IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA LIGURIA 
                           Sezione Seconda 
 
    Ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro generale 577 del 2013, proposto dal signor Giovanni  Cugnata
rappresentato  e  difeso  dall'avvocato  Daniele  Rovelli,  con   lui
elettivamente domiciliato a Genova, in via XX settembre 37/b,  presso
l'avvocato Luigi Bozano Gandolfi; 
    Contro Comune di Chiavari, in  persona  del  sindaco  in  carica,
rappresentato e difeso dall'avvocato Luigi Cocchi presso il quale  ha
eletto domicilio a Genova, in via Macaggi, 21/5; 
    Per la condanna del comune di Chiavari al risarcimento del  danno
arrecato al ricorrente dall'illegittimo provvedimento  di  esclusione
(nota n. 168 del 16 ottobre 2008) dalla gara di  appalto  dei  lavori
per la manutenzione  straordinaria  dei  parapetti  e  del  manto  di
copertura della scuola elementare di Caperana; 
    Visti il ricorso e i relativi allegati; 
    Visto l'atto di costituzione in giudizio del comune di Chiavari; 
    Visti gli atti e le memorie depositate; 
    Relatore nell'udienza pubblica del giorno  11  dicembre  2013  il
dott.  Paolo  Peruggia  e  uditi  per  le  parti  i  difensori   come
specificato nel verbale; 
    Il  signor   Giovanni   Cugnata,   imprenditore   edile,   chiede
condannarsi il comune di Chiavari al pagamento di una somma di denaro
a titolo risarcitorio, in  conseguenza  dell'illegittimita'  commessa
dall'ente pubblico che lo escluse da una  gara  per  l'esecuzione  di
lavori pubblici. 
    Si e' costituito  in  causa  il  comune  resistente,  che  chiede
dichiararsi inammissibile o respingersi la domanda. 
    Le parti hanno depositato memorie e documenti. 
    L'interessato riferisce di essere titolare  di  un'impresa  edile
che presento' la migliore offerta per l'aggiudicazione dei lavori per
la manutenzione straordinaria dei parapetti e del manto di  copertura
della scuola elementare di Caperana; l'illegittima  esclusione  dalla
selezione - disposta dal Comune di Chiavari con nota n.  168  del  16
ottobre  2008  -  ha  comportato  il  danno  di  cui  e'  chiesto  il
risarcimento  nelle  componenti  del  danno  emergente,   di   quello
curricolare e delle altre voci specificate in domanda. 
    A  corredo  della  richiesta   l'interessato   espone   di   aver
contrastato l'esclusione disposta dal comune resistente  con  ricorso
straordinario al presidente della Repubblica, che lo ha  accolto  con
il d.P.R. 23 settembre 2009, che a sua  volta  ha  fatto  proprio  il
parere 1240 del 2009 della terza sezione del consiglio di  Stato:  in
quell'occasione l'atto consultivo ha ritenuto che sarebbe stato onere
dell'amministrazione civica accertarsi della «... effettiva esistenza
di  violazioni  definitivamente  accertate,  rispetto  agli  obblighi
relativi al pagamento delle imposte e tasse, e non soffermarsi  sulla
mera pendenza di cartelle di pagamento non ancora onorate ...», ed ha
per   cio'   considerato   illegittima   l'esclusione    dell'impresa
concorrente. 
    Questa  aveva  presentato  un'offerta  che   avrebbe   consentito
l'aggiudicazione del contratto:  la  circostanza  non  e'  contestata
dalla difesa comunale e deve pertanto considerarsi  pacifica  tra  le
parti. 
    Su tali premesse viene proposta l'azione  volta  al  risarcimento
del danno, per paralizzare la quale il comune eccepisce l'intervenuta
decadenza dell'iniziativa giurisdizionale, essendo ampiamente decorso
il termine di centoventi giorni fissato dall'art. 30,  comma  5,  del
d.lgs 2 luglio 2010, n. 104 (codice del processo amministrativo). 
    Parte  ricorrente  replica  che  detta  norma  non  puo'  trovare
applicazione, trattandosi  di  una  fattispecie  che  ritrae  il  suo
fondamento dalle condotte e dagli atti comunali  risalenti  all'epoca
precedente  all'entrata   in   vigore   del   codice   del   processo
amministrativo; del pari la pronuncia del presidente della Repubblica
e' cronologicamente anteriore al codice, si' che  anche  considerindo
il d.P.R. come il fatto costitutivo  dell'obbligazione  risarcitoria,
non  si  potrebbe  ritenere  l'intervenuta  modificazione   normativa
influente sul regime di  proposizione  dell'atto  introduttivo  della
lite. 
    Ne conseguirebbe  che  al  caso  dovrebbe  applicarsi  il  regime
prescrizionale  di  cui  all'art.  2947  c.c.,  e  non  gia'   quello
decadenziale introdotto dalla norma sopra citata, ma sul punto appare
opportuno rinviare a quanto osservato di seguito. 
    La  questione  va  allora  esaminata  alla  luce  dei  contributi
dottrinali e delle pronunce che si sono avute in argomento. 
    L'art.  30  del  cpa  non  ha  soltanto  introdotto  il   termine
dichiaratamente decadenziale su cui si controverte, ma si e' proposto
lo scopo di  dirimere  un  contrasto  che  era  assai  acuto  tra  la
giurisprudenza del  consiglio  di  Stato  e  quella  della  corte  di
cassazione. 
    La  prima  ribadiva,  seppur  con   diverse   accentuazioni,   la
necessaria dipendenza dell'azione di danno da quella demolitoria  del
provvedimento lesivo, dal che derivava l'affermazione  del  principio
della   cosiddetta   pregiudizialita'   amministrativa,   con    cio'
intendendosi che il danno non poteva essere  liquidato  se  prima,  o
contemporaneamente,   non    si    era    ottenuta    la    pronuncia
sull'illegittimita'  del  provvedimento  lesivo,  quello  che   aveva
concretamente inciso la situazione di  interesse  legittimo  che  era
stata azionata. 
    La corte di cassazione propendeva,  invece,  per  la  separazione
delle situazioni che vengono in rilievo in materia, ritenendo che  la
proposizione   della   richiesta   risarcitoria   potesse    avvenire
separatamente ed  in  modo  indipendente  da  quella  cassatoria  del
provvedimento  ritenuto  lesivo,   in   cio'   seguendo   una   linea
argomentativa che puo' farsi risalire alla sentenza 22  luglio  1999,
n. 500 delle sezioni unite. 
    Tale contrasto aveva portato ad orientamenti dissonanti, si'  che
il legislatore ha ritenuto di intervenire introducendo l'art. 30  del
cpa, che tratta appunto dell'azione di  condanna,  ed  in  particolar
modo di quella risarcitoria. 
    Per restare a quanto rileva ai fini della presente decisione,  va
osservato che la norma in questione ha accolto la tesi  che  nega  la
natura  vincolante  della  cosiddetta  pregiudiziale  amministrativa,
ammettendo il soggetto che si ritiene leso  alla  proposizione  della
domanda  di  danno  in  modo  autonomo  o  congiunto  con  quella  di
annullamento: degno di nota e' il precetto di cui  al  comma  3,  che
prevede il termine decadenziale, eccepito  dal  comune  di  Chiavari,
anche per le cause in cui l'istanza risarcitoria  risulta  del  tutto
scollegata da quella proposta per l'annullamento, e  introduce  delle
disposizioni simili a quelle che si leggono nell'art. 1227 cod.  civ.
per limitare il risarcimento dovuto a  coloro  che  avrebbero  potuto
elidere o contenere il danno proponendo l'azione di annullamento. 
    Il comma quarto dispone in merito al termine previsto dalla legge
per chiedere il risarcimento del danno, allorche' la  lesione  deriva
dal ritardo nella decisione. Anche in questo caso la legge prevede il
termine decadenziale di  giorni  centoventi,  ed  in  tal  misura  e'
modulata   la   decorrenza   iniziale   in    ragione    dell'entita'
dell'inadempienza fatta registrare dalla p.a. 
    Il quinto comma su cui si controverte prevede il caso in  cui  la
domanda di risarcimento venga proposta insieme o successivamente alla
conclusione del giudizio di annullamento,  ed  in  detta  ipotesi  la
norma dispone che il termine da rispettare per  la  sua  proposizione
sia sempre di giorni centoventi. 
    In proposito non puo' negarsi alla pronuncia del DPR in questione
- conseguente a ricorso straordinario, cioe' a rimedio  «alternativo»
al ricorso giurisdizionale amministrativo  -  l'efficacia  cassatoria
della determinazione lesiva subita dal ricorrente: al tempo dei fatti
era infatti  data  la  possibilita'  di  adire  il  presidente  della
Repubblica anche  in  materia  di  contratti  pubblici,  per  cui  la
pubblicazione del decreto presidenziale ha comportato  l'annullamento
dell'atto del comune di  Chiavari  e  la  possibilita'  di  adire  il
giudice competente per conseguire il risarcimento del danno. 
    In tale contesto sembra doversi opinare per la natura processuale
delle previsioni in commento:  si  tratta  infatti  di  precetti  che
mirano ad imprimere una  scansione  ai  giudizi  che  il  legislatore
ammette possano essere proposti in  materia,  ed  in  particolare  le
disposizioni sul termine di introduzione della  causa  delineano  una
modalita' di consumazione del diritto processuale  che  si  riverbera
direttamente su quello sostanziale. 
    Il riconoscimento del carattere processuale della  disciplina  in
questione induce a ritenere  che  l'art.  30  del  cpa  intervenne  a
disciplinare la situazione del ricorrente sin dalla  sua  entrata  in
vigore (16  settembre  2010),  si'  che  da  tale  giorno  inizio'  a
decorrere il nuovo termine decadenziale che  si  era  sostituito  per
forza di legge a quello  prescrizionale  previgente  che  deriva  dal
diritto comune (l'art. 2947 cc citato). 
    Non  e'   infatti   plausibile   argomentare   che   la   nascita
dell'obbligazione risarcitoria con  l'esclusione  dell'impresa  dalla
selezione, od al piu', con l'accoglimento del  ricorso  straordinario
interposto appunto avverso detta esclusione, abbiano  fatto  si'  che
l'originaria  disciplina   dell'azione   ipoteticamente   proponibile
restasse immutata, non ostante l'entrata in vigore dell'art.  30  del
cpa. Detta pretesa ultrattivita'  del  regime  non  ha  infatti  base
normativa, apparendo anzi smentita dall'art. 2 dell'allegato 3  delle
norme  transitorie  del  codice  del  processo  amministrativo,   che
stabilisce che i termini gia' in corso di  decorrenza  alla  data  di
entrata in vigore del codice  continuano  ad  essere  regolati  dalle
leggi previgenti; da cio'  deriva  che  i  termini  per  i  quali  la
decorrenza non era ancora iniziata sono disciplinati dalle  norme  di
nuova introduzione. 
    Nel caso in questione, il legislatore ha ritenuto  di  mutare  in
modo rilevante il quadro normativo nel senso descritto, per  cui  non
e' possibile sostenere che il termine prescrizionale  fosse  gia'  in
corso di decorrenza e quindi la situazione si  fosse  consolidata  in
tal senso, cosi' come appare incongruo negare che la  decorrenza  del
termine per agire sia stata influenzata dalla novella introdotta  dal
codice.   Comunque,   anche   a   voler   condividere,   invece,   la
giurisprudenza  che  riconosce  natura  sostanziale  ai  termini   in
questione,   si   perviene   parimenti   a   concludere   nel   senso
dell'applicabilita'   ai   giudicati   di   annullamento   precedenti
all'entrata in vigore del  codice  del  processo  amministrativo  (16
settembre 2010) delle previsioni dell'art. 30, comma  5,  del  codice
stesso, con inizio della decorrenza  del  termine  di  decadenza  ivi
previsto dalla data di  entrata  in  vigore  della  disposizione  (v.
T.A.R. Campania, Salerno, 1, 10 ottobre 2013, n. 2038; T.A.R. Puglia,
Lecce, 1, 21 giugno 2013, n. 1490). 
    Tutte queste  osservazioni  chiariscono  che,  nella  fattispecie
oggetto del  presente  giudizio,  la  parte  privata  avrebbe  dovuto
introdurre il giudizio risarcitorio entro 120 giorni dall'entrata  in
vigore del codice del processo amministrativo. Essa, invece,  non  ha
osservato detta tempistica processuale, si' che l'azione risarcitoria
andrebbe dichiarata inammissibile per intervenuta decadenza. 
    Tutto   cio'   premesso,   il   collegio   dovrebbe    dichiarare
inammissibile  il  ricorso:  tuttavia  la  norma  decisiva   per   la
pronuncia, appunto l'art. 30, comma 5, del d.lgs. 2010, n. 104,  pone
dubbi di costituzionalita' che vanno sottoposti alla competente corte
costituzionale. 
    Va subito osservato che quanto precede configura  la  sussistenza
della rilevanza della questione, posto che  l'efficacia  della  norma
nell'ordinamento orienta la  decisione  in  un  senso  o  nell'altro,
almeno in ordine all'ammissibilita' della domanda. 
    Circa la non manifesta infondatezza va osservato quanto segue. 
    Il legislatore ha inteso restringere in modo severo i termini  di
proposizione della domanda risarcitoria,  una  volta  che  sia  stata
conseguita  la  dichiarazione  di  illegittimita'  del  provvedimento
lesivo,  ovvero  quando  si  intenda   chiederne   la   dichiarazione
incidentale  di  illegittimita',  cosi'  da  poter  proseguire  senza
ostacoli verso la condanna della p.a. al risarcimento del danno. 
    La ragione di  cio'  puo'  essere  individuata  nell'esigenza  di
contenere la prevedibile mole delle domande risarcitone piu'  o  meno
giustificate, che potrebbero aggravare il carico  debitorio  pubblico
in una situazione finanziaria che non  e'  tranquillizzante  su  quel
versante. 
    Oltre a cio' si puo' ritenere che  le  amministrazioni  pubbliche
abbiano rappresentato al governo, in sede di compilazione  del  testo
definitivo del codice  del  processo  amministrativo,  l'esigenza  di
conoscere per tempo se una  determinata  situazione  giuridica  possa
considerarsi conclusa, ovvero se  vi  siano  ancora  possibilita'  di
vederla messa in discussione. 
    In merito puo'  notarsi  che  il  diritto  amministrativo  si  e'
formato intorno ad alcuni concetti, taluni di chiaro  favore  per  le
amministrazioni, uno dei quali si sostanzia nella necessita'  che  un
provvedimento autoritativo sia impugnato a pena  di  inoppugnabilita'
entro  termini  decadenziali   assai   piu'   ristretti   di   quelli
prescrizionali del diritto comune. Tale previsione  venne  introdotta
per  far  si'  che  il  margine  operativo   dell'amministrazione   e
dell'eventuale controinteressato fosse limitato nel tempo,  cosa  che
non puo'  invece  dirsi  per  le  situazioni  in  cui  si  tratta  di
risarcimento.   Si    privilegio'    in    tal    senso    l'esigenza
dell'amministrazione di esercitare  il  potere  previsto  alla  legge
senza il possibile ostacolo costituito dall'incertezza in ordine alle
situazioni che residuavano come potenzialmente controverse. 
    La necessita' di operare una sicura distinzione tra le situazioni
individuate e' divenuta  ancor  piu'  rilevante  nei  tempi  recenti,
allorche' l'apprezzamento dell'attivita' amministrativa non ha  avuto
piu' riguardo ai  singoli  atti,  quanto  al  procedimento:  in  tale
contesto  e'  divenuta  assai   importante   l'individuazione   delle
scansioni  del  procedimento   che   devono   essere   immediatamente
impugnate, senza attendere che la serie di determinazioni giunga alla
fine prevista dalle norme che la regolano. 
    Cio' posto, sembra di poter desumere che la norma in questione ha
teso a riprodurre il citato  orientamento  legislativo  anche  in  un
settore in cui esso risulta incongruo, in particolare ove si  proceda
ad una comparazione tra i differenti trattamenti che si vengono cosi'
a determinare. 
    Da un lato chi e' leso, ed ha un diritto di azione fondato  sugli
artt. 
    2043 e seguenti del codice civile, ha davanti a  se',  prima  del
decorso 
    del  termine  della   prescrizione,   uno   spazio   deliberativo
quinquennale per decidere se intraprendere l'iniziativa giudiziaria. 
    Chi si trova invece  ad  affrontare  il  tema  risarcitorio  come
conseguenza della lesione  patita  ad  un  interesse  legittimo  deve
determinarsi in un tempo che e' un decimo di  quello  previsto  dalla
legge  comune,  oltre  tutto  a  pena  non  di  prescrizione,  ma  di
decadenza, con conseguente irrilevanza di ogni  iniziativa  volta  ad
esigere il credito diversa dall'azione in giudizio. 
    La differenziazione cosi' operata dal  legislatore  delegato  non
sembra  avere  un  fondamento  razionale  sufficiente,   sicche'   la
formulazione dell'art. 30 comma 5 del d.lgs. 2 luglio  2010,  n.  104
appare  integrare  la   violazione   di   svariati   articoli   della
Costituzione. 
    Il collegio condivide, al riguardo, le considerazioni in appresso
svolte, contenute nell'ordinanza del T.A.R. Sicilia, II, n. 1628  del
7 novembre 2011, sulle quali la Consulta non si e'  pronunciata,  per
difetto di rilevanza della questione nel caso di specie (Corte  cost.
n. 280 del 12 dicembre 2012). 
    La non manifesta infondatezza della questione  discende,  innanzi
tutto, dal rilievo della irragionevole compressione  del  diritto  di
difesa in giudizio della  parte  danneggiata,  con  violazione  degli
artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione. 
    E' ampiamente nota la  ratio  posta  alla  base  dei  termini  di
decadenza previsti in  materia  di  annullamento  di  atti  giuridici
emanati  da  poteri  pubblici  e  da  soggetti  privati:  si   tratta
dell'esigenza di certezza del diritto e di  stabilita'  dei  rapporti
giuridici,  connessa  al  rilievo  che  l'atto  pone  un  assetto  di
interessi rilevante sul piano superindividuale. 
    Il bilanciamento fra il diritto degli interessati  a  sollecitare
un sindacato giurisdizionale  dell'atto,  e  l'interesse  a  definire
sollecitamente la relativa vicenda in modo da non esporre ad un  arco
temporale eccessivamente lungo la sorte della fonte  di  un  rapporto
giuridico rilevante per una collettivita' di  soggetti,  consente  di
individuare nella previsione di un termine di impugnazione a pena  di
decadenza - purche' il relativo termine sia ragionevole e  non  renda
eccessivamente difficile l'esercizio del diritto -  il  soddisfacente
punto di equilibrio del sistema. 
    L'azione risarcitoria, gia' sul piano strutturale, si pone al  di
fuori di questa problematica: l'esposizione del debitore, pubblico  o
privato, alla domanda di risarcimento non  incide  minimamente  sulla
dinamica  dei  rapporti  giuridici  di  cui  lo  stesso  soggetto  e'
titolare, ne' sulla certezza delle situazioni e posizioni  giuridiche
correlate, rilevando solo sul piano della reintegrazione patrimoniale
dello spostamento di ricchezza conseguente all'illecito. 
    Nella stessa sistematica del codice del  processo  amministrativo
(art. 7, comma 4) il risarcimento del danno e' incluso fra i «diritti
patrimoniali  consequenziali»  all'annullamento   del   provvedimento
lesivo. 
    Se la discrezionalita' legislativa avesse inteso porre un  limite
temporale all'esercizio dell'azione risarcitoria compatibile  con  la
natura del rimedio, avrebbe potuto ragionevolmente  farlo  attraverso
l'individuazione  di  un  congruo  termine  prescrizionale  (in  tesi
diverso da quello stabilito dal  diritto  comune,  ove  sussista  una
congrua e ragionevole giustificazione per la differenziazione). 
    Un  ininterrotto  e  coerente  insegnamento,   gia'   sul   piano
istituzionale, chiarisce, infatti, che mentre la prescrizione ha  per
oggetto un rapporto (azione o diritto sostanziale) che per effetto di
essa si estingue, «la decadenza  ha  per  oggetto  un  atto  che  per
effetto di essa non puo' piu' essere compiuto». 
    La disciplina dell'azione di risarcimento del danno appare dunque
ragionevolmente compatibile con la prima, e non anche con la seconda. 
    Ma, cio' che appare maggiormente rilevante, e'  il  rilievo  che,
sul  piano  della  teoria  generale  del   diritto,   la   differenza
strutturale ed effettuale fra prescrizione  e  decadenza  denota  una
precisa - e diversa -connotazione funzionale dei due istituti,  cosi'
da non consentirne (se non  violando  il  canone  di  ragionevolezza)
un'applicazione indifferenziata. 
    Secondo i  risalenti  insegnamenti  della  dottrina  civilistica,
mentre la prescrizione e' in  qualche  modo  legata  all'inerzia  del
titolare del  diritto,  la  decadenza  esprimerebbe  «un'esigenza  di
certezza  del   diritto   cosi'   categorica   da   essere   tutelata
indipendentemente  dalla   possibilita'   di   agire   del   soggetto
interessato». 
    Ora, come accennato, in materia di  risarcimento  del  danno  una
esigenza  di  certezza,   che   implichi   una   compressione   assai
significativa del diritto del  danneggiato  di  azionare  i  relativi
rimedi, non pare affatto sussistente: tanto piu' nell'ipotesi - quale
quella in esame - di azione risarcitoria non autonoma, ma conseguente
alla  proposizione  dell'azione  di  annullamento  del  provvedimento
lesivo. Uno schema logico di  utile  riferimento  si  rinviene  nella
disciplina posta dall'art. 1495 del  codice  civile,  in  materia  di
azione di risarcimento dei danni per vizi della cosa venduta: laddove
la denuncia del vizio deve avvenire entro un  brevissimo  termine  di
decadenza (correlato all'esigenza di certezza dei  traffici),  mentre
la successiva azione risarcitoria,  subordinata  alla  tempestiva  (e
pregiudiziale) denuncia, ma di per se'  ormai  estranea  all'esigenza
posta  alla  base  del  ridetto  termine  decadenziale,  soggiace   -
coerentemente - al un termine prescrizionale annuale. 
    La situazione e' strutturalmente identica a quella  dell'illecito
da atto della pubblica amministrazione, nell'ipotesi - qui ricorrente
- in cui l'azione  risarcitoria  sia  preceduta  dalla  pregiudiziale
impugnazione  della  statuizione   lesiva:   con   la   significativa
differenza , tuttavia, che il termine decadenziale per l'impugnazione
del provvedimento e' ampiamente giustificato dalla  funzione  cui  lo
stesso provvedimento assolve, mentre, diversamente dalla  sistematica
del codice civile, la successiva azione risarcitoria  e'  nel  codice
del  processo  amministrativo  anch'essa  soggetta  ad   un   termine
decadenziale, peraltro infrannuale  (con  significativa  compressione
del diritto di difesa del danneggiato,  in  assenza  di  un  reale  e
giustificato interesse antagonista). 
    Mentre ne] caso di  azione  risarcitoria  autonomamente  proposta
(art. 30, comma  I,  cod.  proc.  amm.)  l'accertamento  -  sia  pure
meramente  incidentale,  e  dunque  senza  effetti  sostanziali   sul
rapporto - della illegittimita' del provvedimento veicolo di  lesione
potrebbe in tesi giustificare  la  previsione  di  tale  termine,  la
definitiva certezza giuridica prodotta - su] rapporto - dal passaggio
in  giudicato  della  sentenza  che  statuisce   sulla   domanda   di
annullamento del provvedimento, priva di qualsivoglia giustificazione
razionale la previsione di un brevissimo termine decadenziale per  la
proposizione  dell'azione  risarcitoria  incidente   unicamente   sul
profilo   della   regolazione    patrimoniale    delle    conseguenze
dell'illecito. 
    I contributi della dottrina hanno  generalmente  formulato  ampie
riserve critiche sulla soluzione recata dalla disposizione in esame. 
    Si e', in particolare,  posto  in  evidenza  da  parte  dei  piu'
autorevoli studiosi del processo amministrativo, come  la  disciplina
recata dall'art. 30 risponda unicamente ad una logica compromissoria,
volta a conciliare le opposte posizioni emerse  nella  giurisprudenza
della Corte di Cassazione e in  quella  del  Consiglio  di  Stato  in
merito alle condizioni  per  l'accesso  al  rimedio  risarcitorio  in
materia di illecito della pubblica  amministrazione,  risolvendo  per
legge il conflitto fra due massimo organi giurisdizionali. 
    Si  sarebbe  cosi'  affermata  la  possibilita'   teorica   della
proponibilita' dell'azione risarcitoria autonoma, ma  assoggettandola
ad un breve termine di decadenza (con il  risultato  pratico  di  non
differenziare di molto, quanto a condizioni di accesso, le due  forme
di tutela). 
    La critica piu' diffusa poggia  sulla  «mancanza  di  tenuta  sul
piano   teorico»   della   soluzione   prescelta:   id   est,   sulla
irragionevolezza in se' della disposizione, sulla intrinseca  carenza
di una sua giustificazione razionale, a prescindere dai  risvolti  in
ordine alla compressione del diritto di difesa. 
    In questo senso la previsione  di  un  termine  decadenziale  per
proporre azione risarcitoria autonoma (fattispecie  invero  puramente
teorica,   anche   a   seguito   dell'interpretazione   dell'impianto
codicistico resa dal diritto vivente: Adunanza Plenaria del Consiglio
di Stato, decisione n. 3 del 2011), pare confermare  questa  lettura:
il codice non ha inteso discostarsi formalmente dall'indicazione  del
giudice  dei  diritti,  ed  ha  ammesso   l'autonoma   proponibilita'
dell'azione risarcitoria, ma sottoponendola ad un regime - almeno  in
punto di sbarramento temporale - molto piu' simile a  (e  compatibile
con)   quello   dell'azione   di   annullamento   del   provvedimento
amministrativo, che a quello della domanda di risarcimento del danno. 
    Se gia' questo esito appare fortemente discutibile, ancor di piu'
lo e' l'estensione - ad opera del comma 5  dell'art.  30  -  di  tale
regime alla diversa  fattispecie  di  azione  risarcitoria  preceduta
dalla  (pregiudiziale)   impugnazione   del   provvedimento   lesivo,
caratterizzata,  come   accennato,   dalla   avvenuta,   irrevocabile
formazione della certezza giuridica  sul  profilo  sostanziale  della
spettanza. Tralasciando ogni considerazione sulla effettiva eziologia
storico-giuridica del regime censurato, esso appare irragionevolmente
e ingiustificatamente  compressivo  del  diritto  del  danneggiato  a
richiedere il risarcimento del danno. 
    Il parametro di legittimita' della decadenza convenzionale  (art.
2965 cod. civ.)  e'  dato  dal  limite  della  eccessiva  difficolta'
nell'esercizio del diritto: dal che discende  la  centralita',  anche
nelle ipotesi di decadenza legale, del criterio  funzionale  (l'unica
differenza risiede nel fatto che mentre nel primo  caso  la  verifica
della rispondenza al cennato  parametro  funzionale  e'  operata  dal
giudice comune, nel secondo caso, relativo alla decadenza legale,  la
valutazione e' affidata al Giudice delle leggi). 
    Il profilo di irragionevolezza che vizia la disposizione in esame
attiene quindi sia alla previsione di un termine stabilito a pena  di
decadenza,  al  di  fuori  del  presupposti  legittimanti  una  cosi'
incisiva   compressione   del'esercizio   del   diritto   (senza   la
possibilita' di conciliare la delimitazione  temporale  con  il  piu'
favorevole - per il danneggiato -  regime  della  prescrizione);  sia
nella concreta fissazione di tale termine in centoventi giorni. 
    Il giudizio di irragionevolezza si fonda sia sulle argomentazioni
di ordine teorico-generale e  disciplinare  sopra  esposte,  sia  sul
rilievo della inesistenza di un tertium comparationis che giustifichi
l'introduzione di simile disciplina. 
    La Relazione al codice del processo amministrativo afferma che il
termine di centoventi giorni si giustificherebbe «sul presupposto che
la previsione di termini decadenziali non  e'  estranea  alla  tutela
risarcitoria,   vieppiu'   a   fronte   di   evidenti   esigenze   di
stabilizzazione   delle   vicende   che   coinvolgono   la   pubblica
amministrazione». 
    Quanto alla prima parte dell'affermazione, non e' dato  rinvenire
riscontri alla stessa:  se  non,  come  osservato,  in  relazione  al
diverso  profilo  della  esistenza,   nell'ambito   della   complessa
disciplina dei rimedi  contro  l'illecito,  di  termini  decadenziali
relativi ad attivita' propedeutiche alla proposizione dell'azione  di
danno, ma da questa strutturalmente e funzionalmente  distinte  (cio'
che, nel processo amministrativo, e' garantito  dal  termine  per  la
sollecita impugnazione  del  provvedimento  lesivo;  e,  nell'esempio
tratto dal diritto civile relativo alla garanzia  per  i  vizi  della
cosa venduta, dalla tempestiva denuncia della scoperta del vizio). 
    Quanto alla seconda parte dell'affermazione, se le  «esigenze  di
stabilizzazione   delle   vicende   che   coinvolgono   la   pubblica
amministrazione»  possono  avere  un   qualche   rilievo   oltre   la
prospettiva  meramente  caducatoria  (il  che   e'   tradizionalmente
escluso),  cio'  potrebbe  al  piu'  riscontrarsi   nell'ipotesi   di
proposizione  dell'azione   risarcitoria   in   via   autonoma,   con
contestuale   sindacato   (incidentale)   della   legittimita'    del
provvedimento lesivo. 
    Non gia' nell'ipotesi, qui ricorrente, in cui detto sindacato  e'
stato definitivamente compiuto. 
    Peraltro,  la  violazione  degli  artt.  24,  103  e  113   della
Costituzione si configura anche per altra via. 
    All'esito della ricostruzione del sistema di tutela del cittadino
nei confronti  della  pubblica  amministrazione,  cui  ha  recato  un
fondamentale contributo la sentenza  n.  204  del  2004  della  Corte
costituzionale, si ritiene comunemente che  il  rimedio  risarcitorio
sia inscindibilmente legato, in  relazione  di  complementarieta',  a
quello caducatorio: la tutela costituzionale dell'interesse legittimo
e'  soddisfatta  solo   se   il   titolare   puo'   chiedere,   oltre
all'annullamento  del  provvedimento  lesivo,  il  risarcimento   per
equivalente del danno  che  traguardi  e  completi  gli  effetti  del
giudicato di annullamento. 
    L'azione di danno e'  dunque  costituzionalmente  necessaria;  in
questo senso la Corte costituzionale e' stata ancora  piu'  esplicita
nella successiva sentenza n. 191 del 2006: «laddove  la  legge  (...)
costruisce  il  risarcimento  del  danno,  ai  fini  del  riparto  di
giurisdizione tra giudice ordinario e  giudice  amministrativo,  come
strumento di tutela affermandone - come e' stato detto - il carattere
"rimediale", essa non viola alcun precetto  costituzionale  e,  anzi,
costituisce attuazione del precetto dell'art. 24 Cost. laddove questo
esige che la tutela giurisdizionale sia effettiva e sia resa in tempi
ragionevoli». 
    La concentrazione dei rimedi in capo al  giudice  amministrativo,
tuttavia, funzionale alla contrazione dei tempi processuali, non puo'
avvenire a condizione della introduzione  di  condizioni  di  accesso
alla tutela assolutamente (e senza ragione) restrittive. 
    Se  l'attribuzione  alla   giurisdizione   amministrativa   della
cognizione dell'azione risarcitoria,  coerente  alla  pienezza  della
tutela  in   termini   ragionevoli,   comporta   come   contropartita
l'introduzione  di  un  regime  che,  derogando  al  diritto  comune,
comprime significativamente le condizioni per l'accesso  al  rimedio,
risulta palesemente contraddetta la finalita' stessa della previsione
dello strumento risarcitorio accanto a quello caducatorio nel sistema
di  tutela  dell'interesse  legittimo:   in   altre   parole,   viene
contraddetta l'esigenza di pienezza ed effettivita' della tutela. 
    La richiamata giurisprudenza costituzionale ha reso,  invero,  le
riportate affermazioni in presenza di una disciplina dell'accesso  al
rimedio risarcitorio nei  confronti  della  pubblica  amministrazione
regolata dal diritto comune: dal che discende  il  quesito  circa  la
perdurante  attualita'  di  quelle  considerazioni,   in   punto   di
conformita'  allo  standard  di  tutela  posto  dall'art.  24   della
Costituzione, alla luce della disciplina introdotta  dal  codice  del
processo  amministrativo,  e  in   particolare   della   disposizione
censurata. 
    E'  appena  il  caso  di   osservare   che   e'   estranea   alla
prospettazione  del   vizio   di   legittimita'   costituzionale   la
qualificazione, in termini  di  diritto  soggettivo  o  di  interesse
legittimo, della situazione giuridica soggettiva de] danneggiato  che
domanda il risarcimento del  danno  da  illegittimo  esercizio  della
funzione amministrativa. 
    Nel  primo  caso,  non  trova  ragionevole  giustificazione   una
disciplina diversa da quella stabilita per  ogni  diritto  soggettivo
dalla  clausola  generale  di  responsabilita'  civile  (la  pubblica
amministrazione essendo un debitore la  cui  posizione  in  nulla  si
differenzia,  sotto  questo  profilo,  da  quella  dell'obbligato  ex
delitto). 
    Nel secondo caso, la complementarieta' dei rimedi  evocata  dalla
citata giurisprudenza costituzionale ha un senso se  si  mantiene  la
diversita' strutturale degli stessi e delle  corrispondenti  tecniche
di tutela: se invece si assimila - quanto alle condizioni di  accesso
- quello risarcitorio a quello caducatorio, la  complementarieta'  si
riduce ad  una  astratta  petizione  di  principio,  risolvendosi  in
concreto la tutela dell'interesse legittimo nella  sola  possibilita'
di contestare entro un breve termine di decadenza la legittimita' del
provvedimento (a fini caducatori, ovvero a fini risarcitoti). 
    Infine, ad avviso del collegio, la disciplina  dettata  dall'art.
30, comma 5, cod. proc. amm., viola pure  l'art.  117,  primo  comma,
della  Costituzione,  attraverso  la  violazione  dell'art.  6  della
Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle
liberta' fondamentali (CEDU), che prevede il diritto  ad  un  «giusto
processo», in quanto il legislatore nazionale, fissando  il  suddetto
ristretto termine decadenziale, ha  interferito  nell'amministrazione
della  giustizia,  attribuendo  alla  pubblica  amministrazione   una
posizione di vantaggio in assenza di «motivi imperativi di  interesse
generale», come enucleati dalla giurisprudenza  della  Corte  europea
dei diritti dell'uomo. 
    Il presente giudizio va pertanto  sospeso,  disponendosi  per  le
attivita' previste dall'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.