IL TRIBUNALE 
 
    Il giudice, udite le parti  all'udienza  camerale  del  15  marzo
2013, sciogliendo la riserva ivi formulata; 
    Letti gli atti del procedimento penale di esecuzione n. 69/12 nei
confronti di Massaro Clemente, condannato con sentenza del  Tribunale
di Santa Maria Capua Vetere - Sezione Distaccata di Marcianise emessa
in data 23 novembre 2010 e passata in giudicato  il  22  aprile  2011
alla pena di mesi sei di reclusione ed euro trecento di multa per  il
reato di cui agli articoli 110, 624 e 625 n. 2 e 8 cod. pen. perche',
come da contestazione del pubblico ministero, in concorso  con  altra
persona, si impossessava di tre cavalli di proprieta'  di  Di  Caprio
Fabio,  Di  Caprio  Amedeo  e  Di  Caprio   Mariano,   introducendosi
nell'allevamento di  loro  proprieta',  con  le  aggravanti  di  aver
commesso il fatto con  violenza  sulle  cose,  avendo  danneggiato  e
tagliato la rete di recinzione dell'allevamento e di aver commesso il
fatto su tre capi di bestiame equino; 
    Visti l'ordine carcerazione emesso dalla Procura della Repubblica
presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in data  26  novembre
2012, in  esecuzione  della  predetta  sentenza  di  condanna  e  con
riferimento alla pena residua da espiare  di  mesi  cinque  e  gironi
ventotto di  reclusione  ed  euro  trecento  di  multa,  nonche',  il
certificato dello stato di esecuzione da cui emerge che  l'ordine  di
carcerazione emesso non e' stato spedito, in attesa  della  decisione
del giudice di esecuzione  sulla  non  manifesta  infondatezza  della
questione di legittimita' costituzionale; 
    Vista l'eccezione di incostituzionalita' sollevata dalla  Procura
della Repubblica presso il Tribunale  di  Santa  Maria  Capua  Vetere
della disposizione di cui all'art. 656,  comma  nono,  lett,  a)  del
codice di procedura penale, come modificata dall'art. 2, lett. m) del
decreto-legge 23 maggio 2008 n. 92, convertito  in  legge  24  luglio
2008 n. 125 nella parte in cui prevede «624, quando ricorrono  due  o
piu'  circostanze  tra  quelle  indicate  dall'art.  625  c.p.»,  per
contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione; 
 
                               Osserva 
 
    Il decreto-legge n. 92 del 23 maggio 2008  ha  introdotto  misure
urgenti in  materia  di  sicurezza  pubblica  apportando  all'art.  2
modifiche al codice di procedura penale. 
    Il preambolo di  tale  atto  con  forza  di  legge  cosi  recita:
«Ritenuta  la  straordinaria  necessita'  ed  urgenza  di  introdurre
disposizioni volte ad apprestare un quadro normativo piu'  efficiente
per   contrastare   fenomeni   di   illegalita'   diffusa   collegati
all'immigrazione illegale e alla  criminalita'  organizzata,  nonche'
norme dirette a tutelare la sicurezza della circolazione stradale  in
relazione all'incremento degli incidenti stradali  e  delle  relative
vittime». 
    Alla disposizione  di  cui  all'art.  2  lett.  m)  del  predetto
decreto-legge e' sancito che «all'art. 656, comma 9, lettera a), dopo
le parole:  «della  legge  26  luglio  1975,  n.  354,  e  successive
modificazioni,» sono inserite  le  seguenti:  «nonche'  di  cui  agli
articoli 423-bis, 600-bis, 624-bis, e 628 del codice penale». 
    Tale normativa con legge n. 125 del  24  luglio  2008  ha  subito
modifiche in sede  di  conversione:  «alla  lettera  m),  le  parole:
"nonche' di cui agli articoli 423-bis, 600-bis, 624-bis,  e  628  del
codice penale" sono sostituite dalle seguenti: "nonche' di  cui  agli
articoli 423-bis, 624, quando ricorrono due o  piu'  circostanze  tra
quelle indicate dall'art. 625, 624-bis del codice  penale,  e  per  i
delitti in cui ricorre l'aggravante di cui all'art. 61, primo  comma,
numero 11-bis), del medesimo codice"». 
    Con questo nuovo assetto normativo per tali fattispecie penali, e
per quello che rileva nel caso  di  specie  per  il  reato  di  furto
pluriaggravato, come gia' previsto per le fattispecie di cui all'art.
4-bis della legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario, non
puo' essere disposta  la  sospensione  dell'ordine  di  carcerazione,
istituto  sancito  dall'art.   656,   comma   quinto,   c.p.p.,   per
l'esecuzione di pene  detentive,  anche  se  costituenti  residuo  di
maggiore pena, non superiori a tre anni, con la  conseguenza  che  la
pena deve essere espiata in regime di detenzione carceraria e che  le
misure alternative alla stessa possono  essere  richieste  solo  dopo
l'ingresso in carcere del condannato. 
    E'   stata,   dunque,   inserita   la   fattispecie   del   furto
pluriaggravato  in  quelle  che  l'ordinamento  considera,  con   una
presunzione iuris et de iure, espressive di una maggiore capacita'  a
delinquere e  come  tali  non  meritevoli  di  poter  godere  in  via
immediata, con precedente sospensione  dell'ordine  di  carcerazione,
dei benefici previsti dalla  legge  n.  663  del  1986  e  successive
modifiche. 
    A  parere  di  questo  giudice  tale  normativa  si  presenta  in
contrasto  con  i  principi  di  cui  agli  articoli  3  e  27  della
Costituzione  e  genera,  altresi',   dei   dubbi   di   legittimita'
costituzionale in ragione della sua introduzione attraverso legge  di
conversione in  modifica  delle  originarie  previsioni  del  decreto
d'urgenza  in  termini  esorbitati  dalla  finalita'  e  dalla  ratio
indicati nel Preambolo dello stesso, non  ravvisandosi  un  effettivo
collegamento della disposizione impugnata con l'originario scopo  del
provvedimento  d'urgenza,  diretto  al  contrasto  dei  fenomeni   di
illegalita'  diffusa  collegati  all'immigrazione  illegale  e   alla
criminalita'  organizzata  e  alla  tutela  della   sicurezza   della
circolazione stradale. 
    Va rilevato sul punto che  la  norma  in  esame  sembra  alterare
l'originario scopo del provvedimento normativo  d'urgenza,  ponendosi
per tale ragione in contrasto con la ratio della disposizione di  cui
all'art. 77 della  Costituzione.  Come  la  Corte  costituzionale  ha
precisato con una recente  ed  innovativa  pronuncia,  pur  rimanendo
l'introduzione di modifiche  all'impianto  normativo  originario  del
provvedimento  una  legittima  facolta'  delle  Camere  in  sede   di
conversione  del  decreto-legge,  l'intervento  di  queste  non  puo'
determinare  una  «alterazione  dell'omogeneita'   di   fondo   della
normativa urgente», intesa «non solo in senso materiale, di identita'
di oggetto disciplinato, ma anche in senso  finalistico,  funzionale,
teleologico». In definitiva,  tra  l'atto  approvato  dal  Governo  e
quello posto in essere dalle Camere  per  integrane  l'efficacia,  si
realizza un «nesso di interrelazione funzionale» tale da  configurare
un  «tutto  unitario»  indirizzato  a  porre  rimedio  ai   casi   di
straordinaria necessita' ed urgenza di  volta  in  volta  sussistenti
(Corte costituzionale n. 22 del 16 febbraio 2012). 
    Tanto premesso la norma in esame appare porsi  in  contrasto  con
l'art.  27  della  Costituzione  con  il  principio  della  finalita'
rieducativa della sanzione penale. 
    Come ricordato dalla Corte costituzionale  in  una  sentenza  del
2006 «la finalita' rieducativa della  pena,  stabilita  dall'art.  27
Cost., comma 3,  deve  riflettersi  in  modo  adeguato  su  tutta  la
legislazione penitenziaria. 
    Quest'ultima  deve  prevedere  modalita'  e  percorsi  idonei   a
realizzare l'emenda e la risocializzazione  del  condannato,  secondo
scelte del legislatore, le quali, pur nella loro varieta'  tipologica
e nella loro  modificabilita'  nel  tempo,  devono  convergere  nella
valorizzazione di tutti gli sforzi compiuti dal singolo condannato  e
dalle istituzioni per conseguire il fine  costituzionalmente  sancito
della rieducazione» (Corte costituzionale sentenza n. 257 del 2006). 
    Sulla base  di  tali  considerazioni  occorre  stabilire  in  che
termini ed entro  quali  limiti  l'introduzione  di  una  preclusione
normativa che operi in termini aprioristici ed  assoluti  all'accesso
ai benefici penitenziari in ragione di una scelta general-preventiva,
scelta in evidente contrasto con la finalita' rieducativa della  pena
e con i criteri di proporzione e di individualizzazione della  stessa
che  caratterizzano  il  trattamento  penitenziario,   possa   essere
ritenuta ragionevole e conforme ai principi  della  Costituzione.  Ad
avviso di questo giudice  una  preclusione  all'accesso  alle  misure
alternative alla detenzione per l'espiazione di  una  pena  detentiva
breve, quando  non  legata  a  determinati  elementi  di  ragionevole
pericolosita' sociale del condannato, non trova ragion  d'essere  nel
sistema ordinamentale alla luce dei principi costituzionali. 
    Va premesso che  la  finalita'  di  rieducazione  del  condannato
propria della sanzione penale, pur non  essendo  limitata  alla  sola
fase esecutiva, certamente trova in questa fase  il  suo  momento  di
massima realizzazione e di sua  sede  naturale,  con  il  rischio  di
essere irragionevolmente sacrificata dinanzi ad un sistema automatico
di carcerazione immediata. Per  garantire  la  finalita'  rieducativa
della pena, infatti, cio' che rileva non e' tanto, o solo, il tipo di
pena previsto quanto il trattamento  penitenziario  che  ne  concreta
l'esecuzione e a tal fine appare assolutamente necessario prendere in
considerazione la personalita' del singolo.  D'altronde,  e'  proprio
l'ordinamento penitenziario che impone che sia dato largo  spazio  al
trattamento individualizzato al fine di agevolare la rieducazione dei
condannati (Corte costituzionale sentenza n. 104 del 1982). 
    Pertanto,  deve  ritenersi  che  non  vi  sia  dubbio   che   una
applicazione rigida ed automatica della  detenzione  carceraria,  con
l'esclusione   della   possibilita'   di   un    preventivo    vaglio
giurisdizionale circa l'idoneita' ed opportunita' di eventuali misure
alternative alla detenzione, generi un  contrasto  con  la  finalita'
rieducativa della pena, legata all'esigenza di garantire il  recupero
sociale  del  condannato  attraverso  la  valorizzazione  delle   sue
caratteristiche individuali. 
    In materia di benefici penitenziari  dovrebbero  essere,  dunque,
esclusi  rigidi  automatismi  e  dovrebbe  richiedersi,  invece,  una
valutazione individualizzata, che consenta di legare  la  concessione
del beneficio ad  una  prognosi  ragionevole  sulla  sua  utilita'  a
condurre il condannato sulla  via  dell'emenda  e  del  reinserimento
sociale (Corte costituzionale, sentenza n. 189 del 2010). 
    Le misure alternative alla  detenzione  si  connettono,  infatti,
all'esigenza di individualizzazione della pena in fase esecutiva,  in
rapporto alla quale  la  valutazione  di  pericolosita'  sociale  del
condannato, da condursi caso per caso e non sulla base di  arbitrarie
presunzioni assolute, viene, per converso, in primario rilievo. 
    L'istituto della sospensione dell'esecuzione delle pene detentive
brevi, che consente di avanzare richiesta di sostituzione della  pena
detentiva con una misura alternativa alla stessa senza il  preventivo
ingresso in carcere trova giustificazione,  pertanto,  proprio  nella
finalita' rieducativa della pena, essendo volto ad evitare  l'impatto
con  la  struttura  carceraria  e  a  favorire,  in  tal   modo,   la
riabilitazione del condannato che venga poi  ammesso  ad  espiare  la
stessa pena in regime alternativo alla detenzione. 
    Il giudice delle leggi  con  diverse  pronunce  ha  costantemente
ribadito i principi di  «proporzionalita'  e  di  individualizzazione
della  pena»   caratterizzanti   il   trattamento   penitenziario   e
riconducibili all'art. 27 Cost.,  commi  1  e  3,  e  art.  3  Cost.,
precisando, altresi', che «eguaglianza di fronte alla pena  significa
proporzione della medesima  alle  personali  responsabilita'  e  alle
esigenze  di  risposta  che  ne  conseguono»  (Corte  costituzionale,
sentenza n. 255 del 2006; n. 445 del 1997; n. 504 del  1995;  n.  306
del 199; n. 203 del 1991; n. 50 del 1980; n. 349 del 1993  e  n.  299
del 1992). 
    Occorre, tuttavia, anche considerare che la  «funzione  (e  fine)
della pena non  e'  certo  il  solo  riadattamento  dei  delinquenti,
purtroppo non sempre conseguibile. A  prescindere  sia  dalle  teorie
retributive secondo cui la pena e' dovuta per il male  commesso,  sia
dalle dottrine positiviste secondo cui esisterebbero criminali sempre
pericolosi e assolutamente  incorreggibili,  non  vi  e'  dubbio  che
dissuasione, prevenzione, difesa  sociale,  stiano,  non  meno  della
sperata  emenda,  alla  radice  della  pena»  (Corte  costituzionale,
sentenza n. 267 del 22 novembre 1974). 
    Da  cio'  ne   deriva   che,   pur   essendo   indiscutibile   la
discrezionalita' del  legislatore  nelle  valutazioni  relative  alle
modalita' di esecuzione della pena in relazione ai diversi titoli  di
reato, tuttavia, e' in ogni caso sempre necessario  che  tale  scelta
non  determini  in  concreto  un  contrasto   con   i   principi   di
ragionevolezza, uguaglianza e proporzionalita'. 
    Il   legislatore,   in   altri   termini,   nei   limiti    della
ragionevolezza, puo' fare  tendenzialmente  prevalere,  di  volta  in
volta, l'esigenza di prevenzione generale e di difesa sociale - con i
connessi caratteri di afflittivita' e retributivita' - oppure  quella
di prevenzione speciale e di rieducazione  -  comportante  una  certa
flessibilita'   della   pena   in    funzione    dell'obiettivo    di
risocializzazione - purche' «nessuna di esse ne risulti obliterata» e
sempre che il sacrificio dell'una sia il «minimo indispensabile»  per
realizzare il soddisfacimento dell'altra, determinandosi diversamente
una concreta elusione alle funzioni costituzionali della pena  (Corte
costituzionale sentenza n. 306 del 1993). 
    Va aggiunto che la presenza nell'ordinamento  giuridico  italiano
di principi costituzionali, di stato di diritto e di  stato  sociale,
che garantiscono  l'autonomia  e  la  dignita'  dell'individuo  e  lo
sviluppo della  personalita'  in  una  prospettiva  di  solidarieta',
inducono a ritenere che il concetto di rieducazione di  cui  all'art.
27,  terzo  comma,  della  Costituzione,  debba  essere  inteso   nel
significato   di   recupero   sociale,   da   realizzarsi,   inoltre,
necessariamente in termini di proporzione con il fatto ai sensi della
disposizione di cui all'art. 3 della Costituzione. Per tali  ragioni,
non dovrebbero essere  ammissibili  risposte  sanzionatorie  di  tipo
afflittivo-deterrente, considerato che  con  la  sanzione  penale  si
dovrebbe tendere a favorire un'effettiva  integrazione  del  soggetto
mediante un concreto programma  di  reinserimento  ed  attraverso  la
sperimentazione quanto piu' ampia possibile di modalita'  alternative
di esecuzione della sanzione, dirette a realizzare le  condizioni  di
non     ulteriore     desocializzazione,     normalmente     connesse
all'internamento nell'istituzione carceraria. 
    Ed e' proprio al fine di garantire tali funzioni  della  sanzione
penale e soprattutto, dunque, per soddisfare  l'esigenza  di  evitare
l'ingresso nel  circuito  carcerario,  potenzialmente  ostativo  alle
possibilita' di emenda, di  soggetti  che,  dovendo  espiare  pene  o
residui di pena in limiti  non  rilevanti,  piu'  facilmente  possono
essere reinseriti nel tessuto sociale attraverso  misure  alternative
alla detenzione, che nell'ordinamento giuridico  italiano  l'ingresso
in  carcere  dei  soggetti  condannati  a   pene   detentive   brevi,
astrattamente in condizione di  usufruire  delle  misure  alternative
alla detenzione, e' sospeso in ragione di una presunzione  di  scarsa
pericolosita' sociale basata sull'entita' della pena irrogata. 
    Simmetricamente, tuttavia, all'art. 656, comma nono, c.p.p.  sono
previsti alcuni divieti alla sospensione dell'esecuzione  della  pena
detentiva breve. Questi, per essere  ritenuti  legittimi,  dovrebbero
essere tutti fondati su una ragionevole presunzione di  pericolosita'
in relazione al  titolo  del  reato,  alla  gravita'  della  sanzione
edittale o al particolare allarme sociale destato da talune  condotte
criminose,  cui  dovrebbero  affiancarsi  condizioni   di   accertata
pericolosita'. 
    Va, infatti, osservato che le presunzioni giuridiche, quando sono
assolute e soprattutto limitative di un  diritto  fondamentale  della
persona, se sono arbitrarie e irrazionali e  non  legate  a  dati  di
esperienza generalizzati, violano  il  principio  di  eguaglianza  e,
pertanto, pur  rientrando  nelle  scelte  di  politica  criminale  di
competenza esclusiva del legislatore, presentano  alcuni  aspetti  di
irragionevolezza. Ed in particolare, con riferimento alla presunzione
di pericolosita' sociale, la Corte costituzionale ha  precisato  che,
pur  non  essendo  la  stessa  del  tutto  esclusa   dall'ordinamento
giuridico, e' in ogni caso necessario che  trovi  fondamento  nell'id
quod plerumque accidit (Corte costituzionale,  sentenza  n.  139  del
1982). 
    Per l'attuazione di tutte le  finalita'  proprie  della  sanzione
penale costituzionalmente sancite, senza che alcuna venga sacrificata
e al fine di non compromettere in termini assoluti la funzione  della
risocializzazione  del  condannato,  ad   eccezione   delle   ipotesi
normativamente contemplate e legate effettivamente a dati ragionevoli
di presunzione di pericolosita'  sociale,  dovrebbe  essere,  quindi,
sempre necessario  come  regola  generale  assicurare  progressivita'
trattamentale  e  flessibilita'  della  pena   e,   conseguentemente,
riconoscere un potere discrezionale  al  magistrato  di  sorveglianza
nella concessione dei benefici  penitenziari,  da  esercitarsi  ancor
prima dell'ingresso in carcere del condannato (Corte  costituzionale,
sentenza n. 504 del 1995). 
    Di contro la scelta operata dal legislatore di introdurre tra  le
ipotesi eccezionali che a  prescindere  dalla  pena  da  espiare  non
consentono  la  sospensione  dell'ordine  di  carcerazione  anche  la
fattispecie  di  furto  pluriaggravato  appare  irragionevole  ed  in
contrasto con la stessa ratio della disposizione di cui all'art.  656
c.p.p. in quanto non legata  a  concreti  elementi  di  pericolosita'
sociale del condannato, tenuto conto, altresi',  che  il  divieto  di
sospensione dell'esecuzione della pena non e' previsto,  invece,  per
fattispecie di  reato  piu'  gravi  e  di  maggiore  allarme  sociale
rispetto a quella  in  esame,  quale  ad  esempio  quella  di  rapina
semplice,   astrattamente   sussumibile    nell'ambito    applicativo
dell'istituto in questione. Va sul punto evidenziato che il reato  di
rapina, fattispecie a natura complessa, si configura con la  condotta
tipica del furto, di impossessamento  del  bene  mobile  altrui,  con
sottrazione dello stesso al legittimo detentore  e  accompagnata  dal
dolo specifico del fine di profitto ingiusto, a cui  si  aggiunge  un
ulteriore elemento costituito  dalla  violenza  alla  persona  ovvero
dalla minaccia. 
    Pertanto, la irragionevole scelta legislativa  di  prevedere  una
modalita' esecutiva piu' gravosa  per  il  condannato  per  il  furto
pluriaggravato  rispetto   a   quello   resosi   responsabile   della
fattispecie di rapina semplice comporta  che  nei  confronti  di  chi
abbia  posto  in  essere  un'eventuale  condotta  ulteriore  rispetto
all'impossessamento del bene, concretizzatasi nella  minaccia  ovvero
nella  violenza  alla  persona,  sarebbe  consentita,  in   fase   di
esecuzione, la  sospensione  dell'esecuzione  della  pena  detentiva,
invece, preclusa nei confronti di chi si sia  limitato  a  commettere
un'azione di impossessamento del bene mobile altrui, al piu' con atti
di violenza verso le cose, ma in ogni caso  priva  di  violenza  alla
persona  ovvero  di  minaccia.  Tale  disparita'  di  trattamento  di
maggiore rigore afflittivo nei confronti di una situazione di  minore
pericolosita' sociale e, viceversa, di minore rigore  afflittivo  nei
confronti di una situazione  di  maggiore  pericolosita'  sociale  si
rivela priva di razionalita'  e  coerenza,  cosi'  da  comportare  un
addebito in termini di  arbitrarieta'  alla  scelta  legislativa,  in
violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    Va aggiunto che, tenuto conto che il limite di tre anni  previsto
dall'art.  656,  comma  quinto,  c.p.p.  ai  fini  della  sospensione
dell'esecuzione trova  applicazione  anche  con  riguardo  alle  pene
residue, la norma in  esame  appare  ulteriormente  irragionevole  in
quanto comporta una valutazione di  pericolosita',  in  base  ad  una
presunzione aprioristica, nei confronti  di  chi  abbia  commesso  un
reato di  modesta  gravita'  ed  allarme  sociale,  avendo  riportato
condanna ad una pena detentiva breve, come si e' verificato nel  caso
di specie e non anche nei riguardi di un soggetto il  quale,  invece,
si sia reso responsabile di un reato  piu'  grave  e,  pertanto,  sia
stato condannato ad una pena detentiva elevata. 
    Considerato,  infine,  che  l'istituto  della  sospensione  della
carcerazione e' direttamente funzionale alla  eventuale  applicazione
delle misure alternative alla  detenzione,  anche  se  prescinde  dal
controllo sui requisiti soggettivi  di  applicabilita'  delle  misure
stesse  che  e'  affidato  soltanto  al  Tribunale  di  Sorveglianza,
nell'ambito di  una  normativa  coerente,  il  catalogo  dei  delitti
ostativi alla sospensione iniziale della carcerazione breve  dovrebbe
essere identico a quello dei delitti che sono  ostativi  alle  misure
alternative alla detenzione, circostanza che non si verifica  per  la
fattispecie penale del furto pluriaggravato per la quale il  pubblico
ministero  deve  emettere  l'ordine  di  carcerazione  senza  poterne
disporre la sospensione, ma il condannato,  una  volta  ristretto  in
carcere, puo' ugualmente formulare istanza per  ottenere  una  misura
alternativa alla detenzione o uno degli altri benefici, senza che  la
relativa richiesta debba essere,  per  di  piu',  sottoposta  ad  una
valutazione di attenuata pericolosita' sociale da parte del Tribunale
di Sorveglianza, come previsto, invece, per  le  fattispecie  di  cui
all'art. 4  bis  dell'ordinamento  penitenziario  e  questo  medesimo
meccanismo e' previsto, inoltre, anche per  l'esecuzione  della  pena
detentiva, in  quanto  non  superiore  a  diciotto  mesi,  presso  il
domicilio ai sensi delle disposizioni di cui all'art. 1, commi  terzo
e quarto, della legge 26 novembre 2010 n. 199. 
    Per le motivazioni sopra illustrate la questione di  legittimita'
costituzionale sollevata dalla Procura  della  Repubblica  presso  il
Tribunale di Santa Maria  Capua  Vetere  della  disposizione  di  cui
all'art. 656, comma nono, lett. a) del codice  di  procedura  penale,
come modificata dall'art. 2, lett. m)  del  decreto-legge  23  maggio
2008 n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008 n. 125 nella parte  in
cui prevede «624, quando ricorrono due o piu' circostanze tra  quelle
indicate dall'art. 625 c.p.», per contrasto con gli articoli 3  e  27
della Costituzione non appare manifestata infondata. 
    Va aggiunto che il predetto contrasto ai principi  costituzionali
della disposizione in  esame  non  puo'  essere  superato  attraverso
un'interpretazione  costituzionalmente  orientata  della   norma   in
ragione  dell'assoluto  divieto  di  legge   di   sospensione   della
esecuzione della pena stabilito dall'art. 656, comma nono, c.p.p. nei
confronti dei condannati per delitto di  cui  all'art.  624  cod.pen.
aggravato da due o piu' circostanze tra quelle indicate dall'art. 625
cod.pen. 
    La questione, inoltre, risulta rilevante ai fini  della  presente
decisione, considerando sul punto che, benche' la condotta  criminosa
sia stata posta in essere in epoca antecedente  alle  sopra  indicate
modifiche apportate attraverso la legge n.  125  del  24  luglio  del
2008, la nuova normativa e' al caso di specie  comunque  applicabile;
come, infatti, precisato dalla Corte di  Cassazione  «il  divieto  di
sospensione dell'esecuzione delle pene detentive  nei  confronti  dei
condannati per reati di  furto  pluriaggravato,  stabilito  dall'art.
656, comma nono, lett.  a),  cod.  proc.  pen.  (nel  testo  innovato
dall'art. 2 del D.L. 23 maggio 2008, n.  92,  conv.  dalla  legge  24
luglio 2008, n. 125), ha natura di norma processuale  e  si  applica,
conseguentemente, anche ai fatti pregressi» (Cass. Pen. Sez. 1, Sent.
n. 37083 del 29 settembre 2010 Cc. (dep. 18 ottobre 2010) Rv. 248580,
Imputato: Cipriano). 
    Per tali ragioni, si rimette al vaglio della Corte costituzionale
la legittimita' della norma di cui all'art. 656, comma nono, lett. a)
del codice di procedura penale, come modificata dall'art. 2, lett. M)
del decreto-legge 23 maggio 2008 n. 92, convertito in legge 24 luglio
2008 n. 125 nella parte in cui prevede «624, quando ricorrono  due  o
piu' circostanze tra quelle indicate dall'art. 625 c.p.».