LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE 
 
    Ha pronunciato  la  seguente  ordinanza  sulla  predetta  istanza
presentata dal contribuente Only Frank S.r.l., con  sede  in  Solofra
(Avellino) alla via Michele Napoli, angolo via Cortine del  Cerro  n.
1, in persona del legale rappresentante Aleide Francesco, difeso  dal
dott. comm. Tommaso Castagna, presso il cui studio  e'  elettivamente
domiciliato in Solofra alla suddetta via Michele Napoli. 
 
                              F a t t o 
 
    La societa' istante, premesso che: 
        in data 10 settembre 2010 la Only Frank  S.r.l.  ha  proposto
ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 111/2010 del 4 febbraio
2010 emanata dalla  Commissione  tributaria  regionale  di  Napoli  -
Sezione n. 2 e che tuttora pende la trattazione della controversia in
cassazione; 
        che in data 30 marzo 2011 l'Agente della riscossione  per  la
Provincia di Avellino  Equitalia  Polis  S.p.a.  (ora  Equitalia  Sud
S.p.a.) ha notificato alla Only Frank S.r.l. la cartella di pagamento
n. 01201220110005599190000, relativa alla iscrizione a ruolo per IVA,
IRAP,  sanzioni  pecuniarie  ed  accessori   per   complessivi   euro
58.874,08, iscrizione discendente dalla suindicata sentenza; 
        che la societa' non ha potuto estinguere il debito, per  cui,
quando l'Agente della  riscossione  procedera'  in  via  coattiva  al
recupero delle somme, rischiera' la  totale  paralisi  della  propria
attivita'  con  ripercussioni  drammatiche  non  solo  sulle  aziende
contoterziste che lavorano a favore di essa Only Frank ma  anche  sul
mantenimento dei posti di lavoro, considerato che  dalle  ultime  due
dichiarazioni dei redditi  si  evincono  chiaramente  le  difficolta'
economiche in cui versa la societa', cosicche' emerge in modo  chiaro
ed indiscutibile che dall'esecuzione potra' derivare danno  grave  ed
irreparabile alla contribuente; 
        che, vieppiu', la  stessa  incertezza  e  complessita'  delle
questioni sorte a seguio dei rilievi dell'Agenzia -  con  particolare
riferimento all'eccezione relativa ai finanziamenti soci infruttiferi
- e' stata riconosciuta dalla stessa Commissione tributaria regionale
- Sezione n. 2; 
        tutto quanto sopra premesso, il ricorrente ha chiesto in data
29 maggio 2012, con trattazione in pubblica udienza,  la  sospensione
dell'esecuzione, depositando a  corredo  documenti  e  giurisprudenza
della Corte di Cassazione (sentenza n. 2845 del 24 febbraio 2012), al
fine di ottenere, in pendenza del ricorso per cassazione e  ai  sensi
degli artt. 47, 49 e 61  del  d.lgs.  n.  546/1992  e  dell'art.  373
c.p.c., la sospensione della esecuzione della menzionata sentenza  n.
111/2010 e, in uno, dell'atto esecutivo dalla stessa confermato. 
    Nella pubblica udienza del 31 gennaio  2013  il  difensore  della
societa', dott. Tommaso Castagna, ha altresi' precisato che, in  caso
di  inizio  dell'esecuzione,  vi  e'  serio  pericolo   di   chiusura
dell'attivita' conciaria della societa', con  consequenziale  perdita
del posto di lavoro da parte di 16 dipendenti, nonche' e di altre  32
persone attualmente in forza a quattro ditte legate da  contratto  in
via esclusiva con la Only Frank S.r.l.; infine  ha  aggiunto  che  lo
stato di grave difficolta' economica  della  Only  Frank  S.r.l.  era
testimoniato dalla comunicazione della Banca Popolare di Sviluppo del
13 dicembre 2012 di revoca del fido bancario. 
    L'ufficio  si   e'   riportato   ai   propri   atti   opponendosi
all'accoglimento della richiesta di sospensione, per essere la stessa
inammissibile nei gradi del processo successivi al primo. 
    La Commissione si e' riservata. 
 
                            D i r i t t o 
 
    1.  -  Questo  Collegio,   sciogliendo   la   riserva   formulata
all'udienza di discussione sulla suddetta richiesta  di  sospensione,
osserva che, alla luce degli articoli 49  d.lgs.  n.  46/1992  e  373
c.p.c., sussisterebbero nella specie i presupposti (fumus boni  iuris
e periculum in mora) per l'accoglimento dell'istanza  di  sospensione
della efficacia della suindicata sentenza, la quale,  accogliendo  la
tesi dell'appellante  Agenzia  delle  entrate,  ha  reso  applicabile
l'art. 68, comma 1, d.lgs. n. 546/1992, ossia esperibile in  concreto
la fase di esecuzione della cartella di pagamento. 
    Ed invero, circa il requisito del fumus  boni  iuris,  si  rileva
dagli atti che la sentenza ha  accolto  solo  parzialmente  l'appello
dell'Agenzia delle entrate contro la sentenza n. 32 del 31 marzo 2008
della  Commissione  tributaria  provinciale  di   Avellino,   ed   in
particolare, affrontando con motivazione analitica i  cinque  rilievi
mossi  dall'Ufficio  nei  confronti  della  Only  Frank,  non  ne  ha
condiviso ben 3, e precisamente il secondo, il quarto e il quinto; ha
condiviso, invece, il  primo  e  il  terzo,  ma,  soffermandosi,  con
riguardo al rilievo n. 1, sulla valutazione delle  tesi  contrapposte
relative alla sussistenza o meno di un finanziamento dei soci  -  che
secondo la tesi dell'Agenzia non era comprovato, con  la  conseguenza
di doversi considerare  come  ricavi  le  somme  in  questione  -  la
sentenza stessa ha finito per fondarsi soltanto  su  una  presunzione
semplice, in base alla quale ha espresso  un  convincimento  conforme
alla  tesi  dell'Ufficio,  ossia  quella  del  ricavo   e   non   del
finanziamento. Poiche' tuttavia la motivazione non appare  dotata  di
una tale robustezza che la  renda  inattaccabile  in  cassazione,  in
quanto nella lettura della sentenza, come ben osserva la difesa della
ricorrente,  e'  insita  la  consapevolezza  della   complessita'   e
incertezza della situazione probatoria, la  contrapposta  tesi  della
contribuente societa' - trattarsi di somme derivanti da finanziamento
dei soci - acquista il cosiddetto requisito dell'apparenza  del  buon
diritto (appunto il c.d. fumus boni iuris) nella visione  prospettica
di un risultato del controllo logico della motivazione da parte della
Cassazione che risulti favorevole alla Only Frank. Inoltre, in ordine
al rilievo n. 3, la sentenza impugnata trova ancora fondamento su una
presunzione semplice, secondo cui i  costi  inerenti  al  consumo  di
caffe' ecc., non essendo inerenti all'attivita' esercitata, sarebbero
stati legittimamente recuperati a tassazione per mancanza della prova
contraria che il caffe' ed altro fossero consumati all'interno  dello
stabilimento produttivo. Anche qui non puo'  negarsi  la  sussistenza
del fumus boni iuris nell'ipotizzare  un  controllo  di  legittimita'
della Cassazione che trovi di per se' scarna  sul  punto  -  come  in
verita' appare - la motivazione della sentenza pronunciata  in  grado
di appello e la sovverta. 
    Circa il requisito  del  periculum  in  mora,  sono  evidenti  la
gravita' del danno che deriverebbe dalla messa  in  esecuzione  della
cartella di pagamento e  la  sua  irreparabilita'.  Premesso  che  e'
notoria la crisi delle imprese conciarie operanti  nel  solofrano,  e
che, in particolare, risulta dai bilanci e  dalle  dichiarazioni  dei
redditi in atti la notevole difficolta' economica  in  cui  versa  la
Only Frank, il  pagamento  coatto  in  sede  esecutiva  del  notevole
importo iscritto a ruolo (euro 58.874,08)  porrebbe  la  conceria  in
condizioni di non poter lavorare, con ripercussioni drammatiche anche
per  le  aziende  contoterziste  che  lavorano  a  suo  favore,   con
conseguente rischio di licenziamento di numerosi lavoratori. 
    Tuttavia,  nonostante  la   sussistenza   dei   due   presupposti
anzidetti, il giudice tributario non puo', secondo la  giurisprudenza
dominante, somministrare giustizia in sede cautelare. 
    Infatti,  l'art.  l,  comma  2,  del  d.lgs.  n.  546/1992  rende
applicabile nel processo tributario le norme del Codice di  procedura
civile; ma soltanto per quanto non espressamente previsto dalle norme
speciali del contenzioso e nei limiti della compatibilita' con  esse.
L'art. 47 d.lgs. citato, dettato per  il  giudizio  di  primo  grado,
prevede un potere  urgente  presidenziale  ed  un  potere  collegiale
ordinario di sospensiva dell'atto impositivo o esecutivo oggetto  del
ricorso introduttivo del giudizio; ma la previsione  deve  intendersi
come limitata al primo grado, stante  anche  la  previsione  del  suo
comma 7 che fa cessare al momento della pubblicazione della  sentenza
di prime cure gli effetti di una sospensione eventualmente  concessa.
A conforto di tale gia' chiara interpretazione, l'art.  47-bis  dello
stesso d.lgs., introdotto dal d.-l. n. 59/2008, convertito  in  legge
n. 101/2008, e' intervenuto a disciplinare, ma con  finalita'  ancora
piu' restrittive, la sospensione di atti volti al recupero  di  aiuti
di Stato, imponendo in tal caso  un'accelerazione  della  definizione
delle controversie tributarie  quando  in  esse  siano  stati  emessi
provvedimenti di sospensione. Anche  la  ratio  dell'art.  47-bis  e'
quindi quella di limitare e non gia' di ampliare il potere sospensivo
dei  giudici  tributari  nelle  relative  controversie  di  interesse
comunitario.  L'art.  61  d.lgs.  n.  546/1992   dispone   che   «nel
procedimento di appello si osservano in quanto applicabili  le  norme
dettate  per  il  procedimento  di   primo   grado,   se   non   sono
incompatibili», sicche' esso  sembrerebbe  consentire  l'applicazione
dell'art. 47 cit. recante  il  potere  di  sospensiva,  ma  la  norma
speciale di cui all'art. 49, comma 1, stesso d.lgs., nella sua  parte
finale contiene l'inciso «escluso l'art. 337  c.p.c.».  Di  fronte  a
tali  formulazioni  legislative,  una  parte   della   giurisprudenza
sostiene che l'art. 337 c.p.c., nel disporre che  l'esecuzione  della
sentenza di primo grado e dell'atto impositivo  non  e'  sospesa  per
effetto della sua impugnazione, fa salve una serie di  situazioni  in
cui la sospensione della sentenza e' invece consentita; fra le  quali
l'art. 283 c.p.c., per la sospensione in appello in caso di «gravi  e
fondati motivi» e l'art. 373 c.p.c. per  la  sospensione  durante  il
gravame in cassazione, in caso di «grave e irreparabile danno». Altra
parte  della  giurisprudenza,  assolutamente  prevalente,  interpreta
l'art. 49 nel senso che esso non consente l'applicazione nel processo
tributario ne' dell'art. 337 c.p.c., ne' delle disposizioni  in  esso
richiamate di cui agli artt. 283 e 373 c.p.c. Per  tali  ragioni  non
sarebbe condivisibile quella giurisprudenza minoritaria di merito che
sostiene l'applicabilita' dell'art. 373 c.p.c. 
    Questo Collegio, de iure condito, ritenendo di dover aderire,  in
ragione di una piu' fedele applicazione  delle  regole  ermeneutiche,
alla giurisprudenza  dominante,  contraria  all'applicabilita'  degli
artt. 283 e 373 c.p.c., richiamati dall'art. 337 c.p.c., non puo' che
prendere atto  dell'assoluta  esclusione  del  potere  sospensivo,  e
pertanto solleva questione  di  costituzionalita'  circa  l'eccessiva
rigidita' di tale  categorica  esclusione,  entro  i  limiti  e  alle
condizioni infraspecificati. 
    2. - In ordine alla non manifesta infondatezza della questione. 
    Questo Collegio ritiene non manifestamente infondata la questione
di  legittimita'  costituzionale  dell'art.  49  d.lgs.  n.  546/1992
limitatamente  alla  parte  in  cui  tale  norma   non   prevede   la
possibilita' di sospensione della efficacia esecutiva della  sentenza
di primo grado e di quella di secondo  grado,  e  dei  consequenziali
atti  impositivi  che  sono  stati  oggetto  della  loro  cognizione,
rispettivamente in presenza di «gravi e fondati motivi» (ex art.  283
c.p.c.)  o  «qualora   dall'esecuzione   possa   derivare   grave   e
irreparabile danno» (ex art. 373 c.p.c.), allorche' dalla  esecuzione
possa derivare pregiudizio ai diritti inviolabili  dell'uomo  di  cui
agli artt. 2 e 4 della Costituzione, ai  diritti  riconosciuti  dalla
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950,  ratificata
in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848. 
    E' bene a questo punto, prima di  inoltrarsi  nell'analisi  della
questione  di  legittimita'  costituzionale  come  prospettata,   che
all'attenzione della Consulta non sono stati mai indicati i  suddetti
profili, tranne quello che, tramite  l'art.  10  della  nostra  Carta
Costituzionale, si richiama alla Convenzione europea. 
    Ed infatti, l'ordinanza della  Commissione  tributaria  regionale
per la Campania del 13 ottobre 2009, che ha dato luogo alla ben  nota
sentenza interpretativa di rigetto della  Consulta  n.  217/2010,  ha
ritenuto di ravvisare il contrasto dell'art. 49  d.lgs.  n.  546/1992
con gli artt. 3, 10, 23, 24, 111 e 113 della Costituzione.  La  Corte
ha ritenuto inammissibile  la  questione  per  tre  distinti  motivi.
Secondo il primo motivo, la Consulta, pur rilevando che il giudice di
merito remittente «non ha esperito alcun tentativo di interpretare la
disposizione censurata nel senso che essa consenta l'applicazione  al
processo tributario della sospensione  cautelare  prevista  dall'art.
373 c.p.c., con conseguente insussistenza del  prospettato  contrasto
con gli evocati parametri costituzionali», ha ritenuto di scindere in
una regola ed in una eccezione il contenuto normativo degli artt. 337
e 373 c.p.c. La regola e'  che  ne'  l'appello  ne'  il  ricorso  per
cassazione  sospendono   l'esecuzione   della   sentenza   impugnata;
l'eccezione e' che, sia  pure  in  presenza  di  diverse  condizioni,
l'efficacia esecutiva della sentenza impugnata sarebbe  sospendibile,
in quanto - questo e' il  cardine  dell'interpretazione  della  Corte
costituzionale - l'art. 49 del  processo  tributario,  nell'escludere
l'applicabilita' sia dell'art. 337 che dell'art. 373 c.p.c.,  avrebbe
inteso escludere l'applicabilita' della  regola  contenuta  nell'art.
337  («L'esecuzione  della  sentenza  non  e'  sospesa  per   effetto
dell'impugnazione  di  essa»),  ma  non  dell'eccezione  («salve   le
disposizioni degli artt. 283, 373 ...»), cosicche' le due  eccezioni,
quella prevista dall'art. 283 con riferimento alla sentenza di  primo
grado e quella prevista dall'art. 373  c.p.c.  con  riferimento  alla
sentenza pronunciata in grado di appello, rimaste in piedi, sarebbero
applicabili al processo tributario,  sempre  che  sussistano  le  due
rispettive condizioni («gravi e fondati motivi» per poter  sospendere
la efficacia esecutiva della sentenza di primo  grado,  «pericolo  di
grave  ed  irreparabile  danno»  per  poter  sospendere   l'efficacia
esecutiva della sentenza pronunciata da giudice di appello). 
    Orbene, oltre a non potersi  sottacere  la  singolarita'  di  una
interpretazione  che  ha  operato  una  scissione  di  un   contenuto
normativo chiaramente concepito unitariamente e  monoliticamente  dal
legislatore in vista del pubblico interesse, superfluo da esplicitare
in questa sede ma su cui, comunque, la Consulta, essendosi fermata ad
una  esegesi  letterale  delle  norme,  non  ha  avuto  occasione  di
motivare, balza agli occhi con evidenza ed immediatezza  un  rilievo:
se,  come  afferma  la  Corte  costituzionale,  l'art.   49   esclude
l'applicabilita' della regola di  cui  all'art.  337  c.p.c.  (cioe':
«l'impugnazione della sentenza  non  sospende  l'efficacia  esecutiva
della stessa»), ne risulterebbe la contraria lettura: «l'impugnazione
della sentenza sospende l'efficacia  esecutiva  della  stessa»),  con
conseguente risoluzione di ogni problema. Questo Collegio non  riesce
a credere che la sentenza n. 217/2010 sia intenzionalmente  pervenuta
ad una soluzione cosi' abnorme. Si limita ad  evidenziare,  tuttavia,
le insidie cui si va incontro  nell'imboccare  le  strettoie  di  una
ermeneutica fondata su sottili distinguo, nel momento stesso  in  cui
ritiene piu' sicura l'applicazione di un principio  piu'  semplice  e
saldo: «in claris non fit interpretatio». 
    E' per tale motivo di fondo che  questo  giudice,  non  vincolato
dalla decisione interpretativa di  rigetto  e  affrancato  dall'esame
degli altri due motivi di inammissibilita' contenuti  nella  sentenza
n. 217/2010 (che peraltro accedono al merito delle questioni di fatto
insorte in quel diverso procedimento) ritiene di non  poter  esperire
il tentativo di una interpretazione dell'art.  49  costituzionalmente
orientata  nel  senso  suggerito   dalla   Consulta,   neppure   dopo
l'emanazione di sentenze recenti della  Corte  di  Cassazione  (Cass.
Sez. V, 18 gennaio 2012, n. 2845, Presidente Antonio Merone, relatore
Cons. Raffaele Botta, che non  contiene,  in  verita',  alcun  motivo
nuovo ma riporta, testualmente, le stesse parole  della  sentenza  n.
217/2010), ne' ravvisa, infine, altre possibili  interpretazioni  che
escludano, nel citato art. 49,  la  preclusione  di  ogni  sospensiva
dell'atto impositivo dopo la sentenza di  primo  grado.  E  cio'  non
prima di aver  considerato  che,  secondo  l'opinione  unanime  della
migliore  dottrina,  le  sentenze  interpretative  di  rigetto  o  di
inammissibilita' della Corte costituzionale, se vincolano in  qualche
misura il giudice a quo remittente,  che  pur  tuttavia  conserva  la
facolta'  di  sollevare  una  nuova   questione   di   illegittimita'
costituzionale sotto un diverso profilo, non hanno  forza  vincolante
in procedimenti diversi da quello per cui e' avvenuta la rimessione e
nei  confronti  di  altri  giudici,  soggetti  in  base  alla  stessa
Costituzione soltanto alla legge, anche  se  esercitano  su  tutti  i
soggetti dell'ordinamento una indubbia «autorita' morale»,  derivante
anche dalla funzione di «alta  politica  giudiziaria»  affidata  alla
Consulta. Ne consegue la  necessita'  di  investire  di  nuovo  della
questione il Giudice delle leggi  sotto  profili  diversi  da  quelli
finora ad esso sottoposti. 
    Il primo e principale profilo e' quello del contrasto della norma
di cui al citato art. 49 con l'art. 2 della Costituzione.  Questa  e'
certamente una norma di fondamentale importanza,  destinata  per  sua
natura a costituire un «diritto vivente» dai contenuti  variabili,  i
quali affondano le loro radici nei periodi storici in cui all'uomo e'
stato  riconosciuto  in  misura  sempre  maggiore   il   diritto   ad
un'esistenza libera e dignitosa. Basti  pensare  a  quante  conquiste
sono  state  compiute  a  partire   dal   Medioevo,   attraverso   il
Rinascimento, la Rivoluzione francese, fino ad arrivare  alla  nostra
Carta costituzionale, nonche'  alla  Convenzione  europea  emanata  a
salvaguardia,  appunto,  dei  diritti  dell'uomo  e  delle   liberta'
fondamentali.  La  individuazione  degli  stessi  e'   una   delicata
operazione giuridica affidata alla preparazione, alla cultura e  alla
prudenza  del  giudice,  il  quale  certamente   sapra'   discernere,
nell'ampia ed importantissima categoria indicata  nell'art.  2  della
Costituzione, i diritti inviolabili dell'uomo che lo Stato «riconosce
e garantisce» nel certo momento storico  in  cui  sara'  chiamato  ad
attuare nel processo la tutela cautelare. 
    A quel punto l'interprete dovra'  necessariamente  giungere  alla
conclusione che lo Stato, lo Stato Fiscale, pur  essendo  tenuto  per
precetto costituzionale (art. 53) ad imporre ai  cittadini  (peraltro
investiti dallo stesso art. 2 di doveri di solidarieta'  sociale)  il
contributo alle spese di  organizzazione  della  societa'  nazionale,
deve arrestarsi allorche' l'esercizio del suo potere impositivo nella
fase esecutiva potrebbe sacrificare «i diritti inviolabili  dell'uomo
sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua
personalita'». Ed e' allora, quando anche  una  valutazione  rigorosa
dei requisiti del fumus boni iuris e del periculum in mora (auspicata
dalla citata sentenza n. 2845/2012 della Cassazione)  gli  consentono
di accogliere l'istanza del  contribuente  di  sospensione  dell'atto
impugnato, che ravvisera'  nell'art.  49  un  ostacolo  normativo  in
contrasto con l'art. 2 della Costituzione. 
    I  diritti  inviolabili  dell'uomo  sono  certamente  in   numero
ristretto,  al  pari  delle  liberta'  fondamentali  garantite  dalla
Convenzione  europea  tramite   l'art.   10   della   nostra   stessa
Costituzione. Ad essi va  equiparato,  ai  fini  che  ne  occupa,  il
diritto al lavoro, in relazione al quale, benche' l'art. 4 Cost.  non
abbia corredato il verbo «riconosce» del «garantisce» di cui all'art.
2, comunque e' evidente che ne  e'  riaffermata  la  preesistenza  in
testa all'uomo all'atto della costituzione dello Stato, e che il  suo
sacrificio priverebbe il cittadino dei mezzi di sostentamento in  una
societa' che l'art. 1 della Carta  costituzionale  proclama  «fondata
sul lavoro». 
    A  questo  punto,  per  una  maggiore  efficacia  espositiva,  il
Collegio intende soffermare e  richiamare  l'attenzione,  nell'ambito
dei diritti inviolabili, sul fondamentale  diritto  di  liberta',  ai
fini di una correlazione che ritiene opportuno sottoporre ai  Giudici
della Consulta.  Il  diritto  alla  liberta'  fisica  (il  cosiddetto
«habeas corpus»), superiore ad ogni altro (a parte  il  diritto  alla
vita), trova una tutela specifica nell'art.  27  della  Costituzione,
che ne esclude la limitazione prima di  una  sentenza  definitiva  di
condanna. Esso  e'  certamente  un  diritto  inviolabile,  ricompreso
nell'ampia dizione dell'art. 2. E tuttavia, diversamente  accade  per
effetto della preclusione di cui  all'art.  49  d.lgs.  n.  546/1992,
bastando  una  prima  sentenza  sfavorevole   al   contribuente   per
consentire    all'Amministrazione    finanziaria     di     aggredire
esecutivamente  diritti  e  posizioni  giuridiche  che,  per   essere
indispensabili ad  assicurare  al  cittadino  un'esistenza  libera  e
dignitosa, sono inviolabili al pari della liberta' personale.  Si  fa
qui  riferimento  di  diritti  e  posizioni  giuridiche   di   grande
importanza nella vita dell'uomo, che il  giudice  deve  valutare  con
prudente apprezzamento, caso per caso, in  relazione  alle  quali  si
puo' fare un parallelo con  i  diritti  naturali  che  devono  essere
rispettati  dal  diritto  positivo  almeno  fino  a  quando  il  loro
necessario  sacrificio,  per  il   soddisfacimento   delle   esigenze
anch'esse  garantite  costituzionalmente  dall'art.   53,   non   sia
affermato da una sentenza definitiva. Come avviene in forza dell'art.
27 Cost., si diceva. 
    Per continuare il raccordo con il diritto  naturale  al  fine  di
esporre  qualche  esempio  concreto  che  ponga  sempre  in  maggiore
evidenza l'illegittimita' costituzionale del denunciato art. 49,  uno
dei diritti inviolabili della persona e' certamente quello  di  avere
un'abitazione. Ci si scusi il  paragone,  non  irrispettoso  per  gli
umani ed innegabilmente efficace, come gli animali hanno una  tana  e
gli uccelli hanno un nido, la persona umana  ha  un  «tetto»  e  l'ha
sempre avuto, dalla caverna, alla palafitta, alla casa  in  muratura.
La vendita di un bene adibito ad abitazione (quando essa  costituisca
l'unico «tetto») in sede  di  esecuzione  fiscale  non  e'  solo  una
perdita di ordine patrimoniale ma rappresenta il di lui  sradicamento
dall'ambiente naturale di vita, che,  con  la  vicinanza  di  persone
care, amiche, punti  di  approvvigionamento  e  servizi  sociali  gli
assicurano la  cura  della  persona  e  la  dignita'  dell'esistenza,
difficile e lunga da ricostituire in  altra  abitazione  e  in  altra
zona. Anche il richiamo - per inciso - ai beni  mobili  impignorabili
ex art. 515 c.p.c. conforta e rafforza le  esposte  ragioni  per  una
tutela cautelare che superi lo sbarramento dell'art. 49. 
    Sullo stesso piano, il fermo di un mezzo  indispensabile  per  il
lavoro, come ad esempio  un  motofurgone  Ape  adibito  alla  vendita
ambulante, o il rischio di una paralisi dell'attivita' lavorativa  di
un'impresa, o addirittura il pericolo di fallimento  della  medesima,
con conseguente perdita di posti di lavoro, se  fosse  esecutivamente
obbligata all'adempimento di un debito fiscale, specie se  questo  e'
di rilevante entita', sono situazioni nelle quali  manca  un'adeguata
tutela cautelare nell'arco della durata  dell'intero  giudizio,  fino
alla sentenza definitiva  della  Corte  di  Cassazione,  appunto  per
l'ostacolo insuperabile dell'art. 49,  che  pertanto  viola  precetti
costituzionali posti a tutela dei valori superiori dell'uomo. 
    La questione della illegittimita' costituzionale  della  predetta
norma, per contrasto con gli artt. 2  e  4  della  Costituzione,  non
appare, per tutte le ragioni suesposte, manifestamente infondata e ne
va rimessa quindi la soluzione alla Corte costituzionale.