IL TRIBUNALE 
 
    Per deliberare sulla domanda di Detenzione  Domiciliare  Speciale
(47-quinquies comma 1 - 1-bis O.P.)  presentata  da  M.  F.,  nata  a
(Nigeria) il 22-06-1972, detenuta presso  la  Casa  Circondariale  di
Firenze - via G. Minervini n. 2/R Firenze con fine  pena  attuale  al
26-02-2019 per le seguenti condanne in cumulo: 
        1) Sentenza N. 2010/40 Reg. Gen., emessa in  data  14-12-2010
da Corte di Assise di Appello Bari, confermata in data 15-01-2010  da
Corte di Assise Bari, definitiva il 29-01-2011, alla pena di  anni  7
di reclusione per i seguenti reati: 
          Reato Capo A: Art 110 C.P., Art. 601 c.  1  C.P.,  Art.  12
D.lvo del 1998 n. 286 
          Reato Capo B: Art 110 C.P., Art. 600 c. 1 2 3 C.P., Art. 12
c. 5 D.lvo del 1998 n. 286 
          Reato Capo F: Art 110 C.P. data consumazione: 01-01-2005  -
luogo: Bari, Art. 3 L. del 1958 n. 75, Art. 7 L. del 1958 n. 75 
        2)  Cumulo  del  21.04.2010  della  Procura  Repubblica   c/o
Tribunale Bari comprendente: 
          Sentenza del 19.11.2003 del Trib. Bari reato art. 385 c.p. 
          Sentenza del 12.02.2004 della Corte Appello Roma reati art.
3 L. n. 75/58 
          Pena determinata in anni 2 mesi 6 di reclusione 
 
                               Osserva 
 
    L'interessata  ha  proposto  istanza  di  detenzione  domiciliare
speciale allegando di essere madre di un figlio di eta' inferiore  ai
dieci anni. 
    In particolare dalla relazione G.O.T.  della  casa  circondariale
"Sollicciano" di Firenze del 17.09.2012 si evince che quando la donna
ha fatto ingresso in carcere aveva con se' I.,  nato  il  09.02.2008,
mentre l'altro figlio, E. era gia' stato affidato dal Tribunale per i
Minorenni di Lecce alla zia paterna residente in Spagna. Su  J.  dopo
che aveva compiuto tre anni, si e' pronunciato  il  Tribunale  per  i
Minorenni di  Firenze  che  ne  disponeva  l'affidamento  ai  servizi
sociali, ma su ricorso della cognata della detenuta la procedura  non
e' stata ancora definita. I. e' quindi in carcere con  la  madre  fin
dall'eta' di un anno e ha tenuto un rapporto affettivo  regolare  con
il padre, per  le  visite  che  questi  compie  in  istituto,  visite
interrotte solo negli ultimi mesi. 
    Lo sviluppo cognitivo e psicofisico del bambino, riferiscono  gli
operatori  dell'area  educativa,  non  ha  risentito  fino  ad   oggi
dell'ambiente di crescita anche per il supporto interno  di  Telefono
Azzurro. 
    I. e' stato poi inserito in una scuola comunale non  lontano  dal
carcere, fatto non visto all'inizio positivamente  dalla  madre,  che
temeva trattarsi di un escamotage per sottrarle  il  figlio,  ma  poi
l'inserimento  e'  stato  possibile  con  l'aiuto   degli   operatori
dell'area  educativa  e  della  responsabile  di  Telefono   Azzurro,
consentendo alla donna di accompagnare al primo giorno di  scuola  il
figlio in virtu' di un permesso di necessita' emesso  dal  Magistrato
di Sorveglianza di Firenze. 
    La ricerca di una soluzione che consentisse alla M. di seguire il
figlio fuori dal circuito carcerario e' stata faticosa ma grazie alle
sinergie  degli  operatori  e'  stato  previsto  un   intervento   di
accoglienza a spese del Comune di Firenze presso "Casa  Speranza"  di
Settignano, finalizzato ad una  prima  osservazione  del  caso  ed  a
favorire  gli  interventi   socio-educativi   nei   confronti   della
condannata e del figlio, per poi  passare  ad  una  seconda  fase  di
individuazione  di   successiva   struttura   a   minore   intensita'
assistenziale sempre a spese del  Comune.  La  soluzione  prospettata
potra' consentire al Tribunale per  i  Minorenni  di  riorientare  la
propria decisione per quanto attiene a I. Agli atti  e'  allegata  la
dichiarazione di disponibilita' del Comune di Firenze. 
    La nota del C.O.S.P.  di  Firenze  del  24.10.2012  con  allegata
analoga nota del 22.09.2012, richiesta ai sensi dell'art. 4-bis comma
2  O.P.  si  esprime  nel  senso  che  non  e'  possibile   escludere
collegamenti della condannata con la criminalita' organizzata, ma  va
rilevato che, come emerge dalle dette note, le forze di  polizia  non
offrono  alcun  elemento  da  cui  possa  desumersi  l'attualita'   e
concretezza  di  rapporti   tra   l'interessata   ed   organizzazioni
criminali, potendosi conseguentemente ritenere  che  la  carcerazione
subita,  ininterrottamente  dall'11.02.2009,  abbia   dissolto   ogni
eventuale legame o contatto con associazioni  delinquenziali  (la  M.
peraltro non e' stata condannata per reati associativi). 
    Nonostante la validita' della soluzione proposta dagli operatori,
soprattutto (se non esclusivamente) per venire incontro alle esigenze
del minore, che in pratica sta crescendo in carcere con la madre  per
i reati da costei commessi,  e  sebbene  non  ricorra  un  attuale  e
concreto pericolo di reiterazione di condotte illecite da parte della
condannata, va rilevato che l'interessata sta espiando la pena  anche
per i delitti di cui agli artt. 600 comma 1, 2, 3 c.p.  e  601  c.p.,
esplicitamente contemplati dall'art. 4-bis comma 1 c.p.  secondo  cui
"le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI,  esclusa
la liberazione anticipata, possono  essere  concessi  ai  detenuti  e
internati ...  solo  nei  casi  in  cui  tali  detenuti  e  internati
collaborino con la giustizia a norma dell'art. 58-ter della  presente
legge". Nel caso in esame  la  detenuta  non  versa  in  tale  ultima
condizione, non risultando accertata,  dal  competente  Tribunale  di
Sorveglianza, una sua collaborazione a  fini  di  Giustizia  ne'  che
ricorrano  le  condizioni  per  un  accertamento  di   collaborazione
impossibile, inesigibile o superflua ai sensi dell'art.  4-bis  comma
1-bis O.P., peraltro non richiesto dall'interessata. 
    La Suprema Corte ha gia' chiaramente  affermato:  "Anche  per  la
misura alternativa della  detenzione  domiciliare  speciale  prevista
dall'art. 47-quinquies della legge 26 luglio 1975 n. 354  (cosiddetto
ordinamento penitenziario) opera il divieto di  concessione  previsto
dalla disposizione dell'art. 4-bis, comma primo, della  stessa  legge
per i condannati per reati  da  essa  contemplati."  (Cass.  Sez.  1,
Sentenza n. 25664 del 13/02/2004 Cc. - dep. 08/06/2004 - Rv. 228131). 
    Nel caso  specifico  poi  non  e'  utilmente  invocabile  nemmeno
l'applicazione del principio del cd. "scorporo", ossia  la  scissione
delle  pene  in  cumulo  per  verificare  se  quelle  che  presentano
carattere di ostativita' siano state integralmente espiate,  in  modo
da potersi valutare  il  venir  meno  degli  effetti  preclusivi  per
l'accesso a benefici penitenziari: la condanna per i  reati  ostativi
e' di anni 7 per cui,  decorrendo  l'esecuzione  della  sanzione  dal
giorno 11.02.2009, l'integrale  espiazione  della  stessa  e'  ancora
lontana. 
    E' evidente come l'applicazione della suesposta normativa  e  dei
suddetti  principi  conduca   alla   reiezione   dell'istanza   della
condannata. 
    Ritiene pero' il Collegio che non sia manifestamente infondato un
profilo di incostituzionalita' della normativa esaminata,  e  che  la
relativa questione sia meritevole di essere sollevata d'ufficio. 
    Va infatti evidenziato che la disciplina di  cui  all'art.  4-bis
O.P., progressivamente inasprita nel tempo dal Legislatore,  risponde
ad una ratio di preclusione all'accesso ai benefici penitenziari  per
categorie di soggetti riconosciuti responsabili di gravi delitti. 
    La norma infatti si pone come barriera alla discrezionalita'  del
Tribunale di Sorveglianza (o del Magistrato di  Sorveglianza,  per  i
procedimenti monocratici) nella valutazione sull'accessibilita' di un
condannato ai benefici penitenziari, ponendo una sorta di presunzione
di pericolosita' in  ragione  della  gravita'  del  fatto  da  questi
commesso, quasi a prescindere del tutto  dall'effettivo  esame  della
personalita' del soggetto e della validita',  o  meno,  del  percorso
trattamentale seguito in carcere. 
    E' merito della Consulta, in primis con  Sentenza  30.12.1997  n.
445 e Sentenza 22.04.1999  n.  137,  aver  nuovamente  confermato  la
centralita', nella decisione sull'accesso  a  benefici  penitenziari,
della verifica del grado di rieducazione  raggiunto  dal  condannato,
sia pur con riferimento al  tempo  anteriore  all'entrata  in  vigore
delle norme che,  di  volta  in  volta,  hanno  inasprito  i  vincoli
dell'art.  4-bis  O.P.  in  esame,  nonche'  aver  escluso   che   le
preclusioni, in  ambito  di  esecuzione  della  pena,  possano  avere
un'applicazione cieca secondo  automatismi  meramente  normativi,  ma
richiedono sempre una lettura costituzionalmente orientata nel  senso
di un  accertamento  in  concreto  dei  progressi  trattamentali  del
detenuto (es. Sent. C. Cost. 189/2010). 
    Cio' nonostante, resta forte la barriera  posta  dall'art.  4-bis
comma 1 O.P. ai benefici penitenziari per quei  delitti,  gravissimi,
ivi contemplati sebbene altrove  (art.  4-bis  comma  1-ter  e  comma
1-quater O.P.) uno specifico approfondimento  "istruttorio"  consente
comunque di sbloccare alcuni istituti (es. affidamento  in  prova  al
servizio sociale, semiliberta', permesso premio) anche se con  alcune
condizioni aggiuntive (es. l'espiazione di un quantum di pena, oppure
l'osservazione intramuraria da parte di una speciale  commissione  ex
art. 80 O.P. per un anno in riferimento ai reati sessuali). 
    La preclusivita' assoluta dei delitti contemplati dall'art. 4-bis
comma 1 O.P. conosce un temperamento solo alla luce di un particolare
comportamento attivo del condannato, ossia la collaborazione  a  fini
di Giustizia che va riconosciuta dal Tribunale  di  Sorveglianza  con
procedura camerale ex art.  58-ter  O.P.  ovvero  al  riconoscimento,
sempre mediante detta procedura camerale, che tale collaborazione  e'
inesigibile, impossibile o irrilevante. 
    Tutto cio' e' sancito nell'ordinamento penitenziario in  tema  di
benefici penitenziari e, specialmente,  in  riferimento  alle  misura
alternative alla detenzione che costituiscono lo strumento principale
per rendere operativo e concreto il principio rieducativo della  pena
di cui all'art. 27 Cost. 
    Secondo tale prospettiva puo'  apparire  quindi  comprensibile  e
ragionevole che il Legislatore, nella sua discrezionalita', individui
categorie di delitti i cui responsabili, in  ragione  della  gravita'
degli stessi, abbiano un percorso piu' complesso ed  impegnativo  per
raggiungere quei benefici che  soggetti  condannati  per  reati  meno
gravi possono conoscere piu' agevolmente. 
    Ma se la struttura fortemente ostativa dell' art. 4-bis  comma  1
O.P. ha una sua ratio se il  thema  decidendum  e'  l'accesso  di  un
detenuto  ad  un  beneficio  penitenziario,  ben  diversa  appare  la
prospettiva se il diritto "ostacolato" e' un altro che poco  o  nulla
ha a che fare con la situazione esecutiva di un condannato. 
    Nel caso in esame, infatti, la detenzione domiciliare speciale di
cui all'art.  47-quinquies  O.P.  costituisce  un  istituto  inserito
ratione  materiae   nell'Ordinamento   Penitenziario   ma   che   ben
difficilmente  e'   accostabile   alle   altre   misure   alternative
contemplate tutte  nel  medesimo  Capo  VI  integralmente  richiamato
dall'art. 4-bis comma 1 O.P. 
    La detenzione domiciliare speciale infatti prescinde da qualsiasi
contenuto  rieducativo  o  trattamentale  e  si  preoccupa  solo   di
ripristinare, dove  possibile,  la  convivenza  tra  madre  e  figli,
consentendo cosi'  alla  prole  di  godere  di  quelle  cure  di  cui
abbisogna per un corretto sviluppo psicofisico. 
    Tale preoccupazione emerge  in  tutta  evidenza  con  la  recente
introduzione del comma 1-bis all'art. 47-quinquies O.P.,  laddove  si
prescrive che "Salvo che nei confronti  delle  madri  condannate  per
taluno dei delitti  indicati  nell'articolo  4-bis,  l'espiazione  di
almeno un terzo della pena o di almeno quindici  anni,  prevista  dal
comma 1 del presente articolo, puo' avvenire presso  un  istituto  di
custodia attenuata per detenute madri  ovvero,  se  non  sussiste  un
concreto pericolo di commissione di  ulteriori  delitti  o  di  fuga,
nella propria abitazione, o in altro luogo di privata dimora,  ovvero
in luogo di cura, assistenza o accoglienza,  al  fine  di  provvedere
alla cura e all'assistenza dei figli. In caso  di  impossibilita'  di
espiare la pena nella propria abitazione o in altro luogo di  privata
dimora, la stessa puo' essere espiata nelle case  famiglia  protette,
ove istituite". E' chiaro che tale integrazione  normativa  e'  stata
voluta dal Legislatore proprio per agevolare ulteriormente  l'accesso
all'istituto giuridico e cio' al fine di meglio tutelare la prole. 
    La "diversita'" teleologica della detenzione domiciliare speciale
e' stata peraltro anche  evidenziata,  sia  pure  incidenter  tantum,
dalla  Suprema  Corte   che,   nell'escludere   l'automatismo   della
preclusione ex art. 58-quater O.P. in caso di revoca della misura  in
argomento, ha sottolineato come  "L'eccezione  alla  regola,  invero,
trova una ragione nella particolarita' dei presupposti  condizionanti
la concessione della  misura  alternativa  de  qua"  (Cass.  Sez.  1,
Sentenza n. 44562 del 2010). 
    La "particolarita' dei presupposti condizionanti  la  concessione
della  misura  alternativa  de  qua"  risiede  invero  proprio  nella
necessita' di garantire al minore di godere del proprio diritto  alla
vita ed al suo sviluppo, diritto  che  ai  sensi  dell'art.  3  della
Convenzione  ONU  sui  diritti   dell'infanzia   e   dell'adolescenza
(Convention on the Rights of  the  Child),  approvata  dall'Assemblea
Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, costituisce uno dei
quattro principi fondamentali del  citato  documento  internazionale,
ossia il cd.  "superiore  interesse",  secondo  cui  in  ogni  legge,
provvedimento, iniziativa pubblica o privata  e  in  ogni  situazione
problematica,  l'interesse  del  bambino/adolescente  deve  avere  la
priorita'. 
    La  stessa  Corte  Costituzionale,  con   Sentenza   n.   31/2012
depositata  il  23.02.2012,  ha  chiaramente  evidenziato  il   rango
costituzionale  del  diritto  alla  tutela  dell'infanzia.  In   tale
pronuncia la Consulta ha sottolineato l'importanza dell'interesse del
figlio minore  a  vivere  e  a  crescere  nell'ambito  della  propria
famiglia, mantenendo  un  rapporto  equilibrato  e  continuativo  con
ciascuno dei  genitori,  dai  quali  ha  diritto  di  ricevere  cura,
educazione ed istruzione:  "Si  tratta  di  un  interesse  complesso,
articolato  in  diverse  situazioni  giuridiche,  che  hanno  trovato
riconoscimento e tutela sia nell'ordinamento  internazionale  sia  in
quello interno". 
    La  Corte  delle  Leggi  ha  ben  rappresentato   le   fonti   di
riferimento:  "la  Convenzione  sui  diritti   del   fanciullo   (per
quest'ultimo dovendosi intendere «ogni essere  umano  avente  un'eta'
inferiore  a  diciotto  anni,  salvo  se  abbia  raggiunto  prima  la
maturita'  in  virtu'  della  legislazione  applicabile»,  ai   sensi
dell'art. 1 della  Convenzione  stessa),  fatta  a  New  York  il  20
novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in  Italia  con  legge  27
maggio 1991, n. 176, dispone nell'art. 3, primo comma, che «In  tutte
le  decisioni  relative  ai  fanciulli,  di  competenza   sia   delle
istituzioni pubbliche o private di assistenza sociale, dei tribunali,
delle  autorita'   amministrative   o   degli   organi   legislativi,
l'interesse superiore del fanciullo deve  essere  una  considerazione
preminente». 
    La Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei  fanciulli,
adottata dal Consiglio d'Europa a  Strasburgo  il  25  gennaio  1996,
ratificata e resa esecutiva con legge  20  marzo  2003,  n.  77,  nel
disciplinare il processo decisionale nei procedimenti riguardanti  un
minore,  detta  le  modalita'  cui   l'autorita'   giudiziaria   deve
conformarsi «prima di giungere  a  qualunque  decisione»,  stabilendo
(tra l'altro) che l'autorita'  stessa  deve  acquisire  «informazioni
sufficienti  al  fine  di  prendere  una   decisione   nell'interesse
superiore del minore». La Carta dei diritti fondamentali  dell'Unione
europea  del  7  dicembre  2000,  adattata  il  12  dicembre  2007  a
Strasburgo, nell'art. 24, comma secondo, prescrive che «In tutti  gli
atti relativi ai minori, siano essi compiuti da autorita' pubbliche o
da istituzioni private, l'interesse superiore del minore deve  essere
considerato preminente»; e  il  comma  terzo  del  medesimo  articolo
aggiunge che «Il  minore  ha  diritto  di  intrattenere  regolarmente
relazioni personali e contatti diretti  con  i  due  genitori,  salvo
qualora cio' sia contrario al suo interesse». 
    Come  si  vede,  nell'ordinamento  internazionale  e'   principio
acquisito che in  ogni  atto  comunque  riguardante  un  minore  deve
tenersi presente il suo  interesse,  considerato  preminente.  E  non
diverso  e'   l'indirizzo   dell'ordinamento   interno,   nel   quale
l'interesse morale e materiale del minore  ha  assunto  carattere  di
piena centralita', specialmente dopo la riforma attuata con legge  19
maggio 1975, n. 151 (Riforma del diritto  di  famiglia),  e  dopo  la
riforma dell'adozione realizzata con la legge 4 maggio 1983,  n.  184
(Disciplina  dell'adozione  e  dell'affidamento  dei  minori),   come
modificata dalla legge 28 marzo 2001, n. 149, cui hanno fatto seguito
una serie di leggi speciali che  hanno  introdotto  forme  di  tutela
sempre piu' incisiva dei diritti del minore." (Sentenza C.  Cost.  n.
31/2012). 
    E' pertanto evidente come non risponda a  ragionevolezza  imporre
tout court alla detenzione domiciliare speciale ex art.  47-quinquies
O.P. i vincoli e le preclusioni che l'art. 4-bis comma 1 O.P. estende
indiscriminatamente a tutte le misure alternative alla detenzione  di
cui al Capo VI dell'Ordinamento Penitenziario, senza tenere in  conto
la diversita' quasi ontologica tra le misure che hanno per  finalita'
il reinserimento sociale del condannato, e quindi si  profilano  come
benefici, e quella invece che tende alla diversa meta  di  proteggere
l'infanzia, consentendo alla prole di eta' inferiore a dieci anni  di
recuperare al piu' presto un normale rapporto di  convivenza  con  la
madre fuori da un ambiente carcerario. 
    Ed invero, pur essendo la norma orientata alla  salvaguardia  del
diritto del figlio a ripristinare il naturale rapporto di  convivenza
con  la  madre,  il  "superiore  interesse"  del   minore,   anziche'
prevalere, sembra cedere il passo innanzi alla pretesa punitiva dello
Stato ed ai  rigori  che  il  Legislatore  ha  inteso  prevedere  per
l'accesso ai  benefici  penitenziari  per  i  responsabili  di  gravi
delitti. 
    Non appare ragionevole addossare sulle fragili spalle del  minore
le  conseguenze  delle  gravi  responsabilita'  penali  della  madre,
tantomeno quelle della di lei scelta di non  collaborare  a  fini  di
Giustizia, ovvero del fatto che la  madre  condannata  non  riesca  a
vedere riconosciuta l'impossibilita', irrilevanza o  superfluita'  di
una propria collaborazione, atteso che infine si trasferirebbero  sul
minore gli esiti  negativi  di  una  scelta  o  di  una  procedimento
giurisdizionale rispetto al quale il piccolo e' del tutto estraneo. 
    La formulazione dell'art. 4-bis  comma  1  O.P.  appare  pertanto
discostarsi  fortemente  dal  principio  del  "superiore   interesse"
dell'infanzia, ponendo in realta'  ostacoli,  in  relazione  all'art.
47-quinquies O.P., non all'accesso da parte  di  un  detenuto  ad  un
beneficio penitenziario ma all'esercizio  di  un  diritto  del  tutto
diverso, quello del minore  a  vivere  e  a  crescere  mantenendo  un
rapporto equilibrato e continuativo con la propria madre, dalla quale
ha diritto di ricevere cura, educazione ed istruzione. 
    Ne',  di  fatto,  la   situazione   pare   ovviabile   attraverso
un'interpretazione della norma costituzionalmente orientata,  che  si
risolverebbe con la mera illegittima  disapplicazione  da  parte  del
Tribunale  di   Sorveglianza   di   una   disposizione   in   realta'
letteralmente chiara e cogente, ne' il presente giudizio puo'  essere
definito  indipendentemente  dalla  risoluzione  della  questione  di
legittimita'  costituzionale,   che   ha   un   carattere   dirimente
sull'accoglimento o meno dell'istanza, atteso che solo  l'ostativita'
dell'art. 4-bis comma 1 O.P. impedisce la possibile concessione della
misura della detenzione domiciliare speciale alla  condannata  ed  il
ripristino di una condizione di vita piu'  adeguata  per  il  di  lei
figlio minore. 
    Alla luce di  quanto  sopra  esposto  non  appare  manifestamente
infondata la questione  di  illegittimita'  costituzionale  dell'art.
4-bis  comma  1  O.P.,  nella  parte  in  cui  estende   la   propria
applicabilita' anche all'art. 47-quinquies O.P., apparendo  porsi  in
contrasto con gli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost., sembrando  detta  norma
irragionevole (e quindi lesiva del  diritto  di  eguaglianza  innanzi
alla Legge) nell'estendere la  sua  operativita'  verso  un  istituto
giuridico che presenta "particolarita' dei presupposti condizionanti"
(Cass. Sez. 1, Sentenza n. 44562 del  2010)  che  non  ne  consentono
l'assimilazione  tout  court  alle  altre  misure  alternative   alla
detenzione, lesiva del diritto di tutela della famiglia come societa'
naturale, lesiva del diritto-dovere dei genitori di educare  i  figli
(e del converso diritto dei figli di essere  educati  dai  genitori),
lesiva  dell'obbligo  di  protezione  ("superiore   interesse")   nei
confronti dell'infanzia.