IL TRIBUNALE A scioglimento della riserva formulata all'esito dell'udienza celebrata il 14 dicembre 2012, ha pronunciato la seguente ordinanza sull'appello proposto dal difensore avverso l'ordinanza in data 13 novembre 2012, con la quale il Giudice procedente Corte d'Assise d'Appello, costituita presso la locale Corte d'Appello, ha rigettato l'istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, attualmente in esecuzione nei confronti di M. M. nato a Samassi il 15 febbraio 1971. Motivazione Il pregiudicato M.M. e' imputato dei delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione e di rapina aggravata in concorso in danno dell'ultraottantenne S.B., commesso in Samassi dal 14 al 15 maggio 2010, data del suo arresto in flagranza, ed, in ordine a tali reati, si trova da allora in stato di custodia cautelare in carcere. Nel frattempo lo stesso, con sentenza in data 12 luglio 2011, pronunciata, all'esito di giudizio abbreviato, dal Giudice per le indagini preliminari, e' stato dichiarato colpevole di entrambi i reati ascrittigli, unificati dal vincolo della continuazione, e, esclusi gli effetti della recidiva, riconosciute le attenuanti del vizio parziale di mente e le generiche, e' stato condannato alla pena di anni dieci e mesi due di reclusione, oltre ad accessori. Con sentenza in data 5 marzo 2012 la Corte d'Assise d'Appello ha concesso al medesimo le ulteriori attenuanti di cui agli artt. 630, comma quarto, del cod. pen., limitatamente al sequestro di persona, e 62, n. 6, del cod. pen., limitatamente alla rapina, e, ritenuto piu' grave quest'ultimo delitto, ha rideterminato la pena complessiva, riducendola viepiu' ad anni otto di reclusione ed euro mille di multa. Nelle more del giudizio di Cassazione, il M. ha, tramite il difensore, chiesto la sostituzione della custodia intramuraria con gli arresti domiciliari presso la casa famiglia, gestita da religiose, «Giovani in Cammino», sedente in agro del Comune di Sorso. A sostegno ha invocato il lungo tempo decorso dall'inizio dell'esecuzione della misura e dal fatto di reato; l'immediata collaborazione prestata in favore degli inquirenti, che aveva reso possibile la piu' pronta liberazione dell'ostaggio; l'episodicita' della condotta ed il pentimento manifestato, tali, a suo avviso, da indurre a ritenere che il residuo pericolo di recidiva, l'unico in effetti ancora ravvisabile, potesse essere contenuto con la meno gravosa misura richiesta. Con ordinanza in data 13 novembre 2012 il Giudice adito ha rigettato l'istanza, sui rilievi che l'atteggiamento di collaborazione fosse stato non spontaneo, ma semplicemente volontario e mosso da intenti utilitaristici; che la confessione resa fosse stata soltanto parziale e che non avesse fatto piena chiarezza su tutti i contorni della vicenda, ne' su tutti i soggetti in essa, in ipotesi, coinvolti; che, nonostante la seminfermita', il reo fosse stato comunque capace di ideare un piano rudimentale ma di elevato spessore criminale, prevedente l'isolamento, in una cella sistemata sotto terra, di un uomo di oltre ottant'anni, la cui vita era stata esposta a mortale pericolo; che la somma versata a titolo di risarcimento del danno fosse parziale e che fosse stata versata non da lui, ma dalla moglie; che il tempo decorso fosse comunque breve e che dagli atti non emergesse alcun concreto elemento dal quale desumere indici di resipiscenza o di mutamento della condotta di vita. Avverso la predetta ordinanza ha proposto appello il difensore. A sostegno ha ribadito che l'arco di tempo decorso in stato di custodia cautelare in carcere, data la sua lunghezza, avrebbe dovuto essere considerato, nel coacervo delle altre risultanze processuali, come rilevante ai fini dell'attenuazione della pericolosita' sociale, anche perche' il reato era stato commesso oltre due anni e mezzo prima; che l'asserzione riguardante il mancato pentimento si porrebbe in contrasto col riconoscimento, in sentenza, dell'attenuante della dissociazione; che, ugualmente, l'assunto secondo cui il M. sarebbe soggetto particolarmente pericoloso non troverebbe riscontro in alcuno degli indici soggettivi di cui all'art. 133 del cod. pen., alla luce della natura bagatellare e della risalenza dei due soli precedenti penali dai quali il M. stesso era gravato, delle sue condizioni di disagio psichico e dell'assenza di carichi pendenti e che, in conclusione, la rimanente pericolosita' ben avrebbe potuto essere controllata con la misura degli arresti domiciliari, oltretutto previsti in una casa famiglia che assicurava un continuo controllo, ubicata in luogo molto distante da quello in cui i fatti si erano svolti. Ad avviso del Collegio sussisterebbero tutte le condizioni per accogliere l'appello. In primo luogo, infatti, va senz'altro esclusa la sussistenza dei pericoli di fuga e di inquinamento delle prove, peraltro mai ravvisati in tutto il corso del procedimento, atteso che: i) non si ha notizia che il M. si sia dato alla fuga, ne' emergono dagli atti elementi di sorta da cui inferire la qualificata probabilita' che egli possa rendersi irreperibile per sottrarsi all'eventuale esecuzione della pena, e che ii) di fronte al grado in cui si trova il processo, ormai giunto all'esame della Corte di Cassazione, ed al quadro probatorio di riferimento, ampiamente consolidato, non appare seriamente immaginabile, neppure in astratto, alcuna attivita' di inquinamento delle prove. In secondo luogo, poi, deve ritenersi che la pericolosita' sociale dell'imputato, scontata nella stessa richiesta di sostituzione, possa essere contenuta anche con la meno gravosa misura degli arresti domiciliari, dovendosi affermare con tranquillante certezza che egli sia in grado di rispettare le prescrizioni ad essa inerenti, come emerge in maniera chiara dall'esame della sua personalita', condotto con i criteri indicati nell'art. 133 del cod. pen. e dalle modalita' e circostanze del fatto. Il M., invero, ha due soli precedenti penali (uno per il reato continuato di guida senza patente di veicolo munito di targa non propria, commesso nel 1991, da tempo depenalizzato, ed uno per il reato di minaccia, commesso nell'anno 2000, sanzionato con la pena di lire 50.000,00, pari ad euro 25,82, di multa); non risulta avere carichi pendenti, ne' pregiudizi di polizia; ha reso pressoche' immediata confessione, chiamando in correita' il suo complice; si e' attivato per consentire la piu' rapida liberazione dell'ostaggio; ha espresso pentimento per il misfatto commesso; si e' adoperato per far conseguire alla vittima un parziale risarcimento del danno subito ed ha agito non in attuazione di una scelta di vita, liberamente maturata nel tempo, improntata al crimine ed al dispregio dell'Autorita' costituita e delle regole da essa imposte, che lo renderebbe totalmente inaffidabile, ma sulla base di una decisione d'impeto, connotata da elementi di irrazionalita', indotta da una situazione del tutto contingente ed in parte riconducibile anche alle sue condizioni di disagio mentale. Le stesse modalita' dell'evento (concepito e realizzato con «ingenuita'», come si legge nella sentenza di primo grado) denotano come l'imputato presenti una ridotta capacita' a delinquere ed una non particolare pericolosita' sociale. In definitiva, dunque, valutata la personalita' del M., tenuto conto della sua storia giudiziaria ed apprezzate le circostanze nelle quali i reati per cui si procede sono stati programmati e consumati, puo' concludersi nel senso che il medesimo sia sufficientemente affidabile e che possieda una dose di autocontrollo adeguata ad assicurare la spontanea osservanza delle prescrizioni inerenti alla meno gravosa misura degli arresti domiciliari. A maggior ragione se non si pretermette di considerare che tale misura dovrebbe essere eseguita presso una casa famiglia ubicata in luogo distante da quello dei fatti, gestita da religiose, che garantirebbe comunque una continua sorveglianza del sottoposto. Per tutti i motivi teste' indicati non resterebbe al Collegio che riformare l'ordinanza appellata, nei termini sollecitati dal ricorrente, ed adottare le coerenti determinazioni consequenziali. Tale soluzione, nondimeno, e', allo stato, assolutamente preclusa dal chiaro tenore dell'art. 275, comma 3, del cod. proc. pen., a mente del quale, come e' tanto noto da non richiedere apposita dimostrazione, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine, tra gli altri, al reato di cui all'art. 630 del cod. pen. e' applicata e mantenuta la custodia cautelare in carcere, salvo (e fino a) che siano stati acquisiti elementi dai quali risulti l'insussistenza di esigenze cautelari. Ebbene, ad avviso del Tribunale, la norma teste' citata presenta profili di illegittimita' costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Carta Fondamentale, nella parte in cui, prevedendo che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 630 del cod. pen., e' sempre applicata la misura della custodia cautelare in carcere, salvo che non ricorrano esigenze cautelari, non fa salva, altresi', l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Secondo la costante giurisprudenza di codesta Corte, infatti, il legislatore puo', conformemente ai principi costituzionali, prevedere in linea generale delle fattispecie delittuose in cui, data la ricorrenza di gravi indizi di colpevolezza e ritenuta la sussistenza di esigenze cautelari, sia presunta, anche iuris et de iure, l'adeguatezza e la proporzionalita' della misura della custodia in carcere, ma codesta discrezionalita' puo' esercitare solamente a condizione che le fattispecie medesime siano non solamente di particolare gravita', ma anche connotate da una struttura necessariamente implicante, da un punto di vista sociologico e criminologico, l'esistenza di un rapporto permanente col delitto e tendenzialmente irreversibile, si' da giustificare, nei confronti di chi sia gravemente indiziato di aver commesso dei fatti in esse sussumibili, di fronte all'accertamento di pericula libertatis, sempre ed in ogni caso l'ineludibilita' di una sorveglianza costante, che solamente la custodia in carcere puo' permettere di realizzare. Sempre secondo codesta Corte tale ratio non puo' invece essere estesa a reati, seppure gravi ed odiosi, nei quali non vale una analoga regola di esperienza generalizzata, ricollegabile alla struttura stessa ed alle peculiarita' criminologiche della figura delittuosa, a mente della quale le esigenze cautelati non possono altrimenti essere garantite se non con la carcerazione dell'indagato. In applicazione degli esposti principi si e' dunque affermata, da un lato, la legittimita' costituzionale della presunzione assoluta di adeguatezza e di proporzionalita' della custodia in carcere per i reati di criminalita' organizzata di stampo mafioso, atteso il coefficiente di pericolosita' per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che a quel tipo di illeciti, secondo l'id quod plerumque accidit, ordinariamente si accompagna (ordinanza 18 ottobre 1995, n. 450), e, dall'altro, si e' ritenuta irragionevole la presunzione assoluta di adeguatezza e proporzionalita' della carcerazione preventiva, ad esempio, per i reati di violenza sessuale, di atti sessuali con minorenni, di prostituzione minorile (sent. 21 luglio 2010, n. 265), omicidio (sent. 12 maggio 2011, n. 164), associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti (sent. 22 luglio 2011, n. 231) ed associazione per delinquere finalizzata alla commissione dei delitti di cui agli artt. 473 e 474 del cod. pen. (sent. 3 maggio 2012, n. 110), in quanto, in dette fattispecie, ben possono proporsi, giusta la comune esperienza, esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con misure leviori. Ad avviso di questo Tribunale ad identica soluzione dovrebbe pervenirsi con riferimento alla presunzione fissata per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione, perche' anche questo reato puo' essere espressione di iniziative individuali, concepite al di fuori di qualsivoglia rapporto con la criminalita' organizzata, e puo' assumere diversa gravita' in concreto, per la varieta' delle possibili forme di manifestazione e per la personalita' del suo autore, tali da non postulare necessariamente, secondo una regola d'esperienza costantemente verificata ed unanimemente condivisa, esigenze cautelari affrontabili soltanto con la custodia in carcere, come, del resto, e' stato riconosciuto nella recente sentenza, 23 marzo 2012, n. 68, di illegittimita' costituzionale parziale dell'art. 630, cit., nella parte in cui non prevede che la pena ivi comminata sia diminuita quando, per la natura, la specie, i mezzi o le modalita' dell'azione, ovvero per la particolare tenuita' del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entita'. Anche nel caso in esame, dunque, la presunzione assoluta di proporzionalita' ed adeguatezza della custodia cautelare in carcere viola gli art. 3, 13, primo comma, e 27 della Cost., per l'ingiustificata parificazione ai delitti di mafia e per l'irrazionale assoggettamento a un medesimo regime cautelare di tutte le possibili forme di manifestazione dell'indicata figura criminosa; per la violazione del canone secondo cui la privazione in via cautelare della liberta' personale e' possibile soltanto in casi eccezionali, quando ogni altra alternativa risulti in concreto impraticabile, e per l'inevitabile attribuzione alla coercizione personale, laddove essa eccede le specifiche finalita' sue proprie, di tratti funzionali tipici della pena. In conclusione, quindi, deve ritenersi che, nei termini specificati, la questione di legittimita' in parte qua dell'art. 275 del cod. proc. pen. sia rilevante nel presente giudizio, perche', qualora la stessa dovesse essere accolta, la decisione del ricorso sarebbe diversa da quello invece allo stato imposta dalla norma della cui costituzionalita' si dubita, oltre che non manifestamente infondata, per i motivi supra rappresentati. Non resta, pertanto, che investire della questione stessa codesta Corte, sospendendo il giudizio nelle more della decisione.