IL TRIBUNALE ORDINARIO A scioglimento della riserva assunta all'udienza del 9 maggio 2013, ha pronunciato la seguente ordinanza. Visto l'art. l L. 689/1981; Visto l'art. 3 della Costituzione; Visto l'art. 7 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo; Visto l'art. 15 del Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici; Visto l'art. 49 della Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea; Visto l'art. 117 della Costituzione; Visto l'art. 23 e ss della L. 87/1953; Solleva eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 1 L. 689/1981, in quanto contrastante con gli art. 3 e 117 Costituzione, in relazione all'art. 7 Cedu, all'art. 15 del Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici e all'art. 49 Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea Motivi L'art. 1 della L. 689/1981, intitolato "principio di legalita'", prevede che nessuno possa essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione. Non viene ripetuto percio' il principio dell'applicazione retroattiva della lex mitior, ossia l'applicazione della legge successiva piu' favorevole all'autore della violazione (art. 2 co. II c.p.). Tale lacuna deve ritenersi in contrasto con l'art. 3 della Costituzione e col principio di ragionevolezza e uguaglianza. Malgrado la Corte Costituzionale si sia gia' pronunciata in senso negativo sul punto (cfr. C. Cost. 501/2002, C. Cost. 245/2003), si ritiene che l'evoluzione giurisprudenziale degli ultimi anni, anche della stessa Consulta, imponga di riconsiderare la questione. Infatti la Corte (cfr. C. Cost. 393/2006), occupandosi della legittimita' costituzionale della L. 251/2005, ha recentemente chiarito che la retroattivita' della legge piu' favorevole, pur non essendo prevista espressamente dalla Costituzione (a differenza dell'irretroattivita' della legge sfavorevole), nemmeno in ambito penale, deve comunque considerarsi espressione di un principio generale dell'ordinamento, legato ai principi di materialita' e offensivita' della violazione, dovendosi adeguare la sanzione alle eventuali modificazioni della percezione della gravita' degli illeciti da parte dell'ordinamento giuridico. Sebbene il principio dell'applicazione retroattiva della lex mitior non sia assoluto, ha spiegato in quell'occasione la Corte, a differenza di quello di cui all'art. 2 co. I c.p. (e art. 25 co. II Cost.) tuttavia la sua deroga deve essere giustificata da gravi motivi di interesse generale (C. Cost. 393/2006, C. Cost. 236/2011), dovendo in tal senso superare un vaglio positivo di ragionevolezza e non un mero vaglio negativo di non manifesta irragionevolezza. Devono cioe' essere positivamente individuati gli interessi superiori, di rango almeno pari a quello del principio in discussione, che ne giustifichino il sacrificio. Non si ravvisano tuttavia nella specie motivi tali da supportare il sacrificio al trattamento piu' favorevole, come dimostra anche la considerazione che, in altri settori, il legislatore ha recentemente introdotto norme del tenore dell'art. 2 co. II c.p.c. Possono citarsi l'art. 23-bis DPR 148/1988 (introdotto dall'art. 1 L. 326/2000) in materia di illeciti valutari, l'art. 3 D.Lgs. 472/1997 sulle violazioni tributarie (cfr. Cass. 1656/2013), l'art. 46 D.Lgs. 112/1999 in materia di concessioni del servizio di riscossione, l'art. 3 D.Lgs. 231/2001 in materia di responsabilita' amministrativa degli enti per illecito penale. Malgrado si tratti di settori speciali, non sussiste una differenza ontologica tra gli illeciti amministrativi oggetto delle norme citate e la disciplina generale della L. 689/1981, ne' si rinvengono motivi di interesse generale tali da giustificare il diverso trattamento. Sussiste quindi violazione dell'art. 3 Cost. anche per cio' che riguarda il principio di uguaglianza, assunte le norme citate come tertium comparationis. Circa il fatto che le sentenze sopra richiamate riguardano specificatamente la materia penalistica, non pare che cio' possa costituire un serio ostacolo alla loro applicazione anche al settore degli illeciti amministrativi. La dottrina italiana si e' infatti da tempo orientata nel senso di ritenere che non sussiste una differenza ontologica tra illeciti penali e illeciti amministrativi, sicche' la scelta del legislatore di sanzionare una certa condotta tramite l'una o l'altra sanzione dipende e deve essere ispirata unicamente al principio di sussidiarieta' (bisogno e meritevolezza di pena), nell'ottica di un diritto penale minimo. I tradizionali corollari del principio di legalita' e riserva di legge in materia penale pertanto, sebbene in passato siano stati riferiti alla sola materia penale, tendono oggi invece ad essere considerati espressione di limiti generali al potere punitivo dello Stato, e cio' anche con riferimento all'applicazione retroattiva della lex mitior, nel senso che l'essenza afflittiva della potesta' sanzionatoria - anche amministrativa - dovrebbe essere rapportata alla valutazione che storicamente l'ordinamento operi della condotta che intende reprimere. Le stesse norme sopra citate che, nel corso degli anni, hanno esteso l'applicazione retroattiva della lex mitior anche a specifici settori di illecito amministrativo sono segno di questa evoluzione della sensibilita' giuridica. Tale omogeneita' tra illecito penale e amministrativo, dal punto di vista delle garanzie minime, connota del resto anche il quadro sovranazionale, ove pure interessanti argomenti possono trarsi dall'evoluzione della giurisprudenza della Corte EDU sull'art. 7 della Convenzione (sentenza Scoppola c. Italia 2009 e Mihai Roma c. Romania 2012), anche alla luce dell'art. 15 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici e dell'art. 49 della Carta di Nizza. Va premesso che la Corte di Strasburgo ha piu' volte ricordato che l'applicazione delle garanzie previste dall'art. 7 non dipende dalla qualificazione da ciascun ordinamento attribuita all'illecito e alle sue conseguenze sanzionatorie, altrimenti sarebbe assai semplice per gli Stati eludere i dettami della Convenzione. La Corte ha quindi elaborato una nozione autonoma di materia penale, legata a parametri sostanziali (c.d. criteri Engel), tra cui la natura del precetto violato e la gravita' della sanzione prevista, con la conseguenza che il nomen iuris attribuito da ciascun ordinamento ad una fattispecie afflittiva non e' che il punto di partenza per valutare la concreta applicabilita' delle garanzie convenzionali. Cosi', con riferimento alla natura della precetto violato, la Corte ha ritenuto fondamentale che la norma sia diretta alla generalita' dei consociati e che il precetto abbia finalita' preventiva, repressiva, punitiva (cfr. Corte EDU Ziliberg c. Moldavia, Corte EDU Paykar Yev c. Armenia). Nel determinare il carattere penale o meno di una sanzione cioe', la Corte ne considera l'afflittivita', usando come stella polare il finalismo della sanzione stessa, ricostruendo in termini di dissuasione e al tempo stesso di repressione, secondo un modello tipicamente punitivo. Quanto alla gravita' della sanzione, non e' necessario ch'essa comporti la privazione della liberta' personale (cfr. Corte EDU Kadubec c. Slovacchia), essendo sufficiente che il soggetto subisca anche solo delle conseguenze finanziarie, tenendosi presente che comunque non va considerata la sanzione in concreto applicata, ma la sanzione piu' grave che l'ordinamento avrebbe potuto applicare. Se dunque si fa applicazione di tali criteri agli illeciti amministrativi e alle relative sanzioni, non vi e' alcuna difficolta' a ritenere che anch'essi rientrino nel fuoco dell'art. 7 della CEDU, cosi' come interpretato dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo. D'altro canto, tornando alla giurisprudenza della Corte EDU sull'art. 7, non puo' trascurarsi che, nel 2009, con la sentenza 2009 Scoppola c. Italia, la Corte stessa, in parte mutando propri precedenti orientamenti, ha espressamente affermato che il principio dell'applicazione della legge piu' favorevole al reo deve considerarsi implicito nell'art. 7 della Convenzione, anche alla luce dell'importanza acquisita dal principio in parola nel panorama giuridico europeo e internazionale. Il revirement e' stato giustificato proprio anche dalla necessita' di adeguare il sistema di tutele CEDU alle altre carte dei diritti presenti nel panorama internazionale (ad es. art. 15 Patto Internazionale dei Diritti Civili e Politici, art. 49 Carta dei Diritti dell'Unione Europea). Trattasi di una decisione ispirata al c.d. maximum standard, ossia all'esigenza di conformare il livello di tutela assicurato dalle norme convenzionali a quello riconosciuto da analoghe e omologhe disposizioni di matrice sovranazionale, che, nel caso di specie, hanno espressamente innalzato il principio dell'applicazione della lex mitior al rango di principio fondamentale del diritto penale, nell'accezione sopra esposta (lo stesso iter argomentativo del resto di C. Cost. 393/2006). Il tutto e' stato quindi confermato in tempi recenti nella sentenza Corte EDU 2012 Mihai Torna c. Romania, dove espressamente si afferma che l'art. 7 della Convenzione da un lato proibisce l'applicazione retroattiva della legge penale che vada a detrimento dell'accusato, dall'altro "garantisce l'applicazione della legge piu' favorevole al reo", con una statuizione lapidaria che sembra superare anche i residui margini di discrezionalita' che la Corte Costituzionale aveva lasciato al legislatore nella sentenza 236/2011 (bilanciamento con altri interessi di pari rango). L'acquisita natura di garanzia convenzionale del principio della retroattivita' della lex mitior, unitamente all'inclusione dell'illecito amministrativo e delle relative sanzioni nella materia penale ai sensi della Convenzione, comporta quindi la necessita' di riconsiderare - superandolo -l'orientamento giurisprudenziale consolidato (cfr. Cass. 6712/1999, Cass. SS.UU. 890/1998, Cass. 8074/1998, Cass. 2058/1998, Cass. 11928/1995, Cass. 13246/1992, Cass. 6318/1986, Cons. St. 3497/2010, Cons. St. 2544/2000), avallato in passato dalle sentenze 501/2002 e 245/2003 della Corte Costituzionale, sfavorevole all'applicazione alla materia delle sanzioni amministrative del principio in esame. Per i motivi suddetti le questioni sollevate non possono ritenersi manifestamente infondate. La questione non puo' essere risolta per via interpretativa, in quanto esiste consolidata giurisprudenza (vero e proprio diritto vivente) della Corte di Cassazione, oltre a precedenti negativi della Corte Costituzionale, che, in piu' occasioni, han ribadito la non applicabilita' del principio della al settore degli illeciti amministrativi, rifiutando un'applicazione analogica dell'art. 2 co. II c.p., anche alla luce dell'art. 14 preleggi (cfr. Cass. 6712/1999, Cass. SS.UU. 890/1998, Cass. 8074/1998, Cass. 2058/1998, Cass. 11928/1995, Cass. 13246/1992, Cass. 6318/1986, Cons. St. 3497/2010, Cons. St. 2544/2000) e considerando i limitati casi in cui il principio della retroattivita' della lex mitior opera come casi settoriali, non estensibili oltre il loro ristretto ambito di applicazione. Inoltre, come gia' evidenziato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze 347-348/2007, l'unico rimedio in caso di contrasto tra la normativa italiana e quella convenzionale, laddove non sia possibile un'interpretazione conforme (come nella specie, stante il diritto vivente contrario), non potendosi ricorrere alla tecnica della disapplicazione (prerogativa del diritto comunitario), e' il rinvio alla Consulta per violazione dell'art. 117 co. I Cost. La questione e' pregiudiziale e la sua soluzione e' necessaria ai fini della decisione della controversia. Nella specie infatti si tratta di opposizione ex art. 22 L. 689/1981 ad ordinanza ingiunzione del Ministero del Lavoro - DPL Cremona, proposta da parte di una nota azienda casearia, alla quale venivano contestate violazioni della normativa in tema di riposo giornaliero e riposo settimanale (art. 7 e 9 D.Lgs. 66/2003) per gli anni dal 2004 al 2007. La disciplina applicata dalla DPL Cremona e' quella dell'art. 18-bis L. 66/2003 (introdotto dal D.Lgs. 213/2004), che prevede una sanzione da euro 105,00 ad euro 630,00 per ogni violazione, laddove, con D.Lgs. 183/2010, per le predette violazioni e' ora prevista, in caso esse riguardino piu' di 10 lavoratori, come nella specie, una sanzione rispettivamente da euro 900,00 ad euro 1.500,00 (art. 7) e una sanzione da euro 1.000,00 ad euro 5.000,00 (art. 9). Cosi' che, sempre con riferimento al caso in esame, mentre la sanzione concretamente applicata dall'Ente e' risultata pari ad euro 129.150,00 pari a 709 violazioni (art. 7) ed euro 172.410,00 pari ad 821 violazioni (art. 9), nel caso si ritenesse applicabile la normativa piu' favorevole attualmente in vigore la sanzione sarebbe rispettivamente, al massimo, di euro 1.500,00 e di euro 5.000,00.