del Presidente del Consiglio dei Ministri  (C.F.  80188230587)  e
del Consiglio dei Ministri, in  persona  del  Presidente  in  carica,
entrambi rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato,
PEC roma@mailcert.avvocaturastato.it, presso i  cui  uffici  ex  lege
sono domiciliati in Roma alla Via dei Portoghesi  n.  12;  avente  ad
oggetto  conflitto  di  attribuzione  tra  poteri  dello  Stato   nei
confronti della Corte Suprema di Cassazione - Sezioni Unite Civili in
relazione alla sentenza n. 16305/13 in data 12 marzo/28  giugno  2013
(doc. 4). con la quale  e'  stato  respinto  il  ricorso  per  motivi
attinenti alla giurisdizione proposto dalla scrivente difesa erariale
nell'interesse del Governo avverso  la  decisione  del  Consiglio  di
Stato, Sezione Quarta, n. 6083/2011 che, in riforma della  favorevole
sentenza  del  TAR  (recante  declaratoria  di  inammissibilita'  del
ricorso introduttivo per difetto assoluto di giurisdizione ex art. 31
del R.D. n. 1054/1924, ora art. 7, co. 1, ultimo periodo  del  D.Lgs.
n. 104/10), aveva affermato la sindacabilita', ad opera  del  giudice
amministrativo, della deliberazione del Consiglio dei Ministri di non
avviare le trattative per la stipula dell'intesa ex art.  8,  co.  3,
Cost. 
 
                                Fatto 
 
    Con il ricorso dinanzi  al  Tar  per  il  Lazio,  sede  di  Roma,
notificato il 3 febbraio 2004, depositato il successivo  19  febbraio
ed iscritto al n. 1762/2004 di R.G.,  l'Unione  degli  Atei  e  degli
Agnostici  Razionalisti  (d'ora  in  poi  UAAR),   associazione   non
riconosciuta di "atei ed agnostici" costituita con atto notarile  del
13.3.1991, ha chiesto l'annullamento della delibera del Consiglio dei
Ministri in data 27 novembre  2003  (e  della  conseguente  nota  del
Sottosegretario di Stato alla Presidenza  del  Consiglio  in  data  5
dicembre 2003), con la quale il Governo, recependo e facendo  proprio
il parere reso dall'Avvocatura Generale dello Stato, ha deciso di non
avviare le trattative finalizzate  alla  conclusione  dell'intesa  ai
sensi  dell'art.  8,  comma  3,  della  Costituzione,  ritenendo,  in
sostanza, che la professione dell'ateismo non possa essere assimilata
ad  una   "confessione   religiosa"   nell'accezione   recepita   dal
legislatore costituente. 
    In particolare  nell'estratto  del  verbale  della  riunione  del
Consiglio dei Ministri del 27.11.2003 (doc. 1) si legge  testualmente
quanto segue: "in merito alla richiesta  avanzata  dall'Unione  degli
atei e degli agnostici razionalisti, il Consiglio dei Ministri -  nel
condividere il parere espresso dall'Avvocatura generale dello Stato -
si pronuncia collegialmente per il diniego all'avvio delle  procedure
finalizzate alla conclusione di un'intesa ai  sensi  dell'articolo  8
della Costituzione". 
    Omissis. 
 
                      Il Presidente: Berlusconi 
 
 
                                                Il segretario: Letta» 
    Con sentenza n. 12359/08 depositata il 31.12.2008  (doc.  2),  il
TAR  per  il  Lazio,   sezione   I,   nel   condividere   l'eccezione
pregiudiziale formulata dall'Avvocatura dello Stato, ha dichiarato il
ricorso inammissibile per difetto assoluto di giurisdizione ai  sensi
dell'art. 31 r.d. 26.6.1924, n. 1054 ritenendo che la  determinazione
impugnata rivestisse natura di atto politico "non giustiziabile". 
    L'UAAR si  e'  appellata  al  Consiglio  di  Stato  che,  con  la
decisione della Sez. IV, n. 6083/11, depositata il 18  novembre  2011
(doc. 3), ha accolto  il  gravame  e,  per  l'effetto,  in  integrale
riforma della sentenza del TAR, ha  affermato  la  giurisdizione  del
giudice  amministrativo  nella  controversia,  rimettendo  le   parti
dinanzi al primo giudice ex art. 105 c.p. a. 
    Secondo il Consiglio  di  Stato,  "l'organizzazione  richiedente"
sarebbe titolare di un interesse giuridicamente rilevante  ad  essere
qualificata come confessione religiosa;  "l'accertamento  preliminare
se  l'organizzazione  richiedente  sia  o  meno  riconducibile   alla
categoria delle confessioni religiose" costituirebbe mera espressione
di  discrezionalita'  tecnica  della  P.A.   e,   pertanto,   sarebbe
sindacabile dal  giudice  amministrativo  in  sede  di  giurisdizione
generale di legittimita'; "di conseguenza, quanto meno l'avvio  delle
trattative puo' addirittura  considerarsi  obbligatorio  sol  che  si
possa pervenire  a  un  giudizio  di  qualificabilita'  del  soggetto
istante come confessione religiosa, salva  restando  da  un  lato  la
facolta' di non stipulare l'intesa all'esito delle trattative  ovvero
- come gia' detto - di non tradurre in  legge  l'intesa  medesima,  e
dall'altro    lato    la    possibilita',    nell'esercizio     della
discrezionalita'  tecnica  cui  si   e'   accennato,   di   escludere
motivatamente   che   il   soggetto    interessante    presenti    le
caratteristiche  che  le  consentirebbero   di   rientrare   fra   le
"confessioni religiose" (cio' che,  del  resto,  e'  quanto  avvenuto
proprio nel caso di specie). "(cfr. punti 8 e 9 della motivazione). 
    Con ricorso notificato il 9.2.2012, UAAR ha riassunto il giudizio
dinanzi al TAR. 
    Con ricorso straordinario ex art. 111, u.c., Cost., notificato il
26/27.3.2013, l'Avvocatura Generale dello Stato nella veste ut  supra
ha impugnato dinanzi alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione  la
predetta decisione del Consiglio di Stato deducendo,  con  un  unico,
articolato, motivo  (rubricato  "Violazione  e/o  falsa  applicazione
dell'art. 31 r.d. 26.6.1924, n. 1054  (ora  art.  7,  co.  1,  ultimo
periodo, d.lgs. 2.7.2010 n. 104), in relazione agli artt. 111,  u.c.,
Cost., 110 d.lgs. n. 104/2010 e 362, co.  1,  cpc..  Inammissibilita'
dell'originario  ricorso  di  prime  cure  per  difetto  assoluto  di
giurisdizione'') che, contrariamente a  quanto  opinato  dal  giudice
amministrativo d'appello,  il  rifiuto,  da  parte  del  Governo,  di
avviare le trattative per la conclusione dell'intesa ex art.  8,  co.
3, Cost. rientra  nel  novero  degli  "atti  politici"  assolutamente
insindacabili in sede giurisdizionale ai sensi dell'art. 31  r.d.  n.
1054/1924 (e oggi art. 7, comma 1, ultimo periodo, c.p.a. di  cui  al
d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104). 
    Con sentenza n. 16305/13, depositata il 28.6.2013  (doc.  4),  le
Sezioni Unite civili della Corte  di  Cassazione  hanno  respinto  il
ricorso del Governo, ritenendo che "l'assenza di normazione specifica
non  e'  di  per  se'  un   impedimento   a   contrastare   in   sede
giurisdizionale il rifiuto di intesa  che  sia  fondato  sul  mancato
riconoscimento, in capo al richiedente, della natura  di  confessione
religiosa". 
    Sarebbe, dunque, "nel giusto" la sentenza del Consiglio di  Stato
"quando  sostiene  che  rientra  tutt'al   piu'   nell'ambito   della
discrezionalita' tecnica  l'accertamento  preliminare  relativo  alla
qualificazione dell'istante come confessione religiosa". 
    Poste  tali  premesse,  le  Sezioni  Unite  Civili  hanno  quindi
statuito che qualsiasi soggetto  istante  sarebbe  portatore  di  una
pretesa costituzionalmente tutelata (e quindi azionabile in giudizio)
all'apertura delle trattative  per  la  stipula  dell'intesa  di  cui
all'art. 8, comma  3,  Cost.  e  all'implicito  riconoscimento  della
qualita'  di  confessione  religiosa;  sicche'  il  Governo   avrebbe
l'obbligo giuridico di avviare le trattative ex art. 8, co.  3,  cit.
per il solo fatto che una qualsiasi associazione  (o  organizzazione)
lo richieda. 
    L'apertura della trattativa per  la  conclusione  dell'intesa  ex
art. 8, comma 3, Cost. sarebbe in ogni caso doverosa per il  Governo,
a  prescindere  dalle  evenienze  suscettibili  di  verificarsi   nel
prosieguo dell'iter legislativo. 
    A  giudizio  della   S.C.   andrebbe,   infatti,   "ribadita   la
distinzione: l'apertura della trattativa e' dovuta in relazione  alla
possibile intesa, disciplinata, nel procedimento,  secondo  i  canoni
dell'attivita' amministrativa; la  legge  di  approvazione  segue  le
regole e le possibili  vicende,  ordinarie  o  conflittuali,  proprie
degli atti di normazione. 
    La Corte di Cassazione non deve e non  vuole  pronunciarsi  sulla
esistenza  di  un  diritto   alla   chiusura   della   trattativa   o
all'esercizio dell'azione legislativa: esula dall'ambito  decisionale
che e' qui configurato. 
    Per la decisione della causa  e'  sufficiente  stabilire  che  le
variabili fattuali della seconda fase non incidono sulla natura della
situazione giuridica che sta alla base della  bilateralita'  pattizia
voluta dal costituente.  Negare  la  sindacabilita'  del  diniego  di
apertura della trattativa per il fatto che  questa  e'  inserita  nel
procedimento legislativo significa privare  il  soggetto  istante  di
tutela e aprire  la  strada,  come  ha  indicato  il  C.d.S.,  a  una
discrezionalita'  foriera  di  discriminazioni".(v.  pag.  10   della
motivazione). 
    Con sentenza n. 7068/14 depositata  il  3.7.2014  (doc.  6),  non
notificata, il TAR per  il  Lazio,  Roma,  sezione  I  -ritenendo  la
propria giurisdizione in ossequio a  quanto  statuito  dalle  Sezioni
Unite della Corte di Cassazione- ha respinto il ricorso  nel  merito,
escludendo  che  UAAR  possa  essere  qualificata  come   confessione
religiosa (cfr. punto 4.4. della motivazione). 
    Cionondimeno, il Governo  non  ritiene  di  poter  condividere  i
principi affermati dalle Sezioni Unite civili della Corte Suprema  di
Cassazione in quanto, a norma degli artt. 8, co. 3, 92 e 95  Cost.  e
dell'art. 2, co. 3, lett. l) della legge n. 400/1988, il  rifiuto  di
avviare le trattative finalizzate  alla  conclusione  dell'intesa  ex
art. 8, comma  3,  Cost.  (a  prescindere  dalle  ragioni  addotte  a
sostegno del diniego) e' un "atto politico" ex art. 31  del  R.D.  n.
1054/1924, ora art. 7, co. 1, ultimo periodo del d.lgs. n. 104/10, un
atto,  cioe',  palesemente  estraneo  alla  funzione  amministrativa,
costituente, invece, espressione della funzione di indirizzo politico
che la Costituzione  repubblicana  attribuisce  al  Governo  medesimo
nella materia religiosa (cfr. artt. 7, 8, co. 3, 92 e 95 Cost.).. 
    Giusta deliberazione del Consiglio dei Ministri in data 31 luglio
2014, (doc. 5), l'Avvocatura Generale dello  Stato  eleva,  pertanto,
con il presente ricorso, conflitto ai sensi degli artt. 37 e seguenti
della legge 11 marzo 1953, n. 87, per violazione  degli  articoli  8,
comma 3, 92 e 95 della Costituzione e delle  conferenti  disposizioni
di legge ordinaria che ne costituiscono attuazione (art.  2,  co.  3,
lett. l) della legge n. 400/1988,  nonche'  l'art.  31  del  R.D.  n.
1054/1924, ora art. 7, co. 1, ultimo periodo del d.lgs. n. 104/10). 
 
                               Diritto 
 
    1. Sull'ammissibilita' del ricorso. 
    1.1. Sotto il profilo soggettivo. 
    Pacifica e'  la  competenza  del  Presidente  del  Consiglio  dei
Ministri  a  dichiarare  definitivamente  la  volonta'   del   potere
esecutivo cui egli appartiene ex art. 92, comma primo Cost. (cfr., ex
plurimis, Corte cost. ord. n. 25/1977). 
    Nella fattispecie, poi,  il  rifiuto  di  avviare  le  trattative
finalizzate alla stipula dell'intesa ex art. 8, comma  3,  Cost.,  di
cui si assume la  assoluta  insindacabilita'  ad  opera  dei  giudici
comuni, e' stato opposto (con deliberazione del 27 novembre 2003) dal
Consiglio dei Ministri a cui sono, appunto,  riservate,  dalla  legge
ordinaria (cfr. art. 2, co. 3, lett. 1) della legge n. 400/1988),  le
determinazioni sulle intese di cui all'art. 8, comma 3, Cost.. 
    Ne consegue la spettanza della  qualificazione  di  potere  dello
Stato in capo  al  Consiglio  dei  Ministri  ed  al  suo  Presidente,
entrambi ricorrenti. 
    Sul versante  della  legittimazione  passiva,  le  Sezioni  Unite
civili della Corte Suprema di Cassazione -che,  come  avvenuto  nella
specie, si siano pronunciate sulla giurisdizione a seguito di ricorso
straordinario  ex  art.  111,  u.c..,  Cost.-  sono  indubitabilmente
competenti a dichiarare in via  definitiva  la  volonta'  del  potere
giudiziario, tenuto conto della c.d. "efficacia pan processuale"  che
assiste questo tipo di  pronunce,  in  grado  di  vincolare  tutti  i
giudici comuni anche in altro processo (cfr.,  ex  plurimis  ,  Cass.
S.U. 13768/05), come, peraltro, oggi espressamente previsto dall'art.
59, comma primo, secondo periodo, della legge n. 69/2009. 
    Di talche' anche la spettanza, in capo alle Sezioni Unite  Civili
della Corte Suprema di Cassazione,  della  qualificazione  di  potere
dello Stato deve ritenersi del tutto pacifica. 
    1.2. Sotto il profilo oggettivo. 
    Le Sezioni Unite della S.C. - nello statuire, con  la  suindicata
pronuncia n. 16305/13, la sindacabilita', ad opera del giudice comune
(nella specie individuato nel giudice amministrativo),  del  diniego,
opposto dal Consiglio dei Ministri, all'avvio delle trattative per la
stipula  dell'intesa  di  cui  all'art.  8,  co.  3,   Cost.-   hanno
illegittimamente esercitato il loro potere giurisdizionale, arrecando
un grave vulnus, quantomeno sotto il profilo della  sua  menomazione,
alla funzione di indirizzo politico, come tale  assolutamente  libera
nel fine (e quindi insuscettibile di controllo da parte  dei  giudici
comuni ex art. 31 del R.D. n. 1054/1924, ora art. 7,  co.  1,  ultimo
periodo del d.lgs. n. 104/10), che la Costituzione assegna al Governo
in materia religiosa (cfr. artt. 7, 8, co. 3, 92 e 95 Cost.). 
    Non  vi  e'  dubbio,  pertanto,  che,  anche  sotto  il   profilo
oggettivo, ricorrano i presupposti di cui all'art. 37 della legge  n.
87/1953 citata. 
    2. Nel merito: violazione degli articoli 8,  comma  3,  92  e  95
della Costituzione e delle conferenti disposizioni di legge ordinaria
che ne costituiscono attuazione (art. 2, co. 3, lett. l) della  legge
n. 400/1988, nonche' l'art. 31 del R.D. n. 1054/1924, ora art. 7, co.
1, ultimo periodo del d.lgs. n. 104/10). 
    2.1. Come esposto nella parte in fatto, con la sentenza n.  16305
del 2013 le Sezioni Unite Civili della Suprema  Corte  di  Cassazione
hanno sostanzialmente ritenuto che la mera apertura della  trattativa
per la conclusione dell'intesa ex art. 8, comma 3, Cost.  sarebbe  in
ogni caso doverosa per il  Governo,  a  prescindere  dalle  evenienze
suscettibili di verificarsi nel prosieguo dell'iter legislativo. 
    A giudizio della S.C., infatti, la "possibile  intesa"  «sarebbe:
n.d.r.»   disciplinata,   nel   procedimento,   secondo   i    canoni
dell'attivita' amministrativa". 
    Da  tale  premessa,  le  Sezioni  Unite  hanno  poi   tratto   la
conseguenza  che  "l'apertura  della  trattativa"  «finalizzata  alla
possibile intesa: n.d.r.» e' dovuta" (cioe' doverosa per  il  Governo
sol che un  qualsivoglia  soggetto  collettivo  o  organizzazione  lo
richieda); di contro, "( ... ) la  legge  di  approvazione  segue  le
regole e le possibili  vicende,  ordinarie  o  conflittuali,  proprie
degli atti di normazione. 
    Non vi sarebbe, poi, la  necessita'  di  pronunciarsi  in  ordine
all'esistenza  di  un  diritto  alla  chiusura  della  trattativa   o
all'esercizio dell'azione legislativa":  tale  questione,  ad  avviso
della Corte di Cassazione, esulerebbe dall'ambito della  decisione  a
cui era chiamata; e cio' in quanto, appunto, "le  variabili  fattuali
della seconda fase «id est: di quella fase successiva alla  eventuale
conclusione dell'intesa: n.d.r.»  non  incidono  sulla  natura  della
situazione giuridica che sta alla base della  bilateralita'  pattizia
voluta dal Costituente", cioe' sul  preteso  "diritto",  in  capo  al
soggetto  richiedente,   all'apertura   della   trattativa   per   la
conclusione dell'intesa ex art. 8 co. 3 Cost.. 
    Tali assunti non possono essere condivisi. 
    Ed invero, l'art. 8, comma 3, Cost. (a mente del quale i rapporti
delle confessioni religiose diverse dalla  cattolica  "con  lo  Stato
sono regolati  per  legge  sulla  base  di  intese  con  le  relative
rappresentanze) e' norma sulla produzione giuridica, cioe' una  norma
sulle fonti, parallela a quella prevista dall'art. 7, comma 2,  Cost.
per le modifiche della legge  di  esecuzione  dei  Patti  Lateranensi
(Balladore Pallieri; Mortati; A. Rava'; d'Avack). 
    Le  intese  ex  art.  8  comma  3  della  Cost.  si  inseriscono,
costituendone un imprescindibile presupposto legittimante,  nell'iter
legislativo preordinato all'emanazione della  legge  regolatrice  dei
rapporti tra Stato e la confessione religiosa; e pertanto non possono
che partecipare della stessa natura (di  atto  politico  libero)  che
connota le successive fasi dell'iter legis: (si  veda,  al  riguardo,
Cass., S.U. n. 2439/2008 che  ha  dichiarato  l'insindacabilita',  da
parte  dei  giudici  comuni,  degli  atti  facenti  parte   dell'iter
formativo di una legge regionale). 
    Detto avviso e' condiviso da autorevole dottrina, secondo cui "le
intese, invero, sono  dirette  all'emanazione  di  una  legge.  Esse,
percio', non toccano la responsabilita' dell'amministrazione,  bensi'
la responsabilita'  politica  del  governo,  organo  competente,  tra
l'altro, a intrattenere rapporti con  gli  ordinamenti  esterni  allo
Stato. Le intese non sono negozi che debbano essere valutati sotto il
profilo della  conformita'  a  preesistenti  regole  giuridiche  o  a
principi di buona amministrazione, come accadrebbe se fossero accordi
stipulati a livello burocratico, ma sono accordi  che  devono  essere
valutati sotto il profilo dell'opportunita' politica e  del  rispetto
della Costituzione" (Finocchiaro,  "Diritto  ecclesiastico",  Torino,
2003,  134;  in  termini  analoghi  Cardia,   "Manuale   di   diritto
ecclesiastico", 1996, 224, per il  quale  "l'Intesa  ha  un  indubbio
valore politico perche' investe la responsabilita' dell'Esecutivo sia
all'atto della scelta di trattare con  una  determinata  confessione,
sia nel corso del negoziato e sino alla sua conclusione'). 
    Poiche', dunque, contrariamente a quanto opinato dalla  Corte  di
Cassazione, le intese  ex  art.  8,  co.  3.  Cost.  sono  atti  (non
amministrativi, ma) politici diretti all'emanazione di una legge,  il
Governo (salva l'eventuale responsabilita' politica nei confronti del
Parlamento e, in ultima analisi, del corpo elettorale) non  ha  alcun
obbligo giuridico di avviare le relative trattative, cosi' come, dopo
aver  concluso  l'intesa,  ben  potrebbe  astenersi   dall'esercitare
l'iniziativa occorrente per l'emanazione della legge. 
    E' infatti innegabile che l'omesso esercizio  della  facolta'  di
iniziativa legislativa nella materia  religiosa  rientri  nel  novero
delle determinazioni politiche (ex art. 71  Cost.)  non  soggette  al
controllo dei giudici comuni. 
    Orbene,  se  il   Governo,   anche   dopo   l'eventuale   stipula
dell'intesa, e' libero di non dare seguito alla stessa, omettendo  di
esercitare l'iniziativa occorrente per l'emanazione  della  legge  ex
art. 8, co.  3,  Cost.,  a  maggior  ragione  deve  ritenersi  libero
-nell'esercizio di valutazioni politiche assolutamente  sottratte  al
sindacato  dei  giudici  comuni  perche'  afferenti  ad  attribuzioni
costituzionalmente garantite in materia religiosa (cfr. artt. 8,  co.
3, 92 e 95 Cost.)-  di  non  avviare  alcuna  trattativa,  ove,  come
avvenuto nella specie, ritenga comunque di non addivenire  all'intesa
de qua agitur con il soggetto richiedente. 
    Le Sezioni Uniti Civili della Corte di Cassazione, pur  sembrando
ammettere, in tesi, che non vi sia un "diritto  alla  chiusura  della
trattativa" gia' avviata, e che, del pari, non sia  configurabile  un
diritto "all'esercizio  dell'azione  legislativa"  (dopo  l'eventuale
conclusione  dell'intesa),  hanno   poi   ritenuto   tali   questioni
irrilevanti ai fini della soluzione della controversia,  «addirittura
estranee  al  thema  decidendum»,  poiche'  le  evenienze  successive
all'apertura delle trattative sarebbero mere "variabili fattuali" che
non inciderebbero sulla natura della  situazione  giuridica  che  sta
alla base della bilateralita' pattizia voluta dal costituente", cioe'
sul preteso "diritto", in capo al soggetto richiedente,  all'apertura
della trattativa per la conclusione  dell'intesa  ex  art.  8  co.  3
Cost.. 
    Siffatto argomentare della Suprema Corte di  Cassazione  conferma
la fondatezza del presente ricorso per  conflitto:  se,  infatti,  il
Governo, subito dopo l'asserito e  supposto  "doveroso"  avvio  delle
trattative (magari il giorno stesso .....), puo' (come,  in  effetti,
puo')  insindacabilmente  "recedere"  dalle  trattative  medesime  o,
comunque, dopo aver raggiunto l'intesa, e' libero (come, in  effetti,
e') di non esercitare l'iniziativa necessaria per il  recepimento  in
legge dell'intesa, cio' significa  che  il  preteso  "diritto"  «alla
semplice apertura delle trattative» e', in realta',  sottoposto  alla
condizione  (risolutiva)  "meramente  potestativa"   della   positiva
valutazione politica del Governo; e "un diritto" di tal fatta  e'  un
"non-diritto", cioe' un interesse  di  mero  fatto  non  qualificato,
privo di protezione giuridica; di talche',  anche,  per  questa  via,
appare  confermata  la  natura  "politica"  (e,  quindi,   l'assoluta
insindacabilita'  giurisdizionale)  del   rifiuto   di   avviare   le
trattative per la conclusione dell'intesa ex art. 8, co. 3, Cost.  Le
tesi che qui si propugnano ricevono decisivo conforto dalla  sentenza
n. 346/2002 di codesta Ecc.ma Corte che ha, appunto, evidenziato  che
il Governo «non e' vincolato  oggi  a  norme  specifiche  per  quanto
riguarda l'obbligo, su richiesta della confessione, di negoziare e di
stipulare  l'intesa»  (cfr.   punto   2,   terzo   capoverso,   della
motivazione). 
    Del resto, con la recente sentenza n. 81 del 2012, resa  in  sede
di conflitto di attribuzioni,  codesta  Ecc.ma  Corte  ha,  altresi',
riconosciuto la perdurante "esistenza di spazi riservati alla  scelta
politica" (cfr, punto 4.2. della motivazione). 
    2.2 Alla luce delle considerazioni che precedono,  deve,  dunque,
ritenersi, contrariamente  a  quanto  statuito  dalle  Sezioni  Unite
Civili  della  Suprema  Corte  di  Cassazione,  che  il  rifiuto  del
Consiglio dei Ministri di avviare le trattative  per  la  conclusione
dell'intesa ex art. 8., comma 3, Cost.,  costituisca  (alla  medesima
stregua dell'avvio  delle  trattative  e/o  della  eventuale  stipula
dell'intesa, ove essa venga  raggiunta)  un  atto  espressione  della
fondamentale funzione di direzione e di indirizzo politico, in quanto
tale libera nel fine (ed insuscettibile di  controllo  ad  opera  dei
giudici comuni ex art. 31 del R.D. n. 1054/1924, ora art. 7,  co.  1,
ultimo periodo del d.lgs. n. 104/10), che la Costituzione assegna  al
Governo con riferimento al fenomeno religioso (cfr. artt. 8,  co.  3,
92 e 95 Cost.). 
    Tale funzione di indirizzo politico  de  qua  agitur  (in  quanto
costituzionalmente garantita) non tollera interferenze da  parte  del
potere giudiziario: sarebbe, invero, abnorme la sentenza del  giudice
amministrativo che "annullasse" il diniego di avvio delle  trattative
per la stipula dell'intesa ex art. 8, comma 3, Cost.,  imponendo,  in
virtu' del c.d. effetto conformativo del  giudicato,  al  Governo  di
riesaminare la questione o, peggio, di  concludere  l'intesa  con  un
determinato soggetto richiedente. 
    L'art. 2, comma 3, lett. l), della legge 23/08/1988 n. 400 -nella
misura in cui estende la deliberazione del  Consiglio  dei  Ministri,
prevista per atti pacificamente "politici"«come quelli  di  cui  alle
lett. a), b), g), h) i)» anche  agli  "atti  concernenti  i  rapporti
previsti dall'articolo 8 della Costituzione", fornisce  un  solido  e
(decisivo) argomento nella direzione della natura "politica" anche di
questi ultimi.