LA CORTE D'APPELLO DI FIRENZE 
 
    La Corte d'Appello di Firenze, Sezione la Civile,  nella  persona
dei magistrati: 
      dr. Alessandro Turco Presidente 
      dr. Domenico Paparo Consigliere relatore 
      dr. Marco Modena Consigliere 
ha pronunciato la seguente ordinanza a  scioglimento  della  riserva,
osserva e ritiene quanto segue: 
    1. F. C. F. M., R. P. e S. F. C., hanno proposto opposizione,  ai
sensi dell'art. 5-ter della legge n. 89/2001, avverso il  decreto  di
questa Corte, n. 1241/2013 Cron., nel proc. n. 216/2013 V.G., in data
31 maggio 2013, depositato il 6 giugno 2013, che rigettava il ricorso
da loro proposto (unitamente a Capo  Adriano)  per  l'ingiunzione  al
Ministero della giustizia di pagamento di € 16.500,00 per il primo  e
di € 15.000,00 per gli altri a titolo di danni non patrimoniali e  di
250.000,00 per il solo F. C. a titolo di danni patrimoniali a  titolo
di equa riparazione per il ritardo di un procedimento penale. 
    2. Il decreto impugnato ha determinato in otto anni e sei mesi la
complessiva durata del procedimento e ritenuto non irragionevole tale
durata, tenuto conto della peculiarita' e complessita' del giudizio. 
    A tale determinazione il decreto e' pervenuto: 
      - facendo applicazione dell'art. 2, comma 2-bis,  della  citata
legge n. 89/2001 (introdotto dal D.L.  83/12  conv.  in  l.  134/12),
secondo  cui  "il  processo  penale   si   considera   iniziato   con
l'assunzione  della  qualita'  di  imputato,  di  parte   civile   di
responsabile  civile,  ovvero  quando  l'indagato  ha  avuto   legale
conoscenza della  chiusura  delle  indagini  preliminari"  escludendo
percio' dal computo della durata del processo la fase delle  indagini
preliminari; 
      - non computando nella durata del processo di primo grado,  fra
l'altro, il periodo  dal  28  gennaio  2006  al  21  marzo  2007  per
sollevata questione di legittimita' costituzionale; 
    2.1. Gli opponenti  contestano  l'esclusione  dal  computo  della
durata del processo della fase delle indagini preliminari, in  quanto
in contrasto non solo con la giurisprudenza  formatasi  anteriormente
ma anche con l'art. 6  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (d'ora in poi "CEDU")
ratificata ai sensi della legge n. 848 del  1955  e  con  l'art.  111
Cost, come gia' esposto nel ricorso. 
    Osservano gli opponenti che il decreto  opposto  ha  ritenuto  la
questione di legittimita' costituzionale della non  computazione  del
periodo delle indagini preliminari non rilevante sulla base della non
condivisibile affermazione secondo cui "l'esubero effettivo  rispetto
al termine di durata massima (anni quattro, dedotta la durata legale)
appare  giustificato  dalle  peculiarita'  dell'indagine"  in  quanto
proprio  questa  fase  era  stata  particolarmente  laboriosa  in  un
processo particolarmente  complesso  stante  il  numero  elevato  dei
soggetti  (24  imputati),  la  complessita'  tecnico  giuridica   del
giudizio  -  avente  ad  oggetto  reati  fallimentari,  societari   e
tributari  -  e  che,  quanto  alle   indagini   preliminari,   aveva
interessato numerose societa' e cooperative con esame dei bilanci  di
otto anni, verifica del coinvolgimento di una banca, quattro fasi  di
consulenza tecnica e una perizia in incidente probatorio, per cui  la
stessa durata delle indagini preliminari non era stata irragionevole. 
    Rilevano  gli  opponenti  in  particolare  che  la  durata  delle
indagini preliminari era stata piu' che tripla  rispetto  al  termine
legale di due anni, essendo durata sei  anni,  sei  mesi  e  diciotto
giorni ed essa era da considerasi eccessiva secondo la giurisprudenza
previgente richiamata dal decreto,  che  non  motivava  circa  valide
cause giustificatrici del ritardo. 
    Chiedono gli opponenti in tesi  la  disapplicazione  della  norma
richiamata per contrasto con l'art.  6  CEDU,  o,  in  subordine,  la
remissione degli atti alla  Corte  costituzionale  in  ragione  della
eccezione di legittimita' costituzionale di essa  per  contrasto  con
gli artt. 24, 111, 117 Cost e 6 e 13 CEDU. 
    2.2. Gli opponenti contestano poi l'esclusione dal computo  della
durata del processo del  periodo  di  un  anno  e  due  mesi  per  la
sospensione del giudizio in conseguenza del rilievo di una  questione
di legittimita' costituzionale, che attiene pur sempre  all'esercizio
dell'attivita' giurisdizionale dello Stato, chiedendo che fosse,  con
interpretazione  costituzionalmente  orientata,   l'art.   2,   comma
2-quater, non si tenesse conto della  sospensione  del  processo  per
eventi, come quello del caso in esame, non connessi all'attivita' - o
inattivita' - delle parti ovvero sollevando (anche se non  riproposta
nelle conclusioni) questione di legittimita' costituzionale  di  essa
nella parte in cui non esclude tali causa di sospensione dal  computo
della durata del processo. 
    2.3. Gli opponenti contestano  ancora,  quanto  alla  durata  del
processo di primo grado, che la  fase  dell'udienza  preliminare  era
stata introdotta con la richiesta rinvio a giudizio depositata dal PM
in data 1° giugno 1999 mentre l'udienza era stata  fissata  per  l'11
giugno 2001 (oltre due anni dopo) rispetto al termine di 30 giorni di
cui all'art. 418 cpp e che tale fase era durata un anno, fino  al  28
giugno 2002, mentre avrebbe dovuto svolgersi in un'unica  udienza  ex
art. 421 cpp. 
    2.4.  F.  C.  ribadiva  poi  la  richiesta  relativa   al   danno
patrimoniale. 
    3. L'Avvocatura dello Stato ha  eccepito  l'inammissibilita'  del
ricorso in opposizione  lamentando  che  gli  opponenti  non  abbiano
provveduto alla notifica all'amministrazione resistente  del  decreto
opposto nei termini di cui  all'art.  5,  comma  2,  della  legge  n.
89/2001, con  la  conseguente  inefficacia  del  decreto,  e  che  la
successiva notifica del ricorso in opposizione sia nulla per  mancata
allegazione del ricorso (ossia del ricorso per equa  riparazione)  ai
sensi dell'art. 5 comma 1. 
    4. Deve anzitutto rigettarsi tale eccezione essendo evidente  che
la difesa del resistente confonde gli oneri  che  deve  assolvere  il
ricorrente che,  soddisfatto  del  provvedimento  richiesto,  intenda
porlo in esecuzione (e che sarebbero, in  astratto,  quelli  invocati
dalla difesa erariale), con quelli che gravano invece sul  ricorrente
che,  non  appagato  da  detto  provvedimento,  intenda  opporlo:  in
quest'ultimo caso, che e' quello  di  specie,  l'opponente  non  deve
affatto notificare alla controparte il decreto ottenuto, e neppure il
ricorso iniziale, su cui tale decreto ha  provveduto,  perche'  cosi'
facendo, ai sensi dell'art.  5  comma  3  della  legge  n.  89,  come
modificata  nel  2012,  renderebbe  improponibile  l'opposizione,   e
presterebbe acquiescenza al decreto. 
    Nella specie, gli opponenti hanno invece adempiuto ai soli  oneri
gravanti a loro carico, ossia quelli di depositare (come hanno  fatto
l'8  luglio  2013),  entro  30   giorni   dalla   comunicazione   del
provvedimento (che non puo'  essere  avvenuta  prima  della  data  di
deposito del decreto il  6  giugno  2013,  con  la  conseguenza  che,
scadendo - al piu' presto, se  cioe'  il  decreto  fu  comunicato  lo
stesso 6 giugno - il 6 luglio 2013 e cadendo questo giorno di sabato,
il termine si proroga, ex  art.  155,  commi  4  e  5,  cpc  fino  al
successivo lunedi'  8  luglio),  il  ricorso  in  opposizione,  e  di
notificare successivamente,  nel  termine  (del  16  settembre  2013)
indicato dal Presidente  col  successivo  decreto  di  fissazione  di
udienza, il ricorso in opposizione ed il pedissequo decreto (notifica
che la stessa amministrazione  resistente  dichiara  avvenuta  il  31
luglio  2013),  per  cui   l'opposizione   deve   dirsi   ritualmente
instaurata. 
    5.1. Deve  anzitutto  escludersi  la  "comunitarizzazione"  della
Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo a seguito del  Trattato  di
Lisbona secondo la tesi esposta dai ricorrenti in sede di ricorso  ex
art. 2. 
    L'art. 6, comma 2, del Trattato UE come modificato a seguito  del
Trattato di Lisbona  dispone:  "L'Unione  aderisce  alla  Convenzione
europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo  e  delle  liberta'
fondamentali. Tale adesione non modifica  le  competenze  dell'Unione
definite nei trattati". 
    Invero il trattato si limita a consentire l'adesione della Unione
Europea alla CEDU (dandole la base legale che il parere n.  2/94  del
28 marzo 1996 della Corte UE aveva ritenuto inesistente), ma che essa
non e' ancora avvenuta, tanto che  il  protocollo  n.  8  annesso  al
Trattato ne prevede le modalita'  tramite  apposito  accordo  di  cui
detta  le  regole  ("Articolo  1.  L'accordo  relativo   all'adesione
dell'Unione alla Convenzione europea per la salvaguardia dei  diritti
dell'uomo e  delle  liberta'  fondamentali  (in  appresso  denominata
«convenzione  europea»),  previsto  dall'art.  6,  paragrafo  2   del
trattato sull'Unione europea deve garantire che siano  preservate  le
caratteristiche specifiche dell'Unione e del diritto dell'Unione,  in
particolare  per  quanto  riguarda:  a)   le   modalita'   specifiche
dell'eventuale partecipazione dell'Unione agli  organi  di  controllo
della convenzione europea, b) i meccanismi  necessari  per  garantire
che i procedimenti avviati da Stati non membri e le  singole  domande
siano indirizzate correttamente,  a  seconda  dei  casi,  agli  Stati
membri e/o all'Unione. Articolo 2. L'accordo di cui all'art.  1  deve
garantire che l'adesione non incida ne' sulle competenze  dell'Unione
ne' sulle attribuzioni delle sue istituzioni. Deve inoltre  garantire
che  nessuna  disposizione  dello  stesso  incida  sulla   situazione
particolare  degli  Stati  membri  nei  confronti  della  convenzione
europea e, in particolare, riguardo ai suoi protocolli,  alle  misure
prese dagli Stati membri in deroga alla convenzione europea ai  sensi
del suo art.  15  e  a  riserve  formulate  dagli  Stati  membri  nei
confronti della  convenzione  europea  ai  sensi  del  suo  art.  57.
Articolo 3. Nessuna disposizione dell'accordo di cui all'art. 1  deve
avere  effetti  sull'art.  292   del   trattato   sul   funzionamento
dell'Unione europea"). 
    Di conseguenza,  tutte  le  osservazioni  dei  ricorrenti  basate
sull'affermata attuale comunitarizzazione della CEDU e  quindi  sulla
possibilita' di disapplicazione della norma non hanno rilievo. 
    5.2. La questione del ritenuto  contrasto  fra  una  disposizione
della CEDU ed una norma  di  diritto  interno  si  pone  -  quindi  -
esattamente nei termini attestati nella  giurisprudenza  della  Corte
costituzionale a partire dalle sentenze nn. 348 e  349  del  2007  (e
confermati dalle sentenze nn. 39/2008, 239 e 311 del 2009). 
    Da essa risulta che "che l'art. 117, primo comma,  Cost.,  ed  in
particolare   l'espressione   «obblighi   internazionali»   in   esso
contenuta, si riferisce alle norme internazionali convenzionali anche
diverse da quelle comprese nella previsione degli artt. 10 e 11 Cost.
Cosi' interpretato, l'art. 117, primo comma,  Cost.,  ha  colmato  la
lacuna prima esistente quanto alle norme che a livello costituzionale
garantiscono l'osservanza degli obblighi internazionali  pattizi.  La
conseguenza e' che il contrasto di una norma nazionale con una  norma
convenzionale,  in  particolare  della  CEDU,  si  traduce   in   una
violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. (C.  Cost.  sentenza  n.
311 del 2009). 
    6.1.  Ritiene  la  Corte  di  dover  sollevare  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  relativa   all'esclusione   -   operata
dall'art. 2, comma 2-bis, della 89/2001 (introdotto  dal  D.L.  83/12
conv. in l. 134/12) - dal computo della durata  del  processo  penale
della fase delle indagini preliminari per  violazione  sia  dell'art.
111 Cost sia dell'art. 117 Cost. in relazione all'art. 6 CEDU. 
    6.1.1. La questione e' rilevante nella fattispecie non  solo  per
la evidente applicabilita' (e applicazione in  sede  di  rigetto  del
ricorso) della norma richiamata, ma anche per la  rilevanza  concreta
della durata delle indagini preliminari  (oltre  sei  anni  e  mezzo)
nella complessiva durata del procedimento definito con  sentenza  del
28 gennaio 2013 della Corte di Cassazione. 
    6.1.2. Quanto alla  non  manifesta  infondatezza,  non  puo'  non
osservarsi  come,   secondo   la   pacifica   interpretazione   della
giurisprudenza di legittimita' ante riforma "una interpretazione  che
limitasse la valutazione della ragionevole  durata  del  processo  al
solo periodo successivo all'esercizio dell'azione  penale,  finirebbe
quindi col non tenere in alcuna considerazione la fase delle indagini
preliminari, e cio' si risolverebbe in una violazione sia dell'art. 6
della Convenzione europea dei diritti  dell'uomo,  sia  della  stessa
legge  n.  89  del  2001,  che  all'art.   6   citato   si   richiama
espressamente. La nozione di causa, o di processo, considerata  dalla
Convenzione europea e dalla legge n.  89  del  2001,  si  identifica,
infatti, con qualsiasi procedimento si  svolga  dinanzi  agli  organi
pubblici di giustizia  per  l'affermazione  o  la  negazione  di  una
posizione giuridica di  diritto  o  di  soggezione  facente  capo  al
soggetto che il processo promuova o subisca. Processo, in tal  senso,
e' dunque anche la fase  delle  indagini  che  precedono  il  vero  e
proprio esercizio dell'azione penale, le quali percio', ove si  siano
protratte irragionevolmente nel tempo, ben possono assumere  rilievo,
ai fini dell'equa riparazione, a  partire  dal  momento  in  cui  sia
possibile identificare uno o piu' soggetti che di  quel  procedimento
siano effettivamente divenuti parte per essere stati informati  della
pendenza del procedimento medesimo e posti in grado  di  parteciparvi
(Cass., 30 gennaio 2003, n. 1405)" (Cass, 5 agosto 2004, n. 15087). 
    Il dies a quo era pacificamente identificato  col  compimento  di
atti  che  comportino  l'invio   dell'avviso   di   garanzia   o   la
partecipazione dell'indagato o del suo  difensore  al  processo  (nel
caso, quanto a F. C. con l'informazione di garanzia ex art.  369  cpp
ricevuta il 15 febbraio 1994 e, per gli altri,  con  l'ordinanza  del
GIP di custodia cautelare in carcere del 5 novembre 1994),  apparendo
peraltro davvero insostenibile che il periodo di  custodia  cautelare
possa non essere calcolato nella durata del processo  ai  fini  della
sua ragionevole durata. 
    6.1.3.    Ne'    puo'     ipotizzarsi     una     interpretazione
costituzionalmente orientata che consenta di superare per tale via la
questione, posto che essa si tradurrebbe evidentemente nella aggiunta
alla norma in questione del computo delle indagini preliminari  nella
durata del processo, evidentemente esclusa, anche se si ritenesse che
quello,  da  computarsi   possa   essere   identificata   in   quello
normativamente previsto. 
    6.2. Ritiene la Corte di dover altresi' sollevare la questione di
legittimita' costituzionale per violazione sia  dell'art.  111  Cost.
sia dell'art. 117 Cost. in  relazione  all'art.  6  CEDU,  sia  anche
dell'art. 3 Cost. relativa  all'esclusione  -  operata  dall'art.  2,
comma 2-quater, della l. 89/2001 (introdotto dal D.L. 83/12 conv.  in
l. 134/12) - dal computo della durata del processo del tempo  in  cui
esso e' sospeso, senza distinguere  se  i  motivi  della  sospensione
siano  o  meno  riconducibili  alle  parti  ricorrenti   per   l'equa
riparazione. 
    6.2.1. La questione e' rilevante nella fattispecie non  solo  per
la evidente applicabilita' (e applicazione in  sede  di  rigetto  del
ricorso) della norma richiamata, ma anche per la  rilevanza  concreta
della durata della sospensione per il rilievo  di  una  questione  di
legittimita' costituzionale (un anno e due  mesi)  nella  complessiva
durata del procedimento di primo grado (la cui durata sarebbe,  senza
tale esclusione di 7 anni e 5 mesi). 
    6.2.2. Quanto alla non manifesta infondatezza, si rileva, che  la
norma,  non  distinguendo  fra  motivi  di  sospensione   dovuti   al
comportamento delle parti e quelli non dovuto ad esso - e fra questi,
certamente  la  sospensione  per  il  rilievo  della   questione   di
legittimita' costituzionale  che,  seppure  fosse  stata  sollecitata
dalle  parti  ricorrenti  e'  comunque  ovviamente  un  provvedimento
giurisdizionale del giudice a quo - pare porsi in contrasto non  solo
col principio del giusto processo ma anche con quello di uguaglianza,
trattando allo stesso modo situazioni diverse. 
    6.2.3.    Ne'    puo'     ipotizzarsi     una     interpretazione
costituzionalmente orientata che consenta di superare per tale via la
questione, posto che essa si tradurrebbe  anche  qui  nella  aggiunta
alla norma di una clausola limitativa alla sua efficacia.