IL TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA Ha pronunciato la seguente ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale, emessa il 12/03/2013 in ordine all'istanza di differimento della pena ex art. 147 co. 1 n. 2 c.p. presentata da G. E. nato a Gela (CL) li' 20/10/73 detenuto presso la c.c. di Monza difeso di fiducia dall'avv. Alessandro Maneffa del foro di Milano con studio ivi in c.so di Porta Romana n. 89 in espiazione della pena residua di A 12 M 7 G 10 di reclusione di cui al provvedimento di cumulo emesso il 23.7.2012 dalla Procura della Repubblica di Milano n. 3333/2012 siep I.P. 22.11.2010 F.P. 2.1.2023 che regolarmente citato a comparire dinanzi a questo Tribunale e' comparso all'odierna udienza del 11.3.2013; che' il P.M. ed il difensore hanno concluso come in atti; Violazione dei principi di cui agli artt. 2, 3, 27 co. 3, 117 Cost.; Osserva Dato atto che il condannato ha presentato istanza di differimento dell'esecuzione della pena ex art. 147 c. 1 n. 2 c.p. in data 18.1.2013, non lamentando la sussistenza di patologie di tipo fisico di rilevante gravita' o che le stesse non sono adeguatamente curate in carcere, ma che la detenzione si starebbe svolgendo con modalita' disumane equiparabili a tortura, in quanto costretto a stare in una cella di circa nove mq dimensionata per due detenuti, mentre vi sono sistemate tre persone. Veniva dedotto che, considerando gli arredi della camera detentiva e cioe' il letto a castello a due piani, la terza branda, l'armadio per i vestiti, comunque insufficiente per gli indumenti di tre persone e che pertanto devono essere sistemati sotto il letto, i tre sgabelli non fissati al pavimento, un tavolino, delle cassette posizionate una sopra l'altra di dimensione 40 per 70 cm che fungono da dispensa e un frigorifero con sopra il televisore, la metratura calpestabile risultava di molto inferiore, tanto che i tre ospiti non potevano scendere dal letto contemporaneamente; che inoltre non era stata fornita alcuna suppellettile per posizionare anche solo gli spazzolini da denti e il sapone che erano stati provvisoriamente sistemati sopra delle mensoline costruite da loro stessi con i pacchetti di sigarette incollati al muro; che il bagno e' separato da una porta, ma non e' arieggiato e pertanto e' maleodorante e non e' fornito di acqua calda; che ai muri vi sono muffe di diversi colori, spazio e ampiezza; che il detenuto istante, in quanto piu' giovane degli altri, deve dormire su una brandina pieghevole, troppo corta per la sua altezza e sistemata necessariamente sotto la finestra e dunque deve sopportare gli spifferi d'aria; che i due cancellini sono anziani e malati e nessuno di loro va all'aria e pertanto la cella e' sempre occupata e maleodorante. Considerato che l'istanza presentata al magistrato di sorveglianza in via interinale ex art. 684 co. 2 c.p.p. veniva respinta in quanto non era stata dedotta la sussistenza di una grave patologia fisica, cosi' come richiesto dal dettato normativo dell'art. 147 c.p., ma una situazione di grave affollamento della camera detentiva per cui lo spazio disponibile per ciascun detenuto era insufficiente tanto da degradare la detenzione a trattamento disumano, ipotesi non prevista dalla norma invocata e trasmessa per competenza a questo Tribunale di Sorveglianza. Questo Tribunale di Sorveglianza, investito dell'istanza di cui sopra, mirante ad ottenere il differimento dell'esecuzione della pena proprio in ragione delle condizioni di sovraffollamento del carcere di Monza, reputandola non manifestamente infondata, ai sensi dell'art. 23 co.3 L. 87/1953 solleva d'ufficio questione di legittimita' costituzionale dell'art. 147 comma 1 n. 2 c.p., nella parte in cui non prevede l'ipotesi in cui "la pena debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanita'", per contrasto con gli articoli 27 co. 3, 117 co. .1 (in relazione all'art. 3 CEDU nell'interpretazione fornitane dalla Corte di Strasburgo) e con gli artt. 2 e 3 Cost. In ordine alla rilevanza della questione nel presente giudizio, si osserva che il detenuto sta espiando la pena di A 15 di reclusione, di cui residua A 12 M 7 G 10 (cui seguira', se ritenuta la pericolosita' sociale, la misura di sicurezza della liberta' vigilata per A 3) per i reati di cui agli arti 416-bis c.p. (commesso dal 1997 al 1999 in Caltanissetta), 81 cpv, 630 c.p., 10, 12, 14 L. 497/1974 e art, 7 L. 203/91 (commesso in Germania nel 1998 in continuazione con i fatti di cui all'art. 416-bis c.p.). Per questi fatti e' stato arrestato il 22.1.2010 e dopo essere stato detenuto presso la c.c. di Agrigento, e' stato trasferito dal 20.7.2011 presso la casa circondariale di Monza San Quirico, le cui condizioni di sovraffollamento anche a causa della inagibilita' di alcune parti dell'edificio, sono note all'ufficio e anche fatte oggetto di segnalazione al Ministro della Giustizia ex art. 69 O.p. L'Istituto, cosi' come emerge dalla articolata relazione proveniente dalla Direzione, aperto nel 1992, comprende 16 sezioni ordinarie (di cui due inagibili), ciascuna composta da 25 camere detentive disposte su un lato dello stesso corridoio e previste, nel progetto originario, per una sola persona, ma in cui sono state alloggiate, sin dall'apertura, due persone; successivamente, dal 2008, l'elevata presenza di ingressi ha determinato l'utilizzo della terza branda di tipo pieghevole, apribile all'occorrenza, quantomeno per le sezioni di Alta e Media Sicurezza, ad eccezione dei locali adibiti ad Infermeria, Isolamento e Reparto per i detenuti Protetti. Invece, la Sezione Osservazione, destinata ai detenuti provenienti dalla liberta' o da altri Istituti, prevede due letti per camera detentiva e, nel caso di indisponibilita' di posti, un materasso a terra per ciascuna stanza. Il G. si trova ubicato nella sezione 7 del circuito AS3 ove sono presenti 25 stanze, di cui allo stato ne sono occupate solo 12 in cui sono sistemati complessivamente 35 ristretti in quanto le altre risultano inagibili per carenze strutturali dovute all'infiltrazione dell'acqua piovana. In tutte le camere detentive vi sono tre detenuti ed e' presente la terza branda, ad eccezione di una stanza ove vi sono due persone. Al G., cosi' come agli altri due occupanti della camera detentiva, e' consentito uscire dalla stessa per 4 ore non consecutive per recarsi al cortile passeggi e due ore per la socialita' con altri detenuti. Secondo la nota scritta proveniente dalla Direzione della c.c. e dal sopralluogo svolto dalla scrivente, la camera detentiva n. 706, occupata dal Greco ha le dimensioni di 11 mq circa, (3.80 x 2.40) comprensivi del bagno (composto di lavandino, water e bide') ampio circa 1 mq, separato da una porta, ma non arieggiato, ne' naturalmente in quanto privo di finestra, ne' artificialmente in quanto privo di ventola. La finestra della camera detentiva e' di dimensioni pari a m. 1,20 per 1,20 con vetri apribili e affaccio all'esterno, tanto da garantire la luce naturale. Lo spazio disponibile per detenuto e' pari a mq 3,30 circa e dunque di poco superiore al limite minimo considerato "vitale" dalle due pronunce della Corte di Giustizia dei diritti dell'uomo (Suljemanovic v. Italia del 16.7.2009 e Torreggiani v. Italia del 8.1.2013); e' necessario pero' considerare che tale spazio non e' quello calpestabile o effettivamente utilizzabile dai tre detenuti atteso che esso e' occupato anche da vario mobilio come un armadio grande (H m. 2 e L. cm 80 x 40) e altro armadio piu' piccolo (H. m. 1 e L. cm 40 x 60), che riducono lo spazio. Vi sono poi altre suppellettili come un tavolino, una sorta di piccola dispensa e il frigorifero con sopra la televisione, tutti amovibili nel senso che non sono fissati a terra, anche se non vi e' spazio disponibile per un eventuale spostamento o sistemazione alternativa ne' nella stanza, ne' nel bagno e neppure e' possibile rinunciare, ad eccezione del frigorifero, alla dotazione. La branda pieghevole e' di dimensioni standard ed e' posizionata (quando e' chiusa) al lato del muro lasciato libero e non sotto il letto in quanto occupato da tre sacchi di vestititi e scarpe. La presenza di tale mobilio di arredo, seppure insufficiente per le esigenze di tre persone (tanto che i detenuti hanno realizzato delle rudimentali mensole con pacchetti di sigarette aperti e attaccati al muro ove posizionare sapone e spazzolino da denti), non puo' essere trascurata al fine di individuare quale e quanto sia lo spazio minimo vitale all'interno della camera detentiva, come del resto ricordato anche dalla CEDU nella sentenza Torreggiani, pag. 16 "Cet espace, deja' insuffisant, etait par ailleurs encore restreint par la presence des mobiliers dans les cellules". Rilevato, pertanto che di fatto, considerato l'ingombro della limitata mobilia messa a disposizione, lo spazio disponibile per il G. e' di gran lunga inferiore ai 3 mq, mentre, qualora si valutasse lo spazio occupato dal mobilio come disponibile a tutti gli effetti, allora sarebbe di poco superiore ai 3 mq in quanto pari a 3.30 mq. Osservato che, come e' noto, il criterio dello spazio a disposizione per ciascun detenuto e' stato utilizzato dalla Corte di Strasburgo per individuare la ricorrenza, in condizioni di sovraffollamento carcerario, di un "trattamento disumano e degradante"; che tale trattamento si verifica quando lo spazio disponibile e' pari o inferiore ai 3 mq, circostanza in cui ricorre una violazione "flagrante" dell'art. 3 della Convenzione, quali che siano le altre condizioni di vita detentiva (afferenti in particolare le ore d'aria disponibili o le ore di socialita', l'apertura delle porte della cella, la quantita' di luce e aria dalle finestre, il regime trattamentale effettivamente praticato in istituto). Considerato, peraltro, che tale limite spaziale e' inferiore al criterio indicato dal Comitato per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti disumani o degradanti (Il CPT, organismo istituito in seno al Consiglio d'Europa in virtu' della Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, ratificata dall'Italia con Legge 2 gennaio 1989, n. 7) nel 2° Rapporto generale del 13.04.1991 secondo cui la superficie minima "desiderabile" per una cella di detenzione, doveva essere di almeno 7 mq. Ritiene, pertanto, il Tribunale che secondo i principi sopra esposti il detenuto stia subendo un trattamento "disumano e degradante" e che, dunque, si pone in tutta evidenza una questione di compatibilita' della sua detenzione con i principi di non disumanita' della pena e di rispetto della dignita' della persona detenuta sottesi all'applicazione proprio dell'istituto del differimento della pena che viene invocato dall'interessato. Considerato che il requisito della rilevanza, presupposto dell'atto di rimessione, implica che la questione dedotta abbia nel procedimento a quo un'incidenza attuale e non meramente eventuale e che deve dunque essere descritta in punto di fatto la fattispecie concreta in esame, cui inerisce la norma denunciata, al fine di consentire alla Corte di valutare se la questione sollevata presenti un vero legame con la materia del contendere e dunque se vi sia un collegamento giuridico fra la norma della cui costituzionalita' si dubita e la res iudicanda. Ritiene il Tribunale che, nel caso che occupa, la norma impugnata sia inerente al giudizio a quo ove assume un'incidenza attuale e non meramente eventuale. Il richiedente, infatti, invoca la sospensione della pena proprio perche' questa e' ineseguibile a causa delle condizioni di intollerabile restrizione alla quale e' sottoposto per il sovraffollamento dell'istituto, questione rientrante, per quanto meglio si dira' sotto, nell'ambito di applicazione della norma sul differimento. Appare, dunque opportuno, sempre sotto il profilo della rilevanza della questione, esporre ancora alcune considerazioni in fatto. Il detenuto non puo' beneficiare allo stato, in considerazione dei reati commessi, assolutamente ostativi ex art. 4-bis co. 1 O.P. , della loro gravita' e del fine pena lontano, di qualsivoglia misura prevista dall'ordinamento per esigenze meramente (o prevalentemente) deflattive (come ad esempio la misura temporanea dell'esecuzione della pena al domicilio ex l. n. 199/10, poi modificata dalla l. n. 9/2012) o per scopi di umanizzazione o rieducativi, che possano rivestire come conseguenza, seppur indiretta o temporanea (come ad esempio nel caso del permesso premio ex art. 30-ter O.P.), quella di sottrarre il condannato a carcerazioni degradanti. Non resterebbe, dunque, che ricorrere effettivamente alla norma "di chiusura" - oggi invocata -costituita dal rinvio dell'esecuzione ex art. 147 c.p., istituto non a caso previsto dal codice penale (e non dall'ordinamento penitenziario) tra le norme generali sull'esecuzione della pena. L'istituto costituisce applicazione del principio costituzionale di non disumanita' della pena di cui all'art. 27 e proprio in considerazione di cio' non e' soggetto a preclusioni ex lege, non distinguendosi tra condannati recidivi e non recidivi, tra delinquenti abituali e non, tra tipi e durata della pena, essendo applicabile perfino ai condannati alla pena dell'ergastolo. Tuttavia, la sua applicazione viene riservata dal legislatore ai soli casi ivi elencati, da ritenersi tassativi, in cui piu' evidente appare il contrasto tra il carattere obbligatorio dell'esecuzione di una pena detentiva e il principio di legalita' della stessa cui e' speculare il divieto di trattamenti inumani ex art. 27 co. 3 Cost. In particolare, discende da detto principio l'esigenza che il soggetto non venga sottoposto ad una pena piu' grave di quella comminata, esigenza che risulterebbe contraddetta se per particolari condizioni "fisiche" del soggetto - che la legge ha individuato in via tassativa nello stato di gravidanza o puerperio, nell'AIDS conclamato o in altra malattia particolarmente grave (art. 146 c.p.), prevedendo addirittura in questi casi l'obbligatorieta' della sospensione dell'esecuzione della pena, ovvero nella condizione di madre di prole di eta' inferiore ad anni 3 o nello stato di infermita' fisica "grave" (art. 147 c.p.), rimettendo in tali ultimi casi al giudice la valutazione caso per caso - la carcerazione incidesse in definitiva non soltanto sulla liberta', ma anche sull'integrita' personale. Del tutto peculiare e' poi l'ipotesi della domanda di grazia, in cui non sembra esservi evidenza del contrasto di cui sopra, per la quale pure e' prevista la sospensione della pena (ma l'esecuzione non deve essere gia' iniziata e la sospensione e' limitata ad un massimo di mesi 6 dall'irrevocabilita' della sentenza) e che tuttavia trova il suo fondamento unicamente nella prognosi favorevole alla concedibilita' del beneficio e non a caso era riservata in origine dall'art. 684 c.p.p., prima della pronuncia di incostituzionalita', al Ministro della Giustizia (secondo l'insegnamento della stessa Corte [v. ordinanza n. 336/1999]. L'istituto ha il suo fondamento nella giusta preoccupazione del legislatore che, nelle more dell'istruttoria della pratica di grazia, il condannato possa essere sottoposto all'esecuzione della pena prima che la sua istanza venga esaminata e decisa: inconveniente, questo, che si appalesa particolarmente grave specie nel caso di pene detentive brevi. Anche nel caso in esame, il Tribunale di sorveglianza, adito con l'istanza indicata in narrativa, e' chiamato a dover dare applicazione al principio di non disumanita' della pena, ma in una specifica ipotesi in cui, pur ricorrendo i parametri in fatto di un trattamento disumano e degradante, cosi come verificati in casi analoghi dalla costante giurisprudenza della Corte europea, tuttavia non e' possibile ricorrere all'istituto del rinvio facoltativo della pena ex art. 147 c.p. Non risulta integrato, infatti, il presupposto relativo alla sussistenza della condizione di "grave infermita' fisica" (non lamentata dal detenuto e neppure riscontrata sulla base della relazione sanitaria richiesta d'ufficio), che, nella ordinaria giurisprudenza dei Tribunali di Sorveglianza e della Suprema Corte, e' integrata solo da una malattia oggettivamente grave per la quale sia possibile fruire, in liberta', di cure e trattamenti sostanzialmente piu' efficaci di quelli assicurati in ambito penitenziario. La disposizione in oggetto, anche in quanto norma "di chiusura" del sistema - ove ogni altra via fosse preclusa o inefficace ("si alla actio non erit", proprio come nel caso in esame)- costituirebbe invece, se integrata dalla pronuncia qui richiesta, l'unico strumento di effettiva tutela in sede giurisdizionale al fine di ricondurre nell'alveo della legalita' costituzionale l'esecuzione della pena a fronte di condizioni detentive che si risolvono in trattamenti disumani e degradanti. Osserva inoltre il Tribunale che, da un lato il trattamento inumano non potrebbe tollerare una sua indebita protrazione e che, dall'altro, si deve registrare la sostanziale ineffettivita' della tutela riconosciuta in subiecta materia dagli attuali presidi giuridici a disposizione della magistratura di sorveglianza (v. artt. 35 e 69 legge 26 luglio 1975, n. 354, pur incisi dalla sentenza di codesta Corte n. 26/1999). L'attuale disciplina legislativa, pur prevedendo in capo alla magistratura di sorveglianza qualora adita in sede di reclamo giurisdizionale, la tutela dei diritti dei detenuti, tuttavia, non ha disposto qualsivoglia meccanismo di esecuzione forzata, con la conseguenza di generare, non infrequentemente, quei fenomeni di ineffettivita' della tutela che sono la negazione del concetto stesso di giurisdizione. Il magistrato di sorveglianza, infatti, qualora accerti la violazione di un diritto del detenuto da parte dell'Amministrazione penitenziaria e ne ordini la rimozione, non ha, tuttavia, alcun potere di intervento diretto in caso di inerzia da parte dell'amministrazione stessa. Del resto, e' noto che il monito rivolto da codesta Corte al legislatore con la citata sentenza n. 26/1999, con cui il Parlamento veniva invitato a prevedere forme di tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della liberta' personale, e' rimasto inascoltato con la conseguenza che la tutela dei diritti in capo alla magistratura di sorveglianza non solo e' monca, perche' priva dei meccanismi dell'esecuzione forzata, ma puo' ritenersi oggi sussistente solo in virtu' del diritto vivente (v. Cass., sez. unite n. 25079 del 26.2.2003, Rv. 224603, Gianni). Tale situazione e' stata compresa e rilevata anche dalla CEDU nella citata sentenza Torreggiani v/Italia che ha obbligato lo Stato italiano a dotarsi di un sistema di efficaci ricorsi 'interni' contro le violazioni dell'art. 3 della Convenzione, idonei a garantire degli effettivi rimedi 'preventivi' e non solo 'compensatori' come ad esempio il risarcimento del danno. Nella fattispecie sottoposta all'attenzione di questo Tribunale, inoltre, se il ricorrente avesse adito il magistrato di sorveglianza ex art. 35 o 69 O.P. non chiedendo il differimento dell'esecuzione, ma semplicemente invocando la tutela del proprio diritto all'esecuzione di una pena non disumana e il magistrato, in accoglimento del ricorso, avesse ordinato il trasferimento del ricorrente presso una camera detentiva non sovraffollata, si sarebbe verificata la conseguenza che, rendendo conforme al senso di umanita' l'esecuzione penale nella cella ad quam, la pena sarebbe divenuta disumana nella cella a qua, nella quale subito l'Amministrazione avrebbe allocato altro detenuto per far posto al ricorrente vittorioso nella prima, e cosi' via. E' notoria, infatti, la circostanza che la capienza (sia regolamentare sia tollerabile) degli istituti di pena italiani e' di gran lunga inferiore rispetto alla grandezza delle effettive presenze e pertanto tale strumento di tutela sarebbe comunque rimasto inefficace. L'art. 147 c.p., prevede il rinvio "facoltativo" dell'esecuzione della pena rimettendo pertanto la decisione al prudente apprezzamento del Tribunale di Sorveglianza che puo' da un lato negare il provvedimento "se sussiste il concreto pericolo della commissione di delitti" e dall'altro, puo' concedere in sua vece, anche oltre i limiti 'edittali' dell'art. 47-ter O.P., la misura della detenzione domiciliare ex art. 47-ter co. 1-ter O.P. (cd. detenzione domiciliare "in surroga"), stabilendo un termine di durata che puo' essere prorogato anche fino al termine della pena. E' rimesso all'autorita' giudiziaria, a differenza dei casi di differimento 'obbligatorio' (art. 146 c.p.), il congruo bilanciamento degli interessi, da un lato di non disumanita' della pena e dall'altro di difesa sociale che, in casi di particolare pericolosita' del condannato, potrebbe impedire - pur di fronte ad una rilevante compromissione dell'integrita' personale del soggetto detenuto (o nei confronti della madre di prole inferiore ad anni tre) - il differimento dell'esecuzione. Cio' premesso, osserva il Collegio che l'istituto della sospensione della pena non puo', pero', trovare applicazione nel caso in esame frapponendosi l'ostacolo giuridico costituito dalla mancata previsione, nella norma che qui si intende denunciare di illegittimita' costituzionale, di un'ipotesi di rinvio facoltativo, anche rimesso alla prudente valutazione dell'autorita' giudiziaria, allorche' ricorrano gli estremi di un trattamento disumano e degradante come definito dalla giurisprudenza europea sopra richiamata. Considerato in diritto Valutata la questione della rilevanza, ritiene il Tribunale non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale - che solleva d'ufficio - della norma di cui all'art. 147 c.p. nella parte in cui non prevede, oltre alle ipotesi espressamente indicate, da ritenersi tassative, anche il caso di rinvio dell'esecuzione della pena quando quest'ultima debba avvenire in condizioni contrarie al principio di umanita' come sancito dagli artt. 27 co. 3 Cost. e 17 co. 1 Cost. nella parte in cui, con riferimento a quest'ultima norma, viene recepito l'art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo (divieto di trattamenti disumani e degradanti), ratificata con legge 4 agosto 1955 n. 848, interpretata secondo i principi stabiliti dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo che ha individuato i parametri di vivibilita' minima secondo i quali una detenzione puo' definirsi 'trattamento inumano o degradante'. Trattasi, infatti, di una norma di jus cogens, che non prevede alcun tipo di eccezione o deroga in quanto accorda al diritto di non essere sottoposti a tortura o a pene o trattamenti inumani o degradanti una protezione assoluta, non suscettibile di deroga, neppure in caso di guerra o qualora sussista un pericolo pubblico per la nazione o in caso di lotta al terrorismo o al crimine organizzato, come si ricava dall'art. 15 co. 2 CEDU. La norma impone dunque degli obblighi di protezione dei cittadini a fronte di condotte contrarie all'art. 3 CEDU, sia nel caso in cui le stesse siano commesse da privati, sia laddove la vittima delle stesse sia un soggetto "affidato" alla custodia dello Stato nelle sue varie articolazioni, come accade quando la stessa si trova in carcere. L'attribuzione di pieno valore giuridico alla Carta dei diritti fondamentali dell'uomo (art. 6, co. 1 TUE Trattato di Lisbona: "L'Unione riconosce i diritti, le liberta' e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000, adottata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati") e l'adesione dell'Unione alla CEDU (art. 6, co. 2, TUE: "L'Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali [....] I diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali") determina, com'e' noto, un vincolo diretto negli ordinamenti interni al rispetto della dignita' e dei diritti delle persone. E' consentito, dunque, ai giudici nazionali di invocare le nonne sovranazionali - fatte proprie dal Trattato e come interpretate dalle Supreme Corti - come ulteriori parametri di riferimento quando si faccia questione di diritti fondamentali. Le norme cc.dd, "interposte" divengono a loro volta canone di valutazione e dunque entrano a far parte interamente di uno dei termini della questione di costituzionalita'. Al divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanita' fa riscontro una disciplina codicistica che non sembra prevedere che l'esecuzione della pena detentiva debba avvenire nel rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo. La norma dell'art. 147 c.p., nella parte in cui esclude la propria applicabilita' all'ipotesi qui considerata, parrebbe dunque porsi in contrasto col principio inviolabile della dignita' della persona che la Repubblica in ogni caso garantisce a norma dell'art. 2 Cost. e che a sua volta e' presupposto dell'art. 27 Cost. La questione appare rilevante - per quanto sopra chiarito nelle considerazioni in fatto - posto che nel caso concreto il Tribunale dovrebbe fare applicazione, non potendo ricorrere ad altro istituto giuridico idoneo a ripristinare una situazione di evidente violazione dei principi di legalita' nell'esecuzione, della norma 'di chiusura' sul differimento facoltativo dell'esecuzione, eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare 'in surroga' e, tuttavia, non vi puo' ricorrere poiche' essa esclude la sua applicazione oltre i casi tassativamente previsti. Si osserva che tale norma di per se' sola renderebbe compatibile l'esecuzione penale col principio di non disumanita' laddove a causa del sovraffollamento dell'istituto ove il condannato e' recluso, non venisse assicurato lo spazio minimo vitale e cio' senza abdicazione dell'obbligatorieta' dell'esecuzione del giudicato, posto che nel caso di specie potrebbe essere concessa la misura domiciliare. Il Tribunale non si e' sottratto dal percorrere la strada dell'interpretazione conforme a Costituzione prima di rimettere la questione alla Corte costituzionale poiche' cio' costituirebbe una rinuncia alla propria indeclinabile finzione ermeneutica. Il giudice infatti e' chiamato a ricorrere all'impugnativa solo dopo aver verificato, anche con l'ausilio del 'diritto vivente', la possibilita' di giungere ad una lettura della norma che, nel rispetto dei comuni canoni ermeneutici, consenta di intenderla in armonia con la Costituzione. La disposizione legislativa in esame non appare 'polisensa', ipotesi in cui il principio dell'interpretazione adeguatrice sprigiona tutte le sue potenzialita', ma e' una norma che prevede casi tassativi di univoca interpretazione (si veda per tutte Cass., Sez. 1, 8.05.89 n. 1292), non estensibili in via analogica per il divieto di cui all'art. 14 prel. (norma eccezionale alla regola generale sull'indefettibilita' dell'esecuzione penale). In particolare, sembra non potersi estendere l'applicazione della norma oltre l'ipotesi specificamente prevista della 'grave infermita' fisica' (art. 147 co. 1 n. 2 c.p.), concetto di cui non esiste una definizione normativa e che viene comunemente intesa, per giurisprudenza consolidata del S.C., in senso particolarmente rigoroso, tenuto conto del principio di indefettibilita' della pena e del principio di uguaglianza. Puo' trattarsi di una situazione di grave compromissione dell'organismo comportante un serio pericolo per la vita del condannato ovvero la probabilita' di altre rilevanti conseguenze dannose, oppure dell'esigenza che la malattia necessiti di cure che non si possano facilmente attuare nello stato detentivo, ovvero che la malattia sia cosi' grave che, pur beneficiando delle idonee cure, sia compromessa dallo status detentionis, considerato in concreto nella sua afflittivita', suscettibile di apportare una sofferenza aggiuntiva tale da configurare, per cio' solo, la lesione del diritto alla salute. Occorre pero' considerare che l'art. 32 della Costituzione tutela il diritto alla salute in una concezione ampia, comprensivo non solo del diritto a ricevere le cure qualora si sia infermi, ma anche di preservare lo stato di salute in essere (come nel caso del detenuto Greco). Secondo la definizione della Organizzazione Mondiale della Sanita' e della Conferenza Internazionale della Sanita' (New York, 1946) la salute e': "Uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia o di infermita'. Il possesso del migliore stato di sanita' che si possa raggiungere costituisce uno dei diritti fondamentali di ciascun essere umano, qualunque sia la sua razza, la sua religione, le sue opinioni politiche, la sua condizione economica e sociale. I Governi hanno la responsabilita' della sanita' dei loro popoli: essi per farvi parte devono prendere le misure sanitarie e sociali appropriate". Per quanto, poi, attiene alle condizioni di grave infermita' psicologica, si osserva che per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte eventuali disturbi di natura psichica che non si traducano in concreto in grave infermita' fisica non sono idonei a giustificare il differimento della pena (cfr. Cass. Pen. Sez. 1, n. 25674 in data 15.04.2004, Rv. 228132, Petruolo; Cass. Pen. Sez. 1, n. 41986 in data 04.10.2005, Rv, 232887, Veneruso; ecc), posto che in tal caso si imporrebbero le misure di cui all'art. 148 c.p. Pertanto, pur nell'alveo di una interpretazione conforme a Costituzione, non e' possibile ne' ampliare in via analogica le ipotesi di differimento della pena, ne' estendere il concetto di "grave infermita' fisica" fino al punto di ricomprendervi i casi di una compromissione dell'integrita' psicofisica della persona detenuta che sia conseguenza non di uno stato patologico, ma di una condizione di detenzione 'inumana' perche' al di sotto dei parametri minimi di spazio disponibile indicati dalla Corte europea. Esposto quanto sopra in tema di ammissibilita' e rilevanza della questione, deve ora essere specificato il petitum. Si invoca una pronuncia 'additiva' cioe' una pronuncia di accoglimento di incostituzionalita' della nonna nella parte in cui non prevede anche la riferita ipotesi di differimento, non sussistendo in via interpretativa la possibilita' per il giudice di addivenire alla medesima soluzione considerato il dato letterale della disposizione censurata. Non ignora il Collegio che la decisione di tipo additivo e' consentita solo quando la soluzione adeguatrice non debba essere frutto di una valutazione discrezionale, ma consegua necessariamente al giudizio di legittimita', sicche' la Corte in realta' non crea liberamente la norma, ma si limita ad individuare quella - gia' implicita nel sistema, e magari direttamente ricavabile dalle stesse disposizioni costituzionali di cui ha fatto applicazione - mediante la quale riempire immediatamente la lacuna. Il Tribunale e' parimenti consapevole che le pronunce cc.dd. 'additive' possono risolversi in un intervento manipolativo solo se 'a rima obbligata' (v. da ultimo ordinanza Corte Costituzionale n. 113/12 del 18 aprile 2012), come tale consentito perche' non necessariamente riservato al legislatore. Peraltro, codesta Corte ha gia' emesso una sentenza additiva, la n. 113 del 2011 con cui ha dichiarato la «illegittimita' costituzionale dell'art. 630 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede un diverso caso di revisione della sentenza o del decreto penale di condanna al fine di conseguire la riapertura del processo, quando cio' sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo». L'art. 630 c.p.p. e' stato, dunque, dichiarato illegittimo nella parte in cui non prevedeva tra le ipotesi di riapertura del processo, la necessita' di conformarsi ad una decisione di Strasburgo e dunque per violazione indiretta dell'art. 117 Cost. co. 1 e diretta dell'art. 46, par. 1, CEDU (ossia dell'obbligo degli Stati membri di conformarsi alle sentenze della Cedu). Nel caso di specie, invero, la soluzione prospettata (prevedere il rinvio della pena nei casi di inumano trattamento come accertato secondo i parametri propri dalla Convenzione dei diritti dell'uomo vincolanti ex art. 117 Cost.) non e' solo una tra quelle astrattamente ipotizzabili poiche' soltanto la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva (anche eventualmente nelle forme della detenzione domiciliare surroga' ex art. 47-ter co. 1-ter O.P.), rimessa - come negli altri casi di rinvio facoltativo - alla decisione dell'autorita' giudiziaria, e' tale da ristabilire una condizione di legalita' dell'esecuzione della pena nel caso concreto, mentre tale effetto non potrebbe direttamente avere, ad esempio, un qualsivoglia provvedimento a carattere indulgenziale o deflattivo, questo si' riservato al legislatore, di portata generale e applicabile in una pluralita' di casi. Si permette dunque il Collegio di evidenziare come l'addizione normativa richiesta sembri costituire una soluzione costituzionalmente dovuta che non eccede i poteri di intervento della Corte e non implica scelte affidate alla discrezionalita' del legislatore perche' incide su una norma cardine di sistema, prevista dal codice penale, diretta a ricondurre ai principi di non disumanita' la pena detentiva ove la legalita' stessa dell'esecuzione venga messa in discussione da condizioni estreme di sovraffollamento carcerario. Sulle disposizioni costituzionali che si assumono violate, ritiene il Tribunale che la norma in questione si ponga in contrasto innanzitutto con l'art. 27 della Costituzione sotto il duplice profilo del divieto di trattamenti contrari al senso di umanita' e del finalismo rieducativo. Sul punto si osserva la prevalenza in ogni caso del primo dei valori affermati rispetto al secondo: mentre la pena infatti non 'puo' consistere in un trattamento contrario al senso di umanita', essa nel contempo 'deve' tendere alla rieducazione del condannato con cio' significando che mentre la finalita' rieducativa rimane nell'ambito del 'dover essere' e quindi su un piano esclusivamente finalistico ('deontico') - la pena e' legale anche se la rieducazione verso la quale deve obbligatoriamente tendere non viene raggiunta - viceversa la non disumanita' attiene al suo essere medesimo (piano 'ontico') - la pena e' legale solo se non consiste in trattamento contrario al senso di umanita' - di talche' la pena inumana e' 'non pena' e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignita' del condannato. Non puo' che farsi riferimento, per quanto qui interessa, alla norma 'interposta' dell'art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell'uomo cosi' come interpretata dalla Corte di Strasburgo (da ultimo nella citata sentenza del gennaio scorso) che ritiene tout court integrato il carattere disumano e degradante del trattamento penitenziario laddove alla persona detenuta sia riservato uno spazio nella camera di detenzione inferiore o pari a mq. 3, indipendentemente dalle condizioni di vita comunque garantite in istituto (numero delle ore d'aria e di apertura delle porte, attivita' scolastiche o lavorative, possibilita' di svolgere attivita' di svago in locali comuni) essendo di per se' violazione 'flagrante' dell'art. 3 uno spazio minimo inferiore a quel dato numerico. Nelle pronunce la CEDU ricordava inoltre che l'articolo 3 della Convenzione impone allo Stato di assicurare che tutti i prigionieri siano detenuti in condizioni compatibili con il rispetto della dignita' umana, che le modalita' di esecuzione della pena non provochino all'interessato uno sconforto e un malessere di intensita' tale da eccedere l'inevitabile livello di sofferenza legato alla detenzione e che, tenuto conto delle necessita' pratiche della reclusione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in modo adeguato. La norma qui censurata si pone pertanto in contrasto anche con l'art. 117 Cost. che impone al legislatore il rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali conseguente al pieno valore giuridico della Carta dei diritti fondamentali dell'uomo e all'adesione dell' Unione alla CEDU (ex art. 6, co. 1 e 2, TUE). L'art. 27 viene violato anche sotto il profilo del finalismo rieducativo. Ogni pena eseguita in condizioni di 'inumanita' non puo' mai dispiegare pienamente la sua finalita' rieducativa poiche' la restrizione in spazi angusti, a ridosso di altri corpi, produce invalidazione di tutta la persona e quindi deresponsabilizzazione e rimozione del senso di colpa non inducendo nel condannato quel significativo processo modificativo che, attraverso il trattamento individualizzato, consente l'instaurazione di una normale vita di relazione. Sembrerebbe, pertanto che al divieto costituzionale di trattamenti contrari al senso di umanita' faccia riscontro una disciplina codicistica impermeabile all'esigenza che l'esecuzione della pena detentiva debba avvenire nel rispetto dei diritti inviolabili. Sussiste altresi' la violazione dell'art. 2 Cost. nella misura in cui la dignita' umana, la cui primazia tra i valori costituzionali pare indiscutibile (art. 3: "tutti i cittadini hanno pari dignita' sociale") - tanto da essere anteposta nella stessa norma addirittura all'eguaglianza ed alla liberta' - e' da intendersi diritto inviolabile, presupposto dello stesso articolo 27 Cost. Osserva altresi' il Tribunale che nell'ordinamento vigente gli impedimenti all'effettiva espiazione della pena sono soltanto di carattere individuale riguardando la persona del detenuto e non le condizioni in cui la pena stessa viene attuata, non prendendosi in considerazione l'eventualita' che l'esecuzione della pena detentiva non possa essere praticata nel rispetto della legalita'. Osserva infine il Tribunale, sotto un ulteriore profilo che attiene alla razionalita' giuridica e alla coerenza costituzionale, come non siano mancati precedenti anche in altri ordinamenti - non sospettabili di insensibilita' alle esigenze di sicurezza - in cui si sia fatta applicazione proprio dello strumento del differimento o della sospensione della pena per ricondurre ad una situazione di legalita' l'esecuzione della pena detentiva in situazioni di palese violazione del divieto di pene crudeli. Il sistema, gia' ampiamente collaudato nei paesi del Nord Europa, pone il principio inderogabile del limite massimo di capienza degli istituti penitenziari: e' prevista la possibilita', per i reati meno gravi e sulla base di una normativa molto stringente, di evitare la detenzione vera e propria fino a quando si crea un posto negli istituti penitenziari. Solo allora la pena viene eseguita all'interno degli istituti. Infatti, nel 2009, una Corte federale della California, accogliendo i ricorsi di alcuni reclusi contro le condizioni di detenzione, ha intimato al governatore di ridurre la popolazione carceraria di un terzo entro due anni, in ossequio all'ottavo emendamento della Costituzione statunitense che vieta le pene crudeli e il 23 maggio del 2011 la Corte Suprema degli Stati Uniti ha riconosciuto la correttezza della decisione della Corte Federale, imponendo al Governatore dello Stato della California di rilasciare migliaia di detenuti (addirittura 46.000 circa) al fine di ridurre al 137,6% il tasso di occupazione degli istituti detentivi. In quello stesso anno, il 22.2.2011, la Corte Costituzionale tedesca, stabiliva il principio della superiorita' del diritto alla dignita' della persona rispetto alla esecuzione della pena. La Corte aveva imposto come prioritario "l'obbligo della tutela della dignita' umana" e pertanto "l'obbligo dello Stato di rinunciare immediatamente all'attuazione della pena nel caso di detenzioni non rispettose della dignita' umana". Dunque, per scongiurare una detenzione che in concreto risulti lesiva della dignita' del condannato, riteneva consentito ricorrere alla sospensione dell'esecuzione della pena detentiva o, a seconda dei casi, alla provvisoria paralisi dell'ordine di carcerazione. Il caso concreto portato all'esame della Corte riguardava un detenuto che per circa sei mesi era stato costretto a dividere una cella comprensiva di servizi igienici di 8 mq per circa 23 ore al giorno con un altro detenuto fumatore. Del resto, anche le regole minime europee approvate dal Consiglio d'Europa, Raccomandazione R (2006), all'art. 4 sanciscono che "la mancanza di risorse non puo' giustificare condizioni detentive lesive dei diritti dell'uomo". Per gli Stati non vi e' soltanto un dovere negativo di non infliggere trattamenti inumani, ma anche un dovere positivo di garantire che il detenuto non sia assoggettato a condizioni di vita o trattamenti degradanti. In definitiva, per tali ragioni di contrasto della norma contenuta nell'art. 147 c.p. con gli artt. 27, 117, 2 e 3 Cast. va sollevata d'ufficio la questione di illegittimita' costituzionale.