TRIBUNALE DI MILANO Sezione specializzata in materia di impresa Sezione A Il Tribunale in composizione collegiale, nella persona dei seguenti magistrati: dott.ssa Marina Tavassi pres.; dott.ssa Paola Gandolfi giud.; dott. Claudio Marangoni giud. rel.. ha emesso la seguente ordinanza nel ricorso per ricusazione ex art. 52 c.p.c. promosso nell'ambito della causa promossa dinanzi al giudice del lavoro da Elena Alessandra Biscotti nei confronti della Libera Universita' di lingue e comunicazione IULM. 1. Elena Alessandra Biscotti ha promosso ricorso ex art. 1, comma 48 L. 92/12 nei confronti della Libera Universita' di lingue e comunicazione IULM al fine di ottenere l'accertamento della natura subordinata del lavoro da essa prestato tra il 1° gennaio 20010 al 28 gennaio 2013 e su tale presupposto la declaratoria di nullita' del licenziamento intimato in forma orale con condanna della controparte ai sensi dell'art. 18 Stat. Lav. alla sua reintegrazione, ricorso respinto dal giudice cui esso era stato assegnato per la decisione con ordinanza del 23 settembre 2013. Avverso tale provvedimento la ricorrente ha promosso opposizione ai sensi dell'art. 1, comma 51 L. 92, chiedendone la revoca ed il relativo procedimento e' stato assegnato per la trattazione al medesimo magistrato che aveva svolto la fase sommaria del procedimento. Sulla base di quelle pronunce della giurisprudenza di merito che hanno ritenuto - in maniera difforme da altre ordinanze - la sostanziale identita' tra la natura del procedimento di cui alla L. 92/12 rispetto a quello disciplinato dall'art. 28 Stat. Lav., ha dedotto la sussistenza di un obbligo di astensione incombente sul giudice che abbia gia' deciso la prima fase sommaria del medesimo procedimento qualora fosse investito anche della relativa fase di opposizione in relazione all'ipotesi di cui all'art. 51, comma primo, n. 4) c.p.c. Il giudice della causa ha provveduto a dichiarare la sospensione della causa ai sensi dell'art. 52, comma 3 c.p.c. ed ha trasmesso il procedimento di ricusazione al presidente del Tribunale per la decisione, poi assegnata a questa sezione. In data 4 febbraio 2014 il giudice oggetto dell'istanza di ricusazione ha depositato brevi note nel termine a tale scopo fissato dal Collegio. 2. A sostegno della proposta ricusazione parte ricorrente ha richiamato la sentenza n. 387/99 della Corte costituzionale, che a proposito del procedimento di cui all'art. 28 Stat. Lav. ha affermato che il giudizio di opposizione si caratterizza quale revisio prioris istantiae, che postula l'alterita' del giudice dell'impugnazione il quale in sede di gravame si trova nella condizione di dover ripercorrere l'itinerario logico gia' seguito per giungere al provvedimento impugnato. Vi sarebbe, secondo parte ricorrente, una sostanziale identita' tra la natura del procedimento di cui alla L. 92/12 e quello disciplinato dall'art. 28 Stat. Lav., dovendosi ritenere sussistenti diverse analogie tra detti procedimenti nonche' in comune la natura di revisio prioris istantiae della sentenza emessa ai sensi dell'art. 1, comma 57 L. 92/12, che deve riesaminare la legittimita' del licenziamento gia' valutata nella fase sommaria. Sussisterebbe in tal modo nelle due fasi la medesima res iudicanda consistente nell'accoglimento o nel rigetto della domanda relativa all'impugnativa del licenziamento nelle ipotesi regolate dall'art. 18 Stat. Lav. 3. Questa Sezione del Tribunale di Milano ha gia' ritenuto analoghi ricorsi per ricusazione privi di fondamento. Come gia' osservato nell'ordinanza 21 novembre 2013 di questa medesima sezione - di cui si ripropongono le stesse motivazioni - non sussisterebbero nel caso di specie gli estremi di cui all'art. 51 n. 4 c.p.c., posto che tale norma prevede l'obbligo di astensione del giudice solo nel caso in cui abbia conosciuto della controversia «in altro grado del processo o come arbitro». Una simile condizione non e' ravvisabile laddove, come nella specie, l'iter processuale sia articolato in una prima fase a cognizione sommaria, cui faccia seguito un'eventuale seconda fase di opposizione, in base ad uno schema che risulta comparabile a quello dei procedimenti di opposizione a decreto ingiuntivo, divisi fra una fase di cognizione sommaria e una fase a cognizione piena, ovvero assimilabile al procedimento cautelare seguito dal giudizio di merito a cognizione piena. La fattispecie in esame non sembra dunque discostarsi dai casi di cui gia' si e' occupata la Corte di Cassazione, che ha avuto modo di evidenziare che l'emissione di provvedimenti di urgenza o a cognizione sommaria da parte dello stesso giudice che e' chiamato a decidere il merito della stessa causa, costituisce una situazione ordinaria del giudizio e non puo' in nessun modo pregiudicarne l'esito; neppure determina un obbligo di astensione o una facolta' della parte di chiedere la ricusazione (Cass. n. 422/2006). Tali principi interpretativi risultano conformi all'orientamento espresso dalla Corte costituzionale con sentenza n. 326/1997 alla quale era stata rimessa la questione della conformita' dell'art. 51 n. 4 c.p.c. al dettato costituzionale. Con tale sentenza la Corte costituzionale ha distinto la pluralita' dei gradi di giudizio (al fine di interpretare l'espressione «altro grado del processo» di cui all'art. 51 n. 4 c.p.c.), rispetto ad un iter processuale che si articoli attraverso piu' fasi sequenziali nelle quali l'interesse posto a base della domanda impone l'appagamento di esigenze di carattere conservativo, anticipatorio, istruttorio. Sulla base del medesimo principio la Corte costituzionale ha altresi' dichiarato infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 51 n. 4 nella parte in cui non prevede l'obbligo di astensione dal pronunciare la sentenza per il giudice che in ordine al medesimo oggetto si sia gia' pronunciato con la richiesta di ordinanza ex art. 186-quater c.p.c. (C. Cost. 31 maggio 2000 n. 168). Analogo orientamento, del resto, era stato formulato, con specifico riferimento alle ipotesi di opposizioni proposte davanti al giudice dell'esecuzione avverso atti esecutivi dallo stesso anteriormente adottati (v. Cass. n. 5510/2003). E' stato infatti necessario un intervento legislativo per evitare che dette opposizioni possano essere trattate dal giudice che gia' abbia adottato atti esecutivi (art. 186-bis disp. att. c.p.c., inserito con legge 18 giugno 2009 n. 69). Tali temi sono stati anche piu' recentemente riconsiderati dalla giurisprudenza di legittimita', la quale ha affermato l'inapplicabilita' dell'art. 51 n. 4 c.p.c., richiamando i principi sovra esposti, in ipotesi in cui il medesimo giudice, assegnatario del giudizio e chiamato alla decisione conclusiva in sede ordinaria, abbia gia' conosciuto del contenzioso, nel medesimo grado, adottando provvedimenti a cognizione sommaria o cautelare (v. SS.UU. Cass. n. 1783/2011, Cass. n. 18047/2008). Come gia' osservato da altra decisione di questo Tribunale (ord. 4 aprile 2013, Pres. est. Bichi), la proposta ricusazione muove da una ricostruzione del sistema processuale civile che, implicitamente, sembra mutuare principi ad esso non riconducibili e elaborati nell'ambito degli istituti propri del processo penale, in rapporto ai principi asseritamente desumibili dagli artt. 24 e 111 Cost.. Infatti, nell'ordinamento processuale penalistico - tendenzialmente secondo l'attuale sistema - il giudice che decide deve arrivare al dibattimento senza conoscere il materiale istruttorio e la vicenda che ha coinvolto i soggetti che giudichera', deve essere stato estraneo agli atti antecedenti del procedimento: meccanismo che esclude di per se' che il giudice possa avere una qualche pre-cognizione, anche nel medesimo grado di giudizio, del thema decidendum. L'impostazione di un tale sistema processuale muove da scelte che appaiono incompatibili con il processo civile. Appare argomento risolutivo osservare come, nell'ambito del processo civile sia ricorrente la cognizione - nel medesimo grado di giudizio - da parte dello stesso giudice dei vari profili in cui puo' atteggiarsi la vicenda processuale, anche se comportano, in corso di causa, l'adozione di provvedimenti cautelari, sommari o anticipatori. Si tratta al contrario di un valore perseguito (cfr. art. 174 c.p.c.), costituendo detto valore, anche sotto il profilo funzionale, la condizione affinche' possa operativamente esistere una giurisdizione civile puntualmente rispondente ai precetti costituzionali di cui agli artt. 97 e 111 Cost., avuto riguardo alla necessita' di una ragionevole durata del processo. Inoltre, un processo in cui il giudice, che abbia emesso un provvedimento non meramente ordinatorio o a cognizione sommaria, diventi automaticamente «parziale» e debba quindi astenersi dalla trattazione della causa (con la conseguente sua sostituzione con altro giudice), sarebbe di difficile se non impossibile attuazione. Infatti, una tale opzione comporterebbe - in considerazione della serie di provvedimenti di natura decisoria e anticipatoria che e' chiamato ad adottare il giudice del lavoro e, piu' in generale, il giudice civile (dalla concessione della provvisoria esecuzione, all'adozione di provvedimenti di urgenza e cautelari ante causam o in corso di causa, alla definizione della rilevanza e ammissibilita' dei mezzi istruttori, all'emissione dei provvedimenti ex artt. 186-bis e segg. ecc.) - un processo che viene trasferito da un giudice a un altro per l'adozione di qualsiasi provvedimento non di tipo ordinatorio, con conseguente impossibile gestione dei ruoli e dell'Ufficio, sino al concreto pericolo dell'impossibilita' dell'effettivo esercizio della giurisdizione. Ne' tale conclusione potrebbe essere disattesa sul rilievo di una specificita' del giudizio giuslavoristico, attraverso un'estensione dei principi espressi dalla Corte costituzionale nella invocata sentenza n. 387/1999 in tema di applicazione dell'art. 28 dello Statuto dei lavoratori. Infatti in quel caso la Corte ha esaminato l'ipotesi processuale di un reclamo, che si atteggia come vera e propria impugnazione «con contenuto sostanziale di revisio prioris instantiae», ponendosi, quindi, nel concreto l'esigenza - espressamente evidenziata dalla Corte - di garantire l'alterita' del giudice dell'impugnazione, essendo allo stesso demandato, con piena e identica cognizione, la valutazione del provvedimento reclamato (orientamento espresso dalla Corte costituzionale anche in sentenza n. 460/2005, sempre in tema di fase processuale avente un contenuto tipicamente impugnatorio, quale il reclamo avverso sentenza dichiarativa di fallimento). Ipotesi, all'evidenza, affatto diversa rispetto a quella introdotta dall'art. 1 commi 48 e segg. L.cit.. In tale procedimento, infatti, e' prevista una fase sostanzialmente a cognizione sommaria, anche sotto il profilo o istruttorio (il giudice «procede... agli atti di istruzione indispensabili...»), cui segue un'eventuale fase oppositiva, che non si struttura quale impugnazione dell'ordinanza emessa ex art. 1 comma 49, ma determina l'instaurazione di un giudizio ordinario di cognizione in materia di lavoro. Tanto vero che non vi sono preclusioni riferite alla precedente fase, mentre la cognizione successiva ben puo' estendersi ad ulteriori allegazioni, produzioni ed offerte probatorie. La disposizione e' inequivoca in tal senso «...puo' essere proposta opposizione con ricorso contenente i requisiti di cui all'art. 414 c. p. c.» (comma 51) introducendosi, quindi, una cognizione piu' ampia e piena, che puo' abbracciare domande nuove, sia pure fondate sui medesimi fatti costitutivi, ovvero domande nei confronti di eventuali litisconsorti o garanti, ovvero la proposizione di domande riconvenzionali, con istruttoria non vincolata alle acquisizioni della prima fase sommaria. Pertanto sembra da escludersi la natura impugnatoria del giudizio di opposizione, tale da individuare la cognizione da parte di un giudice necessariamente diverso. Il rapporto tra le due fasi e' quello tipico e ricorrente di un momento a cognizione meramente sommaria - introdotto dal legislatore a fini' acceleratori - con una fase successiva ed eventuale a cognizione piena, secondo le caratteristiche, con riguardo ai diversi profili soggettivi, oggettivi e procedimentali, sovra evidenziate. Ne' puo' affermarsi (vedi ord. Sez. B 11 luglio 2013) l'assenza di «qualsiasi espressa connotazione cautelare della prima fase del procedimento», ove si osservi che il contenuto del comma 49 in esame e' assolutamente sovrapponibile al I comma dell'art. 669-sexies c.p.c., che disciplina il processo cautelare uniforme, e che la natura urgente e cautelare e' evidente nella immediatezza dell'intervento demandato al giudice in attesa di procedere agli accertamenti piu' approfonditi della fase a cognizione piena. Non puo' tacersi infine che avverso la sentenza che conclude il procedimento di primo grado e' ammessa l'impugnazione davanti alla Corte d'appello (commi 58/60 art. 1), cosicche' nella prospettazione che ravvisa gia' un «grado» nella fase a cognizione sommaria si finirebbe per avere tre gradi di merito nell'ambito dello stesso procedimento. 4. Sulla base di quanto innanzi esposto la giurisprudenza che appare prevalente non individua dunque alcuna preclusione a che sia mantenuta l'identita' del medesimo giudice nelle due fasi di cui al procedimento ex artt. 48 e ss. L. 92/12 e pertanto sotto il profilo costituzionale non pare consentita un'interpretazione che muovendo dall'art. 111 Cost. imponga l'obbligo di astensione del giudice. Come gia' osservato in precedenti ad analoghe ordinanze di rimessione alla Corte costituzionale attinenti alla medesima problematica provenienti da diverse sezioni di questo stesso Tribunale - qui riprese in maniera del tutto conforme nella loro parte motiva (Tribunale Milano ord. 27.2014; Tribunale Milano ord. 6 febbraio 2014) - e' stato peraltro rilevato che se il sospetto di illegittimita' costituzionale, infatti, e' legittimo solo allorquando nessuno dei significati, che e' possibile estrapolare dalla disposizione normativa, si sottrae alle censure di incostituzionalita' (Corte Cost., 12 marzo 1999, n. 65 in Cons. Stato, 1999, II, 366), tuttavia, se e' vero che in linea di principio, le leggi si dichiarano incostituzionali perche' e' impossibile darne interpretazioni «secundum Constitutionem» e non in quanto sia possibile darne interpretazioni incostituzionali, e' anche vero che esiste un preciso limite all'esperimento del tentativo salvifico della norma a livello ermeneutico: il giudice non puo' «piegare la disposizione fino a spezzarne il legame con il dato letterale» cosi' invadendo la competenza propria del giudice preposto alla verifica di legittimita' costituzionale delle leggi. Inoltre rinterpretatio secundum constitutionem presuppone, indefettibilmente, che l'interpretazione «altra» sia «possibile», cioe', praticabile: differentemente, si creerebbe un vulnus alla certezza del diritto poiche' anche dinnanzi a norme «chiare» ogni giudicante adito potrebbe offrire uno spunto interpretativo diverso. Secondo questo Collegio il dato normativo non puo' prestarsi ad interpretazioni diverse da quella emergente dalla mera lettura del testo, ne' puo' ritenersi applicabile, al caso di specie, il principio ricavabile dalla sentenza n. 387/99 della Corte costituzionale. Come gia' osservato nelle precedenti ordinanze di rimessione alla Corte Costituzionali innanzi citate, il giudizio previsto dall'art. 28, legge 20 maggio 1970 n. 300, infatti, ha la funzione esclusiva di reprimere la condotta antisindacale e, pertanto, oggetto del processo e' la violazione del diritto dei lavoratori all'attivita' sindacale e allo sciopero, tant'e' che il provvedimento conclusivo del rito (se positivo) comporta la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti. Si tratta, inoltre, di una procedura attivata su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali che vi abbiano interesse. Ambito processuale del tutto differente da quello regolato dalla l. 92/12 in cui, invece, il procedimento ha ad oggetto un determinato rapporto di lavoro in un giudizio che vede confrontarsi parti legate da rapporto negoziale, con un ambito di cognizione ben piu' ampio e complesso, in cui anche la conclusione del giudizio e' aperta ad una variegata ricchezza di soluzioni giudiziali. Pertanto: nel primo rito, la pronuncia ha, di fatto, vocazione sanzionatoria e l'ambito di cognizione e' limitato e ristretto cosicche' non si assiste invero, a due fasi «in senso tecnico», ma ad una sanzione ed alla sua impugnazione. Da qui la sostanziale assimilabilita' di quella fase ad un vero e proprio «grado» del giudizio. Quanto non accade nel rito ex lege 92/12. In questo caso, il procedimento resta unico ma scandito da due fasi in cui, nella prima, il rapporto di lavoro e' oggetto di una pronuncia celere e ad istruttoria «approssimativa» che, se non soddisfacente a giudizio di una o entrambe le parti, viene accantonata per dare ingresso alla seconda (delle citate fasi) in cui il processo gode della pienezza dei rimedi, degli strumenti, dei tempi. La diversita' ontologica tra i due riti e' pure resa palese dal dettaglio di disciplina che assiste il procedimento ex lege 92/12 in cui, nei commi da 47 a 69, il Legislatore disciplina in modo dettagliato: fase sommaria, fase a cognizione piena, giudizio di appello procedimento di Cassazione. Deve pure essere rilevata la particolare singolarita' del caso giudicato da Corte Cost. 387/1999: in quella fattispecie, infatti, erano state le sopravvenienze normative a creare una aporia nel formante legislativo originale. Si vuol segnalare che, nel sistema originario del procedimento di repressione della condotta antisindacale, era prevista una fase davanti al Pretore, il quale decideva in ordine alla richiesta di emissione del decreto ex art. 28 della legge n. 300 del 1970, ed una eventuale opposizione avanti al Tribunale. Successivamente, la struttura nata geneticamente con la previsione di due giudici diversi, era stata manipolata in conseguenza della riunificazione della competenza in capo al giudice monocratico. Da qui l'intervento della Consulta nel senso di ammettere spazi per una interpretazione secundum constitutionem» (cosi' in particolare Tribunale Milano ord. 27 gennaio 2014 cit.). Deve dunque concludersi, a parere di questo Collegio, che la necessita' nel rito ex lege 92/12 che il giudice delle due fasi debba essere persona fisica diversa non possa desumersi da un ricorso a criteri interpretativi costituzionalmente orientati ne' dal richiamo ai principi affermati nella sentenza n. 387/99 della Corte costituzionale. 5. Sussistono tuttavia motivi rilevanti che inducono il Collegio a prospettare l'ipotesi di illegittimita' costituzionale delle norme attinenti al rito stabilito dalla L. 92/12, cosi' dando accesso alla valutazione della Corte costituzionale rispetto alle questioni sollevate dalla parte ricusante. Deve invero darsi atto - come gia' rilevato - che gli esiti interpretativi innanzi riferiti non sono condivisi da parte della giurisprudenza di merito gia' espressasi sul punto (v. in particolare Corte d'appello di Milano, sent. 1577/13), che ha ritenuto invece applicabili i principi dettati dalla sent. 387/99 della Corte costituzionale con le conseguenti ricadute sia sui procedimenti in corso che sugli assetti ordinamentali ed organizzativi che tale interpretazione implica. Possono dunque ritenersi sussistenti dubbi di costituzionalita' quanto alla previsione di un giudice (persona fisica) unico nella struttura procedimentale contenuta nella L. 92/12, posto che essa - pur delineando una fase sommaria ed urgente e l'altra di piena cognizione, e quindi tecnicamente al di fuori della previsione di un «grado» di giudizio - sarebbe idonea a configurare, secondo parte della giurisprudenza, un rito che nella seconda fase in esso descritta puo' assumere valore impugnatorio con contenuto sostanziale di revisio prioris istantiae. In tale prospettiva potrebbe fondatamente prospettarsi la violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione, per la lesione del diritto alla tutela giurisdizionale sotto il profilo dell'esclusione dell'imparzialita' del giudice. 6. La questione appare senza dubbio rilevante, posto che - esclusa allo stato la ricorrenza dei presupposti per l'ipotesi di astensione obbligatoria oggetto dell'istanza di ricusazione - l'accertata non corrispondenza ai precetti costituzionali dell'art. 51 c.p.c. con l'art. 1, comma 51 L. 92/12 imporrebbe invece al Collegio l'accoglimento del ricorso della parte ricusante.