IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA 
 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza  di  remissione  alla  Corte
Costituzionale,  emessa  il  12/03/2013  in  ordine  all'istanza   di
differimento della pena ex art. 147 co. 1 n. 2 c.p. presentata da  G.
E. nato a Gela (CL) li' 20/10/73 detenuto presso  la  c.c.  di  Monza
difeso di fiducia dall'avv. Alessandro Maneffa del foro di Milano con
studio ivi in c.so di Porta Romana n. 89  in  espiazione  della  pena
residua di A 12 M 7 G 10 di reclusione di  cui  al  provvedimento  di
cumulo emesso il 23.7.2012 dalla Procura della Repubblica  di  Milano
n. 3333/2012 siep I.P.  22.11.2010  F.P.  2.1.2023  che  regolarmente
citato a comparire dinanzi a questo Tribunale e' comparso all'odierna
udienza del 11.3.2013; 
    che' il P.M. ed il difensore hanno concluso come in atti; 
    Violazione dei principi di cui agli artt. 2, 3,  27  co.  3,  117
Cost.; 
 
                               Osserva 
 
    Dato atto che il condannato ha presentato istanza di differimento
dell'esecuzione della pena ex art.  147  c.  1  n.  2  c.p.  in  data
18.1.2013, non lamentando la sussistenza di patologie di tipo  fisico
di rilevante gravita' o che le stesse non sono  adeguatamente  curate
in carcere, ma che la detenzione si starebbe svolgendo con  modalita'
disumane equiparabili a tortura, in quanto costretto a stare  in  una
cella di circa nove mq dimensionata per due detenuti, mentre vi  sono
sistemate tre persone. 
    Veniva  dedotto  che,  considerando  gli  arredi   della   camera
detentiva e cioe' il letto a castello a due piani, la  terza  branda,
l'armadio per i vestiti, comunque insufficiente per gli indumenti  di
tre persone e che pertanto devono essere sistemati sotto il letto,  i
tre sgabelli non fissati al pavimento, un  tavolino,  delle  cassette
posizionate una sopra l'altra di dimensione 40 per 70 cm che  fungono
da dispensa e un frigorifero con sopra il  televisore,  la  metratura
calpestabile risultava di molto inferiore, tanto che i tre ospiti non
potevano scendere dal letto contemporaneamente; che inoltre  non  era
stata fornita alcuna suppellettile per  posizionare  anche  solo  gli
spazzolini da denti e il  sapone  che  erano  stati  provvisoriamente
sistemati sopra delle  mensoline  costruite  da  loro  stessi  con  i
pacchetti di sigarette incollati al muro; che il bagno e' separato da
una porta, ma non e' arieggiato e pertanto e' maleodorante e  non  e'
fornito di acqua calda; che ai muri vi sono muffe di diversi  colori,
spazio e ampiezza; che il detenuto istante, in  quanto  piu'  giovane
degli altri, deve dormire su una brandina  pieghevole,  troppo  corta
per la sua altezza e sistemata necessariamente sotto  la  finestra  e
dunque deve sopportare gli spifferi d'aria; che i due cancellini sono
anziani e malati e nessuno di loro va all'aria e pertanto la cella e'
sempre occupata e maleodorante. 
    Considerato   che   l'istanza   presentata   al   magistrato   di
sorveglianza in via interinale  ex  art.  684  co.  2  c.p.p.  veniva
respinta in quanto non era stata dedotta la sussistenza di una  grave
patologia  fisica,  cosi'  come  richiesto  dal   dettato   normativo
dell'art. 147 c.p., ma una situazione  di  grave  affollamento  della
camera detentiva per cui lo spazio disponibile per  ciascun  detenuto
era insufficiente tanto da  degradare  la  detenzione  a  trattamento
disumano, ipotesi non prevista dalla norma invocata e  trasmessa  per
competenza a questo Tribunale di Sorveglianza. 
    Questo Tribunale di Sorveglianza, investito dell'istanza  di  cui
sopra, mirante ad ottenere il differimento dell'esecuzione della pena
proprio in ragione delle condizioni di sovraffollamento  del  carcere
di  Monza,  reputandola  non  manifestamente  infondata,   ai   sensi
dell'art.  23  co.3  L.  87/1953  solleva  d'ufficio   questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 147 comma 1 n.  2  c.p.,  nella
parte in cui non prevede l'ipotesi in cui "la pena debba svolgersi in
condizioni contrarie al senso di umanita'",  per  contrasto  con  gli
articoli 27  co.  3,  117  co.  .1  (in  relazione  all'art.  3  CEDU
nell'interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo) e  con  gli
artt. 2 e 3 Cost. 
    In ordine alla rilevanza della questione nel  presente  giudizio,
si osserva  che  il  detenuto  sta  espiando  la  pena  di  A  15  di
reclusione, di cui residua A 12 M 7 G 10 (cui seguira',  se  ritenuta
la pericolosita' sociale,  la  misura  di  sicurezza  della  liberta'
vigilata per A 3) per i reati di cui agli arti 416-bis c.p. (commesso
dal 1997 al 1999 in Caltanissetta), 81 cpv, 630 c.p., 10, 12,  14  L.
497/1974 e art, 7  L.  203/91  (commesso  in  Germania  nel  1998  in
continuazione con i fatti di cui all'art. 416-bis c.p.).  Per  questi
fatti e' stato arrestato il 22.1.2010 e dopo  essere  stato  detenuto
presso la c.c. di Agrigento, e' stato trasferito dal 20.7.2011 presso
la casa circondariale di Monza San  Quirico,  le  cui  condizioni  di
sovraffollamento anche a causa della  inagibilita'  di  alcune  parti
dell'edificio,  sono  note  all'ufficio  e  anche  fatte  oggetto  di
segnalazione al Ministro della Giustizia ex art. 69 O.p. 
    L'Istituto,  cosi'  come  emerge   dalla   articolata   relazione
proveniente dalla Direzione, aperto nel 1992,  comprende  16  sezioni
ordinarie (di cui due inagibili),  ciascuna  composta  da  25  camere
detentive disposte su un lato dello stesso corridoio e previste,  nel
progetto originario, per una sola  persona,  ma  in  cui  sono  state
alloggiate, sin  dall'apertura,  due  persone;  successivamente,  dal
2008, l'elevata presenza di ingressi ha determinato l'utilizzo  della
terza branda di tipo pieghevole, apribile all'occorrenza,  quantomeno
per le sezioni di Alta e Media Sicurezza,  ad  eccezione  dei  locali
adibiti ad Infermeria, Isolamento e Reparto per i detenuti  Protetti.
Invece, la Sezione Osservazione, destinata  ai  detenuti  provenienti
dalla liberta' o da altri Istituti,  prevede  due  letti  per  camera
detentiva e, nel caso di indisponibilita' di posti,  un  materasso  a
terra per ciascuna stanza. 
    Il G. si trova ubicato nella sezione 7 del circuito AS3 ove  sono
presenti 25 stanze, di cui allo stato ne sono occupate solo 12 in cui
sono sistemati complessivamente  35  ristretti  in  quanto  le  altre
risultano inagibili per carenze strutturali dovute  all'infiltrazione
dell'acqua piovana. 
    In tutte le camere detentive vi sono tre detenuti ed e'  presente
la terza branda, ad eccezione di una stanza ove vi sono due  persone.
Al G., cosi' come agli altri due occupanti della camera detentiva, e'
consentito uscire dalla stessa per 4 ore non consecutive per  recarsi
al cortile passeggi e due ore per la socialita' con altri detenuti. 
    Secondo la nota scritta proveniente dalla Direzione della c.c.  e
dal sopralluogo svolto dalla scrivente, la camera detentiva  n.  706,
occupata dal Greco ha le dimensioni di 11 mq  circa,  (3.80  x  2.40)
comprensivi del bagno (composto di lavandino, water  e  bide')  ampio
circa  1  mq,  separato  da  una  porta,  ma  non   arieggiato,   ne'
naturalmente in quanto privo  di  finestra,  ne'  artificialmente  in
quanto privo di ventola. 
    La finestra della camera detentiva e' di  dimensioni  pari  a  m.
1,20 per 1,20 con vetri apribili e  affaccio  all'esterno,  tanto  da
garantire la luce naturale. 
    Lo spazio disponibile per detenuto e' pari  a  mq  3,30  circa  e
dunque di poco superiore al limite minimo considerato "vitale"  dalle
due  pronunce  della  Corte  di  Giustizia  dei   diritti   dell'uomo
(Suljemanovic v. Italia del 16.7.2009 e  Torreggiani  v.  Italia  del
8.1.2013); e' necessario pero' considerare che  tale  spazio  non  e'
quello calpestabile o effettivamente utilizzabile  dai  tre  detenuti
atteso che esso e' occupato anche da vario mobilio  come  un  armadio
grande (H m. 2 e L. cm 80 x 40) e altro armadio piu' piccolo (H. m. 1
e L. cm 40 x 60), che riducono lo spazio. 
    Vi sono poi altre suppellettili come un tavolino,  una  sorta  di
piccola dispensa e il frigorifero con  sopra  la  televisione,  tutti
amovibili nel senso che non sono fissati a terra, anche se non vi  e'
spazio  disponibile  per  un  eventuale  spostamento  o  sistemazione
alternativa ne' nella stanza, ne' nel bagno e  neppure  e'  possibile
rinunciare, ad eccezione del frigorifero, alla dotazione.  La  branda
pieghevole e' di dimensioni standard ed  e'  posizionata  (quando  e'
chiusa) al lato del muro lasciato libero e  non  sotto  il  letto  in
quanto occupato da tre sacchi di vestititi e scarpe. 
    La presenza di tale mobilio di arredo, seppure insufficiente  per
le esigenze di tre persone (tanto che  i  detenuti  hanno  realizzato
delle  rudimentali  mensole  con  pacchetti  di  sigarette  aperti  e
attaccati al muro ove posizionare sapone e spazzolino da denti),  non
puo' essere trascurata al fine di individuare quale e quanto  sia  lo
spazio minimo vitale all'interno della  camera  detentiva,  come  del
resto ricordato anche dalla CEDU nella sentenza Torreggiani, pag.  16
"Cet espace, deja' insuffisant, etait par ailleurs  encore  restreint
par la presence des mobiliers dans les cellules". 
    Rilevato, pertanto che di  fatto,  considerato  l'ingombro  della
limitata mobilia messa a disposizione, lo spazio disponibile  per  il
G. e' di gran lunga inferiore ai 3 mq, mentre, qualora  si  valutasse
lo spazio occupato dal mobilio come disponibile a tutti gli  effetti,
allora sarebbe di poco superiore ai 3 mq in quanto pari a 3.30 mq. 
    Osservato  che,  come  e'  noto,  il  criterio  dello  spazio   a
disposizione per ciascun detenuto e' stato utilizzato dalla Corte  di
Strasburgo  per  individuare  la   ricorrenza,   in   condizioni   di
sovraffollamento  carcerario,   di   un   "trattamento   disumano   e
degradante"; che  tale  trattamento  si  verifica  quando  lo  spazio
disponibile e' pari o inferiore ai 3 mq, circostanza in  cui  ricorre
una violazione "flagrante" dell'art. 3 della Convenzione,  quali  che
siano le altre condizioni di vita detentiva (afferenti in particolare
le ore d'aria disponibili o le ore di  socialita',  l'apertura  delle
porte della cella, la quantita' di luce e  aria  dalle  finestre,  il
regime trattamentale effettivamente praticato in istituto). 
    Considerato, peraltro, che tale limite spaziale e'  inferiore  al
criterio indicato dal Comitato per la  prevenzione  della  tortura  e
delle pene o trattamenti disumani o  degradanti  (Il  CPT,  organismo
istituito in seno al Consiglio d'Europa in virtu'  della  Convenzione
europea per la prevenzione della tortura e delle pene  o  trattamenti
inumani o degradanti, ratificata  dall'Italia  con  Legge  2  gennaio
1989, n. 7) nel 2° Rapporto generale del 13.04.1991  secondo  cui  la
superficie minima "desiderabile" per una cella di detenzione,  doveva
essere di almeno 7 mq. 
    Ritiene, pertanto, il Tribunale  che  secondo  i  principi  sopra
esposti  il  detenuto  stia  subendo  un  trattamento   "disumano   e
degradante" e che, dunque, si pone in tutta evidenza una questione di
compatibilita' della sua detenzione con i principi di non disumanita'
della pena e  di  rispetto  della  dignita'  della  persona  detenuta
sottesi all'applicazione proprio dell'istituto del differimento della
pena che viene invocato dall'interessato. 
    Considerato  che  il  requisito  della   rilevanza,   presupposto
dell'atto di rimessione, implica che la questione dedotta  abbia  nel
procedimento a quo un'incidenza attuale e non meramente  eventuale  e
che deve dunque essere descritta in punto  di  fatto  la  fattispecie
concreta in esame, cui inerisce  la  norma  denunciata,  al  fine  di
consentire alla Corte di valutare se la questione sollevata  presenti
un vero legame con la materia del contendere e dunque se  vi  sia  un
collegamento giuridico fra la norma della  cui  costituzionalita'  si
dubita e la res iudicanda. 
    Ritiene il Tribunale che, nel caso che occupa, la norma impugnata
sia inerente al giudizio a quo ove assume un'incidenza attuale e  non
meramente eventuale. Il richiedente, infatti, invoca  la  sospensione
della pena proprio perche'  questa  e'  ineseguibile  a  causa  delle
condizioni di intollerabile restrizione alla quale e' sottoposto  per
il sovraffollamento dell'istituto, questione rientrante,  per  quanto
meglio si dira' sotto, nell'ambito di applicazione  della  norma  sul
differimento. 
    Appare, dunque opportuno, sempre sotto il profilo della rilevanza
della questione, esporre ancora alcune considerazioni in fatto. 
    Il detenuto non puo' beneficiare allo  stato,  in  considerazione
dei reati commessi, assolutamente ostativi ex art. 4-bis co. 1 O.P. ,
della loro gravita' e del fine pena lontano, di  qualsivoglia  misura
prevista dall'ordinamento per esigenze meramente (o  prevalentemente)
deflattive (come ad  esempio  la  misura  temporanea  dell'esecuzione
della pena al domicilio ex l. n. 199/10, poi modificata dalla  l.  n.
9/2012) o per scopi  di  umanizzazione  o  rieducativi,  che  possano
rivestire come conseguenza, seppur indiretta o  temporanea  (come  ad
esempio nel caso del permesso premio ex art. 30-ter O.P.), quella  di
sottrarre il condannato a carcerazioni degradanti. 
    Non resterebbe, dunque, che ricorrere effettivamente  alla  norma
"di chiusura" - oggi invocata -costituita dal rinvio  dell'esecuzione
ex art. 147 c.p., istituto non a caso previsto dal codice  penale  (e
non   dall'ordinamento   penitenziario)   tra   le   norme   generali
sull'esecuzione della pena. 
    L'istituto costituisce applicazione del principio  costituzionale
di non disumanita' della  pena  di  cui  all'art.  27  e  proprio  in
considerazione di cio' non e' soggetto a  preclusioni  ex  lege,  non
distinguendosi  tra  condannati  recidivi   e   non   recidivi,   tra
delinquenti abituali e non, tra tipi e  durata  della  pena,  essendo
applicabile perfino ai condannati alla pena dell'ergastolo. Tuttavia,
la sua applicazione viene riservata dal legislatore ai soli casi  ivi
elencati, da ritenersi tassativi, in  cui  piu'  evidente  appare  il
contrasto tra il carattere obbligatorio dell'esecuzione di  una  pena
detentiva e il principio di legalita' della stessa cui  e'  speculare
il divieto di trattamenti inumani ex art. 27 co. 3 Cost. 
    In particolare, discende da detto  principio  l'esigenza  che  il
soggetto non venga sottoposto  ad  una  pena  piu'  grave  di  quella
comminata, esigenza che risulterebbe contraddetta se per  particolari
condizioni "fisiche" del soggetto - che la legge  ha  individuato  in
via tassativa  nello  stato  di  gravidanza  o  puerperio,  nell'AIDS
conclamato o in altra malattia particolarmente grave (art. 146 c.p.),
prevedendo  addirittura  in  questi  casi   l'obbligatorieta'   della
sospensione dell'esecuzione della pena, ovvero  nella  condizione  di
madre di prole  di  eta'  inferiore  ad  anni  3  o  nello  stato  di
infermita' fisica "grave" (art. 147 c.p.), rimettendo in tali  ultimi
casi al giudice la  valutazione  caso  per  caso  -  la  carcerazione
incidesse  in  definitiva  non  soltanto  sulla  liberta',  ma  anche
sull'integrita' personale. 
    Del tutto peculiare e' poi l'ipotesi della domanda di grazia,  in
cui non sembra esservi evidenza del contrasto di cui  sopra,  per  la
quale pure e' prevista la sospensione della pena (ma l'esecuzione non
deve essere gia' iniziata e la sospensione e' limitata ad un  massimo
di mesi 6 dall'irrevocabilita' della sentenza) e che  tuttavia  trova
il  suo  fondamento  unicamente  nella   prognosi   favorevole   alla
concedibilita' del beneficio e non a caso era  riservata  in  origine
dall'art. 684 c.p.p., prima della pronuncia  di  incostituzionalita',
al Ministro della  Giustizia  (secondo  l'insegnamento  della  stessa
Corte [v. ordinanza n. 336/1999]. L'istituto  ha  il  suo  fondamento
nella  giusta  preoccupazione  del  legislatore   che,   nelle   more
dell'istruttoria della pratica di grazia, il condannato possa  essere
sottoposto all'esecuzione della pena prima che la sua  istanza  venga
esaminata  e  decisa:  inconveniente,   questo,   che   si   appalesa
particolarmente grave specie nel caso di pene detentive brevi.  Anche
nel caso in esame, il Tribunale di sorveglianza, adito con  l'istanza
indicata in narrativa, e'  chiamato  a  dover  dare  applicazione  al
principio di non disumanita' della pena, ma in una specifica  ipotesi
in cui, pur  ricorrendo  i  parametri  in  fatto  di  un  trattamento
disumano e degradante, cosi come verificati in  casi  analoghi  dalla
costante  giurisprudenza  della  Corte  europea,  tuttavia   non   e'
possibile ricorrere all'istituto del rinvio facoltativo della pena ex
art. 147 c.p. 
    Non risulta integrato,  infatti,  il  presupposto  relativo  alla
sussistenza  della  condizione  di  "grave  infermita'  fisica"  (non
lamentata  dal  detenuto  e  neppure  riscontrata  sulla  base  della
relazione  sanitaria  richiesta  d'ufficio),  che,  nella   ordinaria
giurisprudenza dei Tribunali di Sorveglianza e della  Suprema  Corte,
e' integrata solo da una malattia oggettivamente grave per  la  quale
sia  possibile  fruire,  in   liberta',   di   cure   e   trattamenti
sostanzialmente  piu'  efficaci  di  quelli  assicurati   in   ambito
penitenziario. 
    La disposizione in oggetto, anche in quanto norma  "di  chiusura"
del sistema - ove ogni altra via fosse  preclusa  o  inefficace  ("si
alla actio non erit", proprio come nel caso in esame)-  costituirebbe
invece, se integrata dalla pronuncia qui richiesta, l'unico strumento
di effettiva tutela in sede giurisdizionale  al  fine  di  ricondurre
nell'alveo della legalita' costituzionale l'esecuzione della  pena  a
fronte di  condizioni  detentive  che  si  risolvono  in  trattamenti
disumani e degradanti. 
    Osserva inoltre il Tribunale  che,  da  un  lato  il  trattamento
inumano non potrebbe tollerare una sua indebita  protrazione  e  che,
dall'altro, si deve registrare la  sostanziale  ineffettivita'  della
tutela  riconosciuta  in  subiecta  materia  dagli  attuali   presidi
giuridici a disposizione della magistratura di sorveglianza (v. artt.
35 e 69 legge 26 luglio 1975, n. 354, pur incisi  dalla  sentenza  di
codesta Corte n. 26/1999). 
    L'attuale disciplina legislativa, pur  prevedendo  in  capo  alla
magistratura  di  sorveglianza  qualora  adita  in  sede  di  reclamo
giurisdizionale, la tutela dei diritti dei detenuti, tuttavia, non ha
disposto  qualsivoglia  meccanismo  di  esecuzione  forzata,  con  la
conseguenza di  generare,  non  infrequentemente,  quei  fenomeni  di
ineffettivita' della tutela che sono la negazione del concetto stesso
di giurisdizione. 
    Il  magistrato  di  sorveglianza,  infatti,  qualora  accerti  la
violazione di un diritto del detenuto da  parte  dell'Amministrazione
penitenziaria e ne ordini  la  rimozione,  non  ha,  tuttavia,  alcun
potere  di  intervento  diretto  in  caso   di   inerzia   da   parte
dell'amministrazione stessa. 
    Del resto, e' noto che il monito  rivolto  da  codesta  Corte  al
legislatore con la citata sentenza n. 26/1999, con cui il  Parlamento
veniva invitato a  prevedere  forme  di  tutela  giurisdizionale  nei
confronti degli atti  dell'amministrazione  penitenziaria  lesivi  di
diritti di coloro che sono sottoposti a  restrizione  della  liberta'
personale, e' rimasto inascoltato con la conseguenza  che  la  tutela
dei diritti in capo alla magistratura di  sorveglianza  non  solo  e'
monca, perche' priva dei meccanismi dell'esecuzione forzata, ma  puo'
ritenersi oggi sussistente solo in virtu'  del  diritto  vivente  (v.
Cass., sez. unite n. 25079 del 26.2.2003, Rv. 224603, Gianni). 
    Tale situazione e' stata compresa e  rilevata  anche  dalla  CEDU
nella citata sentenza Torreggiani v/Italia che ha obbligato lo  Stato
italiano a dotarsi di un sistema di efficaci ricorsi 'interni' contro
le violazioni dell'art. 3 della Convenzione, idonei a garantire degli
effettivi rimedi 'preventivi'  e  non  solo  'compensatori'  come  ad
esempio il risarcimento del danno. 
    Nella fattispecie sottoposta all'attenzione di questo  Tribunale,
inoltre, se il ricorrente avesse adito il magistrato di  sorveglianza
ex art. 35 o 69 O.P. non chiedendo il  differimento  dell'esecuzione,
ma  semplicemente   invocando   la   tutela   del   proprio   diritto
all'esecuzione  di  una  pena  non  disumana  e  il  magistrato,   in
accoglimento  del  ricorso,  avesse  ordinato  il  trasferimento  del
ricorrente presso una camera detentiva non sovraffollata, si  sarebbe
verificata la conseguenza che, rendendo conforme al senso di umanita'
l'esecuzione penale nella cella ad quam,  la  pena  sarebbe  divenuta
disumana nella cella a  qua,  nella  quale  subito  l'Amministrazione
avrebbe  allocato  altro  detenuto  per  far  posto   al   ricorrente
vittorioso  nella  prima,  e  cosi'  via.  E'  notoria,  infatti,  la
circostanza che la capienza (sia regolamentare sia tollerabile) degli
istituti di pena italiani e' di gran lunga  inferiore  rispetto  alla
grandezza delle effettive  presenze  e  pertanto  tale  strumento  di
tutela sarebbe comunque rimasto inefficace. 
    L'art. 147 c.p., prevede il rinvio "facoltativo"  dell'esecuzione
della pena rimettendo pertanto la decisione al prudente apprezzamento
del  Tribunale  di  Sorveglianza  che  puo'  da  un  lato  negare  il
provvedimento "se sussiste il concreto pericolo della commissione  di
delitti" e dall'altro, puo' concedere in  sua  vece,  anche  oltre  i
limiti 'edittali' dell'art. 47-ter O.P., la misura  della  detenzione
domiciliare ex art. 47-ter co. 1-ter O.P. (cd. detenzione domiciliare
"in surroga"), stabilendo  un  termine  di  durata  che  puo'  essere
prorogato anche fino al termine della pena. 
    E' rimesso all'autorita' giudiziaria, a differenza  dei  casi  di
differimento 'obbligatorio' (art. 146 c.p.), il congruo bilanciamento
degli  interessi,  da  un  lato  di  non  disumanita'  della  pena  e
dall'altro  di  difesa  sociale   che,   in   casi   di   particolare
pericolosita' del condannato, potrebbe impedire - pur  di  fronte  ad
una rilevante compromissione dell'integrita' personale  del  soggetto
detenuto (o nei confronti della madre di prole inferiore ad anni tre)
- il differimento dell'esecuzione. 
    Cio'  premesso,  osserva  il  Collegio   che   l'istituto   della
sospensione della pena non puo', pero', trovare applicazione nel caso
in esame frapponendosi l'ostacolo giuridico costituito dalla  mancata
previsione,  nella  norma  che   qui   si   intende   denunciare   di
illegittimita' costituzionale, di un'ipotesi di  rinvio  facoltativo,
anche rimesso alla prudente valutazione  dell'autorita'  giudiziaria,
allorche'  ricorrano  gli  estremi  di  un  trattamento  disumano   e
degradante  come  definito   dalla   giurisprudenza   europea   sopra
richiamata. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    Valutata la questione della rilevanza, ritiene il  Tribunale  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
- che solleva d'ufficio - della norma di cui all'art. 147 c.p.  nella
parte in cui non prevede, oltre alle ipotesi espressamente  indicate,
da ritenersi tassative, anche il caso di rinvio dell'esecuzione della
pena quando quest'ultima debba avvenire in  condizioni  contrarie  al
principio di umanita' come sancito dagli artt. 27 co. 3  Cost.  e  17
co. 1 Cost. nella parte in cui, con riferimento a quest'ultima norma,
viene  recepito  l'art.  3  della  Convenzione  europea  sui  diritti
dell'uomo (divieto di trattamenti disumani e degradanti),  ratificata
con legge 4 agosto 1955  n.  848,  interpretata  secondo  i  principi
stabiliti  dalla  Corte  Europea  dei  diritti   dell'uomo   che   ha
individuato i parametri di vivibilita' minima  secondo  i  quali  una
detenzione  puo'  definirsi  'trattamento  inumano   o   degradante'.
Trattasi, infatti, di una norma di jus cogens, che non prevede  alcun
tipo di eccezione o deroga in quanto accorda al diritto di non essere
sottoposti a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti  una
protezione assoluta, non suscettibile di deroga, neppure in  caso  di
guerra o qualora sussista un pericolo pubblico per la  nazione  o  in
caso di lotta al terrorismo o al crimine organizzato, come si  ricava
dall'art. 15 co. 2 CEDU. 
    La norma impone dunque degli obblighi di protezione dei cittadini
a fronte di condotte contrarie all'art. 3 CEDU, sia nel caso  in  cui
le stesse siano commesse da privati, sia  laddove  la  vittima  delle
stesse sia un soggetto "affidato" alla custodia dello Stato nelle sue
varie articolazioni,  come  accade  quando  la  stessa  si  trova  in
carcere. 
    L'attribuzione di pieno valore giuridico alla Carta  dei  diritti
fondamentali dell'uomo (art.  6,  co.  1  TUE  Trattato  di  Lisbona:
"L'Unione riconosce i diritti, le liberta' e i principi sanciti nella
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione  europea  del  7  dicembre
2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo,  che  ha  lo  stesso
valore giuridico dei trattati") e l'adesione  dell'Unione  alla  CEDU
(art. 6, co. 2, TUE: "L'Unione aderisce alla Convenzione europea  per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle  liberta'  fondamentali
[....] I diritti fondamentali, garantiti  dalla  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli
Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto  principi
generali")  determina,  com'e'  noto,  un   vincolo   diretto   negli
ordinamenti interni al rispetto della dignita' e  dei  diritti  delle
persone. E' consentito, dunque, ai giudici nazionali di  invocare  le
nonne sovranazionali - fatte proprie dal Trattato e come interpretate
dalle Supreme Corti - come ulteriori parametri di riferimento  quando
si  faccia  questione  di  diritti  fondamentali.  Le  norme   cc.dd,
"interposte" divengono a loro volta canone di  valutazione  e  dunque
entrano a far parte interamente di uno dei termini della questione di
costituzionalita'. 
    Al divieto costituzionale di trattamenti  contrari  al  senso  di
umanita' fa riscontro  una  disciplina  codicistica  che  non  sembra
prevedere che l'esecuzione della pena detentiva  debba  avvenire  nel
rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo. 
    La norma dell'art. 147  c.p.,  nella  parte  in  cui  esclude  la
propria applicabilita' all'ipotesi qui considerata,  parrebbe  dunque
porsi in contrasto col principio  inviolabile  della  dignita'  della
persona che la Repubblica in ogni caso garantisce a norma dell'art. 2
Cost. e che a sua volta e' presupposto dell'art. 27 Cost. 
    La questione appare rilevante - per quanto sopra  chiarito  nelle
considerazioni in fatto - posto che nel caso  concreto  il  Tribunale
dovrebbe fare applicazione, non potendo ricorrere ad  altro  istituto
giuridico idoneo a ripristinare una situazione di evidente violazione
dei principi di legalita' nell'esecuzione, della norma 'di  chiusura'
sul differimento  facoltativo  dell'esecuzione,  eventualmente  nelle
forme della detenzione domiciliare 'in surroga' e, tuttavia,  non  vi
puo' ricorrere poiche' essa esclude la sua applicazione oltre i  casi
tassativamente previsti. 
    Si osserva che tale norma di per se' sola renderebbe  compatibile
l'esecuzione penale col principio di non disumanita' laddove a  causa
del sovraffollamento dell'istituto ove il condannato e' recluso,  non
venisse assicurato lo spazio minimo vitale e cio'  senza  abdicazione
dell'obbligatorieta' dell'esecuzione del  giudicato,  posto  che  nel
caso di specie potrebbe essere concessa la misura domiciliare. 
    Il Tribunale  non  si  e'  sottratto  dal  percorrere  la  strada
dell'interpretazione conforme a Costituzione prima  di  rimettere  la
questione alla Corte costituzionale poiche'  cio'  costituirebbe  una
rinuncia alla propria indeclinabile finzione ermeneutica. Il  giudice
infatti e'  chiamato  a  ricorrere  all'impugnativa  solo  dopo  aver
verificato,  anche  con   l'ausilio   del   'diritto   vivente',   la
possibilita' di giungere ad una lettura della norma che, nel rispetto
dei comuni canoni ermeneutici, consenta di intenderla in armonia  con
la Costituzione. 
    La disposizione legislativa  in  esame  non  appare  'polisensa',
ipotesi  in  cui  il   principio   dell'interpretazione   adeguatrice
sprigiona tutte le sue potenzialita', ma e'  una  norma  che  prevede
casi tassativi di univoca interpretazione (si veda per  tutte  Cass.,
Sez. 1, 8.05.89 n. 1292), non estensibili in  via  analogica  per  il
divieto di cui all'art.  14  prel.  (norma  eccezionale  alla  regola
generale sull'indefettibilita' dell'esecuzione penale). 
    In particolare, sembra non potersi estendere l'applicazione della
norma oltre l'ipotesi specificamente prevista della 'grave infermita'
fisica' (art. 147 co. 1 n. 2 c.p.), concetto di cui  non  esiste  una
definizione  normativa  e   che   viene   comunemente   intesa,   per
giurisprudenza  consolidata  del  S.C.,  in   senso   particolarmente
rigoroso, tenuto conto del principio di indefettibilita' della pena e
del principio di uguaglianza. Puo' trattarsi  di  una  situazione  di
grave compromissione dell'organismo comportante un serio pericolo per
la vita del condannato ovvero  la  probabilita'  di  altre  rilevanti
conseguenze dannose, oppure dell'esigenza che la  malattia  necessiti
di cure che non si possano facilmente attuare nello stato  detentivo,
ovvero che la malattia sia cosi' grave che,  pur  beneficiando  delle
idonee cure, sia compromessa dallo status detentionis, considerato in
concreto nella  sua  afflittivita',  suscettibile  di  apportare  una
sofferenza aggiuntiva tale da configurare, per cio' solo, la  lesione
del diritto alla salute. 
    Occorre pero' considerare che l'art. 32 della Costituzione tutela
il diritto alla salute in una concezione ampia, comprensivo non  solo
del diritto a ricevere le cure qualora si sia infermi,  ma  anche  di
preservare lo stato di salute in essere (come nel caso  del  detenuto
Greco). 
    Secondo  la  definizione  della  Organizzazione  Mondiale   della
Sanita' e della Conferenza Internazionale della  Sanita'  (New  York,
1946) la salute e': "Uno stato di completo benessere fisico,  mentale
e sociale e non la semplice assenza dello  stato  di  malattia  o  di
infermita'. Il possesso del migliore stato di sanita'  che  si  possa
raggiungere costituisce  uno  dei  diritti  fondamentali  di  ciascun
essere umano, qualunque sia la sua razza, la sua  religione,  le  sue
opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale. I  Governi
hanno la responsabilita' della sanita'  dei  loro  popoli:  essi  per
farvi  parte  devono  prendere  le   misure   sanitarie   e   sociali
appropriate". 
    Per quanto, poi, attiene  alle  condizioni  di  grave  infermita'
psicologica, si osserva  che  per  consolidata  giurisprudenza  della
Suprema Corte eventuali  disturbi  di  natura  psichica  che  non  si
traducano in concreto in grave infermita' fisica non  sono  idonei  a
giustificare il differimento della pena (cfr. Cass. Pen. Sez.  1,  n.
25674 in data 15.04.2004, Rv. 228132, Petruolo; Cass. Pen. Sez. 1, n.
41986 in data 04.10.2005, Rv, 232887, Veneruso; ecc),  posto  che  in
tal caso si imporrebbero le misure di cui all'art. 148 c.p. 
    Pertanto,  pur  nell'alveo  di  una  interpretazione  conforme  a
Costituzione, non e' possibile  ne'  ampliare  in  via  analogica  le
ipotesi di differimento della pena,  ne'  estendere  il  concetto  di
"grave infermita' fisica" fino al punto di ricomprendervi i  casi  di
una compromissione dell'integrita' psicofisica della persona detenuta
che sia conseguenza non di uno stato patologico, ma di una condizione
di detenzione 'inumana' perche' al di sotto dei parametri  minimi  di
spazio disponibile indicati dalla Corte europea. 
    Esposto quanto sopra in tema di ammissibilita' e rilevanza  della
questione, deve ora essere specificato il petitum. 
    Si  invoca  una  pronuncia  'additiva'  cioe'  una  pronuncia  di
accoglimento di incostituzionalita' della nonna nella  parte  in  cui
non  prevede  anche  la  riferita  ipotesi   di   differimento,   non
sussistendo in via interpretativa la possibilita' per il  giudice  di
addivenire alla medesima  soluzione  considerato  il  dato  letterale
della disposizione censurata. 
    Non ignora il Collegio che  la  decisione  di  tipo  additivo  e'
consentita solo quando la  soluzione  adeguatrice  non  debba  essere
frutto di una valutazione discrezionale, ma consegua  necessariamente
al giudizio di legittimita', sicche' la Corte  in  realta'  non  crea
liberamente la norma, ma si  limita  ad  individuare  quella  -  gia'
implicita nel sistema, e magari direttamente ricavabile dalle  stesse
disposizioni costituzionali di cui ha fatto applicazione  -  mediante
la quale riempire immediatamente la lacuna. 
    Il Tribunale e' parimenti  consapevole  che  le  pronunce  cc.dd.
'additive' possono risolversi in un intervento manipolativo  solo  se
'a rima obbligata' (v. da ultimo ordinanza  Corte  Costituzionale  n.
113/12  del  18  aprile  2012),  come  tale  consentito  perche'  non
necessariamente riservato al legislatore. Peraltro, codesta Corte  ha
gia' emesso una sentenza additiva, la n. 113  del  2011  con  cui  ha
dichiarato la «illegittimita' costituzionale dell'art. 630 del codice
di procedura penale, nella parte in cui non prevede un  diverso  caso
di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al  fine
di conseguire la riapertura del processo, quando cio' sia necessario,
ai  sensi  dell'art.  46,  paragrafo  1,  della  Convenzione  per  la
salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, per
conformarsi ad  una  sentenza  definitiva  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo». 
    L'art. 630 c.p.p. e' stato, dunque, dichiarato illegittimo  nella
parte in cui non prevedeva tra le ipotesi di riapertura del processo,
la necessita' di conformarsi ad una decisione di Strasburgo e  dunque
per  violazione  indiretta  dell'art.  117  Cost.  co.  1  e  diretta
dell'art. 46, par. 1, CEDU (ossia dell'obbligo degli Stati membri  di
conformarsi alle sentenze della Cedu). 
    Nel caso di specie, invero, la soluzione  prospettata  (prevedere
il rinvio della pena nei casi di inumano trattamento  come  accertato
secondo i parametri propri dalla Convenzione  dei  diritti  dell'uomo
vincolanti  ex  art.  117  Cost.)  non  e'  solo   una   tra   quelle
astrattamente   ipotizzabili   poiche'   soltanto   la    sospensione
dell'esecuzione della pena detentiva (anche eventualmente nelle forme
della detenzione domiciliare surroga' ex art. 47-ter co. 1-ter O.P.),
rimessa -  come  negli  altri  casi  di  rinvio  facoltativo  -  alla
decisione dell'autorita' giudiziaria,  e'  tale  da  ristabilire  una
condizione di legalita' dell'esecuzione della pena nel caso concreto,
mentre tale effetto non potrebbe direttamente avere, ad  esempio,  un
qualsivoglia provvedimento a carattere  indulgenziale  o  deflattivo,
questo  si'  riservato  al  legislatore,  di   portata   generale   e
applicabile in una pluralita' di casi. 
    Si permette dunque il Collegio di  evidenziare  come  l'addizione
normativa    richiesta    sembri     costituire     una     soluzione
costituzionalmente dovuta che non eccede i poteri di intervento della
Corte  e  non  implica  scelte  affidate  alla  discrezionalita'  del
legislatore perche' incide su una norma cardine di sistema,  prevista
dal  codice  penale,  diretta  a  ricondurre  ai  principi   di   non
disumanita' la pena detentiva ove la legalita' stessa dell'esecuzione
venga messa in discussione da condizioni estreme di  sovraffollamento
carcerario. 
    Sulle  disposizioni  costituzionali  che  si  assumono   violate,
ritiene il Tribunale che la norma in questione si ponga in  contrasto
innanzitutto con  l'art.  27  della  Costituzione  sotto  il  duplice
profilo del divieto di trattamenti contrari al senso  di  umanita'  e
del finalismo rieducativo. 
    Sul punto si osserva la prevalenza in ogni  caso  del  primo  dei
valori affermati rispetto al secondo:  mentre  la  pena  infatti  non
'puo' consistere in un trattamento contrario al  senso  di  umanita',
essa nel contempo 'deve' tendere alla rieducazione del condannato con
cio'  significando  che  mentre  la  finalita'   rieducativa   rimane
nell'ambito del 'dover essere' e quindi su  un  piano  esclusivamente
finalistico ('deontico') - la pena e' legale anche se la rieducazione
verso la quale deve obbligatoriamente tendere non viene  raggiunta  -
viceversa la non disumanita' attiene al suo  essere  medesimo  (piano
'ontico') - la pena e' legale solo se  non  consiste  in  trattamento
contrario al senso di umanita' - di talche' la pena inumana  e'  'non
pena' e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si
svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto
della dignita' del condannato. 
    Non puo' che farsi riferimento, per quanto  qui  interessa,  alla
norma 'interposta' dell'art. 3 della Convenzione europea sui  diritti
dell'uomo cosi' come  interpretata  dalla  Corte  di  Strasburgo  (da
ultimo nella citata sentenza del gennaio  scorso)  che  ritiene  tout
court integrato il carattere disumano e  degradante  del  trattamento
penitenziario laddove alla persona detenuta sia riservato uno  spazio
nella  camera   di   detenzione   inferiore   o   pari   a   mq.   3,
indipendentemente dalle condizioni  di  vita  comunque  garantite  in
istituto  (numero  delle  ore  d'aria  e  di  apertura  delle  porte,
attivita'  scolastiche  o  lavorative,   possibilita'   di   svolgere
attivita' di svago in locali comuni) essendo di  per  se'  violazione
'flagrante' dell'art. 3 uno  spazio  minimo  inferiore  a  quel  dato
numerico. 
    Nelle pronunce la CEDU ricordava inoltre che l'articolo  3  della
Convenzione impone allo Stato di assicurare che tutti  i  prigionieri
siano detenuti  in  condizioni  compatibili  con  il  rispetto  della
dignita' umana,  che  le  modalita'  di  esecuzione  della  pena  non
provochino all'interessato uno sconforto e un malessere di intensita'
tale da eccedere l'inevitabile  livello  di  sofferenza  legato  alla
detenzione e  che,  tenuto  conto  delle  necessita'  pratiche  della
reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in
modo adeguato. 
    La norma qui censurata si pone pertanto in  contrasto  anche  con
l'art. 117 Cost. che impone al legislatore il  rispetto  dei  vincoli
derivanti   dall'ordinamento    comunitario    e    dagli    obblighi
internazionali conseguente al pieno valore giuridico della Carta  dei
diritti fondamentali dell'uomo e all'adesione dell' Unione alla  CEDU
(ex art. 6, co. 1 e 2, TUE). 
    L'art. 27 viene violato anche  sotto  il  profilo  del  finalismo
rieducativo. Ogni pena eseguita in condizioni di 'inumanita' non puo'
mai dispiegare pienamente la sua  finalita'  rieducativa  poiche'  la
restrizione in spazi angusti,  a  ridosso  di  altri  corpi,  produce
invalidazione di tutta la persona e quindi  deresponsabilizzazione  e
rimozione del senso  di  colpa  non  inducendo  nel  condannato  quel
significativo processo modificativo che,  attraverso  il  trattamento
individualizzato, consente l'instaurazione di  una  normale  vita  di
relazione. Sembrerebbe, pertanto che  al  divieto  costituzionale  di
trattamenti contrari  al  senso  di  umanita'  faccia  riscontro  una
disciplina codicistica  impermeabile  all'esigenza  che  l'esecuzione
della  pena  detentiva  debba  avvenire  nel  rispetto  dei   diritti
inviolabili. Sussiste altresi' la violazione dell'art. 2 Cost.  nella
misura in cui la  dignita'  umana,  la  cui  primazia  tra  i  valori
costituzionali pare indiscutibile (art. 3: "tutti i  cittadini  hanno
pari dignita' sociale") - tanto  da  essere  anteposta  nella  stessa
norma addirittura all'eguaglianza ed alla liberta' - e' da intendersi
diritto inviolabile, presupposto dello stesso articolo 27 Cost. 
    Osserva altresi' il Tribunale che  nell'ordinamento  vigente  gli
impedimenti all'effettiva espiazione  della  pena  sono  soltanto  di
carattere individuale riguardando la persona del detenuto  e  non  le
condizioni in cui la pena stessa viene attuata,  non  prendendosi  in
considerazione l'eventualita' che l'esecuzione della  pena  detentiva
non possa essere praticata nel rispetto della legalita'. 
    Osserva infine il  Tribunale,  sotto  un  ulteriore  profilo  che
attiene alla razionalita' giuridica e alla  coerenza  costituzionale,
come non siano mancati precedenti anche in altri  ordinamenti  -  non
sospettabili di insensibilita' alle esigenze di sicurezza - in cui si
sia fatta applicazione proprio dello  strumento  del  differimento  o
della sospensione della pena per  ricondurre  ad  una  situazione  di
legalita' l'esecuzione della pena detentiva in situazioni  di  palese
violazione del divieto di pene crudeli. 
    Il sistema, gia' ampiamente collaudato nei paesi del Nord Europa,
pone il principio inderogabile del limite massimo di  capienza  degli
istituti penitenziari: e' prevista la possibilita', per i reati  meno
gravi e sulla base di una normativa molto stringente, di  evitare  la
detenzione vera e propria fino  a  quando  si  crea  un  posto  negli
istituti penitenziari. Solo allora la pena viene eseguita all'interno
degli istituti. 
    Infatti,  nel  2009,  una  Corte   federale   della   California,
accogliendo i ricorsi di  alcuni  reclusi  contro  le  condizioni  di
detenzione, ha intimato al  governatore  di  ridurre  la  popolazione
carceraria di  un  terzo  entro  due  anni,  in  ossequio  all'ottavo
emendamento della Costituzione statunitense che vieta le pene crudeli
e il 23 maggio del  2011  la  Corte  Suprema  degli  Stati  Uniti  ha
riconosciuto la correttezza della  decisione  della  Corte  Federale,
imponendo al Governatore dello Stato della California  di  rilasciare
migliaia di detenuti (addirittura 46.000 circa) al fine di ridurre al
137,6% il tasso di occupazione degli istituti detentivi. 
    In quello stesso anno,  il  22.2.2011,  la  Corte  Costituzionale
tedesca, stabiliva il principio della superiorita' del  diritto  alla
dignita' della persona rispetto alla esecuzione della pena. La  Corte
aveva imposto come prioritario "l'obbligo della tutela della dignita'
umana" e pertanto "l'obbligo dello Stato di rinunciare immediatamente
all'attuazione della pena nel caso di detenzioni non rispettose della
dignita' umana". 
    Dunque, per scongiurare una detenzione che  in  concreto  risulti
lesiva della dignita' del condannato, riteneva  consentito  ricorrere
alla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva  o,  a  seconda
dei casi, alla provvisoria paralisi dell'ordine di  carcerazione.  Il
caso concreto portato all'esame della Corte  riguardava  un  detenuto
che per circa sei mesi era  stato  costretto  a  dividere  una  cella
comprensiva di servizi igienici di 8 mq per circa 23  ore  al  giorno
con un altro detenuto fumatore. 
    Del resto, anche le regole minime europee approvate dal Consiglio
d'Europa, Raccomandazione R (2006), all'art.  4  sanciscono  che  "la
mancanza di risorse non puo' giustificare condizioni detentive lesive
dei diritti dell'uomo". Per gli Stati non vi e'  soltanto  un  dovere
negativo di non infliggere trattamenti inumani, ma  anche  un  dovere
positivo  di  garantire  che  il  detenuto  non  sia  assoggettato  a
condizioni di vita o trattamenti degradanti. 
    In  definitiva,  per  tali  ragioni  di  contrasto  della   norma
contenuta nell'art. 147 c.p. con gli artt. 27, 117, 2 e  3  Cast.  va
sollevata d'ufficio la questione di illegittimita' costituzionale.