IL TRIBUNALE ORDINARIO DI TRENTO 
                           sezione civile 
 
    Composto dagli Ill.mi sigg.ri magistrati: 
        dott. Roberto Beghini, Presidente relatore; 
        dott. Giuseppe Barbato, giudice; 
        dott. Giuliana Segna, giudice; 
    Letti gli atti del proc. n. 5142/2013 RG; 
    Pronunzia la seguente; 
 
                              Ordinanza 
 
di rimessione degli atti alla Eccellentissima Corte costituzionale in
relazione alla questione di legittimita' costituzionale dell'art.  1,
primo comma, della legge 14 aprile 1982, n. 164. 
1. La rilevanza della questione. 
    La presente ordinanza coinvolge questioni di diritto identiche  a
quelle gia' esaminate da questo stesso Tribunale nel procedimento  n.
1471/2014 RG e nel relativo  provvedimento  del  19  agosto  2014  di
rimessione degli atti a codesta Eccellentissima Corte. 
    Anche nel presente caso, la rilevanza della questione risiede nel
fatto che, il ricorrente, premesso di non avere figli e di  non  aver
contratto matrimonio, ha chiesto a questo Tribunale la rettificazione
di attribuzione di sesso ai sensi dell'art.  1,  primo  comma,  della
legge 14 aprile 1982, n. 164, mediante ordine all'ufficiale di  stato
civile del comune di residenza, di modificare l'atto di nascita,  nel
senso che risulti quale genere quello femminile e quale  prenome  uno
dello stesso tipo. In mero subordine, il ricorrente ha chiesto -  pur
non ritenendolo necessario - di  essere  autorizzato  a  compiere  in
futuro    gli    interventi    medico-chirurgici    necessari    alla
normoconformazione  del  suo  corpo.  Espone  di  percepire  da  anni
un'identita' di  genere  femminile,  abbigliandosi  in  tal  senso  e
presentandosi  cosi'  anche  nell'ambiente  sociale.   Documenta   un
disturbo dell'identita' sessuale nella forma del transessualismo e di
disturbo dell'identita' di genere. Sostiene e documenta di aver  gia'
avviato una terapia ormonale. Ritiene non  necessario  sottoporsi  ad
alcun intervento chirurgico e solo in  estremo  subordine  chiede  di
essere autorizzato a farlo.  Comparso  assieme  al  suo  difensore  -
innanzi al  giudice  istruttore  -  con  abbigliamento  ed  apparenza
femminile, ha insistito in tutte e due le domande giudiziali, sia  di
rettificazione che - in subordine - di autorizzazione all'adeguamento
dei   caratteri   sessuali   da   realizzare   mediante   trattamento
medico-chirurgico. 
    Il Procuratore della Repubblica presso questo Tribunale,  rimasto
inizialmente  contumace,  e'  poi   intervenuto   esprimendo   parere
favorevole all'accoglimento della domanda di rettificazione. 
    Il  procedimento  era  stato  sospeso  da  questo  Tribunale  con
ordinanza  del   19-20   agosto   2014,   in   attesa   che   codesta
Eccellentissima Corte  decidesse  la  cit.  medesima  questione  gia'
sollevata  nel  predetto  procedimento  n.  1471/2014   RG;   ma   il
ricorrente, con ricorso  depositato  il  30  dicembre  2014,  ha  ora
insistito per la decisione immediata  della  controversia,  ritenendo
altresi' di avere comunque diritto ad  intervenire  nel  giudizio  di
costituzionalita'. 
    All'udienza  del  21  aprile  2015,  la  causa  e'  stata  quindi
riservata per la decisione. 
    Delineato in tal modo l'oggetto  del  presente  giudizio,  questo
Tribunale   evidenzia   che   la   rilevanza   della   questione   di
costituzionalita' che con  la  presente  ordinanza  viene  sollevata,
risiede nel fatto che la domanda del ricorrente, deve  essere  decisa
sulla base del cit. art. 1, primo comma, della legge 14 aprile  1982,
n. 164 (come modificato dall'art. 110, decreto del  Presidente  della
Repubblica 3 novembre 2000, n. 396), in virtu' del quale,  come  noto
«la rettificazione si fa in forza di sentenza del  tribunale  passata
in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso  da  quello
enunciato nell'atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni
dei suoi caratteri sessuali». 
    Dal tenore letterale della norma, emerge  inequivocabilmente  che
la rettificazione puo'  aver  luogo  solo  previa  modificazione  dei
caratteri sessuali, per tali dovendosi necessariarnente  intendere  i
caratteri sessuali primari (vale a dire l'apparato genitale, in  base
all'esame  del  quale,  al  momento  della  nascita,  si  e'   soliti
individuare il sesso della persona). In assenza  della  modificazione
dei caratteri sessuali  primari,  la  rettificazione  non  puo'  aver
luogo. 
    E' ben vero che l'art. 31, comma quarto, del decreto  legislativo
1° settembre 2011, n. 150, prevedendo che «quando risulta  necessario
un  adeguamento  dei  caratteri  sessuali  da   realizzare   mediante
trattamento medico-chirurgico, il tribunale lo autorizza con sentenza
passata in giudicato», ammette che il  trattamento  medico-chirurgico
possa  essere  solo  eventuale  (come  lascia  intendere   l'avverbio
«quando»); ma cio' non gia' perche' possa ottenersi la rettificazione
di attribuzione di sesso a prescindere dall'adeguamento dei caratteri
sessuali primari, bensi' solo perche' possono esservi  casi  concreti
nei quali i caratteri sessuali primari risultano gia' modificati  (ad
esempio, in caso  di  intervento  gia'  praticato  all'estero  o  per
ragioni  congenite).  Se  cosi'  non  fosse,  non  si  comprenderebbe
l'espressione  «a  seguito  di  intervenute  modificazioni  dei  suoi
caratteri sessuali», di cui al cit. art. 1, primo comma, della  legge
14 aprile 1982, n. 164. Se il legislatore  avesse  inteso  consentire
alla persona la rettificazione di attribuzione di sesso a prescindere
dalla modificazione dei suoi caratteri sessuali primari, non  avrebbe
menzionato tale modificazione  nella  parte  finale  della  norma  in
esame. Il suo tenore letterale sarebbe stato diverso,  verosimilmente
uguale a «la rettificazione si fa in forza di sentenza del  tribunale
passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso  da
quello enunciato nell'atto di nascita», senza alcun riferimento  alla
modificazione dei caratteri sessuali della persona. 
    Il legislatore del 1982 ha dunque  richiesto  che  vi  sia  piena
corrispondenza tra gli organi sessuali primari della  persona,  e  la
nuova  identita'  sessuale   a   costei   attribuita   dall'autorita'
giudiziaria. 
    Ad avviso di questo Tribunale, dunque, l'interpretazione del cit.
art. 1, primo comma, della legge 14 aprile 1982, n.  164,  impone  di
escludere che sia ammessa la rettificazione di attribuzione di sesso,
in assenza della modificazione dei caratteri sessuali  primari  della
persona (modificazioni  che  possono  essere  congenite,  fortuite  o
realizzate  mediante   intervento   medico-chirurgico).   Il   tenore
letterale  della   norma,   non   sembra   consentire   alcun   altra
interpretazione. 
    Nella fattispecie concreta, pertanto, questo  Tribunale  dovrebbe
senz'altro rigettare la domanda di rettificazione di attribuzione  di
sesso, proposta dal ricorrente, in quanto e' pacificamente assente il
requisito della previa  modificazione  dei  suoi  caratteri  sessuali
primari, posto che egli, come detto si e' limitato esclusivamente  ad
avviare una terapia ormonale e non intende attualmente sottoporsi  ad
alcun intervento chirurgico di adeguamento del proprio corpo genitale
al sesso femminile, avendo solo chiesto -  in  mero  subordine  -  di
essere autorizzato a farlo. 
    Di qui la rilevanza della questione di costituzionalita' del cit.
art. 1, primo comma, della legge 14 aprile 1982, n. 164, nella  parte
in cui subordina la rettificazione  di  attribuzione  di  sesso  alla
intervenuta  modificazione  dei  caratteri  sessuali  della   persona
istante. 
2. La non manifesta infondatezza. 
    Ad avviso di questo Tribunale, l'inciso «a seguito di intervenute
modificazioni dei suoi caratteri sessuali», di cui al  cit.  art.  1,
primo comma, della legge 14 aprile 1982, n. 164, si pone in contrasto
con gli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost. (l'art.  117,  primo
comma, Cost., in relazione all'art. 8 della Convenzione  europea  dei
diritti dell'uomo, di seguito CEDU). 
    Per una esaustiva comprensione  della  fattispecie,  puo'  essere
utile premettere che, come di  recente  evidenziato  dalla  dottrina,
ogni persona ha un sesso «anagrafico» attribuitogli al momento  della
nascita in base a un esame  morfologico  degli  organi  genitali.  In
questo modo, il sesso anagrafico viene  fatto  coincidere  col  sesso
«biologico». Tuttavia, se per la maggior parte degli  individui  tale
attribuzione rispecchia  fedelmente  tutte  le  componenti  sessuali,
facendo cosi' coincidere il sesso «legale» con quello reale,  possono
verificarsi ipotesi nelle quali questa coincidenza non  sussiste.  In
questi casi, il sesso attribuito anagraficamente,  diventa  una  mera
finzione, perche' la componente  psicologica  si  discosta  dal  dato
biologico.  Quando  cio'  avviene,  si  manifestano   le   molteplici
componenti della sessualita' umana, la quale e' al contempo genetica,
fenotipica, endocrinica, psicologica, culturale e  sociale.  Il  dato
fondamentale non e' piu' il  sesso  biologico  o  anagrafico,  ma  il
genere, che si puo' definire quale «variabile socio-culturale»,  vale
a dire «qualita' della persona in base alla  quale  della  stessa  si
puo' dire che e' maschile o femminile». Il  genere  puo'  discostarsi
dal sesso biologico e cambiare col  tempo  in  varie  declinazioni  e
direzioni, nel qual caso si puo' parlare di «espressione»  o  «ruolo»
di genere. Quando vi e' una «percezione» di non collimazione  tra  il
genere assegnato alla nascita (sulla base del sesso «biologico») e il
genere cui la persona acquista la consapevolezza di appartenere, tale
mutamento opera sul piano dell'identita' di genere. Nel  passato,  la
medicina riteneva che ogni dissociazione tra il sesso  e  il  genere,
configurasse  una  vera  e  propria  patologia  (il  c.d.   «disturbo
dell'identita' di  genere»,  DIG),  risolvibile  solo  attraverso  il
mutamento, verso il sesso opposto, di tutto cio'  che  era  possibile
cambiare. Attraverso la c.d. «triadic therapy», infatti, alla persona
veniva chiesto di portare a conclusione  un  processo  in  tre  fasi:
un'esperienza reale nel ruolo del sesso  desiderato,  il  trattamento
ormonale e la riassegnazione chirurgica dei caratteri  sessuali  (cd.
RCS).  Solo  chi  completava  tutti  e  tre  questi   steps,   poteva
considerarsi «guarito» e dunque ammesso tra i soggetti meritevoli  di
considerazione come persone del sesso opposto. 
    Il cit. art. 1, primo comma, della legge 14 aprile 1982, n.  164,
nella parte in cui subordina la  rettificazione  di  attribuzione  di
sesso alla intervenuta modificazioni  dei  caratteri  sessuali  della
persona istante, costituisce la piena e matura  espressione  di  tale
mentalita'. 
    L'imposizione di un  determinato  trattamento  medico,  sia  esso
ormonale  ovvero  di  RCS,  costituisce   tuttavia   una   grave   ed
inammissibile limitazione al riconoscimento del diritto all'identita'
di genere (maschile o femminile). Infatti, il fine del raggiungimento
dello stato di benessere psico-fisico della persona, al  quale  tende
il riconoscimento sociale, e' la rettificazione  di  attribuzione  di
sesso, e non la riassegnazione sessuale sul  piano  anatomico  (dalla
persona non sempre voluta, come accade per la sig.ra X.Y.). In  altra
prospettiva, al fine di  identificare  una  persona  come  femmina  o
maschio, non si procede ad un esame dei suoi organi genitali  -  atto
che costituirebbe una grave intromissione nella  vita  privata  della
persona - bensi' dei suoi documenti. Ne  deriva  che  il  trattamento
clinico non influisce, sotto un profilo generale, sul  riconoscimento
sociale nella stessa misura nella quale vi contribuisce,  invece,  il
mutamento di sesso anagrafico. Va poi evidenziato che, come riferisce
la scienza medica, sia il trattamento ormonale sia  la  RCS,  sono  -
notoriamente - molto rischiosi per la salute umana. La transizione da
donna a uomo (c.d. Female to Male, F2M)  comporta  ipercoagulabilita'
del sangue con rischio di embolia polmonare, infertilita', aumento di
peso, patologie epatiche e labilita' emotiva; la transizione  opposta
(Male to Female, M2F), puo' portare a infertilita', acne  e  malattie
cardiovascolari. 
    Cio' evidenziato in punto di fatto, e' noto che  l'art.  8  della
CEDU sancisce il diritto al rispetto della vita privata e  familiare,
prevedendo che «ogni persona ha diritto  al  rispetto  della  propria
vita privata e familiare,  del  proprio  domicilio  e  della  propria
corrispondenza. Non puo' esservi ingerenza di una autorita'  pubblica
nell'esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista
dalla  legge  e  costituisca  una  misura  che,   in   una   societa'
democratica, e' necessaria alla sicurezza  nazionale,  alla  pubblica
sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa  dell'ordine
e alla prevenzione dei reati, alla protezione della  salute  o  della
morale, o alla protezione dei diritti e delle liberta' altrui». 
    Secondo  la  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei   diritti
dell'uomo,  il  diritto  all'identita'  sessuale  (rectius,   diritto
all'identita'  di  genere),  rientra  a  pieno  titolo  nella  tutela
prevista dal cit. art. 8 della CEDU. Ad esempio,  nella  sentenza  11
luglio 2002, n. 28.957 (Christine Goodwin  contro  Regno  Unito),  la
Corte ha affermato  che  "77.  Occorre  anche  riconoscere  che  puo'
sussistere un grave pregiudizio alla vita privata quando  il  diritto
nazionale e' incompatibile con un aspetto  importante  dell'identita'
personale (v., mutatis mutandis, la sentenza 22 ottobre 1981 nel caso
Dudgeon contro Regno Unito, serie A n. 45, par. 41). La tensione e lo
squilibrio emotivo provocati dalla divergenza tra il ruolo  ricoperto
nella societa' da un transessuale operato e la condizione imposta dal
diritto che rifiuta di riconoscerne il mutamento di sesso non possono
essere considerati, a  giudizio  della  Corte,  un  inconveniente  di
secondaria importanza discendente da una formalita'. Vi e'  conflitto
tra la realta' sociale e il diritto che pone il transessuale  in  una
situazione anomala, suscitandogli sensazioni  di  vulnerabilita',  di
umiliazione e di angoscia». Nella  medesima  sentenza,  la  Corte  ha
anche evidenziato che "90. Cio' posto,  la  dignita'  e  la  liberta'
dell'uomo   costituiscono   il   nocciolo   della   Convenzione.   In
particolare, nel contesto dell'art.  8  della  Convenzione,  dove  la
nozione di  autonomia  personale  riflette  un  importante  principio
sotteso all'interpretazione delle garanzie di tale  disposizione,  la
sfera personale di ciascun individuo e' protetta, compreso il diritto
per ciascuno di decidere i particolari  della  propria  identita'  di
essere umano (vedi, specialmente, la sentenza 29 aprile 2002 nel caso
Pretty c. Regno Unito, ricorso n. 2346/02, par. 62). Nel XXI  secolo,
la facolta' per i transessuali di godere pienamente, al pari dei loro
concittadini, del diritto allo sviluppo  personale  e  all'integrita'
fisica  e  morale,  non  puo'  essere   considerata   una   questione
controversa  che  richiede  del  tempo  per  poter  comprendere  piu'
chiaramente i problemi in gioco». 
    Come noto, per giurisprudenza costante, la  contrarieta'  di  una
norma  interna  alla   CEDU,   da'   luogo   ad   un   incidente   di
costituzionalita' con riferimento all'art. 117,  primo  comma,  Cost.
(v. Corte cost. nn. 348 e 349 del 2007, nn. 311 e 317 del 2009, n. 93
del 2010, nn. 1, 113, 236 e 303 del 2011, e nn. 15 e 78 del 2012). 
    Passando  quindi  alla  Costituzione  italiana,  il  suo  art.  2
sancisce  il  fondamentale  principio  secondo  cui  «la   Repubblica
riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo», ed eleva  «a
regola fondamentale dello Stato, per tutto quanto attiene ai rapporti
tra la collettivita' e i singoli, il riconoscimento di  quei  diritti
che formano patrimonio irretrattabile della persona umana [e  che...]
appartengono all'uomo inteso come essere libero» (v.  sentenza  della
Corte costituzionale n. 11 del 1956): diritti  che,  stante  il  loro
«carattere  fondante  rispetto  al  sistema  democratico  voluto  dal
costituente» (v. Corte cost. n. 366 del 1991),  non  possono  «essere
sovvertiti o modificati nel  loro  contenuto  essenziale  neppure  da
leggi di revisione costituzionale o da  altre  leggi  costituzionali»
(v. Corte cost. n. 1146 del 1988), perche' «appartengono  all'essenza
dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana». 
    Nell'alveo dei diritti inviolabili  la  Corte  costituzionale  ha
ricondotto sia «il diritto di realizzare, nella vita di relazione, la
propria  identita'  sessuale,  da  ritenere  aspetto  e  fattore   di
svolgimento  della  personalita'»,  che  gli   altri   membri   della
collettivita' sono tenuti a riconoscere «per dovere  di  solidarieta'
sociale» (v. Corte cost. n.  161  del  1985);  sia  il  diritto  alla
liberta'  sessuale,  poiche',  «essendo  la  sessualita'  uno   degli
essenziali modi di espressione della persona  umana,  il  diritto  di
disporne liberamente e' senza dubbio un diritto soggettivo  assoluto»
(v. Corte cost. n. 561 del 1987). 
    Ad avviso di questo Tribunale, dunque, anche l'art. 2 Cost., come
il cit. art. 8 CEDU, riconosce  e  tutela  il  diritto  all'identita'
sessuale (rectius, diritto all'identita' di genere),  nel  senso  che
ogni persona ha diritto di scegliere la propria  identita'  sessuale,
femminile o maschile, a prescindere dal dato biologico. 
    Il  sospetto  di  incostituzionalita'  del  cit.  art.  1,  primo
cornnna, della legge 14 aprile 1982, n. 164, sorge  in  quanto,  tale
norma, pur riconoscendo il diritto  della  persona  di  scegliere  la
propria  identita'  sessuale,   femminile   o   maschile,   subordina
l'esercizio di tale diritto alla modificazione dei  propri  caratteri
sessuali primari (da effettuarsi tramite intervento chirurgico). 
    Ad avviso di questo Tribunale, subordinare diritto  di  scegliere
la propria identita' sessuale alla modificazione dei propri caratteri
sessuali primari da effettuarsi  tramite  un  doloroso  e  pericoloso
intervento  chirurgico,  finisce  col  pregiudicare  irreparabilmente
l'esercizio del diritto stesso, vanificandolo integralmente. 
    Pare  evidente  il   conflitto   tra   il   diritto   individuale
all'identita'  sessuale  (e  la   relativa   autodeterminazione),   e
l'imposizione del requisito della  modifica  dei  caratteri  sessuali
primari, necessario per ottenere la rettificazione  dell'attribuzione
di sesso. 
    La concezione per cui al fine di vedersi riconosciuto il  proprio
diritto all'identita' sessuale, una  persona  debba  -  per  forza  -
sottoporsi a trattamenti clinici altamente invasivi, tali da  mettere
in pericolo la propria salute, confligge insanabilmente  sia  con  il
cit. art. 8 CEDU, sia con l'art. 2  Cost.,  i  quali  entrambi,  come
visto, consentono incondizionatamente ad  ogni  soggetto  di  vedersi
riconosciuta  la  propria  identita'   sessuale.   Detta   concezione
confligge anche con l'art. 32 Cost., poiche', al fine  dell'esercizio
di un proprio diritto fondamentale (quale  il  diritto  all'identita'
sessuale),  impone  al  soggetto  di  sottoporsi  ad  un  trattamento
chirurgico, del tutto non  pertinente  ne'  necessario  al  fine  del
libero esercizio  del  diritto  in  esame.  Imporre  al  soggetto  di
sottoporsi ad  un  trattamento  chirurgico  o  sanitario  doloroso  e
pericoloso per la propria salute, equivale  a  vanificare  o  rendere
comunque eccessivamente gravoso l'esercizio del diritto alla  propria
identita' sessuale. Considerando che i citt. art. 8  CEDU  e  art.  2
Cost. tutelano la ricongiunzione dell'individuo con il proprio genere
quale risultato del procedimento  di  rettificazione,  non  puo'  non
riconoscersi che - come ha fatto da tempo anche la scienza  medica  -
la  modificazione  dei  caratteri  sessuali  primari  non  sempre  e'
necessaria e che, anzi, alla luce dei diritti «in gioco», la  persona
deve avere il diritto di rifiutarla. A questo  Tribunale  sembra  che
non  vi  sia  ragionevolezza  ne'  logicita'  nel   condizionare   il
riconoscimento  del  diritto  della  personalita'  in  esame,  ad  un
incommensurabile prezzo per la salute della persona  (artt.  3  e  32
Cost.).  Questo  Tribunale  si  rende   perfettamente   conto   delle
conseguenze  pratiche   che   comporterebbe   una   declaratoria   di
incostituzionalita' (nel senso che, allora, l'esame «esteriore» della
persona, sarebbe inidoneo a rilevare il suo sesso); ma  cio',  a  ben
osservare, non puo' ragionevolmente  suscitare  alcuna  perplessita',
perche' in un  paese  civile  l'identita'  sessuale  viene  accertata
tramite  i  documenti  di  identita'  e  non  certo  per   mezzo   di
un'ispezione corporale. Una volta che lo Stato riconosce  il  diritto
della persona a  cambiare  il  proprio  sesso  anagrafico  (cio'  che
indubbiamente ha fatto  la  cit.  legge  14  aprile  1982,  n.  164),
subordinare l'esercizio di tale  diritto  alla  sottoposizione  della
persona a dolorosissimi e pericolosissimi trattamenti sanitari  dalla
stessa non voluti, significa pretendere da lei di commettere un  atto
di violenza sul proprio corpo. Una volta riconosciuto che il  diritto
alla rettificazione dell'attribuzione di sesso, costituisce un vero e
proprio  diritto  della  personalita',  non  sembra   consentito   al
legislatore   ordinario   subordinarlo   a   restrizioni   tali    da
pregiudicarne gravemente l'esercizio; fino a vanificarlo. 
    Tali concetti sono stati ribaditi dal  Parlamento  europeo  nella
risoluzione del 12 marzo 2015  sulla  relazione  annuale  di  diritti
umani e la democrazia nel mondo nel 2013 e sulla politica dell'Unione
europea in materia.  Al  punto  n.  163,  il  Parlamento  europeo  ha
invitato  la  Commissione   e   l'OMS   ad   eliminare   i   disturbi
dell'identita'  di  genere  dall'elenco  dei   disturbi   mentali   e
comportamentali, auspicando altresi' l'intensificazione degli  sforzi
per porre fine alla patologizzazione delle identita' transgender.  Al
successivo n. 164, il Parlamento medesimo ha accolto  con  favore  il
crescente  sostegno  politico   per   la   messa   al   bando   della
sterilizzazione quale requisito per il riconoscimento  giuridico  del
genere, come espresso dal relatore speciale delle Nazioni Unite sulla
tortura, condividendo il punto di vista secondo  cui  tali  requisiti
dovrebbero essere trattati  e  perseguiti  come  una  violazione  del
diritto  all'integrita'  fisica  nonche'  della  salute  sessuale   e
riproduttiva e dei relativi diritti.