LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Quinta Sezione penale 
 
    Composta dagli Ill.mi sigg.ri Magistrati: 
        Dott. Alfredo Maria Lombardi - Presidente; 
        Dott. Silvana De Berardinis - Consigliere; 
        Dott. Grazia Lapalorcia - Consigliere; 
        Dott. Angelo Caputo - Rel. Consigliere; 
        Dott. Paolo Giovanni Demarchi Albengo - Consigliere; 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso proposto da: 
        F.N. n. il 1° gennaio 1954; 
        M.N. n. il 18 luglio 1973; 
    Avverso la sentenza n. 27/2012 Corte assise  appello  di  Napoli,
del 5 luglio 2013; 
    Visti gli atti, la sentenza e il ricorso; 
    Udita in pubblica udienza del 3 luglio 2014  la  relazione  fatta
dal Consigliere Dott. Angelo Caputo; 
    Udito il Sostituto Procuratore generale della  Repubblica  presso
questa Corte di cassazione dott. C.  Stabile,  che  ha  concluso  per
l'inammissibilita' del ricorso. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Con sentenza deliberata il  21  dicembre  2011,  la  Corte  di
assise di Napoli aveva dichiarato N.F. colpevole  dei  reati  di  cui
all'art. 600 cod. pen. (per avere ridotto e  mantenuto  in  stato  di
soggezione la minore E.M.S.  conducendola  dalla  Romania  a  Napoli,
approfittando del suo stato di inferiorita' psichica e di necessita',
sottraendole la carta di identita', impedendole  di  uscire,  se  non
accompagnata, e di' far rientro in  Romania  quando  ne  aveva  fatto
richiesta,  costringendola  a  prostituirsi  nei  luoghi   prescelti,
indicandole  le  somme  di  denaro   da   chiedere   ai   clienti   e
impossessandosi delle stesse:  capo  A)  e  all'art.  600-bis,  primo
comma,  cod.  pen.  (per  avere  -  con  la  condotta  descritta  nel
precedente  capo  di  imputazione  -  indotto  alla  prostituzione  e
sfruttato la prostituzione della minore E.M.S.; capo B): applicate le
circostanze attenuanti generiche, esclusa la contestata recidiva (non
ravvisandosi un'attuale maggiore capacita' a delinquere del reo o una
sua  attuale  accresciuta  pericolosita'  sociale)  e   ritenuta   la
continuazione tra i reati, il giudice di primo grado aveva condannato
N.F. alla pena di cinque anni e sei mesi di reclusione. La  Corte  di
assise di Napoli aveva inoltre dichiarato N.M. colpevole, in concorso
con N.F. del reato di cui all'art. 600-bis, primo comma, cod. pen. e,
applicate  le  circostanze  attenuanti  generiche  e  la  circostanza
attenuante di cui all'art. 114 cod.  pen.,  l'aveva  condannata  alla
pena di giustizia, assolvendola dall'imputazione  ex  art.  600  cod.
pen. per non aver commesso il fatto. 
    Investita dell'appello degli imputati e di quello  del  P.G.,  la
Corte di assise di appello di Napoli, con sentenza  deliberata  il  5
luglio 2013, in parziale riforma della  sentenza  di  primo  grado  -
limitata la dichiarazione di responsabilita' di N.M. alla condotta di
sfruttamento di cui all'art. 600-bis, primo comma, cod.  pen.  -  ha,
con riferimento alla posizione di N.F.,  accolto  l'impugnazione  del
P.G.  in  ordine  all'obbligatorieta'  della   recidiva   (risultando
l'imputato gravato da un precedente penale per il reato di  rissa  ex
art. 588 cod. pen.), sicche', individuato come piu'  grave  il  reato
sub A) e ritenute le attenuanti generiche equivalenti alle contestate
aggravanti della recidiva e di cui all'art.  602-ter  cod.  pen.,  ha
rideterminato la pena in otto anni e due  mesi  di  reclusione  (anni
otto  per  il  reato  piu'  grave,  aumentata  come  sopra   per   la
continuazione), confermando nei resto la sentenza di primo grado. 
    In particolare, il giudice di appello, da una parte, ha dato atto
della credibilita' delle dichiarazioni  rese  dalla  persona  offesa,
evidenziandone l'attendibilita'  intrinseca  e  la  coerenza  con  le
risultanze  emergenti  dall'intervento  della   polizia   giudiziaria
nell'immediatezza  del  fatto  (la  presenza  di  indumenti   e   del
telefonino della minore nella baracca in cui viveva con gli imputati,
ma l'assenza dei suoi documenti e di  somme  di  denaro,  laddove  la
carta di identita' fu rinvenuta in altra baracca indicata da  F.)  e,
dall'altra, ha sottolineato l'inverosimiglianza  sia  della  versione
difensiva, non ravvisandosi motivi che giustificassero  l'ospitalita'
a titolo gratuito della persona offesa, sia della  prospettazione  di
F. in ordine  al  trasporto  in  Italia  della  ragazza.  Altro  dato
significativo - nella ricostruzione della Corte di assise di  appello
di Napoli - e' rappresentato dalla registrazione dei dati  estrinseci
delle comunicazioni relative all'utenza in  uso  alla  minore,  dalla
quale emerge che nei periodo di interesse (settembre 2010 -  febbraio
2011) su tale utenza  giunsero  numerose  chiamate  (circa  seicento)
proprio dall'utenza intestata a F. esclusivamente  in  orario  serale
(tra le ore 19,00 e 01,00), mentre e'  risultato  davvero  esiguo  il
numero delle  chiamate  in  altri  momenti  della  giornata,  il  che
conferma ulteriormente quanto  dichiarato  dalla  persona  offesa  in
ordine alle funzioni di controllo esercitate su di lei dall'imputato,
smentendo, allo stesso tempo, gli  intenti  munifici  prospettati  da
quest'ultimo.  La  Corte  di  assise  di  appello   -   ribadita   la
configurabilita'  del  concorso  formale  dei  due   reati   ascritti
all'imputato gia' ritenuta dal primo giudice -  ha  poi  motivato  in
ordine  alla  sussistenza,  nel  caso  di  specie,  dello  stato   di
soggezione della persona offesa connesso allo stato  di  inferiorita'
psichica e di necessita' in cui la minore  versava,  richiamando,  al
riguardo, molteplici circostanze: la persona  offesa  era  minorenne,
non parlava e non capiva l'italiano, non aveva risorse economiche ne'
dimora, non era in condizione di mettersi in contatto  con  i  propri
famigliari e si era di  conseguenza  trovata  in  una  condizione  di
totale solitudine, ostaggio del sostegno materiale dell'imputato. Per
altro verso, lo stato  di  soggezione  e'  dimostrato,  nel  percorso
motivazionale della  sentenza  impugnata,  dall'approntamento  di  un
rigido  controllo  sui  movimenti  della  ragazza,  confermato  dalle
risultanze di cui ai tabulati  telefonici  -  sopra  richiamate  -  e
realizzato mantenendola priva di denaro, non  lasciandola  mai  sola,
sottraendola ad ogni contatto con terzi diversi dai clienti. 
    2. Avverso l'indicata sentenza della Corte di assise  di  appello
di Napoli ha proposto ricorso per cassazione, nell'interesse di  N.F.
e di N.M., il difensore avv. G. Iacobelli. 
    2.1. Il ricorso denuncia, in primo luogo, vizi di motivazione: la
sentenza impugnata, secondo il ricorrente, ha omesso di  motivare  in
ordine  agli  elementi  che,  contraddicendo  la  tesi   accusatoria,
dimostrano la totale liberta' e autonomia di vita e di gestione della
minore, le cui scelte in ordine all'ingresso  e  alla  permanenza  in
Italia e all'esercizio della prostituzione sono stati improntate alla
piu' completa autodeterminazione; mentre la difesa aveva  chiesto  un
nuovo esame della teste, per verificare  come  le  sue  dichiarazioni
fossero prive di credibilita' logica, la Corte di assise di appello -
osserva ancora il ricorrente - non ha motivato in ordine  alla  prova
dell'effettiva riduzione o mantenimento in stato di soggezione  della
minore. 
    2.2. Con esclusivo riferimento alla posizione di N.F., il ricorso
censura, in secondo luogo, il ritenuto concorso dei reati contestati,
in quanto il quid pluris del reato  di  riduzione  in  schiavitu'  e'
assorbito  dal  reato  di  sfruttamento  della  prostituzione  o,  al
contrario, la condotta del reato di cui all'art.  600-bis  cod.  pen,
assorbe quella del reato di cui all'art. 600 cod. pen. 
    2.3. In terzo  luogo,  il  ricorso  denuncia  l'erroneita'  della
sentenza impugnata, laddove, in parziale accoglimento del ricorso del
P.G., ha aumentato la pena  irrogata  all'imputato  F.,  non  essendo
condivisibile il giudizio di obbligatorieta'  di  applicazione  della
recidiva, in quanto il potere di applicazione  o  meno  della  stessa
deve ritenersi facoltativo; qualora la  tesi  difensiva  non  dovesse
essere   condivisa,    il    ricorso    eccepisce    l'illegittimita'
costituzionale degli artt. 99 e 69 cod. pen., dell'art. 407, comma 2,
cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3, 25, 27 e 111 Cost. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. E' rilevante e non manifestamente infondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 99, quinto comma, cod. pen.  in
riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. 
    2. La  questione  e'  rilevante,  in  quanto,  nella  fattispecie
concreta,  sussistono,  alla  luce   del   consolidati   orientamenti
giurisprudenziali   di   seguito   esaminati,   i   presupposti   per
l'applicazione  della  recidiva  obbligatoria  di  cui   alla   norma
censurata. In premessa,  rileva  il  Collegio  che,  all'esito  della
delibazione delle censure del  ricorrente  richiamate  sub  2.1.  del
Ritenuto in fatto, delibazione svolta  alla  luce  della  motivazione
della sentenza della Corte di assise di appello sopra  sinteticamente
ripercorsa e sufficiente ai  fini  dello  scrutinio  della  rilevanza
della   questione   -   dovendosi   escludere   la   necessita'    di
un'anticipazione del  giudizio  circa  le  doglianze  attinenti  alla
dichiarazione di responsabilita' dell'imputato in ordine ai reati per
i  quali  si   procede   (cfr.,   in   analoga   fattispecie,   Corte
costituzionale, sentenza n. 78 del 2002) -, viene in rilievo  l'esame
del  motivo  relativo  all'applicazione  della  norma  sospettata  di
illegittimita'  costituzionale.  Al   medesimo   esito   conduce   la
delibazione delle censure richiamate sub 2.2. del Ritenuto in  fatto,
a proposito delle quali, peraltro, deve osservarsi,  che  entrambi  i
reati per i quali si procede (artt. 600 e 600-bis, primo comma,  cod.
pen.) sono inclusi nel «catalogo» di cui all'art. 407, comma 2, lett.
a),  cod.  proc.  pen.  (precisamente,  ai  numero  7-bis),   sicche'
qualsiasi  soluzione  in  ordine  alla   doglianza   del   ricorrente
comporterebbe la conferma della condanna  intervenuta  nei  gradi  di
merito per - almeno - uno dei due delitti «espressivi» della recidiva
obbligatoria, il che, come si vedra', e' sufficiente ad integrare  il
presupposto applicativo della norma censurata. 
    Allo  scopo  di  dar  conto  del  giudizio  di  rilevanza   della
questione, e', dunque, necessario mettere  in  evidenza  gli  approdi
giurisprudenziali in ordine alla natura obbligatoria  della  recidiva
ex art. 99, quinto comma, cod. pen., ai suoi rapporti con le  diverse
figure di recidiva prese in considerazione dai commi  precedenti  del
medesimo  articolo   e   ai   presupposti   della   stessa   recidiva
obbligatoria. 
    2.1. Del tutto pacifica e' la natura obbligatoria della  recidiva
ex art. 99, quinto comma, cod.  pen.,  gia'  evocata  dalla  sentenza
della Corte costituzionale n. 192 del 2007 (che aveva indicato  nella
figura in esame «l'unica previsione espressa di obbligatorieta' della
recidiva») e  poi  confermata  dal  successivo  consolidamento  della
ricostruzione della disciplina introdotta dall'art. 4 della legge  n.
251 del 2005, incentrata  sulla  «contrapposizione»  tra  le  diverse
figure di recidiva delineate dai primi  quattro  commi  dell'art.  99
cod. pen. e quella, appunto, obbligatoria prevista dal  quinto  comma
(cfr., ex plurimis, Sez. U, n. 35738 del 27  maggio  2010  -  dep.  5
ottobre 2010, P.G., Calibe' e altro).  La  formulazione  della  norma
(«... l'aumento della pena per  la  recidiva  e'  obbligatorio  ...»)
rende impraticabili letture della stessa orientate  ad  escludere  il
carattere obbligatorio della figura di recidiva in esame, posto  che,
secondo il costante insegnamento della giurisprudenza costituzionale,
«l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del  quale
il tentativo interpretativo deve cedere  il  passo  al  sindacato  di
legittimita' costituzionale» (sentenze n. 232 del  2013;  n.  78  del
2012). 
    2.2. La giurisprudenza  di  legittimita'  ha  poi  affrontato  il
quesito  se  a  ciascuna   delle   forme   di   recidiva   (semplice,
monoaggravata, pluriaggravata, reiterata) corrisponda una  figura  di
recidiva obbligatoria. Superando precedenti incertezze, il quesito ha
trovato risposta affermativa, come sostenuto dalle Sezioni  unite  di
questa Corte (Sez. U, n. 20798 del 24 febbraio 2011 - dep. 24  maggio
2011, P.G. in proc. Indelicato), secondo cui «l'incipit  della  norma
("se si tratta di uno dei delitti indicati  all'art.  407,  comma  2,
lett. a), cod. proc. pen.") e  la  sua  stessa  collocazione  rendono
evidente che la previsione contenuta nel quinto  comma  dell'art.  99
cod. pen.  affianca  alle  diverse  forme  di  recidiva  facoltativa,
disciplinate dai primi quattro commi, altrettante forme  di  recidiva
obbligatoria, sottoposte, di regola,  al  medesimi  aumenti  di  pena
previsti per le corrispondenti ipotesi di recidiva facoltativa, salvo
che per il caso previsto per la recidiva obbligatoria  monoaggravata,
per la quale l'aumento di pena spazia da un terzo  alla  meta'  (art.
99, commi secondo e quinto,  cod.  pen.),  mentre  la  corrispondente
ipotesi di recidiva facoltativa prevede un aumento fino alla  meta'»,
sicche' «la funzione del quinto comma e' quella  di  prefigurare,  in
rapporto a ciascuna delle forme di recidiva facoltativa in precedenza
disciplinate,  altrettante   ipotesi   di   recidiva   obbligatoria».
Ricollegandosi a un indirizzo gia' affermato dalla giurisprudenza  di
legittimita' (Sez. 1, n. 46875 del 12 novembre 2009 - dep. 9 dicembre
2009, Moussaid e altri, Rv. 246254), la tesi autorevolmente sostenuta
dalle  Sezioni   unite   ha   trovato   conferma   nella   successiva
giurisprudenza di legittimita', che ha  sottolineato  come  il  comma
quinto dell'art. 99 cod. pen.,  non  individui  una  nuova  forma  di
recidiva ma una particolare qualificazione delle ipotesi  di  cui  ai
quattro precedenti commi, avendo  l'unica  funzione  di  superare  la
facoltativita' che le connota (Sez. 5, n. 48655 del 15 novembre  2012
- dep. 14 dicembre 2012, Amato, Rv. 254560). 
    La tesi in esame, del resto, trova un solido riscontro  normativa
nel secondo comma dell'art.  62-bis  cod.  pen.  anch'esso  novellato
dalla legge n. 251 del 2005 - la cui disciplina e' riferita ai  «casi
previsti dall'articolo 99, quarto  comma,  In  relazione  ai  delitti
previsti dall'articolo 407, comma  2,  lettera  a),  del  codice  di'
procedura penale ...»: come e' stato rilevato in dottrina,  l'ipotesi
presa in considerazione dal secondo comma dell'art. 62-bis cod.  pen.
e' quella della recidiva obbligatoria (rilievo, questo,  sottolineato
anche dalla sentenza n. 183 del  2011  della  Corte  costituzionale),
sicche' se la disciplina dettata dall'art.  99,  quinto  comma,  cod.
pen. si riferisse non a tutte le figure di recidiva, ma sola a quella
reiterata,  l'articolato  riferimento  operato  dal   secondo   comma
dell'art. 62-bis cod. pen. non troverebbe giustificazione, in  quanto
sarebbe stato sufficiente li mero  richiamo,  appunto,  all'art.  99,
quinto comma, cod. pen. 
    Nel caso di specie, la  qualificazione  come  obbligatoria  della
recidiva semplice applicata all'imputato e',  dunque,  in  linea  con
l'orientamento accreditatosi nella giurisprudenza di legittimita'. 
    2.3. Il problema interpretativo connesso al quesito se,  ai  fini
della configurabilita' della recidiva obbligatoria ex art. 99, quinto
comma, cod. pen., il reato ricompreso nei catalogo  di  cui  all'art.
407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen. debba essere  quello  oggetto
della precedente condanna ovvero il nuovo  delitto  in  relazione  al
quale   deve   applicarsi    la    recidiva    obbligatoria    ovvero
indifferentemente l'uno o l'altro o entrambi (problema interpretativo
il  cui  mancato  esame  ha  determinato   alcune   declaratorie   di
inammissibilita' di questioni aventi ad oggetto la  norma  in  esame:
cfr., ad esempio, l'ordinanza n. 171 del 2009) ha  trovato  anch'esso
risposta  nel  consolidato  orientamento  della   giurisprudenza   di
legittimita'. La tesi secondo cui la recidiva, semplice, reiterata  o
infraquinquennale,  e'  obbligatoria,  in  forza   della   previsione
dell'art. 99, comma quinto, cod. pen., nel caso in  cui  il  soggetto
commetta un nuovo delitto incluso fra quelli indicati dall'art.  407,
comma secondo, lett. a), cod. proc. pen., non rilevando se il delitto
per  il  quale  vi  e'  stata  precedente  condanna  rientri  o  meno
nell'elencazione di cui al menzionato art. 407 (Sez. 1, n. 46875  del
12 novembre 2009 - dep.  9  dicembre  2009,  Moussaid  e  altri,  Rv.
246254; conforme, ex plurimis, Sez. 1, n. 36218 del 23 settembre 2010
- dep. 11 ottobre 2010, Pisanello e altri, Rv.  248289)  ha  ricevuto
conferma ad opera delle Sezioni unite di questa Corte;  secondo  Sez.
U, n. 20798 del 24 febbraio 2011 - dep. 24 maggio 2011, P.G. in proc.
Indelicato «l'applicabilita' della previsione  contenuta  nel  quinto
comma dell'art.  99  cod.  pen.  solo  qualora  il  nuovo  reato  sia
riconducibile all'elenco dell'art. 407, comma 2, lett. a) cod.  proc.
pen.»  trova  fondamento  in   vari   argomenti:   «l'Interpretazione
sistematica del quinto comma alla  luce  di  quelli  precedenti,  che
fondano la sussistenza della recidiva sulla commissione di un "nuovo"
o di "altro" delitto (cfr. in  particolare  commi  primo,  secondo  e
quarto), rende evidente  che  il  legislatore  ha  voluto  attribuire
rilievo  alla  circostanza  che  il  nuovo  delitto  sia   ricompreso
nell'elenco di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), cod.  proc.  pen.
D'altronde, la circostanza che solo nel caso della recidiva specifica
il legislatore abbia  espressamente  attribuito  rilievo  anche  alla
omogeneita' tra il reato  oggetto  della  previa  condanna  e  quello
successivamente posto in essere e' ulteriormente indicativa del fatto
che, nelle altre ipotesi, tale profilo e' irrilevante.  Tale  lettura
e' confortata, inoltre, dal  rinvio  contenuto  nell'art.  99,  comma
quinto, cod. pen., ai «casi indicati al secondo comma», contenente  a
sua volta  l'espresso  riferimento  alla  commissione  di  un  «nuovo
delitto non colposo» (cfr. nn. 1, 2, 3 dell'art. 99,  comma  secondo,
cod. pen.)». 
    Il consolidato indirizzo confermato dalle Sezioni unite di questa
Corte rende ragione, anche sotto questo profilo, della qualificazione
come  obbligatoria  della  recidiva  applicata  nel  caso  di  specie
all'imputato, posto che, come si e' anticipato, entrambi i reati  per
i quali e' intervenuta condanna sono ricompresi nel «catalogo» di cui
all'art. 407, comma 2, lett. a), cod. proc. pen. 
    3. La questione di'  legittimita'  costituzionale  dell'art.  99,
quinto  comma,  cod.  pen.  non  e'   manifestamente   infondata   in
riferimento  all'art.  3  Cost.,  sotto  il  duplice  profilo   della
manifesta irragionevolezza della norma censurata e dell'identita'  di
trattamento di situazioni diverse cui essa da' luogo, e all'art.  27,
terzo comma, Cost. 
    3.1.  I  vari  problemi  interpretativi  sorti  a  seguito  della
sostituzione, ad opera dell'art. 4  della  legge  n.  251  del  2005,
dell'art. 99 cod. pen. (nella versione, a  sua  volta,  frutto  della
sostituzione operata dall'art. 9 del d.l.  11  aprile  1974,  n.  99,
convertito dalla legge 7 giugno 1974, n.  220)  hanno  consentito  di
mettere a fuoco - oltre  alla  natura  facoltativa  delle  figure  di
recidiva di cui ai primi quattro  commi  dell'art.  99  cod.  pen.  a
fronte dalla connotazione obbligatoria rivestita dalla disciplina  di
cui al quinto comma del medesimo articolo (vd. supra, par. 2.1.) - la
fisionomia dell'istituto, attraverso non solo la piena consapevolezza
della sua natura circostanziale (e  delle  conseguenze  derivanti  da
detto inquadramento), ma anche l'individuazione del suo fondamento  e
- in stretta connessione con essa -  dei  criteri  applicativi  della
recidiva facoltativa. 
    A questo proposito, in una feconda  progressione  «in  parallelo»
della giurisprudenza costituzionale e di quella di  legittimita',  si
e'  fatto  riferimento  alla  piu'  accentuata  colpevolezza  e  alla
maggiore pericolosita' del reo (Corte  cost.,  sentenza  n.  192  del
2007): alla stregua dei criteri  in  tema  di  recidiva  facoltativa,
pertanto, l'aumento di pena per il fatto per il quale si procede puo'
essere disposto «solo allorche' il nuovo episodio  delittuoso  appaia
concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al  tempo  di
commissione dei precedenti, sotto il profilo  della  piu'  accentuata
colpevolezza e della maggiore pericolosita' del  reo»  (Corte  cost.,
ordinanza n. 409 del 2007; conf., ex plurimis, ordinanze nn.  33  del
2008, 90 del  2008,  193  del  2008).  In  linea  con  l'impostazione
adottata dal Giudice delle leggi, le Sezioni unite  di  questa  Corte
hanno sottolineato, da una parte, che «il giudizio sulla recidiva non
riguarda l'astratta  pericolosita'  del  soggetto  o  un  suo  status
personale  svincolato  dai  fatto  reato»  e,  dall'altra,   che   il
riconoscimento e  l'applicazione  della  recidiva  quale  circostanza
aggravante  postulano,  invece,  «la   valutazione   della   gravita'
dell'illecito  commisurata  alla  maggiore  attitudine  a  delinquere
manifestata dal soggetto agente, idonea ad  incidere  sulla  risposta
punitiva - sia in termini retributivi che in termini  di  prevenzione
speciale - quale aspetto della  colpevolezza  e  della  capacita'  di
realizzazione di nuovi reati, soltanto nell'ambito di  una  relazione
qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo  illecito  da  questo
commesso, che deve essere concretamente significativo -  in  rapporto
alla natura e  al  tempo  di  commissione  dei  precedenti,  e  avuto
riguardo ai parametri indicati dall'art. 133 cod.  pen.  -  sotto  il
profilo  della  piu'  accentuata  colpevolezza   e   della   maggiore
pericolosita' del reo» (Sez. U, n. 20798 del 24 febbraio 2011 -  dep.
24 maggio 2011, P.G. in proc. Indelicato). 
    Il richiamo, operato  dalle  Sezioni  unite,  ad  una  necessaria
«relazione qualificata tra i precedenti del reo e il  nuovo  illecito
da questo commesso» giova a mettere in luce, fin d'ora, l'ineludibile
riferimento - gia' univocamente emergente dalle  richiamate  pronunce
della Corte costituzionale - ad un  accertamento  nel  caso  concreto
dell'applicabilita' della recidiva facoltativa  in  base  ai  criteri
richiamati  e  in  linea  con  lo  stesso  fondamento  dell'istituto:
infatti, nelle ipotesi previste dai primi quattro commi dell'art.  99
cod. pen., compito del giudice e' quello di «verificare  in  concreto
se  la  reiterazione   dell'illecito   sia   effettivo   sintomo   di
riprovevolezza e pericolosita', tenendo conto [...] della natura  dei
reati, del tipo di devianza di cui sono il segno, della qualita'  dei
comportamenti, del margine  di  offensivita'  delle  condotte,  della
distanza temporale e del livello di omogeneita' esistente  fra  loro,
dell'eventuale  occasionalita'  della  ricaduta  e  di   ogni   altro
possibile    parametro    individualizzante    significativo    della
personalita' del reo e del grado di colpevolezza, al di la' del  mero
ed indifferenziato riscontro  formale  dell'esistenza  di  precedenti
penali» (Sez. U, n. 35738 del 27 maggio 2010 - dep. 5  ottobre  2010,
P.G., Celibe' e  altro).  I  criteri  indicati  dalle  Sezioni  unite
riflettono  le  condizioni  «sostanziali»  per  l'applicazione  della
circostanza aggravante, fungendo cosi'  da  strumento  necessario  ad
assicurare che, nel caso concreto, l'applicazione della recidiva  sia
coerente con il suo fondamento, ossia, con la riconoscibilita', nella
ricaduta nel delitto, di una piu' accentuata colpevolezza  e  di  una
maggiore pericolosita' del reo. 
    Viene  qui  in  chiaro   rilievo   la   netta   e   irreversibile
discontinuita' tra la fisionomia della recidiva assunta a seguito dei
vari  interventi  novellatori  e   della   convergente   elaborazione
giurisprudenziale  della  Corte  costituzionale  e  della  Corte   di
cassazione e quella delineata nell'impostazione originaria del codice
penale,  un'impostazione,  quest'ultima,  al  lume  della  quale  «la
recidiva (definita dal piu' autorevole studioso di quegli  anni  come
una  questione  di   "diritto"   e   non   di   "fatto")   comportava
inderogabilmente e automaticamente un effetto di  aggravamento  della
pena (salva la ipotesi della "recidiva facoltativa" di  cui  all'art.
100 cod. pen., poi  abrogato),  tanto  che  questo  era  strettamente
conseguente alla relativa iscrizione nel cesellario giudiziale e alla
formale contestazione» (Sez. U, n. 5859 del 27 ottobre 2011 - dep. 15
febbraio 2012, Marciano'), 
    3.2. L'accertamento, nel caso  concreto,  della  significativita'
del nuovo episodio delittuoso sotto il profilo della piu'  accentuata
colpevolezza e della  maggiore  pericolosita'  del  reo  e',  invece,
estraneo alla disciplina della recidiva  obbligatoria  dettata  dalla
norma qui censurata: l'art. 99, quinto  comma,  cod.  pen.,  infatti,
«preclude al giudice l'accertamento della  concreta  significativita'
del nuovo episodio delittuoso - in rapporto alla natura e al tempo di
commissione dei precedenti e avuto  riguardo  ai  parametri  indicati
dall'art. 133 cod. pen. - "sotto il  profilo  della  piu'  accentuata
colpevolezza e della maggiore pericolosita' del reo"»  (Corte  cost.,
sentenza n. 183 del 2011), una preclusione, questa, che deriva - come
rilevato dalla stessa sentenza n. 183 del 2011 appena citata - da  un
automatismo basato su una presunzione. 
    Attesa, evidentemente, l'identita' del fondamento della  recidiva
facoltativa e di quella obbligatoria, l'oggetto di detta  presunzione
coincide con le condizioni  «sostanziali»  per  l'applicazione  della
circostanza  aggravante,  sicche'  lo   scrutinio   di   legittimita'
costituzionale della norma censurata rinvia, in prima  battuta,  alla
valutazione della ragionevolezza della presunzione assoluta  di  piu'
accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosita' del reo delineata
dal legislatore con riferimento ai delitti espressivi ricompresi  nel
«catalogo» di cui all'art. 407, comma 2, lett. a), cod.  proc.  pen.:
si tratta, in altri termini, di valutare se i criteri  in  forza  dei
quali il giudice, nei casi di cui ai primi quattro commi dell'art. 99
cod. pen., accerta se in concreto la  reiterazione  del  delitto  sia
espressione  di  piu'   accentuata   colpevolezza   e   di   maggiore
pericolosita'  possano  legittimamente   formare   oggetto   di   una
presunzione   assoluta   costruita   normativamente    esclusivamente
sull'individuazione di determinati reati espressivi. 
    3.3.  La  risposta   negativa   al   problema   di   legittimita'
costituzionale enunciato  si  ricollega  alla  stessa  configurazione
della recidiva, ossia ai canoni della perpetuita' e della genericita'
che la caratterizzano, e alle connotazioni intrinseche dei  parametri
applicativi della  recidiva  facoltativa  oggetto  della  presunzione
assoluta di cui al quinto comma  dell'art.  99  cod.  pen.  Premesso,
infatti,   che,   secondo   il   consolidato    orientamento    della
giurisprudenza  costituzionale,  «le  presunzioni  assolute,   specie
quando limitano un diritto fondamentale  della  persona,  violano  il
principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe'  se
non rispondono a dati di esperienza  generalizzati,  riassunti  nella
formula  dell'id  quod   plerumque   accidit»,   potendosi   cogliere
l'irragionevolezza della presunzione assoluta «tutte le volte in  cui
sia "agevole" formulare ipotesi di accadimenti  reali  contrari  alla
generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (Corte cost.,
sentenza n. 139 del 2010),  l'"agevole"  possibilita'  di  ipotizzare
casi in cui, a fronte della commissione, da parte di un soggetto gia'
condannato per un delitto non colposo, di un nuovo delitto richiamato
dal quinto comma dell'art. 99 cod. pen., la reiterazione del  delitto
non sia espressione di piu' accentuata  colpevolezza  e  di  maggiore
pericolosita' del reo, si ricollega alla preclusione  della  verifica
della «relazione qualificata tra i precedenti  del  reo  e  il  nuovo
illecito da questo commesso» (Sez. U, n. 20798 del 24 febbraio 2011 -
dep. 24 maggio 2011, RG. in proc. Indelicato): il riferimento  ad  un
determinato reato espressivo, (ovvero a una categoria o a un "elenco"
di reati espressivi) e' in radice inidoneo a fornire alla presunzione
in  cui  si  sostanza  la  norma   censurata   dati   di   esperienza
generalizzati  in  ordine  alla  sintomaticita'  dei  nuovo  episodio
delittuoso sotto il profilo  della  piu'  accentuata  colpevolezza  e
della maggiore pericolosita' dei reo (Corte cost.,  sentenza  n.  183
del 2011), sintomaticita' il cui  accertamento,  come  si  e'  visto,
richiede la verifica in concreto di una serie di elementi (la  natura
dei reati, il tipo di devianza di cui sono il segno, la qualita'  dei
comportamenti, il margine di offensivita' delle condotte, la distanza
temporale e li livello di omogeneita' esistente fra loro, l'eventuale
occasionalita'  della  ricaduta  e  ogni  altro  possibile  parametro
individualizzante significativo della  personalita'  del  reo  e  del
grado di colpevolezza, nella sintesi offerta da Sez. U, n. 35738  del
27 maggio 2010  -  dep.  5  ottobre  2010,  P.G.,  Calibe'  e  altro)
insuscettibili  di   trovare   effettiva   espressione   nella   mera
indicazione del titolo del  nuovo  delitto  commesso  e,  dunque,  di
formare  oggetto  della  presunzione  assoluta  di  cui  alla   norma
censurata. 
    Svincolata dall'accertamento in concreto sulla base  dei  criteri
applicativi indicati e affidata alla sola indicazione del titolo  del
nuovo  delitto,  l'applicazione  obbligatoria  della  recidiva  viene
privata di una base empirica  adeguata  a  preservare  il  fondamento
della circostanza aggravante (ossia l'attitudine della  ricaduta  nel
delitto ad esprimere una piu' accentuata colpevolezza e una  maggiore
pericolosita' del reo), risolvendosi in una  presunzione  assoluta  -
appunto - di piu' accentuata colpevolezza o di maggiore pericolosita'
del  tutto  irragionevole.  Esemplare,  in  questo   senso,   e'   la
fattispecie concreta oggetto del presente giudizio: pur  erroneamente
obliterando la disciplina di cui all'art. 99, quinto comma, cod. pen.
applicabile al caso di  specie,  il  giudice  di  primo  grado  aveva
escluso, valutando in reciproca correlazione il delitto fondante (una
rissa) e i delitti per i  quali  si  procede,  la  sussistenza  delle
condizioni   "sostanziali"    dell'applicazione    della    recidiva,
applicazione, invece, imposta dalla norma censurata. 
    La  manifesta  irragionevolezza   della   norma   sospettata   di
illegittimita' costituzionale trova ulteriore conferma  nel  criterio
legislativo di individuazione dei  reati  espressivi  della  recidiva
obbligatoria, criterio incentrato sul catalogo di cui  all'art.  407,
comma 2, lett. a), cod. proc. pen., che contiene «un elenco di  reati
ritenuti dal legislatore, a vari  fini,  di  particolare  gravita'  e
allarme sociale» (Corte cost., sentenza n. 192 del 2007): invero, una
valutazione di  gravita'  e  allarme  sociale  di  determinati  reati
effettuata in relazione ad  istituti  processuali  (quali  la  durata
delle indagini preliminari  ovvero  la  sospensione  dei  termini  di
durata massima della custodia cautelare) e' priva di correlazione con
l'accertamento della sussistenza, nel caso concreto, delle condizioni
applicative della recidiva. Piu' in generale,  ne'  la  gravita'  del
nuovo delitto (rispetto alla quale, peraltro, deve osservarsi che nel
"catalogo"  cui  rinvia  la  norma  censurata  non  sono   ricomprese
molteplici figure delittuose di gravita' - quanto  alla  comminatoria
edittale - maggiore o uguale rispetto  a  quella  di  delitti  invece
richiamati dall'art. 407, comma 2, lett. a,  cod.  proc.  pen.),  ne'
l'allarme sociale ad esso associabile (valorizzato, invece,  da  Sez.
2, n. 6950 del 9 febbraio 2011 - dep.  23  febbraio  2011,  Blanco  e
altro, Rv.  249458,  che  ha  ritenuto  manifestamente  infondata  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 99, quinto  comma,
cod.  pen.,  pur  riconoscendo  nella  norma  i  connotati   di   «un
"automatismo sanzionatorio" correlato ad una presunzione iuris et  de
iure di pericolosita' sociale») sono in alcun modo indicativi di  una
relazione qualificata tra precedenti  del  reo  e  il  nuovo  delitto
idonea ad offrire un congruo fondamento giustificativo al giudizio di
piu' accentuata colpevolezza e di maggiore pericolosita'  in  cui  si
sostanzia (deve sostanziarsi) l'applicazione della recidiva. 
    Del resto, l'argomentare  sviluppato  dalle  richiamate  sentenze
delle  Sezioni  unite  al  fine  di'  corroborare   la   tesi   della
facoltativita' della recidiva  fuori  dell'ipotesi  disciplinata  dal
quinto comma dell'art.  99  cod.  pen.  conferma  l'impostazione  qui
seguita: l'interpretazione contrastata dalle Sezioni unite,  infatti,
«finisce  per  configurare  una  sorta  di  presunzione  assoluta  di
pericolosita'  sociale  del  recidivo  reiterato  ed  un  conseguente
duplice automatismo  punitivo  indiscriminato  -  dunque  foriero  di
possibili diseguaglianze - nell'an e nel quantum (previsto in  misura
fissa), operante sia nei  casi  in  cui  la  ricaduta  nel  reato  si
manifesti quale indice di particolare disvalore  della  condotta,  di
indifferenza dei suo autore alla memoria delle precedenti condanne e,
in definitiva,  verso  l'ordinamento,  di  specifica  inclinazione  a
delinquere dell'agente, sia nei casi in  cui,  al  di  la'  del  dato
meramente oggettivo della ripetizione dei delitto, il nuovo  episodio
non appaia "concretamente significativo - in rapporto alla natura  ed
al  tempo  di  commissione  dei  precedenti,  ed  avuto  riguardo  ai
parametri indicati dall'art. 133 c.p. - sotto il profilo  della  piu'
accentuata colpevolezza  e  della  maggiore  pericolosita'  del  reo"
(Corte cost., n. 192/2007)» (Sez. U, n. 35738 del 27  maggio  2010  -
dep. 5 ottobre 2010, P.G., Calibe' e altro). Ribadita l'identita' del
fondamento   della   recidiva   indipendentemente   dal   regime   di
facoltativita' o di  obbligatorieta'  della  relativa  disciplina  ed
esclusa, alla luce delle  considerazioni  svolte,  l'idoneita'  della
mera  indicazione  legislativa  di  reati  ritenuti  di   particolare
gravita' e allarme sociale ad  esprimere,  secondo  la  logica  della
presunzione,  la  concreta  significativita'   del   nuovo   episodio
delittuoso sotto il profilo  della  piu'  accentuata  colpevolezza  o
della maggiore pericolosita'  del  reo,  il  ripudio,  imposto  dalla
giustificazione   costituzionale   dell'istituto,    di    «qualsiasi
automatismo, ossia dell'instaurazione  presuntiva  di  una  relazione
qualificata tra status della persona e reato commesso»  (Sez.  U,  n.
20798 del 24 febbraio 2011 - dep.  24  maggio  2011,  P.G.  in  proc.
Indelicato) rende ragione - anche - della  prospettata  questione  di
legittimita' costituzionale (diversamente da quanto ritenuto da  Sez.
2, n. 8076 del 21 novembre 2012 - dep. 20 febbraio 2013, Consolo, Rv.
254535, che, richiamando l'argomentare delle Sezioni  unite  -  teso,
come  si  e'  detto,  a   confermare   in   chiave   sistematica   la
facoltativita'  della  recidiva  nelle  ipotesi  considerate  -,   ha
ritenuto  manifestamente  infondata  la  questione  di   legittimita'
costituzionale della norma in esame). 
    3.4.  Ad  avviso  di  questa  Corte,  in  senso  contrario   alla
prospettiva qui sostenuta non e' invocabile  la  sentenza  n.  5  del
1977, con  la  quale  fu  dichiarata  non  fondata  la  questione  di
legittimita' costituzionale dell'art. 296 del d.P.R. 23 gennaio 1973,
n.  43  (recante  disposizioni  legislative  in   materia   doganale)
sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. ed assumendo quale  termine
di  comparazione  il  regime  di  discrezionalita'   della   recidiva
introdotto dal citato d.l. n. 99 del 1974. Il rilievo si ricollega  a
due considerazioni. Per un verso, va osservato  che  all'epoca  della
pronuncia (di poco successiva alla riforma del 1974)  era  ben  lungi
dall'essersi consolidata  la  ricostruzione  della  fisionomia  della
recidiva cui, come si e' visto (supra, par. 3.1.), ha contribuito  in
modo  decisivo  l'evoluzione  della  giurisprudenza   avviata   dalla
sentenza, n. 192 del 2007 della Corte  costituzionale,  un'evoluzione
scandita, negli ultimi anni, da vari interventi delle  Sezioni  unite
di  questa  Corte  (il  che   conferma   il   recente   processo   di
consolidamento,    a    fronte     di     precedenti     oscillazioni
giurisprudenziali): ora, e' proprio sulla fisionomia  della  recidiva
delineata oggi dal diritto vivente che la qui  prospettata  questione
di legittimita' costituzionale fa  leva,  censurando  la  presunzione
assoluta di cui all'art. 99, quinto comma,  cod.  pen.,  che  prevede
l'obbligatoria   applicazione   della   recidiva    indipendentemente
dall'accertamento in concreto e sulla base  dei  criteri  individuati
dalla giurisprudenza della sussistenza delle condizioni "sostanziali"
per l'applicazione della circostanza  aggravante.  Per  altro  verso,
deve rimarcarsi come la questione decisa dalla sentenza n. 5 del 1977
fosse articolata esclusivamente sotto il profilo della disparita'  di
trattamento in relazione al regime di  facoltativita'/obbligatorieta'
della recidiva, rispettivamente, nella disciplina  codicistica  e  in
quella ex art. 296 cit.:  del  tutto  estraneo  al  thema  decidendum
allora affrontato dal Giudice  delle  leggi  era  il  problema  della
"tenuta", In termini di ragionevolezza,  della  presunzione  assoluta
individuata, invece, nella norma oggi  censurata.  Al  di  la'  della
profonda diversita' strutturale, rispetto all'art. 99, quinto  comma,
cod. pen., dell'art. 296 d.P,R. n. 43  del  1973  (disciplinante  una
figura di recidiva non solo specifica, ma anche relativa al reato  di
contrabbando, caratterizzato, secondo la sentenza n. 5 del  1977,  da
«peculiari  caratteristiche  collegate  con  la  lesione  di  primari
interessi finanziari dello  Stato»),  la  fisionomia  attribuita  dal
diritto vivente alla recidiva, in uno con i termini  della  questione
qui sollevata, esclude che il precedente  indicato  possa  essere  di
ostacolo   alla   declaratoria   di   illegittimita'   costituzionale
prospettata dalla presente ordinanza. 
    3.5. La manifesta irragionevolezza della norma si accompagna alla
violazione  del  principio  di  uguaglianza  derivante  dall'identico
trattamento riservato, dall'art.  99,  quinto  comma,  cod.  pen.,  a
situazioni diverse: infatti, ad identica riconducibilita'  del  nuovo
delitto nel "catalogo" di cui all'art. 407, comma 2, lett.  a),  cod.
proc. pen., ben possono corrispondere situazioni connotate, dal punto
di  vista  delle  condizioni  "sostanziali"  di  applicazione   della
circostanza, da profonda diversita', avuto riguardo, ad  esempio,  al
tipo di devianza di cui i  reati  sono  sintomatici  o  all'eventuale
occasionalita' della ricaduta  (per  riprendere  solo  alcuni  tra  i
criteri applicativi individuati dalla piu' volte citata  Sez.  U,  n.
35738 del 27 maggio 2010 -  dep.  5  ottobre  2010,  P.G.,  Calibe').
Precludendo l'accertamento della concreta significativita' del  nuovo
episodio  delittuoso  sotto  il   profilo   della   piu'   accentuata
colpevolezza  e  della  maggiore  pericolosita'  del  reo,  la  norma
censurata da' luogo ad un'illegittima  identita'  di  trattamento  di
situazioni diverse. 
    L'irragionevolezza della disciplina della recidiva obbligatoria e
l'ingiustificata identita' di trattamento ora prospettata danno corpo
alla censura relativa all'art. 27, terzo comma, Cost.,  al  quale  la
giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 251 del 2012) - talora  in
combinazione con l'art. 3 Cost. (sentenza n. 68 del 2012) - riconduce
il principio di proporzionalita' della pena, sul rilievo che una pena
palesemente sproporzionata -  e,  dunque,  inevitabilmente  avvertita
come  ingiusta  dal  condannato  -  vanifica,  gia'  a   livello   di
comminatoria legislativa astratta, la finalita' rieducativa (sentenze
n. 341 del  1994  e  n.  343  del  1993):  esito,  questo,  parimenti
riconducibile  alla  preclusione  dell'accertamento   giurisdizionale
della sussistenza, nel caso concreto, delle condizioni  "sostanziali"
legittimanti l'applicazione della recidiva. 
    4. Pertanto, deve  dichiararsi  rilevante  e  non  manifestamente
infondata la questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  99,
quinto comma, del codice penale in riferimento agli  artt.  3  e  27,
terzo  comma,  della  Costituzione,  con  le  ulteriori   statuizioni
indicate in dispositivo; la minore eta' della persona offesa  impone,
in caso di diffusione della  presente  ordinanza,  l'omissione  delle
generalita' e degli altri dati identificativi.