LA CORTE MILITARE DI APPELLO 
 
 
                            Prima Sezione 
 
    Composta dai Signori: 
        1. Dott. Francesco Ufilugelli Presidente 
        2. Dott. Mauro de Luca Giudice - Estensore 
        3. Dott. Gioacchino Tornatore Giudice 
        4. Col. E.I. Sergio Marrone Giudice 
        5. T. Col. E.I. Paolo Odina Giudice 
    ha pronunciato in camera di consiglio la seguente  ordinanza  nel
procedimento a carico di: 
        P.  F.   a      il:    e  residente  a      in  via       n. 
effettivamente domiciliato presso l'Avv. Valeria Bonfiglio con studio
in Roma Viale Mazzini n. 88, 1° caporal  maggiore  E.I.  in  servizio
presso il 
 
                               Osserva 
 
    I. Questa Corte e' chiamata a  giudicare  in  ordine  all'appello
presentato dalla difesa del sunnominato imputato, il quale  e'  stato
in primo grado condannato dal Tribunale Militare di Roma alla pena di
mesi tre di  reclusione  per  il  reato  di  ingiuria  continuata  ed
aggravata (articoli 226,47 n. 2 c.p.m.p.; 81 cpv c.p.) ai danni di un
militare subordinato, commesso per cause estranee al servizio e  alla
disciplina militare. Rileva la Corte che il d.lgs. 15  gennaio  2016,
n. 7 recante "Disposizioni in  materia  di  abrogazione  di  reati  e
introduzione di illeciti con  sanzioni  pecuniarie  civili,  a  norma
dell'art. 2, comma 3, della legge 28 aprile 2014, n. 67" al  Capo  I,
"Abrogazione di reati e modifiche al codice  penale",  con  l'art.  1
"Abrogazione di reati", ha abrogato,  tra  gli  altri,  il  reato  di
"ingiuria" previsto dall' art. 594 cod. pen. 
    Con il successivo art. 2 il citato d.lgs. ha, poi, introdotto una
serie di modifiche al codice penale e, per quel che  ha  rilievo  nel
presente procedimento,  in  particolare  al  comma  1  lett.  g),  ha
stabilito che all'art 596 c.p., concernente l'esclusione della  prova
liberatoria: 
        «1) al comma primo, le parole "dei delitti preveduti dai  due
articoli precedenti sono  sostituiti  dalle  seguenti:  "dal  delitto
previsto dall'articolo precedente"; 
        2) al comma quarto, le parole  "applicabili  le  disposizioni
dell'art. 594, primo comma, ovvero dell'art. 595,  primo  comma  sono
sostituite dalle seguenti:  "applicabile  la  disposizione  dell'art.
595, primo comma"»; al comma 1 lett. h)  ha  disposto  che  «all'art.
597, comma primo, le parole "I delitti preveduti dagli articoli 594 e
595 sono  punibili"  sono  sostituite  dalle  seguenti:  "Il  delitto
previsto  dall'art.  595 e'  punibile"»;  al  comma  1  lett.  i)  ha
stabilito che  «all'art.  599:  1)  la  rubrica e'  sostituita  dalla
seguente: "Provocazione."; 2) i commi primo e terzo sono abrogati; 
        3) nel secondo comma, le parole "dagli articoli 594  e"  sono
sostituite dalle seguenti: "dall'articolo"». 
    Il Capo II del d. lgs. 7/2016, denominato «Illeciti, sottoposti a
sanzioni  pecuniarie   civili»,   nel   prevedere   all'art.   3   la
«Responsabilita'  civile  per  gli  illeciti  sottoposti  a  sanzioni
pecuniarie» ha, poi, disposto che: 
        «1. I  fatti  previsti  dall'articolo  seguente,  se  dolosi,
obbligano, oltre che alle restituzioni e al  risarcimento  del  danno
secondo le leggi civili, anche al pagamento della sanzione pecuniaria
civile ivi stabilita. 
        2. Si osserva la disposizione di  cui  all'art.  2947,  primo
comma, del codice civile». 
    Con il successivo art. 4 del decreto si sono, quindi, individuati
gli «Illeciti civili  sottoposti  a  sanzioni  pecuniarie»  e  si  e'
stabilito che: 
    «1. Soggiace alla sanzione pecuniaria civile da euro cento a euro
ottomila: 
        a) chi offende l'onore o il decoro di una  persona  presente,
ovvero mediante comunicazione telegrafica, telefonica, informatica  o
telematica, o con scritti o disegni, diretti alla persona offesa; 
        b), c), d), e), f) omissis; 
    2. Nel caso di cui alla lettera a) del primo comma, se le  offese
sono reciproche, il giudice puo' non applicare la sanzione pecuniaria
civile ad uno o ad entrambi gli offensori. 
    3. Non e' sanzionabile chi ha  commesso  il  fatto  previsto  dal
primo comma, lettera a), del presente  articolo,  nello  stato  d'ira
determinato da un fatto ingiusto altrui, e subito dopo di esso». 
    Con l'art. 5 il decreto ha,  inoltre,  stabilito  i  «Criteri  di
commisurazione delle sanzioni pecuniarie», mentre nel successivo art.
6 si e' provveduto  a  fissare  i  criteri  temporali  relativi  alla
«Reiterazione dell'illecito». 
    Quanto al procedimento, l'art. 8 del d.lgs.  7/2016  la  disposto
che  le  sanzioni  pecuniarie  civili  sono  applicate  dal   giudice
competente a conoscere dell'azione di risarcimento del danno e che il
giudice decide sull'applicazione della sanzione civile pecuniaria  al
termine del giudizio, qualora  accolga  la  domanda  di  risarcimento
proposta dalla persona offesa; infine, si e' previsto  che  anche  ai
fini dell'irrogazione della sanzione pecuniaria civile, si  applicano
le disposizioni del codice di procedura civile, in quanto compatibili
con le norme del capo II. 
    La disciplina delle modalita' di pagamento della  sanzione  e  di
devoluzione del provento della stessa  a  favore  della  Cassa  delle
ammende, Registro informatizzato dei  provvedimenti  in  materia  di'
sanzioni pecuniarie segue negli articoli finali (articoli  9-11)  del
testo del decreto in esame che si conclude con l'art. 12 che reca  le
disposizioni transitorie, in pratica attuative dei  principi  vigenti
in tema di successione di leggi penali,  specificatamente  di  quello
del favor rei, in quanto prevede che: 
        «1. Le disposizioni relative alle sanzioni pecuniarie  civili
del  presente  decreto  si  applicano   anche   ai   fatti   commessi
anteriormente alla data di entrata in vigore dello stesso, salvo  che
il procedimento penale sia stato definito con sentenza o con  decreto
divenuti irrevocabili. 
        2. Se i procedimenti penali per i reati abrogati dal presente
decreto sono stati definiti, prima della sua entrata in  vigore,  con
sentenza di condanna o decreto irrevocabili, giudice  dell'esecuzione
revoca la sentenza o il decreto, dichiarando  che  il  fatto  non  e'
previsto dalla legge come reato e adotta i provvedimenti conseguenti.
Il  giudice   dell'esecuzione   provvede   con   l'osservanza   delle
disposizioni dell'art. 667, comma 4, del codice di procedura penale». 
    Seguono  all'art.  13   del   d.   lgs.7/2016   le   disposizioni
finanziarie. 
    II. Dunque, con la pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale  n.  17
del 22 gennaio 2016 del decreto legislativo n. 7 del 2016 e'  entrato
in  vigore,  a  decorrere  dal  6  febbraio  2016,  l'intervento   di
depenalizzazione e di abrogazione di reati oggetto della legge delega
n. 67/2014 (art. 2). 
    Sempre in attuazione della legge delega n. 67/2014, inoltre,  con
il successivo decreto legislativo  n.  8/2016  si  e'  completata  la
depenalizzazione con la trasformazione  di  numerose  fattispecie  di
reati minori (per i quali e' prevista la  sola  pena  della  multa  o
dell'ammenda, oppure puniti con pene  detentive,  sole,  congiunte  o
alternative a pene pecuniarie) in illeciti amministrativi. 
    Puo', quindi, convenirsi che la depenalizzazione sopra richiamata
abbia una  portata  generale  -  gli  ultimi  provvedimenti  organici
risalgono alle leggi n. 689/1981 e n 205/1999 - in quanto realizza un
arretramento   del   diritto   penale   a   vantaggio   del   diritto
amministrativo e, per la prima volta, del diritto civile. 
    Per  quanto  concerne  piu'  specificamente  la  depenalizzazione
"civile", va posto in rilievo che  se  la  abrogazione  in  esame  ha
coinvolto fattispecie datate, come quella prevista dall'art. 647 c.p.
("Appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di  cose,  avute  per
errore o caso fortuito"), essa ha pero' riguardato anche reati di  un
certo rilievo come la "Falsita' in scrittura privata" (art. 485 c.p.)
e, per l' appunto, quello di "Ingiuria" per  il  quale,  quindi,  con
riguardo ai procedimenti ancora pendenti  alla  data  di  entrata  in
vigore del decreto 7/2016 va dichiarato dal giudice che il fatto  non
e' previsto dalla legge come reato, mentre quello dell'esecuzione  e'
tenuto  a  revocare  la  sentenza  o   il   decreto   indicando   nel
provvedimento la medesima formula terminativa. 
    Con riguardo a  quanto  innanzi  va,  inoltre,  evidenziato  come
l'art. 12 del decreto in esame recante  disposizioni  in  materia  di
"diritto  intertemporale",  in  deroga  al  principio   generale   di
irretroattivita' stabilito dall'art. 11 disp. prel. c.c., ha previsto
che le sanzioni pecuniarie civili si  applicano  anche  per  i  fatti
commessi anteriormente all'entrata in vigore del  d.lgs.  n.  7/2016,
«salvo che il procedimento penale sia stato definito con  sentenza  o
con decreto divenuti irrevocabili». 
    Dal complesso delle disposizione  sopra  richiamate,  dunque,  si
ricava che accanto a reati trasformati  in  illeciti  amministrativi,
puniti con sanzioni pecuniarie, ve ne sono altri -  come  l'ingiuria,
che in questa sede interessa  e  che,  detto  incidentalmente,  nella
nuova veste di illecito sanzionato solo civilmente  viene,  peraltro,
innovativamente e in linea con i tempi, estesa, all'ipotesi del fatto
commesso "mediante comunicazione  informatica  o  telematica"  -  che
vengono a perdere il carattere di illecito penale per assumere quello
di illecito civile, sanzionato, oltre che con risarcimento del  danno
- statuizione tipicamente privatistica - con una sanzione  pecuniaria
civile,  che  appare  ricollegata  ai  punitive  damages  (cd.  danni
punitivi o esemplari) dei sistemi di common law, in particolare degli
Stati Uniti, irrogata dal giudice civile e devoluta alla Cassa  delle
ammende. 
    Quanto  innanzi  nel  rispetto  del   termine   quinquennale   di
prescrizione della pretesa  relativa  all'inflizione  della  sanzione
pecuniaria, come expressis verbis previsto dall'art. 3, comma  2  del
decreto citato che richiama l'art.  2947,  primo  comma,  del  codice
civile. 
    In conclusione puo' convenirsi, in via  generale,  che  il  nuovo
istituto dell'illecito sottoposto a sanzioni pecuniarie  civili,  che
prende il posto dell'illecito penale,  cosi'  come  disciplinato  nel
d.lgs.  15  gennaio  2016,   n.   7,   risulta   attuativo   di   una
politica-criminale orientata a una riduzione  dell'area  del  diritto
penale, in ossequio al principio di sussidiarieta'  o  extrema  ratio
della sanzione penale. 
    La novella in esame, in  sostanza,  determina  un  mutamento  del
paradigma  che  ruota  intorno   al   concetto   di   obbligatorieta'
dell'azione  penale  alla  luce  dei  principi   di   ragionevolezza,
proporzionalita', gradualita' e sussidiarieta', cosi' come  delineati
dalla dimensione europeistica, spostando, quindi, la valutazione  del
fatto dal terreno del giudizio penale a quello civile. 
    Dunque, puo' sostenersi che l'innovazione del quadro normativo in
esame comporta una  rivisitazione  dell'immanenza  del  principio  di
offensivita' nel sistema penale, in linea con quanto  gia'  stabilito
con il decreto legislativo 16 marzo 2015, n. 28 che ha introdotto "la
particolare tenuita' del  fatto"  come  causa  di'  esclusione  della
punibilita' e che trova,  quale  "clausola  di  esiguita'",  pacifica
applicazione anche rispetto ai reati militari, pleno  iure  coinvolti
dalla improcedibilita' di  natura  sostanzial-processuale  recata  da
tale normativa. 
    III. Orbene, il decreto legislativo citato non ha ricompreso  tra
le norme da depenalizzare  anche  il  reato  militare  di  "Ingiuria"
previsto e punito dall'art. 226 c.p.m.p. 
    L'intero  testo  del  provvedimento  legislativo,   infatti,   fa
riferimento  solo  a  fattispecie  di  reato  comuni,  tassativamente
richiamate mediante l'indicazione  del  corrispondente  articolo  del
codice penale che le prevede, senza menzionarne  il  nomen  iuris  e,
quindi, escludendo le  corrispondenti  ipotesi  previste  dal  codice
penale militare, tra le quali, appunto, figura anche  il  reato  "non
esclusivamente militare" di ingiuria, tale qualificabile, almeno sino
al  citato  intervento  legislativo  e  salvo  quanto   appresso   si
precisera', a mente dell'art. 37 c.p.m.p.  (invero,  anche  il  reato
previsto dall'art. 236 c.p.m.p. risulta essere "fotocopia" di  quello
depenalizzato di cui all'art. 647 c.p., salvo l'ipotesi di cui al  n.
2 della norma comune, concernente il rinvenimento e la appropriazione
di un tesoro, non  disciplinata  nel  reato  militare  trovando  esso
applicazione limitatamente ai luoghi militari che,  come  tali,  sono
appartenenti al demanio). 
    Ne' appare possibile ritenere estesa la depenalizzazione anche al
reato   di   ingiuria   militare   attraverso   una   interpretazione
costituzionalmente orientata, ovvero una  applicazione  analogica  in
bonam  partem  della  normativa  abrogativa,  atteso   il   carattere
tassativo  dei  delitti  indicati  dal  decreto,  cosi'  come   sopra
riportato con riguardo a quello  indicato  dall'art.  594  c.p.,  dal
quale emerge che il legislatore si e' voluto  riferire  al  reato  di
ingiuria contemplato dal codice penale comune  e  non  anche  al  pur
"parallelo"  reato  di  ingiuria  militare  previsto  dall'art.   226
c.p.m.p. 
    Del resto, secondo l'insegnamento costante della stessa Consulta,
«le valutazioni di politica  criminale  competono  esclusivamente  al
legislatore», mentre le "sperequazioni" normative tra figure omogenee
di  reato  determinano  necessariamente  l'intervento   della   Corte
costituzionale solo se assumono aspetti  e  dimensioni  tali  da  non
potersi   considerare   come   sorrette   da    alcuna    ragionevole
giustificazione (ex multis, sentenza 25 luglio 1997 n. -  272):  Tale
compito  non  e',  comunque,  in  ogni  caso  demandato  al   giudice
rimettente,  che  ha,   invece,   una   mera   funzione   di   filtro
nell'evidenziare  quelli  che  si  ritengono   essere   i   vizi   di
costituzionalita' della norma da applicare ed a tal fine  risultando,
peraltro,  sufficiente  non  gia'  una  delibazione  della  probabile
incostituzionalita', bensi' anche solo  della  mera  consistenza  del
dubbio di costituzionalita' della norma impugnata. 
    Inoltre al di la' degli ostacoli - oltre al rischio  di  adottare
un provvedimento abnorme (si veda, infra § IV) - che la esegesi della
normativa incontrerebbe da  parte  di  questa  Corte  di  merito  nel
procedere  autonomamente  nel  disapplicare  la   norma   codicistica
speciale, considerata la  gia'  evidenziata  natura  tassativa  della
elencazione legislativa, va posto in ulteriore rilievo  come  ragioni
di certezza giuridica,  anche  in  relazione  alla  estensione  degli
effetti della pronuncia di incostituzionalita' ai giudicati progressi
(art. 12, comma 2 del  decreto  7/2016),  comunque,  imporrebbero  la
trasmissione degli atti di causa al Giudice delle leggi. 
    La Corte, pertanto, ritiene che il presente  giudizio  non  possa
essere definito indipendentemente dalla risoluzione  della  questione
di  legittimita'  costituzionale  concernente  l'art.  226  c.p.m.p.,
risultando la  stessa  "rilevante"  ai  fini  della  definizione  del
giudizio stesso e "non manifestamente infondata". 
    IV. Quanto alla  rilevanza  della  questione  va  evidenziato,  a
sostegno della concreta portata della pregiudizialita' costituzionale
nel caso  in  esame,  che  sulla  base  di  quanto  emerge  dal  capo
d'imputazione e delle prove documentali e testimoniali acquisite  nel
giudizio   di   primo   grado,   non   risulta   possibile    nessuna
interpretazione della norma militare in  esame  (art.  226  c.p.m.p.)
conforme alla Costituzione. 
    In  particolare,   non   appare   possibile   procedere   a   una
interpretazione adeguatrice dell'ingiuria militare nel  rispetto  dei
precetti costituzionali, adottando, cioe', una lettura di detto reato
militare   alternativa    maggiormente    aderente    al    parametro
costituzionale:  in  sostanza,  non  si  tratta  di  un  problema  di
interpretazione direttamente risolubile da questo giudice  di  merito
in  quanto  neppure  con  l'ausilio  del  "diritto  vivente"  risulta
possibile giungere ad una lettura della norma dianzi indicata, che si
assume  violata,  che  consenta  di  intenderla  in  armonia  con  la
Costituzione. 
    Come  gia'  dianzi  chiarito,  infatti,   unica   interpretazione
adeguatrice nel caso di specie  potrebbe  essere  la  disapplicazione
diretta della disposizione  reputata  illegittima,  senza  procedere,
cioe', all'attivazione del giudizio di  costituzionalita';  una  tale
decisione, pero',  e'  stata  ritenuta  dalla  stessa  Consulta  come
determinante  un  giudicato  abnorme  in  quanto  i  giudici   devono
limitarsi ad esercitare il loro potere di verificare quale  legge  si
debba applicare nel caso concreto e di interpretare la legge  stessa,
ma non  possono  «espressamente  disapplica[re  le]  leggi  ...,  con
violazione  degli  articoli  101,  117  e  134  della   Costituzione»
(sentenza Corte Cost. n. 285 dell'11-14 giugno 1990;  fattispecie  in
cui la Suprema Corte aveva disapplicato una legge regionale). 
    E' infatti, appena il caso di porre in rilievo che  una  siffatta
interpretazione sarebbe invasiva non solo  delle  attribuzioni  della
stessa  Corte  costituzionale,  dominus  del   giudizio   incidentale
relativo al sindacato di costituzionalita', ma anche e principalmente
del potere legislativo in quanto disconoscerebbe la forza di legge di
un atto legislativo vigente. 
    Dunque, come gia' dianzi si  rileva,  e'  dello  stesso  capo  di
imputazione contestato al caporal maggiore P.   e dagli atti di causa
- che hanno portato i primi giudici a concludere per la  affermazione
della penale responsabilita' dell'imputato  in  ordine  al  reato  di
ingiuria militare continuata  ai  danni  del  caporale  R.     -  che
risulta per tabulas  che  la  disposizione  denunciata  debba  essere
applicata ai fini della definizione del giudizio de quo e che non  di
tratta, quindi, della prospettazione di una questione solo teorica  o
ipotetica. 
    Cio' giustifica la "precedenza"  accordata  da  questa  Corte  di
merito alla questione di costituzionalita', peraltro nella assenza di
altre questioni nell'ordine logico preordinate o pari ordinate,  tale
non  essendo  quella  concernente  la  richiesta  della  difesa   del
prevenuto di procedere, mediante rinnovazione del dibattimento, a una
perizia grafologica volta ad accertare la  provenienza  dall'imputato
dello scritto di cui  al  primo  episodio  di  ingiuria  ascrittogli,
giacche'  essa  non  determina,  comunque,   la   irrilevanza   nella
fattispecie concreta in esame della questione  di  costituzionalita',
sempre e in ogni caso sussistendo relazione tra la  norma  denunciata
dell' art. 226 c.p.m.p. e la definizione del presente giudizio. 
    La particolare vicenda all'esame di questa Corte, invero, attiene
a piu' episodi di ingiuria militare, contestati nella forma del reato
continuato, che, come correttamente rilevato  dai  giudici  di  prime
cure, risultano inquadrati «nella fattispecie  di  cui  all'art.  226
c.p.m.p., rubricata "Ingiuria", in quanto, pur essendo  l'imputato  e
la persona offesa militari rivestiti  di  grado  diverso,  la  palese
assenza di motivi attinenti al servizio e alla disciplina,  impedisce
di ipotizzare la distinta fattispecie di "Ingiuria ad  inferiore"  ex
art. 196 c.p.m.p.». 
    Tale giudizio e' condiviso da questa Corte di  merito  in  quanto
tutti gli atti di' causa esaminati in sede di' appello confortano nel
ritenere   pacifica   la   insussistenza   nella   condotta    tenuta
dall'imputato della intraneita' al servizio o alla  disciplina,  come
descritta nell'art. 199 c.p.m.p., e, quindi,  trova  applicazione  la
fattispecie base della norma  incriminatrice  militare  prevista  nel
libro II, titolo. IV, capo III  del  codice  penale  militare  (reati
contro la persona) che sanziona le condotte lesive dell'onore  o  del
decoro tra militari che rivestono il medesimo grado. 
    Dunque, la questione di legittimita'  costituzionale  concernente
l'art. 226 c.p.m.p., risulta "rilevante" ai  fini  della  definizione
del giudizio in narrativa. 
    V. Si e' in precedenza accennato alla  qualificazione  del  reato
militare di ingiuria p. e p. dall'art. 226 c.p.m.p. come  reato  "non
esclusivamente militare", o, per usare la piu' frequente terminologia
della dottrina, come reato  "obiettivamente  militare":  l'intervento
legislativo di cui all'art. 1, lett. c) del d. lgs. 7/2016, pertanto,
con la trasmigrazione del reato di ingiuria comune  di  cui  all'art.
594 c.p. nell'ambito dell'illecito civile, determina  l'inquadramento
della residua fattispecie di reato  militare  nel  novero  di  quelli
"esclusivamente militari",  giacche'  anch'esso  sarebbe  costituito,
ormai, «da un fatto nei suoi elementi materiali costitutivi, non  e',
in tutto o in parte, preveduto come reato dalla legge penale  comune»
(art. 37, comma 2 c.p.m.p.). 
    Come noto, la nozione  di  reato  militare,  che  costituisce  il
limite costituzionale oggettivo  della  giurisdizione  dei  tribunali
militari in tempo di pace (art. 103 Cost., comma 3), viene ad essere,
in sostanza, una nozione meramente  formale,  ma,  al  tempo  stesso,
restrittiva, di reato militare, quanto, cosi come contenuta nell'art.
37, comma  1  c.p.m.p.,  va  considerato  reato  militare  «qualunque
violazione della legge penale militare». 
    Si  tratta,  conte  riportato  da  autorevole  dottrina,  di  una
definizione formale che in pratica  si  risolve  in  una  tautologia,
spostando la ricerca della nozione di reato militare a  quella  della
legge  penale  militare.  Tuttavia,  la  nozione  di  reato  militare
formulata dall'art. 37 c.p.m.p., cosi come  delineata  dalla  Suprema
corte, comporta che «perche' si abbia reato militare occorre  che  si
tratti di un fatto che sia offensivo di un interesse militare  e  che
sia previsto dalla legge penale militare» (Cass.  Pen.,  Sez.  I,  22
settembre 2009, n. 759;  sul  punto  anche  Corte  Costituzionale,  6
luglio 1995, n. 298, che ha definito inammissibile  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  37   c.p.m.p.,   confermando
l'adozione da parte del legislatore di un criterio meramente  formale
per definire la nozione di reato militare). 
    Orbene, la depenalizzazione del reato di ingiuria di cui all'art.
594 c.p., determinata dall'art. l, lett. c) del d. lgs. 7/2016  senza
che esso vi includa anche la analoga fattispecie prevista dalla legge
penale militare, viene a determinare che la nozione di reato militare
di cui all'art. 37 c.p.m.p., sovente accusata da giuristi e operatori
del  diritto  di  peccare  per  difetto  a  causa  dell'inerzia   del
legislatore, in quanto non  ricomprende  nel  suo  ambito  ogni  atto
lesivo  di  interessi   militari   (ne   esulano,   solo   a   titolo
esemplificativo, la corruzione, la concussione, l'abusa d'ufficio, il
peculato d'uso, l'omicidio tra  parigrado,  ecc.),  in  questo  caso,
all'opposto, ma sempre a causa del disinteresse del  legislatore  per
la legge  penale  militare  e  assenza  di  una  auspicata  revisione
organica dei codici penali militari, viene a peccare per  eccesso  in
quanto vi rientrano anche fatti potenzialmente estranei  alla  tutela
degli stessi interessi militari, difettando per il reato di  ingiuria
una norma analoga all'art. 199 c.p.m.p. 
    Cio', da  un  lato  appare  in  contrasto  con  il  principio  di
ragionevolezza, in quanto non vi e'  alcuna  ragione  giustificatrice
della disparita' di trattamento dei  militari  imputati  di  ingiuria
rispetto ai non appartenenti alle Forze Armate imputati  di  illeciti
del  tutto  analoghi  ma  che  comportano  unicamente  una   sanzione
pecuniaria civile da euro cento a euro ottomila; dall'altro, viene ad
essere ingiustificato poiche' finisce per trattare la  posizione  del
militare soggetto ad un (ulteriore) reato esclusivamente militare  in
modo diverso e  ben  piu'  gravatorio  di  quello  previsto  per  gli
estranei alle forze armate. 
    Questa  Corte  di  merito  non  ignora  che  la   Consulta,   nel
pronunciarsi  nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale   degli
articoli 226 e 229 del c.p.m.p., in  relazione  all'art.  260  stesso
codice, ebbe a concludere  che  la  questione  sollevata  non  poteva
ritenersi in contrasto «con il principio informatore dell'ordinamento
delle Forze armate - identificato dall'art. 52,  terzo  comma,  della
Costituzione nello spirito democratico della Repubblica - trattandosi
di  scelta  che  mira  ad  adeguare  al  caso  concreto  la  risposta
dell'ordinamento  militare»,  ulteriormente  poi  sottolineando   che
neppure fosse «ravvisabile una lesione del principio di  uguaglianza,
in quanto la diversita' di trattamento rilevata  dal  giudice  a  quo
trova  giustificazione  nella  peculiare  posizione   del   cittadino
inserito nell'ordinamento militare  -  caratterizzato  da  specifiche
regole di natura cogente - rispetto a quella  della  generalita'  dei
cittadini» (Corte Cost., ord. n. 186 da 4 giugno 2001). 
    Tuttavia,  neppure  puo'  con  cio'  di   certo   ritenersi   che
incostituzionale sia la parita' di trattamento e  che,  quindi,  come
sosteneva Platone «l'uguaglianza  si  applica  agli  uguali,  non  ai
disuguali» (Repubblica, VIII, 558c). 
    Peraltro, lo stesso  Giudice  delle  leggi  in  altra  successiva
occasione (sentenza n. 273 del 19-29 ottobre 2009 con  cui  dichiaro'
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  227  del  codice  penale
militare di pace nella parte in cui  non  prevedeva  l'applicabilita'
della prova liberatoria ex art. 596 c.p,  norma  quest'ultima,  detto
incidentalmente, pure parzialmente abrogata. dall'art. 2 del  decreto
7/2016 limitatamente al reato di ingiuria), ha avuto modo di chiarire
quale fosse il motivo per cui aveva  con  la  ordinanza  n.  186/2001
ritenuto come legittima l'esclusione della procedibilita'  a  querela
della persona  offesa  per  i  delitti  di  ingiuria  e  diffamazione
militare e  la  loro  esclusiva  subordinazione  alla  richiesta  del
comandante di corpo prevista  dall'art.  260  cod.  pen.  mil.  pace,
affermando che «nei reati militari [e'] sempre insita "un'offesa alla
disciplina  e  al  servizio,  una  lesione  quindi  di  un  interesse
eminentemente pubblico che non tollera  subordinazione  all'interesse
privato caratteristico della querela":  presupposto  sulla  base  del
quale "si e'  preferito  attribuire  al  comandante  del  corpo,  con
l'istituto della richiesta" una facolta' di scelta fra l'adozione  di
provvedimenti di natura  disciplinare  ed  il  ricorso  all'ordinaria
azione penale». 
    In pratica si poneva in risalto  con  la  sentenza  273/2009  che
nella  suindicata  ordinanza  del  giugno  2001  si  era  esclusa  la
violazione del principio di uguaglianza giustificando  la  diversita'
di  trattamento  nella  peculiarita'  della  situazione  propria  del
cittadino inserito nell'ordinamento militare - vincolato a specifiche
regole, tra le quali vi rientrava anche il limite  alla  proposizione
del ricorso alla ordinaria azione  penale  mediante  l'esercizio  del
diritto di querela - rispetto a quella della generalita' degli  altri
cittadini e ponendo l'accento, ancora una volta,  sulla  lesione  del
bene giuridico della disciplina e del  servizio  che,  rispondendo  a
interessi  di  tipo  pubblicistico,  non   tollerava   subordinazione
all'interesse privato. 
    Va, tuttavia, evidenziato che siffatto ragionamento  della  Corte
costituzionale avveniva ponendo a raffronto due modalita' procedurali
di promovimento dell'azione penale che, pur se venivano ad  integrare
una  diversita'  di  trattamento  giustificata   con   la   peculiare
condizione del cittadino  sub  signis,  avevano  entrambe,  pero',  a
riferimento un fatto penalmente rilevante. 
    Con la  depenalizzazione  del  reato  di  ingiuria  comune  e  la
trasmigrazione di tale illecito in  ambito  civilistico,  invece,  la
possibilita'  della  irrogazione  della  sanzione   criminale   resta
applicabile solo al reato di ingiuria militare, peraltro, punito  con
pena edittale meno grave (sino a  quattro  mesi)  rispetto  a  quella
stabilita per l'abrogato reato comune (fissata  nel  massimo  di  sei
mesi, oltre alla multa fino a euro 516,00). 
    Appare opportuno rammentare che, nel raffronto circa la effettiva
gravita' delle due fattispecie di  reato  in  esame  -  che  dovrebbe
costituire il principale parametro di riferimento del legislatore per
individuare i fatti  di  reato  cui  fare  perdere  il  carattere  di
illecito penale - la relazione definitiva ai codici  penali  militari
cosi'  si  esprimeva:  «Gli  articoli  226,  227  e  228  del  codice
concernono i reati di ingiurie e di diffamazione. Sono  state  tenute
presenti, nella formulazione degli articoli le  corrispondenti  norme
della legge penale comune, stabilendosi  per  altro  una  diminuzione
delle pene giustificata  dalle  particolari  condizioni  con  cui  si
svolge  la  convivenza  militare,  per  cui  taluni  episodi  possono
considerarsi come manifestazioni di esuberanza giovanile anziche'  di
pravi sentimenti». 
    Chiarito quanto innanzi circa la effettiva portata  nel  tema  in
esame della ordinanza n. 186/2001  della  Corte  costituzionale,  va,
invece,  posto  in  rilievo   che   sempre   la   Consulta,   proprio
nell'esaminare la questione relativa all'applicabilita'  della  prova
liberatoria ex  art.  596  c.p.,  aveva  pero'  concluso  che  doveva
rilevarsi che, salvo per l'aspetto dell'immanenza in  tutti  i  reati
militari della. tutela «di un interesse eminentemente pubblico, quale
quello della disciplina e del servizio, le due  fattispecie  poste  a
raffronto, diffamazione militare (art. 227 cod.  pen.  mil.  pace)  e
diffamazione "comune" (art. 595 cod. pen.), presenta[vano] una  piena
equivalenza   sul   terreno   sia   della   condotta   tipica,    sia
dell'oggettivita' giuridica del reato. La  diffamazione  militare  si
pone[va] in rapporto di specialita'  con  il  corrispondente  delitto
previsto dal codice penale, distinguendosi unicamente per la qualita'
del soggetto  attivo  e  della  persona  offesa,  che  devono  essere
entrambi  militari,  restando  invece  identica,  sotto,  il  profilo
testuale, la descrizione  della  fattispecie  base  delle  due  norme
incriminatrici, vale a dire l'offesa della altrui  reputazione  nella
comunicazione con piu' persone»  (Corte  Cost.,  sentenza  del  19-29
ottobre 2009, n. 273). 
    Resta, invero, innegabile che, compiuta una ricognizione dei dati
normativi, cosi come interpretati dalla giurisprudenza di merito e di
legittimita' sino all'intervento legislativo in narrativa  (il  reato
di ingiuria militare ripete  dal  reato  comune  di  ingiuria le  sue
caratteristiche di delitto a dolo generico, in tal senso  Cass.  Pen.
Sez.  I,  24  aprile  -  30  luglio  2014  n.  33781),  in  tema   di
individuazione   dei   requisiti   richiesti    per    l'integrazione
dell'elemento materiale  e  dell'elemento  psicologico  dell'abrogato
reato di ingiuria, emerge, rispetto ad esso, che il reato di ingiuria
militare presenta una identita'  strutturale,  distinguendosene  solo
per il requisito della necessaria concorrenza della qualita' militare
di entrambi i soggetti, attivo e passivo, del reato. 
    Dunque, l'ingiuria militare, non diversamente da quanto affermato
dalla Corte costituzionale nella sopracitata sentenza n. 273/2009 con
riguardo  alla  diffamazione  militare,  si  poneva  in  rapporto  di
specialita' con il corrispondente delitto previsto dal codice  penale
all'art.  594,  ora  abrogato   dal   citato   decreto   legislativo,
distinguendosene unicamente per la qualita'  del  soggetto  attivo  e
della persona offesa, che devono essere entrambi militari,  restando,
invece, identica, sotto il profilo  testuale,  la  descrizione  della
fattispecie base delle due norme incriminatrici, vale a dire l'offesa
all'onore o al decoro. 
    Pertanto, a parere di  questa  Corte  rimettente,  la  disarmonia
venutasi a creare a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs.  7/2016
e a causa del ritardo nel procedere alla tanto invocata  riforma  dei
codici penali militari, non appare  comprensibile  sotto  il  profilo
della ragionevolezza, non essendo possibile individuare alcun  valido
motivo  della  perdurante  sperequazione,  attesa,  come  gia'  sopra
evidenziato, la piena equivalenza  sul  terreno  sia  della  condotta
tipica, sia  dell'oggettivita'  giuridica  tra  le  due  fattispecie.
Principio  di  ragionevolezza  che,  nella   specie,   richiamato   e
utilizzato  come  complemento  e  in  appoggio  all'altro   principio
costituzionale, quello  enunciato  dall'art.  3  della  Costituzione,
rende la disarmonia tra legislazione penale  comune  e  militare  del
tutto ingiustificata. 
    Del  resto,  considerazioni  particolari  della  questione,   che
sostenessero il ricorso a parametri  diversi  da  quelli  comuni  per
ritenere configurato il reato di ingiuria militare, risulterebbero, a
parere di questo giudice rimettente,  in  contrasto  proprio  con  la
giurisprudenza della Corte costituzionale  che  ha  escluso  che  «le
esigenze  della  struttura  militare»  possano   essere   considerate
«superiori  agli  altri  beni  costituzionalmente  ed  ordinariamente
tutelati» (in tal senso, Corte Cost., sentenze nn. 449/99, 332/2000 e
445/2002 ancorche' pronunciate in tema di arruolamento). 
    La stessa Consulta, infatti, ha affermato il principio  «...  che
dall'avvento  della  Costituzione  repubblicana  il  diritto   penale
militare di pace, sostanziale e processuale, non solo non  puo'  piu'
ritenersi "avulso" dal sistema generale garantistico dello  Stato  Ma
non va piu' esaltato come posto a tutela di beni  e  valori  di  tale
particolare  importanza  da  superare,  nella  gerarchia  dei  valori
garantiti, "tutti" gli altri. Non soltanto fatti costituenti illeciti
penali militari ma tutti gli illeciti penali offendono, prima  che  i
singoli  e  diversi  beni  (oggetto  giuridico  specifico)   l'intera
comunita' statuale. Gli oggetti specificamente tutelati  dal  diritto
penale sostanziale militare  di  pace  e,  pertanto,  gli  oggetti  a
garanzia dei quali e' prevista la procedura penale militare di  pace,
non  possono,  per  se'  stessi,  in  ogni  caso,  esser  considerati
"superiori"  e  "piu'   importanti"   di   tutti   gli   altri   beni
costituzionalmente ordinariamente tutelati» (Corte Cost. 22 maggio  -
23 luglio 1987, n. 278 in tema  sospensione  termini  feriali;  nello
stesso senso anche Corte Cost. 22 febbraio - 3 marzo 1989, n.  78  in
tema  di  giurisdizione  per  reato  militare  del  tribunale  per  i
minorenni). 
    Da ultimo, questo giudice rimettente, non  puo'  non  porre  alla
attenzione  del  Giudice  delle  leggi  che  la  formulazione   della
disposizione in argomento non consente, in relazione al  contesto  in
cui la stessa trova applicazione, l'individuazione  in  essa  di  una
connotazione di "militarita'" della condotta  che  non  sia  la  mera
qualita' di militari dei soggetti coinvolti. 
    In sostanza, nulla, ad avviso di questa Corte di merito, consente
al  giudice,  nell'attuale  assetto  della  disciplina  positiva,  di
separare,  nell'ambito  della  generale  previsione   dell'art.   226
c.p.m.p.,  una  ingiuria  attinente  a  interessi  riconducibili   al
servizio o alla  disciplina  militare,  o  in  generale  a  interessi
militari, rispetto a una ingiuria che tale connotazione non abbia. 
    Quindi, il rilevato vizio di incostituzionalita'  risulta  palese
per le ipotesi in cui nessun profilo di differenziazione con la norma
penale comune abrogata  sia  riscontrabile  e,  dunque,  come  detto,
limitatamente alle  fattispecie  non  connotate  da  alcun  interesse
militare. 
    Peraltro, e' la previsione di cui all'art 199 c.p.m.p. in tema di
non attinenza al servizio e alla  disciplina  militare  -  che,  come
chiarito sopra, nel caso in esame ha comportato la qualificazione del
fatto come ingiuria e non come ingiuria a un inferiore, nonostante la
diversita' di grado del soggetto attivo e della persona offesa -  che
implica l'impossibilita' di connotare il reato previsto dall'art. 226
c.p.m.p. esclusivamente di  "militarita'".  Infatti,  nel  caso  come
quello che ci occupa, in cui l'ingiuria sia rivolta a un militare  di
grado diverso, proprio la non attinenza al servizio o alla disciplina
viene a costituire il presupposto per ravvisare detto reato contro la
persona e non quelli, ontologicamente piu' gravi, previsti  dai  capi
terzo e quarto, titolo  III  del  libro  secondo  del  codice  penale
militare di pace (insubordinazione e c.d. abuso di autorita'). 
    Invero, pur dovendosi affermare che almeno per  una  certa  parte
delle condotte sussumibili  nella  previsione  di  cui  all'art.  226
c.p.m.p. sia  ravvisabile  una,  anche  lata,  correlazione  con  gli
interessi, l'attivita' e l'ordinato andamento delle Forze Armate  che
possa  far  ritenere  giustificata  la  scelta  del  legislatore   di
mantenere una tutela di carattere  penale,  certamente  cio'  giammai
potrebbe valere per i casi in cui le condotte  ingiuriose  siano  del
tutto prive di qualsivoglia attinenza con la "milizia", che  non  sia
la mera qualita' di militare del soggetto attivo e di quello passivo.
In tali ipotesi, infatti, non e' dato cogliere alcuna differenza  con
le fattispecie che la novella ha escluso,  dall'ambito  della  tutela
penale, per affidarla a una  tutela  da  svolgersi  tutta  in  ambito
civilistico. 
    Una situazione siffatta ricorre, come detto, nel caso oggetto del
presente  giudizio,  giacche'  le  condotte   ingiuriose   addebitate
all'imputato, secondo l'assunto  accusatorio,  vennero  dal  medesimo
rivolte  ad  altro  militare  in  un  contesto  del  tutto  privo  di
connotazione di militarita', sicche' risulta evidente  la  disparita'
di trattamento sopra delineata rispetto ai cittadini non in armi  cui
fossero ascritte le  stesse  condotte,  e  l'irragionevolezza  di  un
diverso trattamento dal punto di  vista  della  tutela  apprestata  -
penale per i militari e civile per gli altri soggetti  -  con  palese
contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza. 
    Dunque, a conclusione di tutto quanto innanzi, e  al  fine  della
corretta  individuazione  del  thema   decidendum,   questo   giudice
rimettente ritiene di indicare come norma che viola  la  Costituzione
l'art. 226 del codice penale militare, che deve trovare  applicazione
nel presente  giudizio;  quale  parametro  di  costituzionalita'  gli
articoli 3  e  52  della  Costituzione  alla  luce  del  criterio  di
ragionevolezza, risultando tali  principi  violati  a  seguito  della
entrata in vigore del d.lgs.  7/2016,  e  segnatamente  dell'art.  l,
lett.c), che viene a costituire il tertium comparationis, in  quanto,
pur non  avendo  esso  natura  di  norma  derogatoria  a  una  regola
generale,  ha  proceduto  alla   abrogazione   dell'art.   594   c.p.
immotivatamente non assoggettando alla stessa disciplina  sostanziale
anche il reato di ingiuria,  militare  nelle  distinte  ipotesi  come
sopra delineate.