TRIBUNALE DI VICENZA Il Tribunale, riunito in Camera di consiglio in persona di: dott. Marcello Colasanto, Presidente dott. Antonio Picardi, Giudice dott. Giuseppe Limitone, Giudice rel. Visto il ricorso che precede ed i documenti allegati, di cui al fascicolo n. 513/2013, nella procedura prefallimentare instaurata da Commerciale Veneta Beltrame spa con l'avv. Flavia Mottola di Vicenza; Nei confronti di Dovigo Adolfo resistente; Sentita la relazione del giudice incaricato; Ha pronunciato la seguente Ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale Premessa Inquadramento storico. Si intende porre in discussione la legittimita' costituzionale delle norme che prevedono la soggezione al fallimento di una persona fisica, quale titolare di un'impresa individuale insolvente ovvero come socio illimitatamente responsabile di una societa' fallibile, e non, invece, il fallimento della sola impresa, senza coinvolgere nominalmente la persona fisica, nel caso di impresa individuale, od il socio, nel caso di impresa associata, sempre dal punto di vista nominale e lessicale. In concreto, sono specificamente impugnate le norme di cui all'art. 1, comma 1, e art. 5, comma 1, Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267. Come e' stato bene evidenziato in dottrina, la legge fallimentare italiana (Regio Decreto 16 marzo 1942, n. 267), in piu' di 60 anni di applicazione ha manifestato uno spiccato carattere liquidatorio degli assets aziendali, con valenza sostanzialmente sanzionatoria e punitiva nei confronti dell'imprenditore, che ha subito un completo spossessamento del suo patrimonio ed una serie di conseguenze negative anche di carattere personale. La recente riforma del diritto fallimentare (introdotta dapprima con il decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito con Legge 14 maggio 2005, n. 80 e, poi, con il Decreto Legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, che e' entrato in vigore il 16 luglio 2006), invece, ha propugnato una nuova e diversa visione dell'insolvenza intesa come "episodio fisiologico e non come accidente patologico causato da condotta fraudolenta", introducendo i fenomeni della privatizzazione e degiurisdizionalizzazione delle procedure fallimentari. Questa, peraltro, e' anche la tendenza ormai consolidata nei sistemi giuridici stranieri, ed in primis, in quello anglosassone (v. in particolare l'art. 11 (chapter eleven) del Bankruptcy Act statunitense, in tema di reorganization), al quale il Legislatore riformista nostrano va ispirandosi. L'inadeguatezza dell'uso del termine "fallito", per colui la cui impresa sia in stato di insolvenza, deriva dal fatto che il termine fallito non e' solo un termine tecnico giuridico, ma anche, e soprattutto, un termine di portata ben piu' ampia, che coinvolge la persona nella sua globalita', in tutte le sue sfere e relazioni sociali, e nel suo piu' intimo sentire ed amor proprio. Colui la cui impresa non abbia funzionato, e che viene dichiarato fallito, puo' sentirsi per questo, ed essere considerato dagli altri, un fallito? Cosi' possono pensare le persone con cui viene a contatto il fallito nella vita di relazione, dalla famiglia (figli, coniuge, parenti) in poi (amici, colleghi). Non si puo' dichiarare il fallimento di una persona, la quale non si riduce ad essere solo un'impresa. Non e' modernamente piu' tollerabile che una persona possa rinunciare al bene della vita (cosa che, purtroppo, attualmente, talvolta, succede) per non subire l'onta di sentirsi chiamare fallito davanti a tutti. Nel nostro sistema, sulla scorta dell'espressione decoctor ergo fraudator, il fallimento e' concepito aprioristicamente come conseguenza della condotta della persona, infatti, proprio per questo, tuttora fallisce l'imprenditore, e non l'impresa, mentre i limiti di fallibilita' si riferiscono macroscopicamente all'impresa (ricavi lordi, investimenti, passivo) e non alla persona fisica (peso, altezza, colore dei capelli)! Mentre la rubrica dell'art. 1 l.f. recita: "Imprese soggette al fallimento e al concordato preventivo", la norma afferma invece che sono soggetti alle disposizioni sul fallimento "gli imprenditori". La discrasia e' evidente. La rilevanza nel presente giudizio. Il presente giudizio, in sede prefallimentare, verte sulla possibile dichiarazione di fallimento della persona fisica, resistente nel giudizio. La questione di costituzionalita' dell'art. l, comma l, e dell'art. 5, comma 1, l.f. e' rilevante, perche' il Tribunale, nella sua composizione collegiale, dovrebbe dichiarare il fallimento della persona fisica insolvente. Se la norma venisse dichiarata incostituzionale, invece, il Tribunale potra' dichiarare il fallimento (oppure l'insolvenza) dell'impresa o esclusivamente l'insolvenza dell'imprenditore. Le questioni di costituzionalita'. Si prospettano, pertanto, i possibili profili di illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 1, e dell'art. 5, comma 1, l.f., secondo la precipua valutazione che ne vorra' dare Codesta Corte: 1) Art. 2 Cost.: tutela dei diritti inviolabili, il diritto all'onore (v. C Cost. 1150/1988), nel modo in cui esso viene inteso secondo la Costituzione materiale vivente. Si ipotizza un contrasto dell'art. 1, comma 1, e dell'art. 5, comma 1, l.f. con la "Costituzione materiale", ossia con l'insieme di quei valori e principi che danno identita' a un ordinamento e dai quali promana la Costituzione formale. I valori e i principi che sorreggono l'ordinamento nel tempo corrente non sono, in subiecta materia, indiscutibilmente piu' gli stessi del 1942. La crisi economica e' un dato obiettivo, si fallisce anche solo per non essere stati pagati dai propri clienti, talvolta persino lo Stato, che, poi, nella veste dell'ordinamento giudiziario, con sentenza, attribuisce la patente di fallito a colui che esso stesso - per primo - non ha pagato. Il senso di iniquita' e' patente. 2) art. 3, comma 1, Cost.: uguaglianza formale. Si ipotizza un contrasto con la norma di cui all'art. 3, comma 1, Cost., sotto il profilo della tutela della pari dignita' sociale, che impedisce la formulazione di giudizi lesivi delle qualita' morali dell'individuo (cfr. C. Cost. 159/1973) (nella specie: fallito - ingannatore), o di considerare taluni cittadini indegni del trattamento sociale riservato alla generalita' degli altri (come conseguenza dell'attribuzione, con sentenza, di un termine che e' spregiativo secondo il senso comune: fallito); ovvero intesa come tutela dell'onore e come limite dei pubblici poteri, qui esercitati nell'ambito dell'applicazione della legge. Si ipotizza un contrasto ancora con il principio di uguaglianza sotto il profilo della disparita' di trattamento tra situazioni uguali: tra imprenditore che fallisce e imprenditore che non fallisce, tra una persona insolvente che fallisce ed una persona insolvente che non fallisce. 3) art. 3, comma 2, Cost.: uguaglianza sostanziale. L'art. 3, comma 2, Cost. prevede la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la liberta' e l'uguaglianza dei cittadini. La norma e' programmatica, ma e' anche immediatamente precettiva, nel senso di consentire la rimozione di una norma che costituisca il predetto ostacolo. 4) art. 41, comma 2, Cost.: iniziativa economica, privata. Si ipotizza un contrasto con l'art. 41, comma 2, Cost., sotto il profilo della mancata tutela (da parte Legislativa) della dignita' umana, nell'ambito dell'iniziativa economica privata. La non manifesta infondatezza. E' stato abolito nel 2006 il registro dei falliti, eppure si continua ad attribuire con sentenza la qualifica di fallito, per la dirompenza della quale non occorre certo un registro, bastando la propria sensibilita' del soggetto circa la deminutio lessicale e sociale che viene ingiustificatamente a colpirlo, e che si rivela quando rientra a casa, in famiglia, a tavola, nel talamo, con gli amici, facendo sport, e nella vita sociale tutta. Nel nostro ordinamento, complice un retaggio lessicale non piu' accettabile (decoctor ergo fraudator), risalente a storici insigni giuristi del nostro sistema giuridico (nel caso di specie, l'espressione e' attribuita a Baldo degli Ubaldi), la qualita' di fallito e' attribuita alla persona fisica, sul presupposto, non dimostrabile a priori e modernamente non piu' condivisibile, della sua condotta fraudolenta: insolvente (decoctor) e percio' ingannatore (fraudator). Fallito proviene etimologicamente da fallare = ingannare. Questo sillogismo, questa epesegesi, questa necessitata consecuzione causale, non e' piu' accettabile. L'insolvente puo' essere, e normalmente e', una brava persona, magari incapace di gestire un'azienda, o persino soltanto uno che non e' stato pagato dai propri clienti, fors'anche dallo Stato, ma non certo necessariamente un frodatore, o ingannatore, per obbligatoria definizione giudiziaria. Insolvente non e' necessariamente truffatore, quindi non e', e non deve essere, necessariamente "fallito" (da "fallare"= ingannare). Scriveva Baldo degli Ubaldi: "Falliti sunt infami et infamissimi et more antiguissimae legis tradi creditoris laniandi ... Nec excusantur ob adversam fortunam est decoctor ergo fraudator; sic lex enim vocat eos, unde edictum fraudatorium" (Consilia, Venezia, 1575, Vol. V, 399). Il sillogismo medievale evocato dall'espressione "decoctor ergo fraudator", o presunzione di frode del mercante fallito, ha iniziato a stemperarsi a partire dal XVI secolo fino al Codice di commercio Albertino del 1842 ed ai successivi del 1865 e del 1882 e ormai si ritiene appartenere all'archeologia giuridica. Ma rimane ancora la dichiarazione di fallimento della persona fisica. In linea con la Costituzione materiale e' invece la normativa introdotta per il componimento della crisi da sovraindebitamento, legge n. 3/2012, la quale, nel regolare l'insolvenza del soggetto non fallibile, anche imprenditore commerciale, ma al di sotto delle soglie di fallibilita', non utilizza mai il termine "fallimento", se non all'art. 12, comma 5, per stabilire le conseguenze sull'accordo stipulato con i creatori del sovraindebitato dell'eventuale successiva dichiarazione di fallimento (che, appunto, risolve, l'accordo). Per il resto, la normativa stabilisce le modalita' di componimento della crisi da sovraindebitamento (c.d. insolvenza civile) o mediante un accordo con i creditori (sulla base di un piano), o mediante un semplice piano (senza accordo), o mediante una liquidazione ad opera di un liquidatore giudiziale, preservando, in ogni sua espressione lessicale e fase procedurale, la dignita' della persona, che mai si vede attribuita la qualifica di fallito, ne' direttamente, ne' indirettamente, e cio', si noti bene, vale anche per l'imprenditore sottosoglia ex art. l, comma 2, l.f., il quale, benche' eserciti un'attivita' commerciale, non e' pero' soggetto al fallimento per una mera dinamica contabile della sua impresa, fermo restando che lo stesso soggetto, ove avvenga che superi le soglie di fallibilita' nel corso dell'attivita' d'impresa, potrebbe essere anche dichiarato fallito. E' evidente la discrasia tra le due situazioni, dell'imprenditore sottosoglia, che e' esonerato dalla capitis deminutio sociale del fallimento, e di quello soprasoglia (fors'anche lo stesso soggetto nel tempo), che da questa capitis deminutio sociale non puo' sfuggire. E altrettanto dicasi per l'insolvente imprenditore soggetto al fallimento e l'insolvente non soggetto al fallimento. Piu' fortunato l'insolvente che non fallisce: si sentira' meno sminuito in societa'. Molteplici, quindi, i profili di contrasto con la Costituzione, ma principalmente (in connessione con gli altri indicati): 1) la lesione del principio di uguaglianza, per la disparita' di trattamento tra un imprenditore soprasoglia ed uno sottosoglia (e tra un soggetto fallibile ed uno non fallibile) nel subire la capitis deminutio sociale conseguente alla attribuzione dell'appellativo "fallito", che viene dato con sentenza ad una persona fisica, per l'insolvenza della sua impresa, o della societa' di cui e' socio illimitatamente responsabile; 2) lo iato di sensibilita' (sociale e giuridica) rispetto alla vigente Costituzione materiale, che piu' non tollera nel proprio sentire che un soggetto persona fisica debba essere qualificato "fallito", sol perche' la sua impresa commerciale (e solo essa) non abbia funzionato a dovere, eventualmente anche per cause esterne al suo volere, come e' dimostrato nei fatti dalla mutata sensibilita' del Legislatore, che nella L. n. 3/2012 ha adoperato espressioni e fatto riferimento a procedure affatto diverse, comunque svincolate da una logica nominalmente punitiva fallimentaristica, ed implicanti soltanto procedure di regolazione concordata della crisi, oppure di liquidazione giudiziale, non traumatiche per la persona fisica e per la sua dignita'. Si auspica di conseguenza un intervento della Corte manipolativo-additivo, consentendo al giudice di non pronunciare il fallimento della persona fisica, per l'incostituzionalita' dell'attribuzione della qualifica di fallito, con tutto il portato etico e sociale che ne consegue, e per la dignita' della persona nella sua globalita', consentendo invece di dichiararne soltanto l'insolvenza, ovvero di dichiarare il fallimento (o l'insolvenza) della sola impresa, intesa come attivita', in attesa di una rielaborazione organica complessiva della intera materia fallimentare, sulla scorta del modello operativo costituito dalla L. n. 3/2012. Voglia, percio', l'Eccell.ma Corte Costituzionale dichiarare l'illegittimita' costituzionale: dell'art. 1, comma 1, e dell'art. 5, comma 1, l.f., nella parte in cui assoggettano a fallimento l'imprenditore individuale persona fisica, e non autonomamente la sola impresa individuale intesa come attivita', ovvero alternativamente nella parte in cui assoggettano a fallimento l'imprenditore individuale anziche' limitarsi a dichiararne l'insolvenza, o a dichiarare soltanto l'insolvenza dell'impresa della persona fisica come attivita' (le norme impugnate potrebbero cosi' risultare: art. 1, "Sono soggetti alle disposizioni sull'insolvenza e sul concordato preventivo gli imprenditori che esercitano una attivita' commerciale, esclusi gli enti pubblici.", oppure "Sono soggette alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo le imprese che esercitano una attivita' commerciale, esclusi gli enti pubblici."; art. 5, "L'imprenditore che si trova in stato d'insolvenza e' dichiarato insolvente.", oppure "L'impresa che si trova in stato d'insolvenza e' dichiarata fallita.").