IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA PUGLIA (Sezione Seconda) Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 1044 del 2014, proposto da: Pietro Gaetano Risplendente, Nicola Riefolo, Vincenzo Ventura, Giuliano Lopopolo, Nicola Roberto Massimo Cecca, Leonardo Di Corato, Domenico Battaglia, Nicola Cotugno Depalma, Michele Tari', Pasquale Pasculli, Giacomina Abbatista, Gianluca Boccaforno, Maria Rosaria Giobbe, Giuseppe Storelli, tutti rappresentati e difesi dall'avv. Giacomo Valla, con domicilio eletto presso il suo studio in Bari, via Q. Sella, 36; Contro la Regione Puglia, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Francesco Silvio Dodaro, con domicilio eletto presso il suo studio in Bari, via F. S. Abbrescia, 82/B; Per l'annullamento: della delibera di G.R. n. 1076 del 27 maggio 2014 (in BUR n. 80 del 23 giugno 2014), avente ad oggetto: «Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° aprile 2008 Sanita' penitenziaria. Adeguamento dell'assistenza sanitaria carceraria al modello organizzativo previsto dal Servizio sanitario regionale. Attuazione della fase transitoria»; di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale, compresa la conforme proposta dell'Assessore alle politiche della salute; Visti il ricorso e i relativi allegati; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Puglia; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 aprile 2015 la dott.ssa Paola Patatini e uditi per le parti i difensori avv. Giacomo Valla e l'avv. Antonio L. Deramo, su delega dell'avv. Francesco S. Dodaro; Con il ricorso in epigrafe, i ricorrenti, tutti medici di guardia o infermieri presso alcuni istituti di pena pugliesi svolgenti altresi' attivita' libero professionale o ospedaliera, con rapporto di lavoro disciplinato dalla legge n. 740/1970, hanno impugnato la delibera di Giunta Regionale in oggetto, che ha inteso richiamare tutte le ASL al rispetto della normativa nazionale ed europea che individua il tetto massimo orario di lavoro in 48 ore settimanali, dettando nel contempo disposizioni per l'organizzazione del servizio. Il contenzioso in esame concerne infatti la vicenda applicativa conseguente all'approvazione della legge regionale n. 4/2010, con cui la Regione Puglia ha inteso dettare norme urgenti in materia di sanita' e servizi sociali, prevedendo in particolare all'art. 21, comma 7, in materia di personale degli istituti penitenziari, che «ai contratti di lavoro di cui ai commi 5 e 6, nonche' nei confronti dei medici incaricati definitivi, si applicano le deroghe previste dall'art. 2 della legge n. 740/1970 (...) nel rispetto della normativa nazionale ed europea in tema di orario di lavoro, individuando il tetto massimo orario in quarantotto ore settimanali». Invero, la figura dei cosiddetti «medici incaricati» e' stata introdotta e disciplinata per la prima volta dall'art. 1, legge n. 740/1970 (Ordinamento delle categorie di personale sanitario addetto agli istituti di prevenzione e pena non appartenenti ai ruoli organici dell'Amministrazione penitenziaria), che cosi' qualifica i medici «non appartenenti al personale civile di ruolo dell'Amministrazione degli istituti di prevenzione e di pena, i quali prestano la loro opera presso gli istituti o servizi dell'amministrazione stessa». In base alla predetta disciplina statale dunque, le prestazioni rese da questi ultimi non ineriscono ad un rapporto di lavoro subordinato, ma sono inquadrabili nella prestazione d'opera professionale in regime di parasubordinazione, come la Corte costituzionale ha piu' volte riconosciuto (da ultimo sentenza n. 149/2010) affermando che, diversamente dagli impieghi civili dello Stato, i medici incaricati possono esercitare liberamente la professione e assumere altri impieghi o incarichi. Sotto tale aspetto, la natura giuridica del contratto di lavoro di tali figure non e' stata alterata dal loro trasferimento al Servizio sanitario regionale in forza del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° aprile 2008. I ricorrenti infatti, sono transitati presso le ASL pugliesi ed inseriti in un apposito ruolo unico, fino alla scadenza dei relativi rapporti di lavoro, per effetto del sopra citato decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, il quale ha altresi' disposto che i rapporti di lavoro, instaurati ai sensi della legge n. 740/1970 e trasferiti alle Aziende sanitarie locali del Servizio sanitario nazionale nei cui territori sono ubicati gli istituti penitenziari di riferimento, continuino ad essere disciplinati dalla legge sopra citata fino alla relativa scadenza. Ora, l'art. 2 della legge n. 740 cit. stabilisce in particolare che «ai medici incaricati non sono applicabili le norme relative alla incompatibilita' e al cumulo di impieghi ne' alcuna altra norma concernente gli impiegati civili dello Stato. A tutti i medici che svolgono, a qualsiasi titolo, attivita' nell'ambito degli istituti penitenziari non sono applicabili altresi' le incompatibilita' e le limitazioni previste dai contratti e dalle convenzioni con il SSN». In ragione di tale disposizione, le parti, dirigenti medici, pur svolgendo servizio presso gli istituti penitenziari, prestano quindi attivita' anche in qualita' di medici ospedalieri o medici di base o medici del Servizio sanitario nazionale. La Regione Puglia, come sopra visto, pur riconoscendo ai medici «incaricati» degli istituti le deroghe stabilite dalla legge nazionale, con l'art. 21, comma 7, legge regionale citata, ha fissato per essi il tetto massimo orario di lavoro in 48 ore settimanali, nel rispetto della normativa nazionale ed europea in tema di lavoro. I ricorrenti hanno quindi impugnato la delibera in oggetto applicativa della norma in questione, chiedendone l'annullamento per i seguenti motivi: eccesso di potere per sviamento ed erroneita' dei presupposti; falsa applicazione dell'art. 21, legge regionale n. 4/2010; violazione dell'art. 117 Cost., eccependo espressamente la questione di legittimita' costituzionale della citata norma regionale laddove interpretabile unicamente nel senso di regolamentare l'orario massimo di lavoro dei sanitari addetti agli istituti di pena nel cumulo con altra attivita' professionale. Con successivo atto, depositato in data 23 ottobre 2014, i ricorrenti hanno inoltre presentato istanza di concessione di misure cautelari, anche in via provvisoria ex art. 56 c.p.a., rispettivamente accolte con decreto n. 577/14 ed ordinanza n. 659/14. Con atto del 3 marzo 2015, si e' costituita in giudizio la Regione Puglia, chiedendo il rigetto dell'avversa impugnativa perche' infondata. All'esito dell'udienza del 16 aprile 2015 - in cui l'avv. Valla ha dedotto il sopravvenuto difetto di interesse alla decisione per i signori Battaglia, Tari' e Boccaforno, confermando viceversa l'interesse per i rimanenti ricorrenti - fatte discutere le parti sulla giurisdizione ai sensi dell'art. 73, comma 3 c.p.a. la causa e' stata introitata per la decisione, e successivamente riportata in Camera di Consiglio il 3 giugno 2015 con una nuova e modificata decisione. Il Collegio, ritenuta infatti sussistente, ad un piu' approfondito esame, la propria giurisdizione, ha ravvisato la non manifesta infondatezza della questione di costituzionalita' sollevata dai ricorrenti. Prima ancora, la questione di legittimita' costituzionale appare rilevante nel presente giudizio, in quanto la norma regionale censurata preclude il percorso che porterebbe all'accoglimento del ricorso atteso che l'atto gravato costituisce diretta e immediata conseguenza della sua applicazione. Invero, la circostanza che il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della suddetta questione emerge alla luce della stessa esposizione dei fatti di causa, atteso che il provvedimento impugnato trova un'indefettibile base normativa nel piu' volte citato art. 21, comma 7, legge regionale, di modo che solo un suo eventuale annullamento per illegittimita' costituzionale comporterebbe l'illegittimita' derivata della delibera impugnata e degli eventuali successivi atti applicativi con il conseguente accoglimento del ricorso che altrimenti dovrebbe essere respinto, avendo l'Amministrazione operato in virtu' della citata normativa regionale. Ne' il Collegio ravvisa un'interpretazione normativa costituzionalmente orientata della norma regionale censurata, non essendo nella stessa previsto, come invece auspicato da parte ricorrente, alcun discrimen tra lavoro svolto all'interno delle strutture sanitarie, solo relativamente al quale vigerebbe l'osservanza del limite orario, e svolgimento di ulteriori attivita' professionali da parte del personale incaricato ai sensi della legge n. 240/1970, possibile anche nell'inosservanza del tetto delle 48 ore. Passando quindi all'esame della non manifesta infondatezza della questione, e' opportuna una breve ricognizione del quadro normativo di riferimento. In particolare, la direttiva 2003/88/CE del 4 novembre 2003, concernente taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, ha stabilito all'art. 6 che la durata media dell'orario di lavoro per ogni periodo di 7 giorni non superi 48 ore, comprese le ore di lavoro straordinario, prevedendo altresi' all'art. 17 una deroga quando si tratti di dirigenti o di altre persone aventi potere di decisione autonomo. La normativa comunitaria ha trovato attuazione in Italia col decreto legislativo n. 66/2003 che ha riportato quasi testualmente il contenuto della direttiva, statuendo all'art. 17, comma 5, che «nel rispetto dei principi generali della protezione della sicurezza e della salute dei lavoratori, le disposizioni di cui agli articoli..., 4 (relativo alla durata massima dell'orario di lavoro, n.d.r.),.... non si applicano ai lavoratori la cui durata dell'orario di lavoro, a causa delle caratteristiche dell'attivita' esercitata, non e' misurata o predeterminata o puo' essere determinata dai lavoratori stessi e, in particolare, quando si tratta: a) di dirigenti, di personale direttivo delle aziende o di altre persone aventi potere di decisione autonomo ... Omissis. Con l'art. 41, comma 13, decreto-legge n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008, il legislatore nazionale ha poi previsto che «Al personale delle aree dirigenziali degli Enti e delle Aziende del Servizio sanitario nazionale, in ragione della qualifica posseduta e delle necessita' di conformare l'impegno di servizio al pieno esercizio della responsabilita' propria dell'incarico dirigenziale affidato, non si applicano le disposizioni di cui agli articoli 4 e 7 del decreto legislativo 8 aprile 2003, n. 66». In tale quadro, si e' quindi inserito il legislatore regionale che, con l'art. 21 della legge censurata, ha previsto all'art. 7, che «Ai contratti di lavoro di cui ai commi 5 e 6 - gia' dichiarati incostituzionali dal giudice delle leggi con sentenza n. 68/2011 per contrasto con l'art. 117, comma 2, lettera l), Cost., n.d.r. - nonche' nei confronti dei medici incaricati definitivi, si applicano le deroghe previste dall'art. 2 della legge n. 740/1970, come modificato dall'art. 6 del decreto-legge 14 giugno 1993, n. 187, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 agosto 1993, n. 296, nel rispetto della normativa nazionale ed europea in tema di orario di lavoro, individuando il tetto massimo orario in quarantotto ore settimanali (art. 6 della direttiva 2003/88/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 4 novembre 2003)». Assumono quindi i ricorrenti che la suddetta norma regionale, disciplinando l'orario di lavoro del personale degli istituti penitenziari, avrebbe invaso la materia dell'ordinamento civile, invece riservata alla legislazione esclusiva nazionale, in violazione dell'art. 117, comma 2, Cost. A giudizio del Collegio, invero, la questione appare non manifestamente infondata alla luce del quadro comunitario e nazionale come sopra ricostruito, non potendosi infatti condividere le argomentazioni della difesa regionale, la quale sul punto ha ritenuto che la Regione Puglia si sia limitata a riprodurre il contenuto di una disposizione comunitaria, trasfusa fedelmente nel nostro ordinamento con il decreto legislativo n. 66/03, argomentando altresi' che le uniche deroghe possibili al tetto massimo sarebbero quelle espressamente subordinate all'emanazione di apposito decreto da parte del Ministro della funzione pubblica, o alla contrattazione collettiva, nella fattispecie non intervenuti. Il Collegio deve invero rilevare che le ipotesi richiamate dall'Amministrazione quali le uniche deroghe possibili al tetto massimo orario, fanno chiaramente riferimento ad altre ipotesi derogatorie previste dal diverso comma 2, dell'art. 17, decreto legislativo n. 66 citato, e non gia' a quelle, applicabili nella fattispecie, previste dal successivo comma 5, lettera a), e dall'art. 41, comma 13, decreto-legge n. 112/2008, convertito in legge n. 133/2008. Pertanto, la Regione non si sarebbe limitata a riprodurre fedelmente la normativa nazionale, e prima ancora europea, in materia di orario di lavoro, ma, fissando autoritativamente il tetto orario senza fare salve tutte le diverse ipotesi derogatorie previste dal legislatore nazionale nonche' quello comunitario, avrebbe illegittimamente invaso la materia riservata alla competenza esclusiva del primo in materia di ordinamento civile ed altresi' - rilevandolo d'ufficio - in spregio all'art. 117, comma 1, Cost., avrebbe legiferato nell'inosservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario. Alla stregua di quanto sopra, la decisione del presente ricorso presuppone quindi la previa delibazione della questione di costituzionalita' della norma applicata (art. 21, comma 7, della legge regionale Puglia n. 4/2010) in relazione all'art. 117, comma 1 e comma 2, lettera l), Cost. Tanto premesso, ai sensi dell'art. 23, comma 2, legge n. 87/1953, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, questo Tribunale solleva questione di legittimita' costituzionale nei termini sopra enunciati, con rimessione degli atti di causa alla Corte costituzionale e sospensione del giudizio fino alla sua decisione e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, ai sensi e per gli effetti di cui agli articoli 79 e 80 c.p.a. e 295 c.p.c. Va riservata alla sentenza definitiva ogni ulteriore decisione, nel merito e sulle spese.