LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE Ha emesso la seguente ordinanza sul ricorso n. 7987/01 depositato il 5 giugno 2001 avverso avviso liquidazione e irr. sanzioni n. 9810183 successione; Contro Agenzia entrate ufficio Milano 1, proposto dal ricorrente: Branca Niccolo via Molamezza 10, 50026 San Casciano in Val di Pesa FI, difeso da: avv.ti Marongiu Gianni e Dominici Remo via Bacigalupo n. 4/15, 16100 Genova; Fatto In data 3 marzo 1998 decedeva in Milano il sig. Carlo Ranieri Branca alla cui successione veniva chiamato il nipote Niccolo' Branca, l'unico erede e attuale ricorrente. A seguito dell'accettazione di eredita' beneficiaria venivano redatti due verbali di inventario (rispettivamente il 1° giugno 1998 e il 13 luglio successivo) e l'erede provvedeva quindi, in data 14 ottobre 1998, alla presentazione della relativa denuncia di successione indicante attivita' per Lit. 408.121.247 (n. 10183). A tale prima denuncia facevano seguito (il 2 marzo 1999) una seconda denuncia modificativa (n. 2128), in cui le attivita' ereditarie erano quantificate in Lit. 38.613.524.984, e quindi una terza dichiarazione'aggiuntiva (n. 4114) presentata il 22 aprile 1999 con cui sono stati denunciati ulteriori cespiti per Lit. 98.216.115. Con l'avviso di liquidazione vol. 98/10183, notificato il 22 marzo 2001 l'Ufficio del registro successioni di Milano liquidava in Lit. 22.672.129.950 l'imposta principale di successione asseritamente dovuta a: seguito della presentazione della prima dichiarazione citata (la n. 10183). Per la precisione l'ufficio liquidava due imposte, una sul valore netto-globale dell'asse (cosi' come previsto dall'art. 7, primo comma, del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346) pari a lire 11.248.452.475 e la seconda, sulla quota (prevista dall'art. 7, seconda comma, d.lgs. n. 346 del 1990) pari a lire 11.423.652.475. Ritenuta l'illegittimita' dell'avviso di liquidazione l'erede proponeva ricorso deducendo: in primo luogo la violazione degli art. 27 e 33, quarto comma, del d.leg.vo 31 ottobre 1990, n. 346 (recante la disciplina dell'imposta di successione); in secondo luogo l'erede contestava la illegittimita' costituzionale dell'art. 7 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 e in particolare del suo secondo comma, per violazione degli artt.3 e 53 cost. Tanto premesso la Commissione tributaria provinciale di Milano ritiene la questione di legittimita' costituzionale rilevante e non manifestamente infondata e con la presente ordinanza la prospetta inviando gli atti alla Corte costituzionale per le seguenti ragioni. Sulla rilevanza. Al riguardo giova ricordare che l'art. 7 del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346, al primo o al secondo comma cosi' statuisce: (Determinazione dell'imposta». 1. L'imposta e' determinata mediante l'applicazione delle aliquote indicate nella colonna a) della tariffa al valore globale netto dell'asse ereditario. Se vi sono piu' eredi e se vi sono legatari l'imposta e' ripartita tra loro in proporzione al valore delle rispettive quote di eredita' e dei rispettivi legati. 2. "Se l'erede, il coerede o il legatario non e' coniuge ne' parente in linea retta del defunto, l'imposta determinata nei suoi confronti a norma del comma 1 e' aumentata dell'importo risultante dall'applicazione delle aliquote indicate nelle colonne b) della tariffa al valore dell'eredita' o legato" (cosi' l'art. 7). Trattandosi di' una eredita' di zio a nipote l'ufficio ha liquidato ambedue le imposte sia quella prevista dal primo comma che quella prevista dal secondo comma. Il contribuente erede, nel proprio ricorso, ha prospettato la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 7, secondo comma, del d.lgs. n, 346 del 1990 per violazione degli artt. 3 e 53 Cost. Al riguardo giova ricordare che identica questione di legittimita' costituzionale e' stata gia' prospettata dalla Commissione milanese che, ritenendola non manifestamente infondata, l'ha rinviata alla Corte costituzionale. Al riguardo la Corte si e' gia' pronunciata ma la relativa ordinanza (n. 453 del 2005) non e' preclusiva di un riesame perche' la Corte non si e' pronunciata nel merito. La questione proposta e' stata ritenuta inammissibile perche' "il giudice a quo non precisa ne' la data dell'apertura della successione ne' se il contribuente sia erede cosiddetto diretto o indiretto del defunto, limitandosi ad affermare che l'accoglimento della sollevata questione comporterebbe che il ricorrente Branca si vedrebbe esonerato dal pagamento del secondo tributo preteso con l'avviso di liquidazione impugnato". Ne consegue (sono ancora parole della Corte costituzionale) che "in applicazione del consolidato principio di autosufficienza dell'ordinanza di rimessione, le indicate lacune nella descrizione della fattispecie non sono colmabili in base agli scritti difensivi delle parti e si traducono, pertanto, in difetto di motivazione sulla rilevanza della questione con conseguente manifesta inammissibilita' di questa". Orbene, tanto premesso si precisa che la successione si e' aperta il 3 marzo 1998, che si tratta di una successione da uno zio ad un unico nipote e che il caso e' disciplinato, ratione temporis, dall'art. 7 del d.lgs. n. 346 del 1990. La questione e', pertanto, rilevante. Sulla non manifesta infondatezza della questione. 1. La questione, per altro, non e' compromessa neppure sotto il profilo della "non manifesta infondatezza". Al riguardo giova riandare ancora una volta a quanto dispone l'art. 7 della vecchia legge di successione. Se ne evince che l'erede c.d. indiretto (e solo lui) e' chiamato a pagare due imposte. Sulla prima, la globale, si' e' pronunciata la Corte costituzionale che, con l'ordinanza sopra ricordata, l'ha ritenuta legittima. Si legge, infatti, "Quanto alla denunciata imposizione incidente sull'asse ereditario, il legislatore - con scelta non isolata nell'ambito della legislazione fiscale dei paesi occidentali - ha non irragionevolmente assunto, nella sua discrezionalita', il complessivo patrimonio ereditario quale base di commisurazione dell'imposta progressiva da ripartire fra i beneficiari, avendo come fine il perseguimento, in occasione delle vicende traslative mortis causa, di politiche redistributive non sindacabili da questa Corte, se non nei limiti della manifesta arbitrarieta' o irrazionalita' (nella specie non sussistente); "questa non censurabile scelta del legislatore di attribuire carattere reale all'imposta sull'asse ereditario giustifica l'imposizione per il solo fatto oggettivo dell'esistenza del patrimonio ereditario unitariamente considerato e, di conseguenza, l'identificazione del soggetto passivo in colui che ha un collegamento effettivo con detto patrimonio, e cioe' nel successore mortis causa. "date tali premesse, l'imposta denunciata non viola l'evocato art. 53, primo comma, Cost., perche', gravando sul patrimonio ereditario, ha riguardo ad una capacita' contributiva manifestata dal medesimo patrimonio nel suo complesso e non - come avviene nel caso dell'imposta sulle quote ereditarie e sui legati - dal singolo trasferimento (od incremento) di ricchezza in favore dei successori" (cosi' l'ordinanza n. 453 del 2005). 2. Orbene, muovendo da questa premessa, va giudicato il caso in esame alla luce della disciplina vigente nel 1998 e dettata nel 1990, senza dimenticate le novita' introdotte, per l'appunto, nel 1990 rispetto alla normativa previgente. Questo giudice muove, per l'appunto, da alcune rilevantissime modificazioni introdotte dal testo unico del 1990, la cui importanza appare evidente per le implicazioni in punto di legittimita' costituzionale. Il d.P.R. n. 346/1990 ha bene distinto la figura del chiamato all'eredita' da quella dell'erede. Eredi e legatari sono i soggetti passivi del tributo, perche' e' a loro favore che si determina il trasferimento di ricchezza assunto dal legislatore a presupposto impositivo (art. 36), mentre sui chiamati all'eredita' grava l'obbligo strumentale di presentazione della denuncia (art. 28). In buona sostanza il chiamato diventa contribuente solo se accetta e solo se e quando si' ha la certezza che il suo arricchimento da potenziale e' divenuto definitivo tant'e' che il riformulato art. 42, primo comma, lett. a) prevede oggi, a differenza della disciplina anteriore al 1990, la possibilita' di rimborso dell'intera imposta (e non solo di quella percetta in piu') nel caso di mutamento di devoluzione creditaria. In sostanza, nel 1990, l'attenzione del legislatore si e' spostata dal momento dell'apertura della successione a quello dell'accettazione dell'eredita', dal momento in cui emerge l'esistenza di un patrimonio caduto in successione a quello in cui i beni ereditari sono acquisiti dai soggetti passivi. Giudicato alla luce dei principi costituzionali che devono guidare il prelievo fiscale, inequivocabile e incontestabile e' il criterio che ha guidato il legislatore del 1990, l'accentuazione del nesso tra imposizione e capacita' contributiva del singolo erede o legatario. 3. Le innovazioni legislative sul soggetto passivo hanno inciso anche sull'esatta individuazione del presupposto. Ai fini del presente giudizio non rileva, neppure, l'opinione secondo la quale i mutamenti legislativi, introdotti nel 1990, sono tali e tanti da non potere piu' considerare l'imposta di successione come un tributo sulla ricchezza relitta dal de cuius e trasferita agli eredi: essa, cioe', non sarebbe piu' un'imposta sui trasferimenti ma sarebbe un'imposta sulla ricchezza acquisita dagli eredi, sugli incrementi patrimoniali di costoro. Infatti, su un punto e su una conclusione tutti concordano e cioe' che "in ordine al presupposto il testo unico del 1990 ne ha confermato l'unicita'" e cosi' "la duplicita' di imposte, l'una applicabile sull'asse ereditario nel suo complesso, l'altra sulle singole quote ereditarie, risulta oggi sicuramente superata" 4. Ovvie sono, allora, le conseguenze accogliendo la tesi per cui il tributo successorio colpisce l'incremento patrimoniale realizzato dall'erede. Evidente e' la incostituzionalita' del doppio prelievo e quindi del secondo comma dell'art. 7 perche' l'erede realizza un solo incremento. Ma alla stessa conclusione si perviene muovendosi all'interno della logica dell' imposta sui trasferimenti. Se il trasferimento mortis causa, e solo esso, assume il ruolo di presupposto appare irrazionale che, a fronte di un unico presupposto, vi siano due basi imponibili, una riferita al valore globale netto dell'asse ereditario (art. 7, primo comma) e l'altra al valore dell'eredita', delle quote di eredita' o di legato (secondo comma): la seconda pagata solo da alcuni soggetti passivi. Se tutti (e quindi ciascuno) devono concorrere alle spese pubbliche in ragione della propria capacita' contributiva (art. 53 Cost.), il legislatore deve ancorare il prelievo a un fatto che sia un indice effettivo e concreto di capacita' contributiva e di forza economica: "il principio della capacita' contributiva, sul piano garantistico costituzionale, deve essere inteso come espressione dell'esigenza che ogni prelievo tributario abbia causa giustificatrice in indici concretamente rivelatori di' ricchezza" (cosi' Corte cost. 10 luglio 1972, n. 120; Corte cost. 10 luglio 1975, n. 201; Corte cost., 22 aprile 1980, n. 54). Libero, quindi, il legislatore di scegliere questo o quel fatto a presupposto purche' sia indice di una effettiva forza economica, ma, se quella specifica capacita' contributiva si vuole colpire e tassare. deve trovarsi, pari pari, specularmente fotografata e individuata dalle norme che delimitano la base imponibile. Quindi, se si costruisce il tributo come un prelievo sul trasferimento, la base imponibile non puo' essere che la ricchezza trasferita all'erede o agli eredi. Ne emerge, insomma, una palese irrazionalita' intrinseca del disposto legislativo applicabile alla fattispecie in esame ove si muova dalla premessa, per cui l'imposta di successione e' un tributo unico sui trasferimenti della ricchezza: l'imposta, quanto al presupposto, e' unica e intende tassare il trasferimento (dal de cuius all'erede o agli eredi) ma la base imponibile e' duplice, come se in capo allo stesso soggetto potessero esservi due trasferimenti(!). Se il legislatore ha scelto quale presupposto il trasferimento ed esso e' unico, anche il tributo non puo' essere che unico, specie quando esso colpisce, con l'imposta globale, l'intera ricchezza relitta dal de cuius. E infatti, non si comprende quale sarebbe la diversa e ulteriore capacita' contributiva da tassarsi in capo all'erede (nipote del de cuius) se egli, dopo avere pagato il tributo sull'intera ricchezza lasciata dallo zio, e' chiamato a pagare. un secondo tributo: Quale ulteriore capacita' contributiva colpisce il secondo? Il secondo tributo e', palesemente, un duplicato illegittimo del primo perche' esso non colpisce una diversa e ulteriore ricchezza. Ma, come e' del tutto pacifico, la doppia imposizione della stessa ricchezza e' incostituzionale per violazione del principio di capacita' contributiva. Il che non significa che non possa (e non debba) differenziarsi il trattamento fiscale delle successioni dirette (da padre a figlio, ad esempio) rispetto a quelle indirette (da zio a nipote) perche' alle prime possono applicarsi specifiche deduzioni negate alle seconde, perche' alle prime possono applicarsi aliquote inferiori. Ma due basi imponibili per le seconde e una sola per le prime (quando il tributo e' per definizione unico) non sembra proprio legittimo e anzi pare irragionevole. Conseguentemente i dubbi di legittimita' costituzionale prospettati per violazione dell'art 53, primo comma, Cost. e dell'art. 3 Cost. per irragionevolezza, paiono rilevanti e non manifestamente infondati.