa  dirsi   esistente   -   deve   essere
sufficiente,  non  contraddittoria,  non  incongrua   rispetto   alla
fattispecie oggetto del giudizio e (se) su tali aspetti la  Corte  si
riserva il sindacato ... e' chiaro che a questo punto puo' aprirsi la
via per un  controllo  sostanziale  delle  valutazioni  compiute  dal
giudice a quo». 
    Occorre, dunque, indagare se una tale sovrapposizione di ruoli si
sia effettivamente verificata,  non  fermandosi  a  quanto  affermato
dalla Corte nella motivazione delle  proprie  sentenze,  o  a  quanto
risulta dalle  conferenze  annuali  del  Presidente  della  Consulta,
perche', per le ragioni addotte, «contrariamente  alle  intenzioni  o
alle proclamazioni, l'eventualita' di una sovrapposizione della Corte
al giudice, in ordine alla rilevanza, e' all'ordine del giorno». 
    Se e' possibile parlare di  un  controllo  esterno  nel  caso  di
«errore  evidente,  che  appare  prima  facie  incontrovertibilmente»
(sostenendo che essa sussiste nei casi di irrilevanza talmente palese
da apparire ictu oculi, quando essa «risulta da  dati  obiettivi  che
non implicano una scelta di valore»), come nel caso in cui il giudice
remittente abbia  gia'  fatto  applicazione  della  norma  censurata,
altrettanto non puo' dirsi, come correttamente rilevato dal Veronesi,
nel caso in cui la Corte ridefinisca i profili di fatto e il  diritto
su cui viene imperniata la causa nel  giudizio  principale,  i  quali
invece dovrebbero giungere al suo controllo come dato immodificabile. 
    Epifenomeni  di  una  tale  ingerenza  della  Corte  nei  compiti
riservati ai giudici a quibus, dove si riscontra in modo evidente  lo
straripamento dagli argini  che  delimitano  la  sua  funzione,  sono
riscontrabili all'interno del  fenomeno  comunemente  chiamato  della
aberratio ictus, nel recente orientamento della Corte riguardante  la
sindacabilita' di norma abrogata e dello jus superveniens, per finire
con la variante apportata  in  tema  di  controllo  sulla  rilevanza,
risalente al 1990, e cioe' la c.d. irrilevanza sopravvenuta. 
    Trattasi, com'e' evidente, della cosiddetta «aberratio ictus». 
    Tale  espressione,  usata  per  indicare  l'impugnazione  di  una
disposizione diversa da quella, applicabile nel processo  principale,
a cui la censura proposta risulta  effettivamente  riferibile,  viene
utilizzata per  la  prima  volta  dalla  Corte  costituzionale  nelle
sentenze nn. 39 e 304 del 1986, ma ricorreva gia' da qualche tempo in
dottrina. 
    In particolare  tale  espressione  era  stata  utilizzata  di  C.
Mezzanotte (in Inammissibilita' e infondatezza per  ragioni  formali,
in Giur.  cost.  1977),  il  quale  ha  distinto  la  diversa  ottica
retrostante  al  differente  atteggiamento  della   Corte,   talvolta
pronunciante l'infondatezza  altre  volte  l'inammissibilita'  (negli
ultimi anni sempre quest'ultima),  di  fronte  ad  ipotesi  aberratio
ictus, esprimente nel primo caso la configurazione di un giudizio  di
costituzionalita' come radicalmente  autonomo  rispetto  al  giudizio
principale mentre nel secondo la  configurazione  opposta,  ossia  il
giudizio di costituzionalita' come «incidente» del giudizio a quo; la
recente dottrina ritiene superata tale  contrapposizione,  rinvenendo
nell'ipotesi in parola  un  vizio  dell'oggetto  della  questione  di
costituzionalita'. 
    La prima ipotesi, della c.d. aberratio ictus, si ha nel  caso  in
cui la censura del giudice a quo avrebbe dovuto  riguardare  un'altra
norma, ma la Corte  «invece  di  limitarsi  a  rilevare  un  generico
difetto di rilevanza, per non essere quella sollevata dal giudice  la
norma applicabile al caso, indica al giudice anche l'altra norma che,
a suo avviso, si sarebbe dovuta censurare». 
    Se osserviamo i casi di aberratio, spesso  la  Corte  non  rileva
affatto un errore materiale del giudice remittente,  ma  «compie  una
vera   e   propria   operazione   interpretativa»),   che,   partendo
dall'ordinanza di  rimessione  (e  dal  contesto  in  cui  questa  si
inserisce),  individua  la  norma  da  applicare  alla   fattispecie,
«completamente estranea al ragionamento del giudice» remittente. 
    Con questo comportamento la Corte riconfigura la stessa questione
che  le  viene   proposta   dal   giudice   remittente,   ridefinendo
autonomamente l'oggetto stesso del suo sindacato. 
    L. Cassetti (in  L'aberratio  ictus  del  giudice  a  quo,  nella
giurisprudenza della Corte costituzionale, in  Giur.  cost.  a  1990,
1387, osserva che il tipo di errore in cui puo' incappare il  giudice
remittente puo' essere «materiale» o «interpretativo» e asserisce che
«fra le righe dell'aberratio e' infatti consentito  leggere  qualcosa
di piu' della rilevazione del mero errore  materiale  e  qualcosa  di
diverso dalla censura dell'errore interpretativo: il quid  pluris  e'
rappresentato ... dalla indicazione della disposizione o del  sistema
normativo  cui  il  giudice  a  quo  deve  riferirsi  ai  fini  della
definizione del giudizio pendente». 
    Questo  orientamento,  come  notano  Marilisa  D'amico  e   Paolo
Veronesi, e' un chiaro indice di come il controllo  esercitato  dalla
Corte non possa dirsi esterno rispetto a quello operato del giudice a
quo, venendosi a configurare non come un controllo  sull'iter  logico
percorso dal remittente, poiche' «la Corte costruisce i parametri per
un proprio, autonomo, giudizio  sulla  rilevanza,  che  non  coincide
affatto  con  un  riesame  dell'attivita'  delibativa  compiuta   dal
giudice». 
    Tali osservazioni non vanno limitate all'ipotesi di aberratio. 
    Esse valgono anche in ipotesi d'abrogazione delle  norme  oggetto
di censura e di valutazione diretta dello jus superveniens. 
    Leopoldo  Elia  (in  Giur.  cost.,  1999,   687)   evidenzia   il
cambiamento al riguardo incorso nella giurisprudenza piu' recente. 
    L'illustra autore osserva che, mentre in un primo  momento  anche
su tale profilo la Corte si limitava  (come  su  ogni  altro  aspetto
legato alla  rilevanza)  ad  esigere  una  congrua  motivazione,  non
contraddittoria sul  punto  (n.  117  del  1964),  oggi  la  Consulta
pretende che le venga fornita una puntigliosa  motivazione  da  parte
del giudice remittente  in  riferimento  alla  fattispecie  concreta.
Sebbene questa «per il principio della successione  delle  leggi  nel
tempo, e' disciplinata dalla norma impugnata vigente all'epoca in cui
si e' realizzato il fatto» (vedasi la nota redaz. alla  sentenza.  n.
81 del 1998, a cura di A. Celotto) cio' non viene  considerato  dalla
Corte sufficiente ai fini della motivazione sulla rilevanza. 
    In proposito, e'  necessario  che  la  perdurante  applicabilita'
della normativa alla fattispecie concreta venga sostenuta «oltre  che
da un accurato esame di tutti gli elementi della fattispecie  atti  a
collocarli  temporalmente  nella  sua  sfera  di  vigenza,   da   una
descrizione dell'iter logico argomentativo in base al quale  egli  ha
ritenuto  di  individuare  in  quei  determinati   confini   l'ambito
temporale di efficacia della norma impugnata» le ordinanze  nn.  419,
468 del 1997; 79, 343 del 1998). 
    Non  e'  da  escludere  che  la  Corte  esiga  un   tal   corredo
argomentativo per poter essere lei stessa messa in grado di  valutare
direttamente se la nuova normativa incida temporalmente sul  caso  in
esame, confermando la tendenza  osservata  ad  esercitare  sul  piano
concreto il proprio controllo sulla rilevanza non  dall'esterno,  ma,
per dirla con le parole di Elia, «in forme  piu'  penetranti,  spesso
vicine ad un vero  e  proprio  controllo  interno  in  cui  Corte  si
sostituisce al giudice  a  quo  affermando  o  negando  la  rilevanza
prescindere da vizi della motivazione». 
    In  ogni  evenienza,  il  rischio  di  una  sovrapposizione   del
controllo della Corte a quello del giudice a quo, e' stato  rinvenuto
oltre che nell'orientamento della Corte particolarmente  rigoroso  ed
esigente nel pretendere una dettagliata dimostrazione della rilevanza
nel caso in cui le norme oggetto di censura siano abrogate o comunque
modificate, anche nell'ipotesi in cui, in caso d'jus superveniens, la
Corte, invece di provvedere,  come  solita  fare,  alla  restituzione
degli atti al giudice  a  quo,  affinche'  fornisca  una  motivazione
adeguata in relazione alla modificazione sopraggiunta (essendo suo il
compito di valuta la persistente rilevanza della questione),  giudica
direttamente sulla rilevanza della questione. 
    Un'altra ipotesi da cui traspare in modo nitido  l'evoluzione  in
tema di controllo sulla rilevanza di cui si e'  detto,  consiste  nel
fenomeno, che e' stato denominato dell'«irrilevanza sopravvenuta». 
    Tale figura si riscontra nel caso in cui  «la  rilevanza  di  una
determinata questione di costituzionalita', che sussiste  al  momento
dell'emanazione   della   ordinanza    di    rinvio,    venga    meno
successivamente, a seguito del verificarsi di  fatti  nuovi  (ad  es.
morte dell'imputato, transazione della causa, ecc)». 
    In questo contesto, va rilevato che, di recente, la Corte  sembra
essere ritornata sui suoi passi quando afferma che «l'estinzione  del
giudizio a qua  non  e'  di  per  se  sufficiente  a  determinare  la
sopravvenuta  inammissibilita'   della   prospettata   questione   di
costituzionalita' poiche', secondo  l'orientamento  giurisprudenziale
di questa Corte, in armonia con l'art. 22 delle  «Norme  integrative»
del 16 marzo 1956, il requisito  della  rilevanza  riguarda  solo  il
momento  genetico  in  cui  il  dubbio  di  costituzionalita'   viene
sollevato, e non anche il periodo successivo  alla  rimessione  della
questione alla Corte costituzionale» di tal che non si  puo'  fare  a
meno di constatare come le decisioni richiamate, in  tale  ordinanza,
per suffragare quello che e' a detta della stessa  Corte  il  proprio
costante  orientamento,  non  tengano  conto   della   giurisprudenza
costituzionale degli anni '90. 
    Va detto, inoltre, che  sovente  non  si  procede  all'esame  del
merito   della   questione,   ma    si    dichiara    la    manifesta
l'inammissibilita' della questione dovuta al fatto che l'ordinanza di
rimessione presenta  delle  carenze  in  ordine  ai  passaggi  logici
«necessari per ritenere la pregiudizialita' della questione». 
    Come si vede l'apertura della Corte e' piu' apparente che  reale,
dal momento che, sebbene inammissibilita' sia pronunciata  di  fronte
ad un vizio dell'ordinanza di rimessione da parte del giudice a  quo,
e a dire la verita' superabile dalla stessa Corte con un po' di buona
volonta', la questione non potra' piu' essere sollevata dallo  stesso
giudice nello stesso grado di giudizio, dal momento che per l'appunto
vi e' stata l'estinzione del giudizio a quo. 
    Da tale orientamento, che fino ad oggi e' ancora (fortunatamente)
sporadico, sembra dedursi una riformulazione da parte della Corte del
concetto stesso di rilevanza, da intendersi come «concreta  incidenza
della  pronuncia  costituzionale   sulla   soluzione   del   giudizio
principale». 
    E' curioso notare che le dispute dottrinali, di cui si e'  detto,
sul significato  di  rilevanza  come  «mera  applicabilita'»  o  come
«influenza decisiva» sull'esito del  giudizio,  fossero  riferite  al
controllo del giudice a quo e non a quello della Corte! 
    Secondo alcuni, fra i quali Roberto Romboli,  in  una  situazione
del  genere  ci  si  trova  di  fronte  a  «processo   costituzionale
rigidamente dipendente dal giudizio  principale,  in  quanto  teso  a
tutelare gli stessi interessi presenti in quest'ultimo,  visti  nella
loro specificita'. 
    Un  processo  costituzionale  quindi  massimamente  concreto   ed
attento agli interessi del giudizio a quo». 
    Siffatto orientamento della Corte costituzionale (in  particolare
le decisioni di inammissibilita'  per  irrilevanza  sopravvenuta)  e'
stato da piu' parti criticato,  dato  che  una  configurazione  tanto
concreta del giudizio costituzionale rischia di precludere la  tutela
dell'«integrita' costituzionale dell'ordinamento» oggettivo. 
    Tuttavia, un cosi' penetrante controllo della Corte in ordine  ai
presupposti del caso concreto, determina dei seri rischi anche per la
tutela delle posizioni soggettive implicate nel giudizio  principale,
in quanto comporta la trasformazione del giudice costituzionale in un
vero e proprio giudice di secondo grado che  opera  un  sindacato  di
carattere  interno  sulla  rilevanza,  a  tal  punto  che  «si   puo'
riscontrare come il profilo della rilevanza possa ... confondersi con
il merito stesso della questione». 
    Il pericolo dietro l'angolo e'  che  il  thema  decidendum  venga
delineato attraverso un dialogo che non vede piu' come  interlocutori
le parti e il giudice, ma quest'ultimo  e  la  Corte  costituzionale,
dialogo  che  spesso  si  arresta  di  fronte   alle   decisioni   di
inammissibilita'  pronunciate  da  quest'ultima.  Come  nota  Lorenza
Carlassare, «non spetta al giudice costituzionale entrare nel  merito
del  processo  sospeso  indicando  quali  norme  deve,  o  non   deve
applicare» proprio perche' «altrimenti  il  pregiudizio  delle  parti
puo' essere definitivo ... se il giudice remittente, di fronte ad una
decisione di inammissibilita', non ripropone  la  questione  in  modo
corretto». 
    Un sindacato della Corte cosi' penetrante  da  sfociare  il  piu'
delle volte in decisioni di inammissibilita' in realta'  implica  una
minor tutela dell'integrita' dell'ordinamento e rischia  di  arrecare
pregiudizi definitivi alle parti in  quanto  contraddice  alla  ratio
della legge costituzionale n. 1 del 1948 e quindi alla logica  stessa
del giudizio incidentale. 
    A   tal    proposito    la    dottrina    e'    tuttora    divisa
sull'interpretazione dell'ordinanza n. 109 del 2001, in cui la  Corte
premettendo  che,  come  risulta  dall'ordinanza  di  rimessione,  «i
giudici  ricusati  hanno  presentato  dichiarazione  di   astensione,
accolta dal Presidente del Tribunale; che a norma  dell'art.  39  del
codice di procedura penale la dichiarazione di  ricusazione,  che  ha
dato luogo alla procedura nell'ambito della quale e' stata  sollevata
la questione di legittimita' costituzionale, si  considera  come  non
proposta quando il giudice, anche successivamente ad  essa,  dichiara
di astenersi e l'astensione e' accolta; che l'astensione dei  giudici
ricusati, intervenuta successivamente alla ordinanza  di  rimessione,
appare quindi  suscettibile  di  incidere  sul  rapporto  processuale
instauratosi innanzi al giudice della ricusazione e sulla  perdurante
rilevanza della presente questione di legittimita' costituzionale (v.
ordd. nn. 448 del 1994, 65 del 1991, 250 del 1990)», ha concluso «che
non e'  di  ostacolo  a  questa  conclusione  la  disciplina  dettata
dall'art. 22 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale, che si riferisce ai diversi casi  della  sospensione,
interruzione ed estinzione del giudizio a quo». 
    Secondo  R.  Romboli  (in  Aggiornamenti  in  tema  di   processo
costituzionale, Torino 2002, 63), «pare  proprio  che  la  Corte  sia
incorsa in una sorta di infortunio, dal momento che  l'art.  22  N.I.
stabilisce l'irrilevanza per il processo costituzionale di "qualsiasi
causa" incidente sulla vita del giudizio a quo  e  non,  come  sembra
ritenere la Corte, dei soli  casi  che  conducono  alla  sospensione,
interruzione  ed  estinzione  del  giudizio  a  quo,   quale   ultimo
riferimento   infatti   e'   chiaramente   riferito    al    processo
costituzionale e non a  quello  che  si  svolge  davanti  al  giudice
comune». 
    In senso analogo si e' espresso M. Dal Canto (in La  rilevanza  e
il valore del fatto nel giudizio di costituzionalita' delle leggi  in
via incidentale, in E. Malfatti-R. Romboli-E. Rossi [a cura  di],  Il
giudizio sulle leggi e la  sua  diffusione.  Verso  un  controllo  di
costituzionalita' di tipo diffuso, Torino 2002, 147 e ss.; sul  punto
vedasi  anche  S.  Pajno,  La  Corte  torna   nuovamente   sul   tema
dell'irrilevanza sopravvenuta, in Giur. it. 2001, 6 e ss.). 
    Infatti, se, come ha osservato Vezio Crisafulli, «l'autonomia del
processo costituzionale ... deve comunque essere riferita al processo
costituzionale dopo che sia stato validamente instaurato,  mentre  la
rilevanza   attiene   al   momento   di   instaurazione   di    esso,
condizionandone il valido proseguimento», il cordone  ombelicale  che
lega i due giudizi sara' reciso, nel  momento  in  cui  la  questione
supera positivamente  il  vaglio  di  ammissibilita'  compiuto  dalla
Corte,  che  in  sostanza   deve   controllare   se   la   questione,
oggettivamente  configurata  nell'ordinanza  di   remissione,   possa
condurre una vita autonoma. 
    P.  Veronesi  (op.  ult.  cit.,  499),  parla  efficacemente   di
«giudizio di appello anticipato». 
    M. D'Amico (op. cit.,  2154),  osserva,  altresi',  che  nel  suo
controllo la Corte «parte innanzitutto, da un esame dell'ordinanza di
rimessione, intesa quasi come domanda del  giudizio  costituzionale»,
cosicche' «il problema centrale non sta piu' dalla parte dei giudici,
ma del modo in cui la Corte intende risolvere il caso oggetto del suo
giudizio», per cui «se  il  caso  entra  a  far  parte  del  giudizio
costituzionale,  quest'ultimo  deve   necessariamente   trasformarsi,
avvicinandosi sempre piu' ad un vero giudizio». 
    Sul fatto che «la rilevanza entra a  formare  il  c.d.  petitum»,
ossia cio' che e' chiesto alla Corte e sul quale essa  deve  svolgere
il proprio, autonomo, sindacato, concordano O. Berti,  Considerazioni
sul tema, in Giudizio a quo ...,  cit.,  100,  che  rileva  come  «la
rilevanza medesima finisce con il corrispondere, sia pure in  termini
obiettivi, alla formazione del contenuto della domanda da  sottoporre
al giudice costituzionale»; nonche' L. Pesole,  Sull'inammissibilita'
delle questioni  di  legittimita'  costituzionale  sollevate  in  via
incidentale, in Giur. cost. 1992, 1592, che  deduce  come  «qualsiasi
vizio relativo alla formazione del  contenuto  di  tale  domanda  sia
logicamente riconducibile ad un problema  di  rilevanza».  La  Corte,
compie la sua verifica sulla presenza  della  rilevanza  non  in  via
«successiva al concreto esercizio del potere  attribuito  ai  giudici
... (ma in via)  preventiva  sugli  effetti  che  una  sua  eventuale
pronuncia potra' generare». 
    La Corte, cioe', ipotizza il passaggio della questione al  vaglio
di  ammissibilita'   e   la   sua   eventuale   soluzione   in   sede
costituzionale, per poi, dopo  avere  valutato  i  possibili  effetti
della   sua   eventuale    pronuncia    nel    merito,    dichiararne
l'inammissibilita', cosicche' la questione ha assunto  vita  autonoma
solo nel pensiero della Corte:  ma  cosi'  la  decisione  processuale
rischia di tramutarsi in un vero e proprio «aborto costituzionale». 
    Infatti, in tali ipotesi, non e' il giudizio di costituzionalita'
a propendere verso un sempre maggiore tasso di concretezza, ma e'  il
controllo della Corte a rivelarsi proteso in tal senso. 
    Un  controllo  del  genere,  infatti,  «proprio  in  nome   della
concretezza del giudizio costituzionale, della sua aderenza al  caso,
e quindi di un piu' stretto legame col giudizio a quo, in  definitiva
finisce  per  recidere  ogni  legame  con  quest'ultimo  creando  una
barriera fra i due giudizi». 
    A questo punto si pongono tre problemi, in ordine: 
        a) alla possibilita' di  risollevare  la  medesima  questione
nello stesso giudizio da parte dello stesso giudice; 
        b) alla perduranza della  rilevanza  in  caso  di  cessazione
della materia del contendere ai fini della soccombenza virtuale; 
        c) alla necessita' per il giudice di decidere con sentenza la
domanda  dell'opponente  per  rendere  attuale  la  rilevanza   della
questione. 
        Va subito messo in evidenza che le prime  due  questioni  non
fanno sorgere particolari dubbi. 
    Infatti, quanto alla riproposizione della questione a seguito  di
una pronuncia di inammissibilita' da parte del medesimo  giudice  nel
corso dello stesso giudizio, la Corte dalla meta' degli anni '80,  e'
costante nel ritenere che «con riguardo, poi, ai giudizi  nell'ambito
dei  quali  la  questione  era  gia'  stata  sollevata,  e'  solo  da
aggiungere che l'art. 24, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n.  87,
preclude allo stesso giudice di adire nuovamente  la  Corte  soltanto
nel caso di una pronunzia di «natura decisoria» (sentt. nn.  433  del
1995 e 451 del 1989) e non quando sia stata emessa una pronunzia  che
dichiara  manifestamente  inammissibile  la  questione,  per  ragioni
puramente processuali» (sentt. n. 189 del 2001). 
    Del  parii  nel  caso  di  vizi  emendabili   dell'ordinanza   di
rimessione, la Corte ha mostrato, adeguandosi a  quanto  avanzato  in
dottrina da Lorenza Carlassare, di non attribuire «alcun rilievo alla
circostanza» che si tratti di questione gia' sollevata  nel  medesimo
giudizio e dichiarata in precedenza inammissibile. 
    Per  quanto  riguarda  la  perduranza   della   rilevanza   della
questione, in caso di cessazione della materia del  contendere,  essa
si  ricava  dalla  univoca  giurisprudenza  della  Suprema  Corte  di
Cassazione per  cui  «venuta  meno  la  materia  del  contendere,  ma
persistendo tra le parti contrasto in ordine  all'onere  delle  spese
processuali, il giudice del merito deve decidere secondo il principio
della  soccombenza  virtuale,  previi  gli  accertamenti   necessari»
(Cass., 11 gennaio 1990, n. 46, in Giust. civ. 1990, I, 947; conf. ex
multis Cass., 28 marzo 2001, n. 4442). 
    Il vero nodo da sciogliere riguarda la terza questione. 
    Puo' la Corte imporre al  giudice  di  pronunciare  una  sentenza
parziale, rompendo il principio dell'unita'  del  giudicato,  sancito
dall'art. 277 del codice di procedura civile, per cui il giudice «nel
deliberare sul merito deve decidere tutte le domande  proposte  e  le
relative eccezioni, definendo il giudizio»? 
    In ordine a tale problematica va innanzitutto  ricordato  che  il
codice  ha  esplicitamente  previsto  delle  eccezioni  al   suddetto
principio, nel comma 2 dell'art. 277 del codice di procedura  civile,
nell'art. 278 del codice di procedura  civile  e  nell'art.  279  del
codice di procedura civile. 
    Va  subito  sottolineato  che  nella  fattispecie  non  ricorrono
sicuramente i presupposti  dell'art.  277,  comma  2  del  codice  di
procedura  civile  idonei  a  giustificare  un  funzionamento   della
decisione. 
    Infatti, e' pacifico che non occorresse nel caso di specie alcuna
ulteriore istruzione in  ordine  alla  domanda  riconvenzionale,  dal
momento che il giudice ha sollevato  la  questione  quando  le  parti
avevano gia' precisato le conclusioni. 
    Neppure   puo'   ritenersi    che    la    sollecita    decisione
dell'opposizione fosse di interesse apprezzabile per una delle parti. 
    Quali  conseguenze  puo'  determinare  allora  la   rottura   del
principio dell'unita' del giudicato,  in  ipotesi  non  previste  dal
codice? 
    Prima di rispondere e' opportuno segnalare che, a  seguito  della
riforma del 1950, la possibilita' di decidere  singole  questioni  e'
stata  mantenuta,  ma  e'  scomparsa  la  categoria  delle   sentenze
parziali, la quale ha ceduto il passo alla distinzione  fra  sentenze
definitive e non definitive, distinzione di  difficile  coordinamento
con il principio di cui all'art. 277 del codice di procedura civile. 
    Senza entrare nei tortuosi meandri dell'art. 279  del  codice  di
procedura civile, che ha visto divisa la stessa Corte  di  Cassazione
nell'individuare i criteri di distinzione fra sentenze  definitive  e
non definitive, in questa sede va rilevato che  seguendo  l'indirizzo
c.d. «sostanzialistico» - in considerazione del fatto che la sentenza
sull'opposizione di terzo emessa dal Tribunale di Venezia ha esaurito
l'intero rapporto processuale relativamente alla domanda stessa -  la
stessa decisione del Tribunale di Venezia (a dispetto del nomen juris
adottato dallo stesso giudice)  apparterrebbe  alla  categoria  delle
sentenze definitive. 
    Che la rottura del principio dell'unita' del giudicato possa  far
ritenere la sentenza definitiva emessa sull'opposizione di terzo  una
sentenza definitiva dell'intero giudizio per mancanza dei presupposti
che (ai sensi dell'art. 277, comma 2, del codice di procedura civile)
permettono il frazionamento del giudicato? 
    In questo  caso  la  Corte,  pretendendo  una  motivazione  sulla
rilevanza tale da dimostrare la possibile  concreta  incidenza  della
questione sul  giudizio  principale,  avrebbe  spinto  il  giudice  a
decidere in via definitiva  l'intero  giudizio  con  la  conseguenza,
paradossale, che la questione risollevata dallo stesso  con  ord.  12
settembre 2002, sarebbe questa volta sicuramente davvero  irrilevante
(essendo il giudizio definito). 
    Va immediatamente sottolineato, pero', che una tale soluzione  si
rivela  una  forzatura  di  un  principio,  quello  dell'unita'   del
giudicato, la cui  stessa  permanenza  nel  codice  a  seguito  della
novella del 1950 e' stata da piu' parti messa in dubbio. 
    In ogni caso,  quand'anche  si  ritenesse  tuttora  vigente  tale
principio,  esso  assumerebbe  una  natura  meramente  programmatica,
insuscettibile di determinare le conseguenze drastiche di cui  si  e'
detto, come testimonia  anche  la  giurisprudenza  citata  in  ordine
all'insindacabilita' in Cassazione dell'uso legittimo del giudice  di
frazionare  la  sua  decisione:  il  nesso  di  incidentalita'   puo'
ritenersi salvo. 
    L'analisi  di  un  caso  di  specie,  tuttavia,  non  puo'  dirsi
meramente  oziosa,  perche',  come  mettero'  in  luce  nel  prossimo
paragrafo, e' idonea ad evidenziare il paradosso che una  nozione  di
rilevanza come «influenza» (sul giudizio principale) puo' comportare. 
    Le fattispecie analizzate mettono,  pero',  in  luce  un  aspetto
nascosto,  ma  consustanziale  ad  un  controllo  della  Corte  sulla
rilevanza come «influenza». 
    Portando  alle  estreme  conseguenze  tale   impostazione,   ogni
questione sollevata dal remittente difetterebbe sempre del  requisito
della rilevanza. 
    Se la Corte,  infatti,  pretendesse  che  la  questione  non  sia
prematura, ma «attuale», e non sia  sollevata  in  via  ipotetica  ed
eventuale, a tal punto da  dichiarare  l'inammissibilita'  di  quelle
«ordinanze  di  rimessione  (che)  non  esplicitano,  invero,   alcun
elemento di valutazione circa l'incidenza in  concreto  delle  stesse
(disposizioni impugnate) sulla decisione che  il  giudice  a  quo  e'
tenuto ad assumere nei procedimenti innanzi a se' pendenti», il nesso
di incidentalita' rischia di venir meno. 
    In altre parole, se la Corte imporrebbe che il giudice remittente
avesse risolto ogni  altra  questione  pregiudiziale  e  preliminare,
imponendogli nella sostanza di sollevare la questione al termine  del
processo in modo da permettere al giudice  costituzionale  stesso  di
verificare il differente esito  del  giudizio  principale  a  seconda
dell'accoglimento o meno della questione  sollevata,  allora  sorgono
seri dubbi  sul  fatto  che  la  disposizione  impugnata  sia  ancora
applicabile nel giudizio a quo. 
    Il giudice remittente, infatti, sarebbe chiamato ad emettere, sia
pure nella forma di ordinanza (di rimessione), un provvedimento nella
sostanza di carattere decisorio. 
    A tal proposito va ricordato che, quanto meno in  ambito  civile,
la giurisprudenza e gran parte  della  dottrina,  sono  concordi  nel
ritenere che «la natura di un provvedimento giurisdizionale, anche ai
fini dell'impugnabilita', deve essere desunta  non  dalla  forma  ne'
dalla qualificazione attribuita dal giudice che lo ha emesso,  bensi'
dal  suo  intrinseco  contenuto   in   relazione   alle   particolari
disposizioni che regolano la materia». 
    Come evidenziato dalla Cassazione con la sent. 30 dicembre  1994,
n. 11358, «la natura  di  un  provvedimento  giudiziale  deve  essere
desunta non dalla forma in cui il provvedimento e'  stato  emanato  o
dalla qualificazione che gli e' stata attribuita dal giudice  che  lo
ha  emesso,  ma  dal  suo  effettivo  contenuto  in  relazione   alle
particolari  disposizioni  che  regolano  la  materia  che  ne  forma
oggetto, per cui anche una ordinanza (del giudice  dotato  di  poteri
decisori) puo' assumere la natura di sentenza impugnabile se risolve,
con efficacia di giudicato, questioni attinenti ai presupposti,  alle
condizioni o al merito della controversia». 
    Pertanto, se la Corte volendo sindacare il controllo sulla  reale
incidenza  della  disposizione  impugnata  sul  giudizio   principale
pretenda che il giudice remittente esprima il  proprio  convincimento
per il caso in cui la questione non venisse accolta, ecco che  allora
anche la rilevanza verrebbe  irrimediabilmente  meno,  in  quanto  la
stessa disposizione impugnata non  sarebbe  piu'  applicabile  in  un
giudizio gia' concluso. 
    Da  quanto  suesposto  si  evince,  dunque,   che   gli   effetti
paradossali  di  denegata  tutela  del  diritto  obiettivo  e   delle
posizioni soggettive implicate nel giudizio principale sono frutto di
un concetto di rilevanza inteso come influenza della decisione  della
Corte  sulle  sorti  del  giudizio  principale;  viceversa,   qualora
s'intenda la rilevanza come mera applicabilita' della legge impugnata
nel giudizio a quo, le conseguenze predette vengono scongiurate. 
    Inoltre, inteso in tal modo il requisito della  rilevanza,  viene
salvaguardato anche il delicato equilibrio fra i giudici remittenti e
la Corte, senza che la stessa si arroghi compiti riservati ai  primi,
ai quali soltanto spetta valutare l'applicabilita' di una determinata
norma nel giudizio principale. 
    Sul punto, si riscontrano varie decisioni nelle quali l'esame  di
merito e' stato precluso dal  difetto  di  rilevanza,  ora  derivante
dalla «estraneita' delle norme denunciate  all'area  decisionale  del
giudice rimettente» (cosi', espressamente, l'ordinanza n.  447),  ora
dal momento nel quale la questione era stata concretamente sollevata. 
    Nel primo senso, possono menzionarsi le fattispecie  nelle  quali
la Corte ha constatato che il giudice a quo non avrebbe in alcun caso
avuto modo di applicare la disposizione denunciata (ordinanze  numeri
81, 148, 340, 341, 382, 434 e 436),  donde  la  non  incidenza  della
questione sull'esito del  giudizio  (sentenza  n.  266  ed  ordinanze
numeri  153,  213,  292,  296,  429,  nonche',  scil.,  la  precitata
ordinanza  n.  447).  A  questa  categoria  possono   associarsi   le
declaratorie di irrilevanza  motivate  dalla  erronea  individuazione
delle norme da censurare (in tal senso, ordinanza n.  376)  e  quelle
derivanti dalla decadenza con effetti retroattivi della  disposizione
censurata  (come  nel  caso  di  un  decreto-legge  non   convertito:
ordinanza n. 443). 
    Devesi peraltro evidenziare che, in linea generale, l'abrogazione
o la modifica della disposizione, operando ex tunc,  non  esclude  di
per se' la rilevanza  della  questione,  restando  applicabile  -  in
virtu' della successione delle leggi  nel  tempo  -  la  disposizione
abrogata o modificata al processo a quo (cosi' le sentenze numeri 283
e 466). 
    In relazione al momento nel quale la questione di legittimita' e'
stata  sollevata,  la  Corte  ha  ribadito  l'inammissibilita'  delle
questioni c.d. «premature», quelle cioe', in cui «la rilevanza  [...]
appare  meramente  futura  ed  ipotetica»,  in  quanto   il   giudice
rimettente non e' ancora nelle condizioni di fare applicazione  della
disposizione denunciata (ordinanza n.  375).  Ad  esiti  analoghi  si
giunge con riferimento alle questioni «tardive», vale a dire promosse
quando  le  disposizioni  denunciate  sono  gia'  state  oggetto   di
applicazione (ordinanze numeri 55, 57, 208, 363, 370  e  377)  ovvero
quando la loro applicazione non e' piu' possibile  (ordinanze  numeri
90, 97 e 443), perche' il potere decisorio del giudice a  quo  si  e'
ormai esaurito: e' stato in proposito sottolineato che «la  rilevanza
di una questione di costituzionalita' non puo' essere fatta  comunque
discendere dalla mera impossibilita', per il giudice  rimettente,  di
sollevare  la  questione  stessa  in  una  fase  anteriore;   essendo
necessaria, al contrario, una oggettiva incidenza del  quesito  sulle
decisioni che detto giudice e' ancora chiamato  a  prendere»  (cosi',
l'ordinanza n. 363). 
    Nell'operare il controllo  circa  la  rilevanza  della  questione
sottopostale, la Corte costituzionale si attiene, in linea  generale,
alle prospettazioni del giudice rimettente.  Cosi',  ad  esempio,  di
fronte ad una eccezione argomentata sulla base di un asserito difetto
di legittimazione attiva del ricorrente nel giudizio a quo, la  Corte
ha sottolineato che la valutazione di tale profilo «e' esclusivamente
riservata al giudice» (ordinanza n.  181).  Questa  impostazione  non
impedisce alla Corte di svolgere un vaglio relativo ad  un  eventuale
difetto di giurisdizione o di competenza che infici in modo palese il
giudizio principale: nel corso del 2005,  la  constatata  carenza  di
giurisdizione del giudice rimettente ha  precluso  in  tre  occasioni
l'esame del merito della questione  (sentenza  n.  345  ed  ordinanza
numeri 9 e 196; nella sentenza n. 144, invece, e'  stato  evidenziato
che,   «pur   in   presenza   di   orientamenti    difformi    [...],
l'argomentazione svolta dal rimettente  in  ordine  alla  sussistenza
della   giurisdizione   [...]    non    appar[iva]    implausibile»);
analogamente, nell'ordinanza n. 82, a suffragio  della  dichiarazione
di manifesta inammissibilita', si e' precisato  che  «il  difetto  di
competenza del giudice  rimettente,  ove  sia  manifesto,  come  tale
rilevabile ictu oculi, comporta  l'inammissibilita'  della  questione
sollevata per irrilevanza». 
    Un ultimo aspetto da menzionare e' la  conferma  dell'«autonomia»
che e' propria della  questione  pregiudiziale  di  costituzionalita'
rispetto alle sorti del processo nell'ambito  della  quale  e'  stata
promossa: onde disattendere una  eccezione  di  inammissibilita'  per
irrilevanza sopravvenuta, nella sentenza n. 244 si  e'  chiarito,  in
conformita' ad una giurisprudenza consolidata, che  «il  giudizio  di
legittimita' costituzionale [...] una volta iniziato  in  seguito  ad
ordinanza di rinvio del giudice rimettente  non  e'  suscettibile  di
essere influenzato da successive  vicende  di  fatto  concernenti  il
rapporto dedotto nel processo che lo ha  occasionato,  come  previsto
dall'art. 22 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte
costituzionale». 
    Orbene, nel  caso  di  specie,  alla  luce  delle  considerazioni
prefate, non  v'e'  dubbio  che  sussista  evidente  rilevanza  della
pregiudiziale risoluzione del problema  su  descritto,  giacche'  nel
dispositivo della sentenza  o  dell'ordinanza  cautelare  ovvero  nel
decreto di liquidazione dei c.t.u. il giudice adito  e'  obbligato  a
quantificare onorari e diritti  dell'avvocato  ovvero  le  competenze
d'un perito d'ufficio. 
    In  particolare,  la  stessa  Corte  costituzionale  ha   sancito
l'obbligo  inderogabile   e   solo   eventualmente   differibile   di
liquidazione delle  spese  processuali  ex  art.  91  del  codice  di
procedura  civile,  dichiarando  infondata,  nei  sensi  di  cui   in
motivazione, la questione di legittimita' costituzionale  degli  art.
669-octies e 703 del codice di procedura civile, nella parte  in  cui
non stabiliscono che il provvedimento di accoglimento di una  domanda
in materia possessoria debba contenere la  liquidazione  delle  spese
della fase interdittale, in riferimento agli articoli 3 e  24  Cost.,
con  la  precisazione,  spiegata  in  motivazione,  che   costituisce
principio generale dell'ordinamento che il giudice debba liquidare le
spese  ogniqualvolta  emetta  un  provvedimento  conclusivo   di   un
procedimento, anche solo ipoteticamente idoneo a divenire definitivo. 
    In ispecie, rilevato che era stata chiesta la liquidazione  delle
spese della fase  interdittale,  il  Tribunale  di  Firenze,  Sezione
distaccata  di  Empoli,  con  l'ordinanza  10  maggio   2006,   aveva
sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24  Cost.,  questione  di
legittimita' costituzionale  degli  articoli  703  e  669-octies  del
codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono che, con
il  provvedimento  di  accoglimento  della  domanda  possessoria,  il
giudice debba liquidare le spese del procedimento. Il  giudice  delle
leggi ha, difatti, ritenuto non  fondata  la  censura  sollevata,  in
virtu' della sussistenza,  appunto,  nel  nostro  ordinamento  di  un
principio generale, che impone  al  giudice  di  liquidare  le  spese
ogniqualvolta emetta un provvedimento conclusivo di un  procedimento,
anche solo ipoteticamente idoneo a divenire definitivo. 
    Va, pero', precisato che la natura del provvedimento interdittale
nel nuovo contesto legislativo non  e'  affatto  cosi'  limpida  come
ritenuto dal giudice a quo (e presupposto dalla  Consulta).  Difatti,
se la dottrina concorda nel ritenere che il  provvedimento  in  esame
sopravviva al mancato inizio o all'estinzione del giudizio di merito,
si divide sulla natura che esso assume in tali ipotesi. 
    Un primo orientamento,  cui  aderisce  il  giudice  empolese,  in
analogia  con   la   disciplina   dei   provvedimenti   cautelari   a
strumentalita' attenuata  e  in  applicazione  dell'art.  669-octies,
ultimo comma, del codice di procedura civile, ritiene  che  esso  non
acquisti  un'efficacia  diversa  da  quella  di  cui  gia'  godeva  e
sopravviva sino a quando in un eventuale nuovo giudizio tra le stesse
parti, se l'azione possessoria sia ancora esperibile, sia emanata una
sentenza di merito che lo contraddica. 
    Un'opposta interpretazione e' fornita da  coloro  che  sostengono
che tale  provvedimento  non  seguito  da  una  sentenza  sul  merito
possessorio acquisti la medesima autorita' di quest'ultima,  sia  pur
all'esito di una cognizione sommaria, o che si realizzi,  se  non  il
giudicato, quanto meno una preclusione, di modo che  un  giudizio  di
merito sulle stesse circostanze di fatto, se introdotto separatamente
dopo la scadenza del termine, sarebbe inammissibile. 
    Aderendo a tale ricostruzione, nessun dubbio potrebbe sorgere  in
relazione alla necessita' che  con  esso  il  giudice  provveda  alla
liquidazione delle spese - persino stando  all'erronea  ricostruzione
del giudice a quo - per diretta applicazione dell'art. 91 del  codice
di procedura civile, trattandosi di provvedimento idoneo ad acquisire
l'autorita'  della  cosa  giudicata  e,  quindi,  qualificabile  come
«sentenza che chiude il processo davanti a lui». 
7. - Esperimento d'interpretazione costituzionalmente  orientata  del
diritto vivente. 
    La Corte costituzionale - come si' e'  visto  -  finisce  con  il
pronunciarsi sulla norma oggetto  dell'ordinanza  di  rimessione:  in
tale ipotesi la Corte, infatti, esplicitamente ammonisce il giudice a
dare  seguito  alla  interpretazione  che  reputa  costituzionalmente
corretta. 
    L'autorita' giudiziaria - afferma la Corte -  deve  adempiere  al
compito che le e' proprio: scegliere, tra piu' interpretazioni dotate
di una sufficiente consistenza logica e  giuridica,  quella  che  sia
conforme a Costituzione. Detto diversamente: l'obbligo  di  rimettere
una questione di legittimita' costituzionale dinanzi alla Corte nella
sola ipotesi in cui, verificate tutte le possibilita' interpretative,
non  possa  alla  disposizione  «attribuirsi  (...)  altro   che   un
significato di (almeno) dubbia costituzionalita'». 
    Il tema del conflitto (o  della  coesistenza)  tra  dottrina  del
diritto  vivente   e   canone   ermeneutico   della   interpretazione
adeguatrice sembra allora (ri)proporsi all'attenzione della dottrina,
per gli effetti che esplica nei confronti del giudice  costituzionale
e nei confronti del giudice rimettente. 
    L'aderenza della Corte alla teoria del diritto vivente comprime -
come e' noto -  il  suo  potere  di  reinterpretare  la  disposizione
indicata nell'ordinanza, suggerendone al giudice a quo,  una  lettura
adeguatrice, alle sole  ipotesi  in  cui  «non  sia  ravvisabile,  in
giurisprudenza, un univoco indirizzo interpretativo  in  ordine  alla
disposizione di legge  impugnata  (...),  o  all'ipotesi  in  cui  il
giudice a quo si discosti, appunto, dall'interpretazione prevalente».
Il fatto in se' che venga sollevato un dubbio di costituzionalita' su
di una norma vivente fa si' che il giudice costituzionale debba porre
la stessa ad oggetto del  proprio  giudizio  e  debba  astenersi  dal
reinterpretare  la  disposizione  censurata,  cosi'  riconoscendo  un
valore impegnativo e inderogabile al diritto vivente. 
    Questo impianto  sembra  trovare  solo  parziale  conferma  nella
prassi    delle    ordinanze    interpretative     di     (manifesta)
inammissibilita'. 
    In numerose pronunce  la  Consulta,  chiamata  sostanzialmente  a
giudicare  dell'incostituzionalita'  della   disposizione   nel   suo
significato «vivente», argomenta  la  propria  scelta  decisoria  nel
senso dell'inammissibilita' sulla base della possibilita' -  teorica:
e  cioe'  consentita  dai  riconosciuti  canoni  ermeneutici   -   di
attribuire alla disciplina censurata  un'interpretazione  diversa  da
quella consolidata. 
    La Corte afferma infatti a chiare lettere che «al giudice non  e'
precluso, nell'esercizio  dei  poteri  interpretativi  che  gli  sono
propri e che non richiedono alcun avallo costituzionale, pervenire ad
una lettura della norma secundum Constitutionem anche in presenza  di
un orientamento giurisprudenziale univoco» (cfr. l'ordinanza n. 2 del
2002). 
    In concreto, agli orientamenti  dottrinali  e  giurisprudenziali,
«qualora anche essi fossero (...) univoci,  non  puo'  assegnarsi  un
valore limitativo dell'autonomia interpretativa del giudice» (ord. n.
367 del 2001). 
    Vi   e'   dunque   la   tendenza   ad   una    sempre    maggiore
responsabilizzazione interpretativa del giudice comune,  incoraggiato
ad attribuire un  autonomo  significato  alla  disposizione  nei  cui
confronti si presentano dubbi di costituzionalita'. 
    Il giudice comune non puo' nascondersi  dietro  la  maschera  del
diritto vivente: «in presenza di  un  orientamento  giurisprudenziale
consolidato che abbia acquisito i caratteri del "diritto vivente", la
valutazione se uniformarsi o meno a tale  orientamento  e'  una  mera
facolta' del giudice rimettente» (sentenza n. 91 del 2004). 
    La Corte pretende allora qualcosa di piu' dal giudice in sede  di
valutazione  della  rimessione  della  questione:  non  reputa   piu'
sufficiente che questi indichi sommariamente nell'ordinanza requisiti
prescritti nell'art. 23 della legge n. 87/1953, ma esige dallo stesso
un impegno maggiore, uno «sforzo interpretativo» superiore,  volto  a
risolvere autonomamente il dubbio di legittimita'  costituzionale  (e
pertanto a sollevare la questione  nel  solo  caso  in  cui  non  sia
possibile attribuire alla disposizione alcun significato  conforme  a
Costituzione). 
    L'esplicito richiamo ai giudici a praticare il canone ermeneutico
dell'interpretazione adeguatrice o d'un costituzionalmente  orientata
della norma «sospetta» alla luce del  diritto  vivente,  va  valutato
secondo due profili. 
    In primo  luogo  se  sia  soltanto  l'affermazione  di  una  loro
pacifica liberta', cui non devono rinunciare per timore  reverenziale
o per paura dei successivi gradi del  giudizio,  o  se  non  comporti
invece uno sviamento dalla logica del diritto vivente; e  in  secondo
luogo come ridefinisca il problema degli effetti della  dottrina  del
diritto vivente nei confronti del giudice rimettente. 
    Per quanto attiene al primo interrogativo ci  si  domanda  se  la
Corte, quando invita il rimettente  all'interpretazione  adeguatrice,
pur essendo  la  questione  sollevata  nei  confronti  di  una  norma
sostenuta da un orientamento indiscutibilmente  consolidato,  non  si
ponga in una posizione di  estraneita'  rispetto  alla  dottrina  del
diritto vivente, poi  il  fatto  solo  di  assumere  la  possibilita'
concettualmente    accertata    di    altre,    non     identificate,
interpretazioni, come fondamento di una propria pronuncia  che  elude
l'alternativa secca accoglimento-rigetto. 
    E ancor piu', ci si  chiede  se  tale  dottrina  possa  ritenersi
rispettata in quelle ordinanze d'inammissibilita' con  cui  la  Corte
implicitamente avalla l'interpretazione adeguatrice  prospettata  dal
rimettente  (e   non   applicata)   e   implicitamente   censura   di
incostituzionalita' la norma vivente. 
    In effetti,  la  compatibilita'  tra  le  due  dottrine  (diritto
vivente e interpretazione  conforme  a  Costituzione)  e'  fortemente
messa in discussione nelle ipotesi in cui la Corte afferma  che,  pur
in presenza di  un  orientamento  giurisprudenziale  consolidato,  il
rimettente  deve  dare  applicazione  nel   proprio   giudizio   alla
interpretazione adeguatrice. Se e' vero  che  la  norma  vivente  non
comprime il potere interpretativo del giudice comune,  per  il  quale
permane la facolta' di aderirvi o di  non  aderirvi,  e'  altrettanto
vero che la Corte costituzionale, pronunciandosi  con  una  decisione
d'inammissibilita' per non avere il rimettente  adempiuto  al  dovere
dell'interpretazione  adeguatrice,  elude  il   proprio   dovere   di
attenersi  alla  norma  vivente  e   di   evitare   di   pronunciarsi
sull'attribuzione  di  significato  consolidata.  Dal  fatto  che  il
giudice non sia vincolato non deriva affatto -  o  per  lo  meno  non
deriva affatto in  modo  lineare  -  che  la  Corte  possa  far  leva
esplicita su quest'assenza di vincolo per pronunciarsi indirettamente
- anziche' direttamente - sulla norma vivente. 
    In tanto «la dottrina del diritto vivente (...) e'  riconducibile
al tentativo di perimetrare e rendere prevedibili il  piu'  possibile
svolgimento ed esito del sindacato di costituzionalita'»,  in  quanto
l'atteggiamento «non piu' ondulatorio» della Corte  certamente  negli
ultimi anni gioca a favore di tale  obiettivo,  rendendo  incerta  la
delimitazione degli strumenti utilizzati e ampliando  il  margine  di
manovra nel decidere. 
    Per cio' che concerne al secondo profilo - e  cioe'  al  problema
degli effetti che la dottrina del  diritto  vivente  ha,  nell'ottica
della giurisprudenza della Corte qui  in  esame,  nei  confronti  del
giudice a quo - si deve distinguere il giudizio tecnico da quello  di
opportunita'. In  relazione  al  primo,  le  pronunce  interpretative
d'inammissibilita' ribadiscono che la dottrina  del  diritto  vivente
non esplica alcun effetto nei confronti dell'autorita' giudiziaria; e
che dunque pur  in  presenza  di  un  orientamento  giurisprudenziale
consolidato, il giudice  rimettente  gode  di  una  piena  autonomia,
potendo valutare se aderirvi o allontanarsene. 
    La giurisprudenza costituzionale, su questa  base,  ha  stabilito
una  prevalenza  della  dottrina   dell'interpretazione   adeguatrice
rispetto a quella del diritto vivente. E' venuta infatti  attribuendo
al   canone   dell'interpretazione   adeguatrice   una   connotazione
particolare,  condizionando  l'ammissibilita'  della  questione  alla
impossibilita' di attribuire alla disciplina impugnata un significato
conforme a Costituzione. 
    La  Corte,  quindi,  oltre  a  valutare  la   sussistenza   delle
condizioni  di  ammissibilita'  canonicamente  riconosciute,   valuta
altresi'   se   il   rimettente   abbia   cercato   di    individuare
un'interpretazione  conforme.  La  questione  deve  pertanto   essere
dichiarata inammissibile nei casi in  cui  il  rimettente  non  abbia
esperito tale tentativo e nei casi  in  cui  -  verrebbe  da  dire  a
maggior ragione -, pur avendo riscontrato la possibilita'  di  trarre
dalla disposizione censurata una norma conforme a  Costituzione,  non
abbia intrapreso tale strada, ed abbia invece sollevato la  questione
alla Corte. 
    Questo sul piano tecnico. 
    Su quello dell'opportunita' non si puo' pero' non riconoscere che
l'affermata  liberta'  ermeneutica  dell'autorita'   giudiziaria   in
presenza di diritto vivente non e' - come del resto  sottolineato  da
parte della dottrina - un dato realistico. In effetti, quando  si  e'
formato un orientamento giurisprudenziale consolidato, la  deviazione
del singolo giudice da tale orientamento e' perlopiu' inefficace:  la
sua interpretazione, per quanto conforme a Costituzione, in  presenza
di un solido indirizzo contrario, non e' idonea a costituire un nuovo
diritto vivente, essendo soggetta a impugnazione e possibile  riforma
da parte dell'autorita' giudiziaria di grado successivo. 
    Questa   semplice   constatazione   induce   a   dubitare   della
convenienza,  sul  piano   costituzionale,   di   adottare   pronunce
d'inammissibilita' laddove si ritenga il giudice rimettente in  grado
di risolvere da se' la  questione;  e  induce  altresi'  ad  avanzare
l'idea, contraria a quella ribadita dal giudice costituzionale  nelle
sue ordinanze, che la scelta dell'interpretazione  adeguatrice  abbia
un valore solo sussidiario rispetto al diritto vivente anche  per  il
giudice a quo. 
    Ne discende che, a precludere una decisione di merito e' altresi'
il mancato esperimento, da parte del giudice a quo, di  un  tentativo
teso a rintracciare una interpretazione della disposizione  censurata
che la renda conforme alla Costituzione. 
    Ancora, e' da considerarsi vizio insanabile la mancata  presa  in
considerazione di modifiche legislative (ordinanze numeri  24  e  317
del 2005 [nel testo che procede i riferimenti  provvedimentali  della
Consulta s'incentrano sull'anno 2005, ch'e' quello  della  svolta  in
materia di  diritto  vivente  ed  interpretazione  costituzionalmente
orientata del giudice rimettente]) o dichiarazioni di  illegittimita'
costituzionale (sentenze numeri  27  e  468,  ed  ordinanza  n.  313)
intervenuti antecedentemente al promovimento della questione. 
    Il vizio  dell'ordinanza  di  rimessione  puo'  riguardare  anche
l'intervento che il giudice a quo richiede alla Corte costituzionale:
prescindendo dai casi in  cui  il  petitum  non  e'  sufficientemente
precisato  (ordinanze  numeri   188   e   400),   sono   colpite   da
inammissibilita' tutte quelle richieste volte ad ottenere dalla Corte
una pronuncia «creativa», da adottarsi, cioe', attraverso  l'utilizzo
di poteri discrezionali di cui la Corte e' priva (sentenze numeri 109
e 470, ed ordinanze numeri 260, 273 e 399), una sentenza additiva  in
malam partem in materia penale (ordinanza  n.  187)  o,  infine,  una
pronuncia che, con l'accoglimento, avrebbe il risultato di creare una
situazione di (manifesta) incostituzionalita' (ordinanza n. 68). 
    Riconducibili ai vizi che inficiano la richiesta  del  giudice  a
quo - oltre a quelle connesse all'esercizio dei poteri interpretativi
da parte della Corte - sono anche  le  formulazioni  delle  questioni
nell'ambito delle quali il rimettente non assume una posizione  netta
in merito alla questione: ne deriva l'inammissibilita'  di  questioni
formulate in maniera contraddittoria (sentenze numeri 163 e  243,  ed
ordinanze numeri 58, 112 e  297),  perplessa  (ordinanza  n.  246)  o
alternativa (ordinanze numeri  215  e  363).  Pienamente  ammissibili
sono, di contro, le questioni poste in via  subordinata  rispetto  ad
altre (ad esempio, sentenze numeri 52, 53 e 174, ed ordinanze  numeri
75 e 256). 
    Le inesattezze che vengano riscontrate in merito  all'indicazione
del petitum, o anche relativamente ad oggetti e parametri, non sempre
conducono alla inammissibilita' delle questioni: nei limiti in cui il
tenore complessivo dell'ordinanza renda chiaro il  significato  della
questione posta, e' la Corte stessa ad operare una  correzione,  cio'
che e' avvenuto nella sentenza n. 471 e  nell'ordinanza  n.  342  (in
ordine  al  petitum),  nell'ordinanza  n.  288  (per   l'oggetto)   e
nell'ordinanza n. 318 (per il parametro). 
    La sanatoria del vizio e' invece radicalmente esclusa nel caso di
ordinanze  motivate  per  relationem,  vale  a  dire  attraverso   il
riferimento ad altri atti, come scritti  difensivi  delle  parti  del
giudizio principale (ordinanze numeri 92, 125, 312 e  423),  sentenze
parziali rese nel corso del giudizio medesimo (ordinanza  n.  208)  o
precedenti ordinanze di rimessione, dello stesso o di  altro  giudice
(ordinanze  numeri  8,  22  84,  141,  166  e  364):   per   costante
giurisprudenza, infatti, «non possono  avere  ingresso  nel  giudizio
incidentale  di  costituzionalita'  questioni   motivate   solo   per
relationem dovendo il rimettente rendere esplicite le ragioni per  le
quali ritiene rilevante e non manifestamente infondata  la  questione
sollevata,  mediante   una   motivazione   autosufficiente»   (cosi',
l'ordinanza n. 364). 
    Insomma, affinche' una questione di  legittimita'  costituzionale
possa dirsi validamente sollevata, la Corte richiede che  il  giudice
rimettente  esperisca  un  previo  tentativo  diretto  a  dare   alla
disposizione impugnabile un'interpretazione tale da renderla conforme
al  dettato  costituzionale.  Cio'  in   quanto   il   principio   di
conservazione degli  atti  giuridici  -  che  non  puo'  non  trovare
applicazione anche nell'ambito degli atti fonte  -  fa  si'  che  «le
leggi non si dichiarano incostituzionali se esiste la possibilita' di
dare loro un significato che le  renda  compatibili  con  i  precetti
costituzionali» (ordinanza n. 115), in quanto, «secondo un  principio
non discusso e piu' volte espressamente affermato [dalla] Corte,  una
normativa  non   e'   illegittima   perche'   suscettibile   di   una
interpretazione  che  ne   comporta   il   contrasto   con   precetti
costituzionali, ma soltanto perche' non puo' essere  interpretata  in
modo da essere in armonia con la Costituzione» (ordinanza n. 89). 
    E' in quest'ottica che debbono apprezzarsi le - invero  piuttosto
numerose - decisioni  nelle  quali  lo  scrutinio  del  merito  delle
questioni e' risultato precluso dalla  omessa  attivita'  ermeneutica
del giudice (ordinanze numeri 74, 130, 245, 250, 252, 306, 361,  381,
399, 419, 420, 427 e 452). L'attenzione della Corte a che  i  giudici
comuni esercitino la funzione interpretativa alla quale sono chiamati
non puo', pero', tradursi in una acritica accettazione  di  qualunque
esito cui essa giunga. Ne discende il potere della Corte di censurare
- solitamente con una  decisione  in  rito  -  l'erroneo  presupposto
interpretativo da cui  il  promovimento  della  questione  ha  tratto
origine (ordinanze numeri 1, 25, 54, 69, 118, 269, 310, 331 e 340). 
    L'interpretazione delle disposizioni legislative, d'altra  parte,
non puo' essere configurata come  un  monopolio  della  giurisdizione
comune: anche la Corte costituzionale  ben  puo'  -  e,  entro  certi
limiti,  deve  -   coadiuvare   i   giudici   nella   ricerca   della
interpretazione piu' «corretta», nel senso di «adeguata  ai  precetti
costituzionali». Ne sono una patente testimonianza le decisioni  c.d.
«interpretative», con  le  quali  la  Corte  dichiara  infondata  una
determinata questione alla luce dell'interpretazione che essa  stessa
ha enucleato: in taluni casi, di questa  attivita'  si  ha  riscontro
anche nel dispositivo della sentenza, che collega l'infondatezza  «ai
sensi di cui in motivazione» (sentenze numeri 63, 394, 410, 460,  471
e 480); sovente, pero', questo riscontro non viene esplicitato,  cio'
che non infirma, comunque,  la  portata  del  decisum  (ex  plurimis,
sentenze numeri 163, 266, 379, 410, 437 e 441, ed ordinanze numeri 8,
347). 
    Il «dialogo» che  viene  cosi'  a  strutturarsi  -  cadenzato  da
riferimenti, in motivazione, a decisioni rese dal Consiglio di  Stato
e, soprattutto, dalla Corte di cassazione (nella sentenza n.  303  si
richiama  anche  «l'unanime  opinione   dottrinale»)   -   non   puo'
prescindere, tuttavia, da  una  chiara  ripartizione  dei  rispettivi
compiti, veicolata, per un verso, da (a) la necessita' di tener conto
dell'acquis ermeneutico sedimentatosi  in  seno  alla  giurisprudenza
comune e, per l'altro, da (b) la  considerazione  del  ruolo  proprio
della Corte costituzione, che e' avant tout il  giudice  chiamato  ad
annullare leggi contrastanti con la Costituzione. 
    Sotto il primo profilo, viene in precipuo rilievo la  nozione  di
«diritto vivente»,  definibile  come  l'interpretazione  del  diritto
scritto consolidatasi nella prassi applicativa. 
    In diverse circostanze, la  Corte  costituzionale  ha  constatato
essa stessa la  sussistenza  di  una  uniformita'  di  giurisprudenza
idonea a dimostrare l'esistenza di un «diritto vivente». 
    Cosi' e' stato, ad esempio,  nell'ordinanza  n.  54,  in  cui  il
diritto vivente e' stato dedotto da «numerose pronunce della Corte di
cassazione», confermate da una recente sentenza delle  sezioni  unite
penali, oppure nell'ordinanza n. 427,  nella  quale  l'individuazione
del diritto vivente ha condotto a censurare l'operato del  giudice  a
quo, che aveva omesso di riferirvisi onde assolvere  «il  compito  di
effettuare una lettura della norma conforme alla Costituzione». 
    Alcune decisioni  hanno  -  espressamente  o  meno  -  suffragato
l'individuazione del diritto vivente operata dal  giudice  rimettente
(sentenza n. 283 ed ordinanza n. 188), mentre altre  decisioni  hanno
smentito quanto prospettato nell'ordinanza di rinvio, sia  nel  senso
di  escludere  l'incidenza  del  diritto  vivente  sulla  fattispecie
oggetto del giudizio principale (sentenza n. 480), sia nel  senso  di
negare  l'esistenza  stessa  di  un  orientamento   giurisprudenziale
sufficientemente  consolidato.  A  tale  ultimo   riguardo,   se   la
rintracciabilita'  di  un  orientamento   della   giurisprudenza   di
legittimita'  divergente  rispetto  a  quello  prevalente   impedisce
radicalmente la configurabilita' di  un  diritto  vivente  (ordinanze
numeri 58 e 332), alla  stessa  stregua  di  quanto  constatabile  in
presenza di «diverse, contrarie  soluzioni  della  giurisprudenza  di
merito» (ordinanza  n.  452),  a  testimoniare  l'inesistenza  di  un
diritto vivente puo' essere sufficiente anche una  recente  decisione
della Corte di cassazione (sentenza n. 460). Parzialmente  differente
e' il caso della sentenza n. 408,  che  ha  escluso  l'esistenza  del
«diritto vivente» invocato dalla Avvocatura dello Stato  per  fondare
una eccezione di irrilevanza della questione. 
    Con riferimento ai  profili  ora  in  esame,  la  decisione  piu'
importante dell'anno, per il tema affrontato oltre che per la vicenda
nella quale si e' inserita, e' comunque la sentenza n. 299. Con  essa
si e' compiuto un passo decisivo nella  evoluzione  della  disciplina
del computo dei periodi di custodia cautelare, in merito alla  quale,
nel  recente  passato,  «la  Corte  costituzionale  ha  applicato  il
principio  di  astenersi  dal  pronunciare   una   dichiarazione   di
illegittimita'  sin  dove  e'   stato   possibile   prospettare   una
interpretazione della norma censurata conforme a Costituzione,  anche
al fine di evitare il formarsi di lacune nel sistema, particolarmente
critiche  quando  la  disciplina  censurata  riguarda   la   liberta'
personale». 
    Alla luce di cio', «la Corte ha  [...]  pronunciato  la  sentenza
interpretativa di rigetto n. 292 del 1998, ed ha  poi  confermato  la
scelta della via interpretativa dopo i primi interventi delle sezioni
unite della Cassazione, sollecitate a dirimere i contrasti insorti in
materia tra le diverse sezioni, sino a quando la Corte di  cassazione
a sezioni unite  ha  confermato  con  particolare  forza  il  proprio
indirizzo interpretativo nella sentenza n. 23016 del 2004». A seguito
di tali decisioni e, in particolare, di quest'ultima  sentenza,  alla
Corte costituzione si e' imposta la  constatazione  che  «l'indirizzo
delle sezioni unite [dovesse] ritenersi oramai  consolidato,  si'  da
costituire diritto  vivente,  rispetto  al  quale  non  [erano]  piu'
proponibili   decisioni    interpretative».    L'impossibilita'    di
prospettare ulteriormente soluzioni volte  a  rendere  la  disciplina
censurata conforme a Costituzione ha reso indefettibile una pronuncia
di illegittimita' costituzionale. 
    Questa vicenda illustra chiaramente l'importanza  di  una  franca
dialettica tra Corte costituzionale  e  giudici  comuni,  nell'ambito
della quale confrontare le diverse posizioni al fine di addivenire  a
risultati (interpretativi o anche caducatori, come nella specie)  che
garantiscano  il  rispetto   dei   principi   sanciti   nella   Carta
costituzionale. 
    b) Per quanto concerne i rapporti che sussistono tra  l'attivita'
interpretativa  dei  giudici  comuni  e  la  funzione  che  la  Corte
costituzionale  ricopre  nel  sistema,  deve  evidenziarsi  che   (il
coadiuvare    ne)    la    ricerca    di    soluzioni    ermeneutiche
costituzionalmente orientate  non  puo'  tradursi  in  una  sorta  di
«tutela». 
    Cio' e'  reso  evidente  dal  costante  rifiuto  della  Corte  di
assecondare richieste volte ad ottenere un avallo all'interpretazione
che il giudice a quo ritenga di dover dare (ordinanze numeri 112, 115
e 211) o addirittura richieste  dirette  a  sollecitare  la  Corte  a
dirimere contrasti interpretativi, per i quali  sono  altre  le  sedi
istituzionalmente idonee (ordinanza n. 89). 
    Alla stregua delle asserzioni sopra scritte, attesa  la  brevita'
del  testo  normativo,  del  quale   si   denunzia   l'illegittimita'
costituzionale, il tentativo su descritto si riduce,  ad  avviso  del
giudicante, alla verifica se la locuzione «il presente decreto» possa
riferirsi  ai  decreti  ministeriali  futuri  di  determinazione  dei
parametri liquidatori delle spese giudiziali. 
    Ma  l'aggettivo   «presente»   esclude   in   partenza   siffatta
interpretazione. 
    In buona sostanza, trattasi  d'una  «missione  impossibile»:  «il
presente decreto» cit. altro non puo'  che  essere  il  decreto-legge
convertito e modificato n. 1 del 2012. 
8. - L'utilita' decisoria di  rito  e  di  merito  e  la  sospensione
necessaria del processo. 
    Si  tratta  d'un  ulteriore  presupposto  d'ammissibilita'  della
delibazione  da  parte   del   giudice   delle   leggi   in   oggetto
dell'ordinanza di rimessione pronunciata  dal  giudice  a  quo:  essa
individua come  senza  la  certificazione  della  Consulta  circa  la
legittimita' costituzionale o meno delle disposizioni di legge, sulle
quali grava la convinzione  del  giudice  adito  circa  la  probabile
difformita' di esse dalle norme e dai principi della Costituzione, la
decisione  eventualmente  presa  possa  non  possa  che,  con   molta
probabilita', esulare  all'applicazione  del  principio  del  «giusto
processo» in senso sostanziale alla fattispecie divisata,  che,  qui,
concerne la «ingiusta» quantificazione delle spese processuali. 
    Codesto  aspetto  e'  sottolineato  dalla  Corte   costituzionale
medesima nella motivazione  della  sentenza  15  dicembre  2009-25/28
gennaio  2010,  n.  26,   con   cui,   dichiarando   l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 669-quaterdecies  del  codice  di  procedura
civile, nella  parte  in  cui,  escludendo  l'applicazione  dell'art.
669-quinquies dello stesso codice ai provvedimenti  di  cui  all'art.
696-bis ss. del codice di procedura civile,  impedisce,  in  caso  di
clausola compromissoria, di compromesso o  di  pendenza  di  giudizio
arbitrale, la proposizione  della  domanda  di  accertamento  tecnico
preventivo al giudice che sarebbe competente a conoscere del  merito,
finisce  con  l'annoverare  tra  i  procedimenti  cautelari  anche  i
cosiddetti accertamenti tecnici  preventivi,  sia  ante  causam,  sia
endoprocessuali. 
    Scrive l'estensore Criscuolo: «Si deve condividere la conclusione
alla quale e' pervenuto il giudice a  quo,  secondo  cui  il  dettato
dell'art.  669-quaterdecies  del  codice  di  procedura  civile   non
consente una interpretazione diversa da quella da lui adottata.  Come
questa Corte ha gia' osservato, l'univoco tenore  della  norma  segna
confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere
il passo al sindacato di legittimita' costituzionale (sentenza n. 219
del  2008,  punto  4  del  Considerato  in  diritto)»:  cio'   rivela
l'indispensabile di quest'ultimo ai fini decisori di rito e di merito
(Francesco De Santis). 
    Codesta indispensabile utilita' impone la sospensione  necessaria
del giudizio a quo, ex art. 23 della legge n. 87 del 1953. 
    I  rapporti  tra  le  sospensioni  per   pregiudizialita'   anche
costituzionale ex art. 295 e  art.  337,  capoverso,  del  codice  di
procedura civile  sono,  comunque,  al  vaglio  delle  Sezioni  Unite
civili, a seguito dell'ordinanza di rimessione pronunciata  dalla  VI
Sezione civile 13 gennaio 2012, n.  407  (Presidente  Pres.  di  Sez.
Cons. dott. Francesco Felicetti, relatore ed  estensore  Cons.  dott.
Nicola Cerrato). 
    1. - L'ordinanza si segnala perche' le sezioni  unite,  al  sensi
dell'art. 374, 2° comma, del codice di procedura  civile,  potrebbero
essere  chiamate  a  pronunciarsi,  in  via  generale,  sui  rapporti
intercorrenti tra l'art. 295 del codice di procedura civile e  l'art.
337, 2° comma, del codice di procedura civile, ossia  sul  rispettivo
ambito di applicabilita' e sui relativi presupposti di  operativita',
nonche',  in  via  particolare,  se  vada  disposta  la   sospensione
necessaria ex art. 295 del codice di procedura civile quando la causa
pregiudiziale pendente in grado di appello attiene alla materia dello
stato delle persone,  dal  momento  che  l'accertamento  deve  essere
compiuto con sentenza passata in giudicato. 
    Il tema dei rapporti tra le sospensioni necessaria  ex  art.  295
del codice di procedura civile e discrezionale ex art. 337, 2° comma,
del codice di  procedura  civile  e'  stato  oggetto  di  particolare
attenzione da parte della dottrina soprattutto  negli  anni  ottanta,
allorquando le due disposizioni sono state  esaminate  congiuntamente
al fine di meglio precisarne la rispettiva portata. 
    E proprio questi studi consentono di fissare un dato di partenza:
sia l'art. 295 sia l'art. 337, 2° comma, fanno  capo  ad  uno  stesso
fenomeno: la pregiudizialita' tra rapporti giuridici, nel  senso  che
uno si pone come l'antecedente logico giuridico dell'altro. La  tesi,
pur autorevolmente sostenuta,  secondo  cui  l'art.  337,  2°  comma,
riguarderebbe invece quei casi nei quali la sentenza e' invocata  per
la sua autorita' logica o «efficacia di mero fatto», quale precedente
non vincolante,  non  puo'  condividersi  perche'  la  norma  non  fa
riferimento all'autorita' meramente logica della sentenza, e cio' sia
perche' altrimenti si finirebbe per attribuire alla sentenza invocata
effetti che la stessa neppure ha quando e' passata in giudicato,  sia
perche' la sospensione sarebbe del  tutto  inutile,  non  potendo  il
giudice essere vincolato dal provvedimento emesso. 
    Riportate le due disposizioni all'interno  di  uno  stesso  campo
bisogna verificare quando le  stesse  trovano  applicazione,  tenendo
presente che la sospensione ex art. 295 e' necessaria e dura fino  al
passaggio in giudicato della sentenza  pregiudiziale  (art.  297  del
codice di procedura civile) e che quella ex art. 337,  2°  comma,  e'
discrezionale e dura fino alla pronuncia della sentenza. 
    In dottrina e in giurisprudenza sono state  proposte  almeno  tre
diverse ipotesi di coordinamento. Una prima ipotesi  afferma  che  la
sospensione necessaria ex art. 295 ricorre in due ipotesi: 
        a) quando pendono due  giudizi,  fra  loro  in  relazione  di
pregiudizialita', non e' possibile la loro riunione  e  sul  rapporto
pregiudiziale non e' stata ancora pronunciata sentenza; 
        b)  quando  nel  corso  del  giudizio  sorge  una   questione
pregiudiziale che deve essere decisa con efficacia di giudicato sulla
quale non e' competente il giudice originariamente  adito  e  non  e'
possibile realizzare la trattazione simultanea. 
    La sospensione discrezionale ex art. 337, 2° comma,  puo'  essere
disposta  quando  pendono  due  giudizi  fra  loro  in  relazione  di
pregiudizialita'  e  sul  rapporto  pregiudiziale   e'   gia'   stata
pronunciata sentenza, anche non  passata  in  giudicato,  sicche'  la
norma ricordata fa riferimento a tutte le impugnazioni sia  ordinarie
sia straordinarie. 
    Una seconda ipotesi sostiene che  la  sospensione  necessaria  ex
art. 295 ricorre sempre in due ipotesi: 
        A) nella prima quando pendono contemporaneamente due giudizi,
anche in diverso grado, fra loro in relazione di  pregiudizialita'  e
non e' possibile la loro riunione; 
        B) nella seconda quando nel  corso  del  giudizio  sorge  una
questione pregiudiziale che  deve  essere  decisa  con  efficacia  di
giudicato sulla quale non e' competente  il  giudice  originariamente
adito e non e' possibile realizzare la trattazione simultanea; (-) la
sospensione discrezionale ex art. 337, 2° comma, puo' essere disposta
quando nel corso del  processo  viene  invocata  l'autorita'  di  una
sentenza passata in giudicato, sicche'  tale  ultima  norma  riguarda
solo le impugnazioni straordinarie. 
    Una terza ipotesi riporta la sospensione ex art.  295  solo  alla
fattispecie disciplinata dall'art. 34 del codice di procedura civile,
ossia allorquando il giudice viene a trovarsi nell'impossibilita'  di
decidere la controversia perche' e' sorta una questione pregiudiziale
che o a seguito di domanda di parte o per legge  deve  essere  decisa
con  efficacia  di  giudicato  e  non  e'  possibile  assicurare   la
trattazione simultanea delle due controversie. La sospensione ex art.
337, 2° comma, viene  riferita  all'ipotesi  in  cui  nel  corso  del
processo  e'  invocata  l'autorita'  di  una  sentenza   passata   in
giudicato, sicche' tale ultima norma riguarda  solo  le  impugnazioni
straordinarie. 
    Per quanto riguarda la sospensione discrezionale di cui  all'art.
337, secondo comma, del  codice  di  procedura  civile  questa  opera
allorche' nel corso del processo viene invocata  l'autorita'  di  una
sentenza  passata  in  giudicato,  che   ha   deciso   sul   rapporto
pregiudiziale, e tale sentenza e' impugnata in via straordinaria. 
    Questa lettura trova non poche conferme, a prescindere  dal  dato
letterale del termine utilizzato, «autorita' di una sentenza». 
    In primo luogo la norma esaminata trova i suoi  precedenti  negli
articoli 504 e 515 del codice  di  rito  del  1865,  che  prevedevano
appunto la sospensione discrezionale allorche' nel corso del processo
veniva invocata l'autorita' di una sentenza impugnata per revocazione
e per opposizione di terzo,  ossia  due  impugnazioni  straordinarie.
Queste due norme, nel passaggio al nuovo codice di rito,  sono  state
fuse nel 2° comma dell'art. 337. 
    In secondo luogo la sentenza, non ancora  passata  in  giudicato,
resa in un diverso processo, non puo' vincolare un altro giudice. 
    L'art. 337,  2°  comma,  del  codice  di  procedura  civile  pone
un'alternativa al giudice nel cui processo  e'  invocata  l'autorita'
della sentenza resa in altro giudizio ed oggetto di  impugnazione:  o
procedere nella causa considerandosi vincolato  alla  soluzione  data
nella sentenza prodotta oppure  sospendere  il  processo,  in  attesa
dell'esito dell'impugnazione. Questa alternativa ricorre solo  se  la
sentenza che viene invocata e' gia'  passata  in  giudicato,  perche'
solo questa, avendo deciso  un  rapporto  pregiudiziale,  vincola  il
giudice dinanzi al quale  quella  sentenza  e'  invocata.  Ma  se  la
sentenza non e' passata in giudicato, il giudice che deve decidere il
rapporto pregiudicato puo' anche procedere oltre  nella  causa  senza
essere vincolato a quella sentenza. 
    In  terzo  luogo  l'art.  297  del  codice  di  procedura  civile
ricollega la cessazione della causa della sospensione ex art. 295  al
passaggio in giudicato della sentenza sul  rapporto  pregiudiziale  e
non alla pronuncia della sentenza di primo grado, e non  distingue  a
seconda che la sospensione sia stata dichiarata quando era gia' stata
oppure non era ancora stata pronunciata una  decisione  nel  processo
pregiudiziale. 
    In conclusione, la sospensione discrezionale di cui all'art. 337,
2° comma, puo' essere disposta allorche' nel corso del processo viene
invocata l'autorita' di una sentenza passata in giudicato  che  viene
impugnata in via straordinaria (revocazione ex art. 395, nn. 1, 2,  3
e 6, ed ex art. 397 del codice di procedura  civile;  opposizione  di
terzo ex art. 404 del codice di procedura  civile;  impugnazione  del
contumace involontario ex art. 327, 2° comma, del codice di procedura
civile). 
    Per quel che riguarda la sospensione necessaria ex art.  295  del
codice di procedura civile, bisogna sottolineare che in questi ultimi
anni si sono affermate interpretazioni che tendono a  ridurre  sempre
piu'  il  suo  campo  di  operativita',  ponendo  in   risalto   beni
sicuramente piu' importanti  della  astratta  esigenza  di  garantire
l'uniformita' delle decisioni, come diritto di difesa, l'effettivita'
della tutela giurisdizionale, la ragionevole durata del processo.  In
numerose pronunce la Cassazione  non  solo  esplicitamente  riconosce
«disfavore» mostrato dal legislatore nei confronti della  sospensione
del processo civile, ma inoltre sottopone ad una lettura  restrittiva
le norme che contemplano la sospensione del processo. 
    Limitandoci alle decisioni concernenti la sospensione  necessaria
si ricorda Cass. n. 10766/2002, nella quale il Supremo collegio  pone
in evidenza «come un'interpretazione  diretta  ad  estendere  in  via
interpretativa i casi di sospensione necessaria  al  di  fuori  delle
ipotesi  tipiche,   espressamente   previste   dalla   legge,   possa
determinare una lesione di diritti costituzionalmente  garantiti,  ed
in special modo del principio  di  uguaglianza  (art.  3,  1°  comma,
Cost.), del diritto alla tutela giurisdizionale (art. 24,  1°  comma,
Cost.), ed  infine  del  diritto  ad  una  "ragionevole"  durata  del
processo (art. 111, 1° comma, Cost.)»: tanto da affermare che  «sulla
base dello scrutinio delle innovazioni legislative  e  degli  arresti
giurisprudenziali e dottrinari in materia e' dato  desumere,  quindi,
che una lettura dell'art. 295 del  codice  di  procedura  civile  non
possa, per le considerazioni svolte,  legittimare  -  in  nome  della
ratio a tale norma sottesa - opzioni ermeneutiche dirette ad ampliare
l'ambito applicativo». Oppure Cass. 3105/02 per la quale «costituisce
dunque  dovere  del  giudice,  tutte  le  volte  che  sia  possibile,
privilegiare strumenti alternativi alla sospensione del  processo  ex
art. 295 del codice di procedura civile». O  ancora  Cass.  24859/06,
che sottolinea che «l'esigenza di evitare  giudicati  ingiusti»  «non
rappresenta un valore costituzionale (Corte cost.  31/98,  Foro  it.,
1999, I, 1419), a differenza del principio della  ragionevole  durata
del processo ...». 
    Si tratta di affermazioni di estremo interesse perche' dimostrano
che la  Cassazione  e'  ben  consapevole  dell'estrema  pericolosita'
dell'istituto della sospensione. 
    Cio' posto, si deve escludere che  la  sospensione  ex  art.  295
possa trovare applicazione in caso di contemporanea pendenza, davanti
a giudici differenti o allo stesso giudice, di due processi aventi ad
oggetto rapporti giuridici  sostanziali  tra  loro  in  relazione  di
pregiudizialita'. 
    Infatti non  solo  l'art.  295  non  fa  alcun  riferimento  alla
pendenza di un diverso  processo  (a  differenza  dell'art.  337,  2°
comma, del  codice  di  procedura  civile)  o  all'esistenza  di  una
relazione tra rapporti giuridici sostanziali, ma anche e  soprattutto
perche' la mera contemporanea pendenza di un altro processo non e' di
per se'  sufficiente  a  privare  il  giudice  del  potere-dovere  di
conoscere  incidenter  tantum  le  questioni  pregiudiziali  che   si
presentano nel corso del processo. 
    Allorche' si  verifica  una  siffatta  situazione  il  giudice  o
dispone la riunione o prosegue nel  giudizio,  conoscendo  incidenter
tantum la questione pregiudiziale, sicche' due processi procedono  in
via autonoma e separata. 
    Gli articoli 40 e 274 del codice di  procedura  civile,  infatti,
escludendo che la riunione possa essere  disposta  quando  essa  puo'
determinare un rallentamento delle cause, non possono prevedere  come
alternativa la sospensione del processo  sul  rapporto  pregiudicato:
«E' un controsenso pretendere che nelle ipotesi  in  cui»  l'art.  40
«esclude la riunione giust'appunto  per  evitare  che  le  due  cause
subiscano un rallentamento, si debba applicare l'art.  295,  che  non
accelera la pregiudiziale e che addirittura  impone  una  lunghissima
paralisi della dipendente. E  il  controsenso  s'ingigantisce  se  si
pensa di dover applicare l'art. 295 pur quando la dipendente si trova
in appello e la pregiudiziale davanti ad altro giudice all'inizio del
primo grado». 
    D'altra parte gli articoli 103 e  104  del  codice  di  procedura
civile contemplano che i processi connessi, in caso  di  separazione,
proseguono ognuno la propria strada, senza subire alcuna sospensione.
Ecco allora che gli articoli 40, 274, 103, 2° comma, e 104, 2° comma,
337, 2° comma,  del  codice  di  procedura  civile  costituiscono  la
migliore dimostrazione che la priorita' logica dei rapporti giuridici
non comporta sempre ed in ogni  caso  la  priorita'  cronologica  dei
relativi accertamenti. 
    E un fondamentale ruolo nella materia  in  esame  e'  svolto  dal
principio - da sempre cardine nel nostro ordinamento  -  in  base  al
quale il giudice conosce incidenter tantum le questioni pregiudiziali
che si presentano nel corso del processo. 
    Un principio che troviamo affermato in tutti i settori del nostro
ordinamento (articoli 4 e 5, legge 20 marzo 1865, n.  2248,  allegato
E; articoli 2 e 75 del codice di procedura penale; art. 7 e  art.  39
decreto legislativo 31  dicembre  1992,  n.  546;  art.  63,  decreto
legislativo n. 165 del 2001; art. 819 del codice di procedura civile;
art. 5, legge 31 maggio 1995, n. 218; art. 8 cod.  proc.  amm),  come
riconosce la Cassazione e che porta  ad  affermare  che  l'art.  295,
lungi dal disciplinare  l'ipotesi  della  contemporanea  pendenza  di
processi, fa riferimento ai casi in cui il  giudice  si  trova  nella
temporanea impossibilita' di giudicare, sia pure  incidenter  tantum,
la questione che si presenta nel corso del processo. 
    Il collegamento con l'art. 34 del codice di procedura  civile  e'
evidente: la sospensione necessaria ex art. 295 trova il  suo  ambito
di applicazione allorche' nel corso del processo sorge una  questione
pregiudiziale che deve essere decisa con efficacia di giudicato e non
e' possibile assicurare la trattazione simultanea delle  cause  o  vi
sia differente giurisdizione esclusiva non civile sulla  materia  del
contendere. 
    L'art. 34 contempla  due  differenti  ipotesi  di  trasformazione
della questione in controversia pregiudiziale: l'istanza esplicita di
una delle parti e la previsione legale. 
    Sta di fatto che l'art. 34 prevede che  in  caso  di  domanda  di
accertamento incidentale allorche' su di essa non  e'  competente  il
giudice adito, tutta la causa  deve  essere  trasferita  al  «giudice
superiore», con la conseguenza che l'art.  34  ammette  l'istanza  di
parte solo quando e' comunque  possibile  assicurare  la  trattazione
simultanea  dinanzi  al  giudice  competente  per   la   controversia
pregiudiziale. 
    Peraltro, proprio l'esigenza costituzionale che il processo abbia
una ragionevole durata  porta  ad  escludere  che  le  parti  possano
trasformare la questione in controversia  pregiudiziale,  dando  vita
alla  sospensione  del  processo,  allorche'  non  e'  possibile   la
trattazione simultanea. 
    La questione sara' conosciuta incidenter tantum ed il diritto  di
difesa delle parti sara' garantito. 
    Ne deriva allora che la sospensione  del  processo  ricorre  solo
quando l'accertamento con  autorita'  di  giudicato  della  questione
pregiudiziale, ossia la trasformazione in «causa» di una  «questione»
pregiudiziale, e' richiesto  dalla  legge  (ad  esempio  nell'ipotesi
disciplinata nell'art. 124 del codice civile oppure quando sorge  una
questione di stato e capacita' delle persone). 
    Il coordinamento dell'art. 295 e dell'art.  337,  2°  comma,  del
codice  di  procedura  civile,  nella  misura  in   cui   circoscrive
l'operativita' della sospensione, che comporta di per se' comunque un
diniego,  sia  pure  temporaneo,  di  giustizia,  si  presenta   piu'
rispondente anche all'esigenza di assicurare la tutela dei diritti in
un tempo ragionevole. 
    In questi ultimi tempi la Corte di cassazione  ha  letto  diverse
norme processuali alla luce del principio  della  ragionevole  durata
del  processo,  al  punto  da  riscrivere  lo  stesso  dato  testuale
(pensiamo per tutte alla interpretazione data all'art. 37 del  codice
di procedura civile). 
    Ebbene, proprio le norme sulla  sospensione,  che  comportano  un
indubbio  allungamento  dei  tempi   del   processo   devono   essere
interpretate in senso restrittivo e comunque in linea  con  i  valori
affermati  nella  nostra  Carta  costituzionale,  come  quello  della
ragionevole  durata  del  processo.  Tra  l'esigenza  di   assicurare
l'uniformita' e l'armonia delle  decisioni,  che  non  e'  un  valore
costituzionale, e l'esigenza di pervenire  alla  decisione  in  tempi
ragionevoli  l'interprete  non  puo'  non  privilegiare  la   seconda
esigenza. 
    D'altro canto e' lo stesso giudice delle leggi che riconosce  che
l'esigenza di assicurare l'armonia e  l'uniformita'  delle  decisioni
non e' un valore costituzionale. 
    In una decisione di alcuni anni fa, sia pure resa con riferimento
al processo tributario, la corte ha  affermato  la  legittimita'  del
sistema processuale tributario che limita la  sospensione  necessaria
per pregiudizialita' ad alcuni specifici e tassativi casi (querela di
falso, questione di stato e capacita' delle  persone)  e  prevede  la
cognizione  incidenter  tantum   per   tutte   le   altre   questioni
pregiudiziali (art. 39 decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546). 
    Sottolinea la corte che «il  legislatore,  limitando  i  casi  di
sospensione del processo, ha inteso rendere piu' rapida e agevole  la
definizione del processo tributario ... finalita' in  se'  del  tutto
legittima anche sotto l'aspetto, non certo secondario,  della  tutela
dei diritti del contribuente»; «la limitazione della sospensione  per
pregiudizialita' del processo tributario rappresenta una  scelta  del
legislatore che, in quanto non lesiva del criterio di ragionevolezza,
si  sottrae  al  sindacato  di  legittimita'   costituzionale»;   «la
possibilita' accordata al contribuente, alla stregua di una  corretta
interpretazione del sistema, di far valere nel processo  pregiudicato
- indipendentemente dal corso e dall'esito del giudizio pregiudiziale
- tutte le sue difese, rende priva di fondamento  la  violazione  ...
del precetto costituzionale di cui all'art. 24, 2° comma, Cost.». 
    L'auspicio  e'  che  le  sezioni  unite  contribuiscano  a   fare
chiarezza in ordine ai rapporti tra le sospensioni necessaria ex art.
295 e discrezionale ex art. 337, 2° comma, del  codice  di  procedura
civile, fornendo una lettura che privilegi l'esigenza  di  assicurare
la ragionevole durata dei processi, limitando  cosi'  «il  dovere  di
sospensione ex art. 295 del codice di procedura civile ai casi in cui
l'accertamento   con   autorita'   di   giudicato   della   questione
pregiudiziale (ovvero la trasformazione in "causa" di una "questione"
pregiudiziale) sia richiesta dalla legge». Una  lettura  che  sarebbe
peraltro in linea con le altre precedenti decisioni  che  le  sezioni
unite hanno offerto in tema di sospensione  del  processo  in  questi
ultimi anni. Restano chiaramente escluse  dal  vaglio  delle  Sezioni
Unite civili quelle ipotesi nelle quali e' la  legge  ad  imporre  la
sospensione necessaria del processo in  corso,  come  quella  imposta
dall'art. 23 della legge n. 87 del 1953, in materia di non  manifesta
infondatezza d'una questione di legittimita'  costituzionale  in  via
incidentale insorta in un processo  civile,  penale,  amministrativo,
contabile o tributario. 
    Non importa, in tal  caso,  se  la  forma  del  provvedimento  di
rimessione sia una «sentenza». 
    Lo confermano: Corte costituzionale,  15  luglio  2010,  n.  256,
pubblicata ed annotata su: 
        1. - Foro amm. CDS 2010, 7-8, 1398 (s.m.); 
        2. - Giur. cost. 2010, 4, 3106. 
 
                               Massima 
 
    Nei giudizi di legittimita' costituzionale degli articoli 30 e 33
decreto del Presidente della  Repubblica  16  maggio  1960,  n.  570,
censurati, in riferimento agli articoli 49 e 51 cost., la circostanza
che la questione sia stata promossa dal giudice «a quo» con  sentenza
e non con ordinanza non ne determina l'inammissibilita',  in  quanto,
posto che nel sollevare la questione, il rimettente  ha  disposto  la
sospensione  del  procedimento  principale  e  la  trasmissione   del
fascicolo alla cancelleria della Corte costituzionale, a  tali  atti,
anche se assunti con la forma di sentenza, deve  essere  riconosciuta
sostanzialmente natura di ordinanza, in conformita' a quanto previsto
dall'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87 (sent. n. 151 del 2009).