LA CORTE D'APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento camerale n. 327/2013 V.G., avente ad oggetto: equa riparazione ex legge n. 89/2001, ad istanza di Tilenni Rosignolo Carmela, nata a S. Agata Militello (Messina) il 13 dicembre 1970, rappresentata e difesa dall'avv. Giuseppe Riolo, PEC: avvgiusepperiolo@puntopec.it, per mandato in atti, elettivamente domiciliata in Reggio Calabria, via Miraglia 19 (studio Florio), ricorrente; Contro Ministero della giustizia, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato presso i cui uffici a via del Plebiscito n. 15 in Reggio Calabria e' domiciliato ope legis, resistente. Visto il ricorso proposto in data 18 novembre 2013 da Tilenni Rosignolo Carmela con il quale viene richiesto l'indennizzo per l'irragionevole durata del giudizio civile svoltosi dinanzi al Tribunale di Patti (iscritto al n. 4104/02 RG), conclusosi (controversia conclusasi con la condanna della ricorrente) con sentenza del Tribunale di Patti n. 1175/12 del 18 maggio 2012, passata in giudicato in data 18 maggio 2013; Vista la documentazione allegata, osserva. 1. - La fattispecie. Il giudizio presupposto e' stato definito con sentenza del Tribunale di Patti n. 1175/12 del 18 maggio 2012, che ha respinto la domanda dell'attuale ricorrente. 2. - La disciplina applicabile alla fattispecie. La norma censurata. Reputa questo decidente che la nuova disciplina dettata in tema di equa riparazione per effetto delle modifiche introdotte alla legge 24 marzo 2001, n. 89, dall'art. 55 del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83 (recante Misure urgenti per la crescita del Paese: c.d. decreto Sviluppo), convertito in legge 7 agosto 2012, n. 134, e in particolare la norma, decisamente innovativa, contenuta nel nuovo art. 2-bis, comma 3, legge n. 89/2001 (a mente della quale, «la misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma 1, non puo' in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice»), debba necessariamente portare a non riconoscere, in tal caso, in alcuna misura, il preteso diritto all'indennizzo. 2.1. - Prima di concentrare l'attenzione su tale disposizione, giova prendere le mosse da altra previsione che vale a delineare un piu' ampio e coerente quadro di riferimento, anche se di per se' non ancora decisivo ne' univoco nel senso sopra indicato: ci si riferisce alla previsione di cui all'art. 2-bis, comma 2, lett. a), l. cit., secondo la quale «... l'indennizzo e' determinato... tenendo conto: a) dell'esito del processo nel quale si e' verificata la violazione di cui al comma 1, dell'art. 2... ». Onde apprezzarne la portata innovativa, e' bene rammentare che, con riferimento alla previgente normativa, nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (conformemente alla giurisprudenza della Corte E.D.U.), posta la regola del riconoscimento del diritto all'equa riparazione a tutte le parti del processo «indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio» e precisata altresi' l'irrilevanza della «asserita consapevolezza da parte dell'istante della scarsa probabilita' di successo dell'iniziativa giudiziaria» (v. ex aliis Cass. 12 aprile 2010, n. 8632; 9 aprile 2010, n. 8541), si ammette bensi' che dell'esito del processo presupposto possa comunque tenersi conto ma solo qualora abbia un indiretto riflesso sull'identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell'eccessiva durata della causa, come accade «quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2», precisandosi inoltre che di dette situazioni, «costituenti abuso del processo» anche ai fini della commisurazione dell'indennizzo, «deve dare prova puntuale l'Amministrazione» non essendo «sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata» (v. ex multis, da ultimo, Cass. 9 gennaio 2012, n. 35). A fronte di un indirizzo cosi' strutturato, la portata innovativa della previsione di cui all'art. 2-bis, comma 2, lett. a) si apprezza sotto un duplice profilo. Anzitutto perche' la considerazione dell'esito del giudizio assume, nella nuova disciplina, bensi' ai soli fini della quantificazione dell'indennizzo, un ruolo non piu' eccezionale ma normale, fisiologico e soprattutto sganciato dalla condizione che esso si accompagni anche alla consapevolezza della parte e, correlativamente, ad un uso strumentale del processo. In secondo luogo, perche' non puo' considerarsi piu' necessario, affinche' l'esito del giudizio possa assumere un ruolo riduttivo dell'indennizzo, che lo stesso (e soprattutto l'abuso del processo alla base di esso richiesto) sia oggetto di un onere di allegazione e prova da parte dell'amministrazione, potendo e dovendo il giudice ex se - tanto piu' nel nuovo modello procedimentale a contraddittorio eventuale - sindacare e ponderare l'esito del giudizio quale risultante dagli atti prodotti. 2.2. - Nella stessa direzione si inserisce, ma con portata ancor piu' dirompente, la previsione qui censurata contenuta nel comma 3 del nuovo art. 2-bis, a tenore della quale "la misura dell'indennizzo, anche in deroga al comma 1, non puo' in ogni caso essere superiore al valore della causa o, se inferiore, a quello del diritto accertato dal giudice". 2.2.1. - La previsione pone, anzitutto, un ancor piu' stretto legame tra valore della causa ed equa riparazione, stabilendo che il primo rappresenta un limite per il secondo. In tale parte essa da' espressione ad una convinzione di comune buon senso particolarmente avvertita per le cause bagattellari: e', infatti, inimmaginabile che per l'eccessiva durata di un processo nel quale tuttavia si verta di beni o somme per un valore di poche centinaia o addirittura poche decine di euro, possa mai presumersi una sofferenza morale o patema d'animo tale da meritare indennizzi di euro 750 o anche solo 500 per ogni anno di ritardo. 2.2.2. - La norma, pero', va al di la' di tale equazione, giungendo - nella seconda parte - a stabilire che l'indennizzo non possa essere superiore nemmeno al «valore del diritto accertato dal giudice», ove questo risulti inferiore al valore della causa. Alla stregua di tale disposizione l'esito della causa assume, dunque, un rilievo ben maggiore di quello di mero parametro di commisurazione dell'indennizzo tra il minimo di euro 500 e il massimo di euro 1500 per anno o frazione di anno stabiliti dal primo comma dell'art. 2-bis, imponendo una liquidazione anche al di sotto di tale limite («anche in deroga al comma 1», precisa la norma) ove inferiore ad esso sia appunto il valore del diritto accertato dal giudice. Il significato oggettivo di tale disposizione induce, come detto, a ritenere che nulla possa essere liquidato nel caso in cui il diritto fatto valere in giudizio sia giudicato inesistente, finendo, di fatto, a condizionare all'esito almeno in parte vittorioso del giudizio presupposto l'accoglibilita' della domanda di equa riparazione per l'irragionevole durata dello stesso. Sul piano logico, infatti, non sembra contestabile che, almeno ai fini della norma in esame, l'accertamento negativo della sussistenza di un diritto equivale all'accertamento che il diritto fatto valere in giudizio e' inesistente (e come tale, per cosi' dire, «vale zero»). Non puo' sfuggire pertanto il paradosso (ed anche la violazione del fondamentale parametro di cui all'art. 3 Cost.) cui si incorrerebbe a ritenere che, posto il valore della causa uguale a 100: a) in caso di diritto accertato uguale a 10, sia liquidabile un indennizzo non maggiore di 10; b) in caso di radicale rigetto della domanda, sia invece liquidabile un indennizzo maggiore fino al limite di 100. Occorrerebbe presumere cioe', ma non si vede con quale plausibilita' logica, che la durata irragionevole del processo sia fonte per la parte di sofferenza morale maggiore in caso di totale rigetto della sua domanda e minore in caso di parziale accoglimento. 2.3. - E' tutt'altro che certo, peraltro, che una tale interpretazione della norma, fondata sulla sua insuperabile formulazione letterale, vada oltre l'intenzione del legislatore, potendosi rinvenire da altre parti della novella indici alquanto significativi nella medesima direzione. Tali sono anzitutto le disposizioni che escludono il diritto all'indennizzo in caso di esito del giudizio conforme alla proposta conciliativa o a quella ricevuta in sede di mediazione (art. 2, comma 2-quinquies, lett. b, c): ipotesi queste ultime rispetto alle quali l'avere agito infondatamente in giudizio costituisce sicuramente un minus (dal punto di vista del riconoscimento che nel giudizio presupposto hanno ricevuto le ragioni fatte valere dalla parte). Ma rilievo convergente deve darsi anche: alla gia' vista disposizione che indica l'esito del processo tra i parametri cui aver necessariamente riguardo per la commisurazione dell'indennizzo; alla modifica dell'art. 4 che ha reso improponibile la domanda anteriormente alla conclusione del procedimento con provvedimento definitivo; alla norma contenuta nel novellato art. 3 comma 3, lett. c) che impone al ricorrente di depositare, unitamente al ricorso, copia autentica della sentenza o ordinanza irrevocabile che ha concluso il giudizio. L'importanza che - come da tali ultime modifiche si trae con evidenza - viene attribuita al fatto che il giudice dell'equa riparazione sia posto in condizione di conoscere l'esito definitivo del giudizio, non altrimenti puo' spiegarsi se non con il preponderante rilievo attribuito dal legislatore nazionale a tale aspetto della vicenda, quale parametro determinativo della liquidazione dell'indennizzo. Indiretta conferma della ragionevolezza di tale interpretazione si trae, infine, dalla relazione al disegno di legge di conversione, e in particolare dall'osservazione ivi contenuta secondo cui tra le finalita' della riforma vi e' quella di «non allargare le maglie di un bacino di domanda di giustizia suscettibile di distorsioni che sono gia' presenti nell'attuale sistema (in cui accade che una causa venga instaurata, al di la' della fondatezza della pretesa, in funzione del conseguimento del successivo indennizzo spettante per la violazione del termine di durata ragionevole del processo, dal momento che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha piu' volte affermato che l'indennizzo in parola spetta anche alla parte rimasta soccombente nel processo "presupposto")». Tale passaggio sembra invero tradire la piena consapevolezza da parte del legislatore che il principio da sempre affermato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo e, in piena adesione alla stessa, in quella della Corte di Cassazione, secondo cui l'equa riparazione spetta anche alla parte pienamente soccombente, e' causa di distorsioni nel funzionamento e nell'impostazione teorica stessa dei fondamenti e della natura del diritto all'equa riparazione. Secondo la relazione, la riforma non interverrebbe su tale distorsione ma si limiterebbe a perseguire l'obiettivo di non allargarne le maglie. Alla stregua pero' di quanto sopra si e' detto, gli strumenti di fatto introdotti e da ultimo analizzati - prescindendo del tutto, nell'attribuire il visto rilievo all'esito del giudizio, dall'accertamento dell'esistenza di un atteggiamento negligente, strumentale o abusivo a fondamento della domanda rigettata o della resistenza a quella interamente accolta - appaiono oggettivamente idonei anche a contrastare in radice il principio suddetto. 2.4. - Non ignora questo decidente che indice di segno contrario e' rappresentato dalla previsione, contenuta nel comma 2-quinquies lett. a) dell'art. 2 l. Pinto, secondo la quale non puo' essere riconosciuto alcun indennizzo in favore della parte soccombente «condannata a norma dell'art. 96 del codice di procedura civile». Alla stregua di tale disposizione, affinche' sia escluso l'indennizzo dovrebbe concludersi che non possa bastare la mera soccombenza, occorrendo che la parte soccombente sia stata condannata per responsabilita' processuale aggravata. L'argomento, in effetti, e' tutt'altro che debole, ma ancor piu' difficilmente superabile rimane l'ostacolo rappresentato dalla soglia del valore del diritto accertato chiaramente dettata come soglia alla liquidazione dalla disposizione qui censurata che, pur dedicata alla «misura dell'indennizzo» e non ai presupposti dello stesso, finisce con il pesare maggiormente della prima in sede applicativa, non vedendosi, infatti, come giustificare e come parametrare l'indennizzo in favore del soccombente in modo coerente con tale limite. Meno cogente appare, invece, sul piano applicativo, la norma di cui all'art. 2, comma 2-quinquies lett. a), la quale, a ben vedere, si limita a identificare un gruppo di ipotesi (giudizi presupposti in cui la parte che richiede l'indennizzo sia risultata soccombente e sia stata anche condannata per responsabilita' processuale aggravata) all'interno di un gruppo di ipotesi piu' ampio (giudizi presupposti in cui la parte che chiede l'indennizzo sia risultata interamente soccombente), riferendo solo al primo circoscritto sottoinsieme il previsto effetto dell'esclusione, a priori, del diritto all'indennizzo per l'irragionevole durata del processo. In mancanza di altro indice normativo e' evidente che il criterio interpretativo dell'argomento a contrario varrebbe da solo a dimostrare che per tutte le altre ipotesi rientranti nell'insieme piu' ampio, ma non nel sottoinsieme piu' ridotto, la mera soccombenza non possa di per se' ritenersi motivo di esclusione dall'equa riparazione. Detto altro indice normativo pero' esiste, ed e' rappresentato per l'appunto dalla norma qui censurata. Questa invero ha evidentemente uno spettro di azione piu' ampio, capace di investire, sia pure come detto non riguardando in astratto i presupposti del diritto all'indennizzo ma incidendo piuttosto sulla concreta commisurazione dello stesso, l'intero e piu' ampio gruppo di ipotesi sopra considerato e di farlo altresi', in ragione di una formulazione testuale evidentemente non ben ponderata, in termini cosi' radicali da privare di fatto la distinzione tra le due ipotesi se non di senso, certamente di ogni pratica utilita'. Le rationes sottese alle due norme sono, infatti, chiaramente diverse: per la prima essendo rappresentata dalla impossibilita' di ipotizzare una qualunque sofferenza morale per l'irragionevole durata del processo in presenza di un comprovato atteggiamento strumentale e abusivo della parte, per la seconda essendo invece rappresentata da una esigenza di porre un limite razionale alla valutazione del danno, pur a priori non escluso, e alla correlata liquidazione dell'indennizzo. Lo strumento prescelto per fissare tale ultimo limite si rivela, pero', evidentemente piu' potente rispetto ai limitati obiettivi per i quali era stato probabilmente pensato o entro i quali puo' comunque ritenersi giustificato in relazione ai parametri accettati nella giurisprudenza europea, finendo come detto ad abbassare la soglia dell'indennizzo fino ad annullarlo del tutto nel caso della soccombenza. A tutto concedere non puo' non registrarsi un insanabile contrasto, quantomeno agli effetti pratici, tra le due norme, il che pero', lungi dal poter autorizzare l'interprete a una mera disapplicazione della seconda nella parte in cui risulti in contrasto con la prima, ne rafforza piuttosto il sospetto di incostituzionalita'. Non si conoscono comunque orientamenti giurisprudenziali favorevoli a riconoscere il diritto all'equa riparazione, sotto il vigore della nuova disciplina, alla parte soccombente del processo presupposto, registrandosi piuttosto, al contrario, gia' diverse pronunce di rigetto (v. ex aliis App. Bari, decr. 25 settembre 2012, nel proc. n. 547/12 V.G; Id., decr. 6 novembre 2012, nel proc. n. 610/12 V.G.; Id., decr. 6 novembre 2012, nel proc. n. 613/12 Id., decr. 15 gennaio 2013, nel proc. n. 641/12 V.G.; App. Caltanissetta, decr. 7 febbraio 2013). 3. - Il parametro costituzionale di riferimento. La rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale. Il dubbio di costituzionalita' della norma suindicata nasce dal contrasto della stessa con l'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo, nella misura in cui tale norma, nella detta interpretazione, puo' e deve intendersi assurta a parametro di costituzionalita' della legge interna per effetto del richiamo operato dall'art. 117 Cost. 3.1. - Al riguardo e' opportuno anzitutto brevemente tratteggiare le coordinate giuridiche entro le quali questo decidente ritiene doversi muovere nel districarsi tra i rapporti tra norme interne e norme CEDU: i) prima regola deve considerarsi quella (costantemente affermata dalla Corte di Cassazione a partire dalle pronunce delle Sezioni Unite del 26 gennaio 2004, n. 1338, n. 1339, n. 1340 e n. 1341 e quindi avallata anche dalla Corte costituzionale a partire dalle note sentenze gemelle del 2007, nn. 348 e 349, e con numerose successive pronunce, sino, da ultimo, all'ordinanza 7 giugno 2012, n. 150) secondo cui il giudice comune ha il dovere di «applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione» e di «interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea»; a tal fine secondo la costante giurisprudenza costituzionale, il giudice comune deve anzitutto individuare la norma della Convenzione applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame e, nel verificare se essa sia vulnerata dalla disposizione interna, cio' deve fare avendo riguardo alla norma CEDU quale risulta dall'interpretazione della Corte di Strasburgo (v. Corte cost. 22 luglio 2011, n. 236 contenente una completa rassegna delle pronunce che, a partire dalle sentenze 24 ottobre 2007, n. 348 e n. 349 del 2007, hanno affermato detto principio). Egli non puo' «sindacare l'interpretazione della Convenzione fornita dalla Corte di Strasburgo», che deve applicare nel significato attribuitole da quest'ultima, avendo tuttavia riguardo alla «sostanza di quella giurisprudenza», e dunque potendo in tal senso giovarsi degli specifici margini di apprezzamento riservati al giudice nazionale (Corte cost. 26 novembre 2009, n. 311; 22 luglio 2011, n. 236, cit.); ii) tale dovere opera «"per quanto possibile", e quindi solo nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa legge», che il giudice non puo' violare, essendo ad essa «pur sempre soggetto», con la conseguenza che qualora rilevi un contrasto della norma interna con la norma convenzionale, al quale non possa porre rimedio mediante l'interpretazione conforme, e' tenuto a sollevare questione di legittimita' costituzionale della prima, in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., poiche' e' privo del potere di non applicare la disposizione interna (v. in tal senso, proprio in materia di equa riparazione, Cass. 11 marzo 2009, n. 5894). Siffatti principi, dopo l'entrata in vigore del Trattato di Lisbona, sono stati dapprima implicitamente confermati da una serie di sentenze del 2010 e dell'inizio del 2011 (sentenze 5 gennaio 2011, n. 1; 4 giugno 2010, n. 196; 28 maggio 2010, n. 187; 15 aprile 2010, n. 138; 12 marzo 2010, n. 93) quindi, sono stati ribaditi, quanto all'inesistenza del potere del giudice comune di disapplicare la norma interna in contrasto con la norma convenzionale, dalla sentenza 11 marzo 2011, n. 80, i cui principi sono stati confermati da successive pronunce (sentenze 11 novembre 2011, n. 303; 22 luglio 2011, n. 236; 8 giugno 2011, n. 175; 7 aprile 2011, n. 113; ordinanze 8 giugno 2011, n. 180; 15 aprile 2011, n. 138) e, di recente, hanno ricevuto il conforto della Corte di giustizia (sentenza 24 aprile 2012, n. C-571/10, Kamberaj, secondo la quale «il rinvio operato dall'art. 6, paragrafo 3, TUE alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta Convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest'ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa»). 3.2. - Orbene, le esposte coordinate non possono che condurre, con riferimento alla questione descritta, ad investire della stessa la Corte Costituzionale, sussistendo entrambi i presupposti richiesti dall'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, ossia la rilevanza della questione ai fini della decisione sulla proposta domanda e la non manifesta infondatezza della stessa. Quanto alla rilevanza e' appena il caso di ribadire che la norma additata a sospetto ha una diretta incidenza nella decisione sulla proposta domanda di equa riparazione: se ne fosse, infatti, confermata la legittimita' costituzionale in applicazione della stessa la domanda (come in altri casi analoghi e' stato deciso nei precedenti citati) andrebbe rigettata; in caso contrario essa andrebbe accolta, salvo solo una commisurazione tendenzialmente al minimo dell'indennizzo spettante, all'interno del range fissato nel primo comma dell'art. 2-bis e salvo sempre il limite rappresentato dal valore della causa. Quanto alla sua non manifesta infondatezza la stessa appare altresi' piu' che fondatamente predicabile, atteso che, da un lato, non puo' dubitarsi dell'irriducibile contrasto della norma interna (ripetesi, art. 2-bis, comma 3, ultimo inciso, legge n. 89/2001) con la giurisprudenza della Corte europea sul tema, dall'altro, si deve anche escludere la possibilita' di una diversa interpretazione, costituzionalmente orientata, della norma interna. 3.2.1. - Sotto il primo profilo (contrasto della norma con la giurisprudenza europea) e' noto che la Corte di Strasburgo ha sempre sottolineato l'irrilevanza della soccombenza del ricorrente, in se' e per se' considerata, ai fini del diritto alla «satisfaction equitable» dell'art. 41 della Convenzione, in ragione del rilievo che la parte, indipendentemente dall'esito della causa, ha comunque subito una diminuzione della qualita' della vita in conseguenza dei patemi d'animo sopportati durante il lungo arco temporale che ha preceduto la definitiva decisione della sua posizione processuale (v. ex aliis Corte europea diritti dell'uomo, 19 febbraio 1992, Paulsen-Medalen c. Svezia, in Recueil 1998, I, p. 132, che, in un caso in cui una madre protestava contro alcune restrizioni al diritto di visitare i propri figli, dati in affidamento, ha riconosciuto alla ricorrente la somma di 10.000 corone titolo di «equa soddisfazione» ai sensi dell'art. 41 della convenzione, anche se le restrizioni in questione erano state confermate nei vari gradi di giudizio). Un siffatto principio e' da sempre stato ribadito, sotto il vigore della previgente disciplina, dalla Corte di Cassazione essendosi da sempre affermato - come gia' visto - che il danno non patrimoniale non e' escluso dall'esito negativo del processo, ovvero dall'elevata possibilita' del rigetto della domanda e che, per ritenere infondata la domanda, occorre, come pure sopra gia' accennato, che la parte si sia resa responsabile di lite temeraria, o comunque di un vero e proprio abuso del processo (da ultimo Cass. 12 aprile 2010, n. 8632; Cass. 9 aprile 2010, n. 8541), del quale deve dare prova la parte che la eccepisce (tra le molte, Cass. 19 gennaio 2010, n. 819). Secondo la Corte di Cassazione, per negare l'esistenza del danno, puo' bensi' assumere rilievo la «chiara, originaria e perdurante certezza sulla inconsistenza» del diritto fatto valere nel giudizio, con l'avvertenza che non «equivale a siffatta certezza originaria la mera consapevolezza della scarsa probabilita' di successo della azione» (Cass. 2 aprile 2010, n. 8165; 2008, n. 24269). Il descritto quadro internazionale, normativo e giurisprudenziale, di riferimento non puo' considerarsi rilevantemente mutato, per il profilo in esame, a seguito dell'entrata in vigore, il 1° giugno 2010, del nuovo art. 35 comma 3, lettera b) della Convenzione EDU, che consente al giudice di Strasburgo di dichiarare irricevibile il ricorso individuale ex art. 34 per il quale il ricorrente non abbia subito alcun pregiudizio rilevante, salve le ipotesi (c.d. clausole di salvaguardia) di mancato esame del caso da parte del giudice nazionale, oppure di compressione di diritti umani convenzionali. Occorre al riguardo osservare che i contorni e i riflessi operativi di una tale condizione di ricevibilita' (comunemente definita de minimis non curat praetor e finalizzata a ridurre il contenzioso su violazioni di minima entita') non risultano ancora chiari e consolidati. A quanto consta, le uniche applicazioni sono state fatte: a) per escludere il diritto all'equa riparazione in relazione alla equita' di un procedimento penale conclusosi con la condanna a multa per € 150,00 oltre ad € 22,00 per spese e al ritiro di un punto dalla patente di guida (sent. 19.10.2010, Rinck c. Francia); b) per escludere l'equa riparazione reclamata dall'imputato per la durata irragionevole di un processo penale conclusosi pero', proprio a ragione della sua durata, con il proscioglimento dell'imputato medesimo per prescrizione del reato, che la Corte ha ritenuto idonea ad integrare una compensatio lucri cum damno a favore del ricorrente (Corte EDU 6 marzo 2012, Gagliano c. Italia: in tale caso tuttavia la Corte ha poi comunque condannato lo Stato italiano al pagamento di una somma di euro 500, forfettariamente determinata, oltre spese, per il danno morale subito dal ricorrente per l'eccessiva durata del procedimento ex lege Pinto). In altra sentenza infine, la Corte di Strasburgo, dopo aver rilevato che «la giurisprudenza, ancora limitata, fornisce solo parzialmente i criteri che permettono di verificare se la violazione del diritto abbia raggiunto "la soglia minima" di gravita' per giustificare un esame da parte di un giudice internazionale»; che «la valutazione di questa soglia e', per sua natura, relativa e dipende dalle circostanze del caso di specie» (§ 33); che occorre comunque «tener conto dei seguenti elementi la natura del diritto che si presume violato, la gravita' dell'incidenza della violazione allegata nell'esercizio di un diritto e/o le eventuali conseguenze della violazione sulla situazione personale del ricorrente» (§ 34) (ma - si aggiunge nella sentenza Gagliano, cit., § 55 - anche «della percezione soggettiva del ricorrente e della posta in gioco oggettiva della controversia»), ha poi affermato il principio secondo cui, a fronte di una grave violazione del principio di durata ragionevole del processo, «l'entita' della causa innanzi ai giudici nazionali puo' essere determinante soltanto nell'ipotesi in cui il valore sia modico o irrisorio» (sentenza 18 ottobre 2010, Giusti c. Italia, § 35). A ben vedere nulla autorizza a ritenere che una tale clausola, essendo rapportata a parametri ulteriori e diversi dal mero esito della causa e legati piuttosto alla considerazione delle variabili circostanze del caso concreto, possa di per se' comportare una revisione dei descritti parametri talmente radicale da potersi prevedere che, in forza della stessa, possa escludersi tout court, sempre e in ogni caso, la riconoscibilita' dell'equo indennizzo alla parte soccombente. 3.2.2. - Sotto il secondo profilo (possibilita' di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma interna tale da renderla compatibile con il parametro pattizio come interpretato dalla giurisprudenza europea), non puo' non ribadirsi che ogni pur dovuto tentativo in tale direzione e' destinato a scontrarsi con l'insuperabile dato testuale della norma, che impedisce di liquidare un indennizzo in misura superiore al «valore del diritto accertato». La lettera di tale ultima disposizione non sembra in particolare consentirne una interpretazione restrittiva e correttiva nel senso di ritenere - come pure e' stato sostenuto in uno dei primi commenti - che «il riferimento al diritto accertato dal giudice costituisca un limite nella determinazione del valore della causa cosi' come avviene per individuare lo scaglione di valore della causa ai fini della liquidazione delle spese legali»: l'analisi logica della frase e l'uso della disgiuntiva «o», rafforzato peraltro dall'inciso condizionale «se inferiore», evidenziano inconfutabilmente che il valore del diritto accertato viene indicato, in alternativa a quello del valore della causa, come limite alla «misura dell'indennizzo» e non come criterio di determinazione del «valore della causa». Una diversa lettura finirebbe, dunque, col tradursi in una interpretazione contra legem, come detto non consentita nemmeno se si tratta di armonizzare la norma interna al parametro costituzionale rappresentato dalla CEDU, in forza del richiamo ai «vincoli derivanti ... dagli obblighi internazionali» contenuto nell'art. 117 Cost., dovendo, in tal caso, una siffatta opera di raccordo tra fonte interna e fonte internazionale in conflitto essere necessariamente rimessa alla Corte delle leggi nei termini, e con le consequenziali statuizioni, di cui al dispositivo.