IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER LA PUGLIA 
                          (Sezione Seconda) 
 
    ha pronunciato  la  presente  ordinanza  sul  ricorso  numero  di
registro  generale  1662  del  2014,  proposto  da  Lydia   Fiandaca,
rappresentata e difesa dall'avv. Costantino  Ventura,  con  domicilio
eletto presso il suo studio in Bari, Via Dante, 11; 
    Contro  Presidenza  del   Consiglio   dei   ministri,   Ministero
dell'economia e delle finanze, Avvocatura generale  dello  Stato,  in
persona   dei   rispettivi   rappresentanti   legali   pro   tempore,
rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura  distrettuale  dello
Stato di Bari, domiciliataria  in  Bari,  Via  Melo,  97;  Avvocatura
Distrettuale dello Stato di Bari, Avvocatura Distrettuale dello Stato
di Napoli; 
    Nei confronti di Carlotta D'Alessandro; 
    Per  l'accertamento  del  proprio   diritto   e/o   interesse   a
partecipare  alla  ripartizione  delle  competenze  e  degli  onorari
spettanti agli avvocati e ai procuratori dello Stato nelle  misure  e
secondo le modalita' stabilite dagli articoli  21  regio  decreto  n.
1411/1933 e 1, comma 457, legge  n.  147/2013,  con  condanna,  anche
generica, delle amministrazioni resistenti,  previa  declaratoria  di
illegittimita' costituzionale dell'art. 9, decreto-legge n.  90/2014,
convertito in legge n. 114/2014; 
    Visto il ricorso ed i relativi allegati; 
    Viste le memorie difensive; 
    Visti tutti gli atti della causa; 
    Visti gli atti di costituzione in giudizio della  Presidenza  del
Consiglio dei ministri, del Ministero dell'economia e delle finanze e
dell'Avvocatura generale dello Stato; 
    Relatore nell'udienza  pubblica  del  giorno  22  marzo  2016  la
dott.ssa Paola Patatini  e  uditi  per  le  parti  i  difensori  avv.
Costantino Ventura, per la ricorrente e avv. dello  Stato  Gianni  De
Bellis, per le Amministrazioni; 
    L'odierna  ricorrente,  gia'  magistrato  ordinario  in  servizio
presso il Tribunale di Trani a far data  dal  7  settembre  2009,  ha
partecipato, superandolo, al concorso  da  procuratore  dello  Stato,
bandito con decreto dell'Avvocato generale del 23 novembre 2011,  nel
quale era espressamente  previsto  che  «ai  vincitori  del  concorso
nominati procuratori alla 1ª classe di stipendio sara' corrisposto lo
stipendio  annuo  lordo  spettante  in  base  all'applicazione  delle
disposizioni vigenti all'epoca della nomina, oltre agli emolumenti di
cui all'art. 27 della legge 3 aprile 1979, n. 103 e 2 della  legge  6
agosto 1984, n. 425». 
    In data 29 gennaio 2014 e' stata nominata procuratore dello Stato
alla 1ª classe di stipendio  ed  in  data  1°  marzo  2014  ha  preso
servizio presso l'Avvocatura distrettuale dello Stato  di  Bari,  ove
attualmente presta servizio. 
    In data 24 giugno 2014 veniva pubblicato in Gazzetta Ufficiale il
decreto-legge n. 90 del 24 giugno 2014, successivamente convertito in
legge n. 114 dell'11 agosto 2014, che  ha  sensibilmente  inciso  sul
trattamento  economico  fino  ad  allora  goduto  dagli  avvocati   e
procuratori dello Stato. 
    Espone invero la parte che, prima della riforma,  il  trattamento
economico complessivo, disciplinato a regime  dal  regio  decreto  n.
1611/1933 e successive modifiche ed in via transitoria  dall'art.  1,
comma 457 della legge n. 147/2013, era articolato in  una  componente
fissa, parametrata alla qualifica rivestita, alla classe di stipendio
e all'anzianita' di servizio,  ed  in  una  componente  variabile  in
funzione dell'esito delle controversie patrocinate, costituita da una
quota degli onorari  che  venivano  riscossi  all'esito  dei  giudizi
definiti con sentenza favorevole per l'amministrazione, sia che  tale
pronuncia contenesse la condanna alle spese  della  controparte,  sia
che ne disponesse la compensazione totale o parziale, sia che dopo la
pronuncia favorevole si raggiungesse una transazione. 
    L'art. 21 del sopra citato regio decreto prevedeva  infatti  che,
nel caso di pubblica amministrazione «vittoriosa», l'Avvocatura dello
Stato  curasse  l'esazione  delle  competenze  nei  confronti   delle
controparti,  poste  a  loro  carico,  e  che  tali  somme  venissero
ripartite per sette decimi tra gli avvocati e procuratori di  ciascun
ufficio in base alle norme del regolamento e per tre decimi in misura
uguale fra tutti gli avvocati e procuratori dello Stato. 
    Negli altri  casi  di  compensazione  delle  spese  o  successiva
transazione, l'Erario avrebbe invece corrisposto all'Avvocatura dello
Stato la meta' delle competenze di  avvocato  e  di  procuratore  che
sarebbero state liquidate nei confronti del soccombente. 
    Questo regime e' stato poi parzialmente modificato  dall'art.  1,
comma 457, della legge n. 147, che ha disposto  temporaneamente  (per
il triennio  2014-2016),  una  riduzione  dei  compensi  liquidati  a
seguito di sentenza favorevole per la pubblica amministrazione. 
    In tale  contesto  e'  dunque  intervenuto  il  decreto-legge  n.
90/2014, poi convertito in legge n.  114/2014,  il  quale,  incidendo
sulla componente variabile  del  trattamento  economico  complessivo,
costituita dagli onorari, ha di fatto azzerato le spese compensate  e
quelle derivanti da transazione, riducendo invece al 50% quelle poste
a carico delle controparti. 
    In particolare, l'art. 9 del citato decreto-legge, per quanto qui
di interesse: 
        ha espressamente abrogato il comma 457, dell'art. 1, legge n.
147/2013 ed il terzo comma dell'art. 21 del regio  decreto  n.  1611,
relativi alla misura delle competenze da  liquidare  per  i  casi  di
compensazione delle spese quando l'amministrazione  non  sia  rimasta
soccombente; 
        ha incluso i compensi professionali nel limite retributivo di
cui all'art. 23-ter del decreto-legge 6 dicembre 2011, convertito con
la legge 22 dicembre 2011, n. 214; 
        ha stabilito che  nell'ipotesi  di  sentenza  favorevole  con
condanna della controparte  alle  spese,  solo  il  50%  delle  somme
recuperate sia ripartito tra gli avvocati e procuratori  dello  Stato
secondo le previsioni regolamentari dell'Avvocatura dello Stato;  che
un ulteriore 25% delle suddette somme sia destinato a borse di studio
per lo svolgimento della pratica forense  presso  l'Avvocatura  dello
Stato ed il rimanente 25% sia destinato al  fondo  per  la  riduzione
della pressione fiscale di cui all'art. 1, comma 431, della legge  n.
147 del 2013; 
        nei casi di integrale compensazione delle  spese,  ha  invece
stabilito che ai soli  dipendenti  delle  amministrazioni  pubbliche,
escluso il personale dell'Avvocatura dello Stato,  siano  corrisposti
compensi  professionali  in   base   alle   norme   regolamentari   o
contrattuali vigenti e nei limiti dello stanziamento gia' previsto; 
        ha infine previsto che i  regolamenti  dell'Avvocatura  dello
Stato prevedano i criteri per il riparto delle somme  recuperate,  in
base  al  rendimento  individuale,  secondo  criteri   oggettivamente
misurabili che tengano conto  tra  l'altro  della  puntualita'  negli
adempimenti processuali. 
    Ritenendo quindi che la nuova disciplina riduca  illegittimamente
il trattamento economico ad essa spettante alla luce della  piu'  che
secolare normativa previgente, la ricorrente ha proposto il  presente
giudizio al fine di accertare il proprio diritto alla  corresponsione
degli onorari professionali nella misura in precedenza prevista,  con
condanna delle amministrazioni intimate al  pagamento  degli  importi
dovuti. 
    Le censure articolate riguardano sostanzialmente l'illegittimita'
costituzionale delle disposizioni di cui al decreto-legge n. 90, come
successivamente convertito,  atteso  che  secondo  la  parte,  queste
violerebbero numerosi parametri  costituzionali  -  segnatamente  gli
articoli 3, 23, 25, 36, 53, 77, 97 e 117 Cost., nonche'  norme  della
CEDU; in particolare, l'art. 1, Prot. Add. CEDU, e l'art. 6 CEDU. 
    Le amministrazioni  intimate  si  sono  costituite  in  giudizio,
eccependo preliminarmente l'incompetenza territoriale di  questo  TAR
in favore di quello  laziale,  in  considerazione  dell'impugnazione,
fatta inizialmente col ricorso, di atti - quali  il  regolamento  sui
criteri di determinazione del  rendimento  individuale  adottato  con
decreto dell'Avvocato generale n. 12761/2014 - destinati ad esplicare
effetti nei confronti di  tutti  gli  avvocati  e  procuratori  dello
Stato, presso le  varie  sedi  di  servizio  dislocate  in  tutto  il
territorio nazionale. 
    In  riscontro  a  quanto  eccepito,  in  data  6  marzo  2015  la
ricorrente ha formalmente rinunciato  alla  richiesta  accessoria  di
annullamento  degli  atti  indicati  nel   ricorso,   dichiaratamente
proposta con finalita' cautelative e  tuzioristiche,  insistendo  per
l'accoglimento della domanda principale di  accertamento  dei  propri
diritti, previa declaratoria di illegittimita' costituzionale. 
    Alla pubblica udienza del 22 marzo 2016, fissata  su  rinvio,  la
causa e' passata in decisione. 
    I.  Le  censure  poste  all'attenzione   del   Collegio   vertono
unicamente   sulla   legittimita'   costituzionale    dell'art.    9,
decreto-legge n. 90/2014, come successivamente convertito, il  quale,
come sopra  visto,  ha  inciso  in  maniera  sensibile  sui  compensi
spettanti agli avvocati e  ai  procuratori  dello  Stato,  categoria,
quest'ultima, in cui rientra l'odierna ricorrente. 
    La questione invero e' stata in precedenza  affrontata  da  altri
giudici,  i  quali  tuttavia  sono  giunti  a  conclusioni  tra  loro
divergenti  (nel  senso  della  compatibilita'  costituzionale  della
norma, TAR Puglia, Lecce, Sezione I, sentenza n. 170 del  20  gennaio
2016; nel  senso  opposto,  con  rimessione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale, TRGA, Trento, ordinanza n. 138 del 10 marzo 2016; TAR
Molise, Campobasso, Sezione I, ordinanza n. 161 del 25 marzo 2016). 
    II. Ad avviso di questo Collegio, le argomentazioni esposte dalle
parti e i precedenti sul  punto  inducono  a  ritenere  le  questioni
sollevate rilevanti e non manifestamente infondate ai sensi dell'art.
23, legge 11 marzo 1953, n. 87, sia pure nei termini che seguono. 
    III. In merito al profilo della rilevanza, va  infatti  osservato
che e' unicamente l'applicazione delle disposizioni di cui e'  dubbia
la compatibilita'  costituzionale  ad  impedire  alla  ricorrente  di
ottenere il bene della vita richiesto, potendosi da cio' ricavare  il
primo   requisito   per   l'ammissibilita'   della    questione    di
costituzionalita'. 
    Il  criterio  della  rilevanza   implica   appunto   un'incidenza
pregiudiziale, attuale e  non  meramente  eventuale  della  questione
dedotta  nel  procedimento  a  quo,  condizione   che   si   verifica
allorquando il giudizio non possa essere  definito  indipendentemente
dalla risoluzione della questione stessa e, pertanto, il giudice  non
possa prescindere dalla norma che e' chiamato  ad  applicare  per  la
prosecuzione/definizione del giudizio. 
    E'  quindi  evidente,  nel  caso  in  esame,  la  ricorrenza  del
requisito in parola,  in  quanto  la  definizione  della  domanda  di
accertamento del diritto al conseguimento dei compensi  professionali
senza le decurtazioni e  le  limitazioni  previste  dall'art.  9  del
decreto-legge  n.   90/2014,   avanzata   col   ricorso,   presuppone
necessariamente  la  declaratoria  di  incostituzionalita'  di   tale
disciplina, che per il suo contenuto univoco e, per  alcuni  profili,
di immediata applicazione, non si presta, tra l'altro, in alcun  modo
ad una interpretazione costituzionalmente orientata. 
    IV.  Con  riferimento  alla  non  manifesta  infondatezza   della
questione,  il  Collegio  deve  precisare   che   il   dubbio   sulla
compatibilita' costituzionale  si  presenta  solo  per  alcune  delle
questioni sollevate dalla ricorrente. 
    IV.1. La prima di tali questioni, gia'  scrutinata  dal  TRGA  di
Trento e dal TAR Molise  con  le  ordinanze  sopra  citate,  riguarda
l'ammissibilita' stessa  del  decreto-legge  ai  sensi  dell'art.  77
Cost., e la possibilita' di introdurre una  vera  e  propria  riforma
strutturale del trattamento economico spettante agli  avvocati  e  ai
procuratori dello Stato con tale strumento. 
    Invero, tra i  requisiti  espressamente  richiesti  dall'art.  77
Cost., nonche' dall'art. 15, legge n. 400/1988 - «norma che, pur  non
avendo sul piano formale, rango costituzionale, esprime ed  esplicita
cio'  che  deve  ritenersi  intrinseco   alla   natura   stessa   del
decreto-legge»  (Corte  cost.,  n.  22/2012;  n.  220/2013),  vi   e'
innanzitutto quello dell'omogeneita'  del  contenuto,  requisito  che
pare invece  mancare  a  fronte  dei  cinquantaquattro  articoli  del
decreto-legge  n.  90,  attenenti  ad  ambiti  materiali  diversi  ed
eterogenei. 
    Non  sono  inoltre  indicate   nel   preambolo   le   circostanze
straordinarie  di  necessita'  ed   urgenza,   invece   espressamente
richieste per la decretazione d'urgenza. 
    Invero, in nessuna parte del preambolo  si  fa  riferimento  alle
circostanze  straordinarie  che  giustificherebbero   la   definitiva
riforma degli onorari spettanti agli  avvocati  e  procuratori  dello
Stato, neppure sotto forma di esigenza di contenimento o  limitazione
della spesa pubblica, il cui  riferimento  e'  contenuto  nella  sola
Relazione governativa. 
    Ne' si riscontra corrispondenza alcuna tra il contenuto dell'art.
9,  decreto-legge  n.  90  -  ovvero   la   riforma   degli   onorari
dell'Avvocatura dello Stato - ed  il  titolo  dello  stesso,  «Misure
urgenti per la semplificazione e la trasparenza amministrativa e  per
l'efficienza degli uffici giudiziari». 
    Non puo' neppure ritenersi che la mancanza, nel caso  di  specie,
dei presupposti indispensabili per la  decretazione  d'urgenza  possa
poi essere sanata dalla legge di conversione,  come  affermato  dallo
stesso Giudice delle leggi dalla sentenza n. 29/1995 in poi. 
    Tali considerazioni, sinteticamente riassunte,  sono  state  gia'
condivisibilmente espresse dai due Tribunali amministrativi. 
    Pertanto, possono riportarsi integralmente le ragioni che  questi
hanno posto a fondamento  della  rimessione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale: 
        «l'art. 77, commi secondo e terzo, della Costituzione prevede
la  possibilita'  per  il  Governo  di  adottare,  sotto  la  propria
responsabilita',  atti  con  forza  di   legge   (nella   forma   del
decreto-legge) come ipotesi eccezionale, subordinata al  rispetto  di
condizioni precise. Tali atti, qualificati dalla stessa  Costituzione
come  «provvisori»,  devono  risultare  fondati  sulla  presenza   di
presupposti «straordinari» di necessita' ed urgenza e  devono  essere
presentati, il giorno stesso della loro  adozione,  alle  Camere,  ai
fini della conversione in  legge,  conversione  che  va  operata  nel
termine  di  sessanta  giorni  dalla  loro  pubblicazione.   Ove   la
conversione non avvenga entro tale termine, i  decreti-legge  perdono
la loro efficacia fin  dall'inizio,  salva  la  possibilita'  per  le
Camere di regolare con legge i rapporti giuridici  sorti  sulla  base
dei decreti-legge non convertiti. 
    Al riguardo la Corte  costituzionale  (che,  inizialmente,  aveva
reputato la legge di conversione quale atto di novazione della fonte,
il  che  rendeva  impossibile  lo  scrutinio  sui   presupposti   del
decreto-legge una volta intervenuta la conversione, cfr. sentenza  n.
108 del 1986), a partire dalla meta' degli anni  novanta  del  secolo
scorso ha affermato che «la preesistenza di una situazione  di  fatto
comportante  la  necessita'  e  l'urgenza   di   provvedere   tramite
l'utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto-legge,
costituisce un requisito di  validita'  costituzionale  dell'adozione
del predetto atto, di modo che l'eventuale evidente mancanza di  quel
presupposto configura in  primo  luogo  un  vizio  di  illegittimita'
costituzionale del decreto-legge che risulti  adottato  al  di  fuori
dell'ambito applicativo costituzionalmente  previsto».  La  Corte  ha
altresi'  precisato  che  lo  scrutinio  di  costituzionalita'  «deve
svolgersi su un piano  diverso»  rispetto  all'esercizio  del  potere
legislativo, in  cui  «le  valutazioni  politiche  potrebbero  essere
prevalenti».  Ha  specificato  al  riguardo  che  «il   difetto   dei
presupposti di legittimita' della decretazione d'urgenza, in sede  di
scrutinio di costituzionalita'», deve  «risultare  evidente»,  e  che
tale difetto di presupposti, «una volta intervenuta  la  conversione,
si traduce in un  vizio  in  procedendo  della  relativa  legge».  Ha
percio'  escluso,  con  cio',  l'eventuale   efficacia   sanante   di
quest'ultima,  dal  momento  che  «affermare  che   tale   legge   di
conversione sana in ogni caso i  vizi  del  decreto,  significherebbe
attribuire in concreto al legislatore ordinario il potere di alterare
il riparto costituzionale  delle  competenze  del  Parlamento  e  del
Governo quanto alla produzione delle fonti primarie» (sentenze n. 128
del 2008; n. 171 del 2007; n. 29 del 1995). 
    La Corte ha poi precisato che  il  riconoscimento  dell'esistenza
dei presupposti fattuali  di  cui  all'art.  77,  secondo  comma,  si
ricollega «ad una intrinseca coerenza delle  norme  contenute  in  un
decreto-legge, o dal punto di vista  oggettivo  e  materiale,  o  dal
punto di vista funzionale e finalistico», e che l'urgente  necessita'
del provvedere «puo' riguardare una pluralita'  di  norme  accomunate
dalla natura unitaria delle fattispecie  disciplinate,  ovvero  anche
dall'intento di fronteggiare  situazioni  straordinarie  complesse  e
variegate,  che  richiedono  interventi  oggettivamente   eterogenei,
afferenti quindi a materie diverse, ma indirizzati all'unico scopo di
approntare rimedi  urgenti  a  situazioni  straordinarie  venutesi  a
determinare». In tale ottica, la Corte  ha  conferito  rilievo  anche
all'art. 15, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n.  400,  che  «pur
non avendo, in se' e per se'  rango  costituzionale,  e  non  potendo
quindi  assurgere  a  parametro  di  legittimita'   ...   costituisce
esplicitazione della ratio implicita nel secondo comma  dell'art.  77
Cost., il quale impone il collegamento dell'intero  decreto-legge  al
caso straordinario di necessita' e urgenza, che ha indotto il Governo
ad  avvalersi  dell'eccezionale  potere  di  esercitare  la  funzione
legislativa  senza  previa  delegazione  da  parte  del   Parlamento»
(sentenza n. 22 del 2012 sul cosiddetto «decreto milleproroghe»). 
    ... Ora, applicando gli insegnamenti della Corte  costituzionale,
occorre verificare se  la  «evidente»  carenza  del  requisito  della
straordinarieta', del caso di necessita' e di urgenza di  provvedere,
renda la prospettata questione non manifestamente infondata. 
    Al  riguardo  si  osserva  che  l'epigrafe   del   decreto   reca
l'intestazione  «Misure  urgenti  per   la   semplificazione   e   la
trasparenza  amministrativa   e   per   l'efficienza   degli   uffici
giudiziari». 
    Il preambolo del decreto cosi' recita: «Ritenuta la straordinaria
necessita' e urgenza di emanare disposizioni volte a favorire la piu'
razionale  utilizzazione  dei  dipendenti  pubblici,   a   realizzare
interventi  di  semplificazione  dell'organizzazione   amministrativa
dello Stato e degli enti pubblici e ad introdurre ulteriori misure di
semplificazione per  l'accesso  dei  cittadini  e  delle  imprese  ai
servizi della pubblica  amministrazione;  Ritenuta  la  straordinaria
necessita' ed urgenza di introdurre disposizioni volte a garantire un
miglior livello di  certezza  giuridica,  correttezza  e  trasparenza
delle  procedure  nei  lavori  pubblici,  anche  con  riferimento  al
completamento dei lavori e delle  opere  necessarie  a  garantire  lo
svolgimento  dell'evento  Expo  2015;   Ritenuta   la   straordinaria
necessita'  ed  urgenza  di  emanare  disposizioni  per  l'efficiente
informatizzazione del processo civile,  amministrativo,  contabile  e
tributario,  nonche'  misure  per   l'organizzazione   degli   uffici
giudiziari, al fine di assicurare la ragionevole durata del  processo
attraverso l'innovazione dei modelli organizzativi e il piu' efficace
impiego delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione». 
    A sua volta, l'art. 9 all'esame e' parte del titolo  I  rubricato
«Misure urgenti  per  l'efficienza  della  p.a.  e  per  il  sostegno
dell'occupazione» e del capo I denominato «Misure urgenti in  materia
di   lavoro   pubblico».   Gli   articoli   del   capo    dispongono,
principalmente, in materia di ricambio generazionale nelle  pubbliche
amministrazioni, di semplificazione e flessibilita' nel turn-over, di
mobilita'  obbligatoria  e  volontaria,  di  assegnazione  di   nuove
mansioni,  di  divieto  di  incarichi  dirigenziali  a  soggetti   in
quiescenza, di prerogative sindacali, di incarichi  negli  uffici  di
diretta collaborazione. 
    ... Occorre ora ricordare che, ai sensi dell'art.  15,  comma  1,
della legge n. 400 del 1988,  i  decreti-legge  sono  presentati  per
l'emanazione «con l'indicazione,  nel  preambolo,  delle  circostanze
straordinarie  di  necessita'  e  di  urgenza  che  ne   giustificano
l'adozione», mentre  il  comma  3  sancisce  che  «i  decreti  devono
contenere misure di immediata applicazione e il loro  contenuto  deve
essere specifico, omogeneo e corrispondente al titolo». 
    Ebbene,  il  dubbio  di   costituzionalita'   dell'art.   9   del
decreto-legge n. 90 del 2014 insorge in  relazione  alla  circostanza
che nessun collegamento pare ravvisabile tra le riportate premesse  e
le  previsioni  normative  di  cui  si   prospetta   l'illegittimita'
costituzionale. 
    Difatti, il  primo  paragrafo  del  preambolo  fa  riferimento  a
interventi organizzativi e  semplificatori  nella  e  della  Pubblica
amministrazione, il secondo alle procedure dei  lavori  pubblici,  il
terzo all'informatizzazione processuale. Ambiti, dunque, che  con  la
disposizioni di cui si discute - volta a riformare la struttura degli
onorari degli avvocati  dello  Stato  e  degli  altri  enti  pubblici
nell'ottica del contenimento della spesa pubblica - non sembrano aver
nulla a che vedere. Appare dunque carente il rapporto  tra  la  norma
censurata  e  l'elemento  funzionale  -  finalistico  proclamato  nel
preambolo, come espressamente richiesto dalla Corte costituzionale. 
    Per converso, in nessun punto del preambolo e' stato  dato  conto
delle ragioni di necessita' e di urgenza che imponevano l'adozione  -
a mezzo di decreto-legge - delle disposizioni di riforma  strutturale
degli  onorari  all'Avvocatura  dello  Stato  di  cui   all'art.   9.
L'infrazione dell'art. 77, secondo comma, della Costituzione  appare,
quindi, questione non manifestamente infondata. 
    A  tale  stregua  occorre  ancora   rammentare   che   la   Corte
costituzionale ha specificato come «l'inserimento di norme eterogenee
all'oggetto  o  alla  finalita'  del   decreto   spezza   il   legame
logico-giuridico tra la valutazione fatta  dal  Governo  dell'urgenza
del provvedere ed "i provvedimenti provvisori con forza  di  legge"»,
di cui all'art. 77, e che «il presupposto del "caso" straordinario di
necessita' e urgenza inerisce  sempre  e  soltanto  al  provvedimento
inteso come un tutto unitario, atto normativo fornito  di  intrinseca
coerenza, anche se articolato e differenziato al  suo  interno»,  per
cui  «la  scomposizione  atomistica  della  condizione  di  validita'
prescritta dalla Costituzione si pone in contrasto con il  necessario
legame tra il provvedimento legislativo urgente ed il "caso"  che  lo
ha reso necessario, trasformando il decreto-legge in una congerie  di
norme assemblate soltanto da mera casualita' temporale» (sentenza  n.
22 del 2012). 
    Ne discende che l'immissione delle disposizioni  all'esame  (come
si e' detto, di riforma strutturale degli onorari) nel  corpo  di  un
decreto-legge   volto,   dichiaratamente,   alla   «piu'    razionale
utilizzazione dei dipendenti pubblici,  a  realizzare  interventi  di
semplificazione  dell'organizzazione  amministrativa  dello  Stato  e
degli  enti   pubblici   e   a   introdurre   ulteriori   misure   di
semplificazione per  l'accesso  dei  cittadini  e  delle  imprese  ai
servizi della pubblica amministrazione», non vale a trasmettere  alle
stesse - che appaiono quindi dissonanti -  il  carattere  di  urgenza
proprio delle  altre  disposizioni,  legate  invece  tra  loro  dalla
comunanza di oggetto o di finalita'. 
    Per altro, ma correlato, profilo, occorre osservare che l'art.  9
contiene anche alcune misure che non sono  «auto-applicative»,  ossia
«di immediata applicazione» come sancito dall'art. 15, comma 3, della
legge n. 400 del 1988. 
    Sul punto si rileva che, nonostante sia  previsto  che  la  nuova
disciplina si applichi alle sentenze  pubblicate  dopo  l'entrata  in
vigore del decreto-legge n. 90 del 2014, il comma 8 stabilisce  pero'
che il nuovo regime dei compensi (nella parte che riconosce il 50 per
cento delle somme recuperate - commi  3,  4  e  5,  secondo  e  terzo
periodo del comma 6)  puo'  trovare  applicazione  solo  a  decorrere
dall'introduzione, nei regolamenti dell'Avvocatura  dello  Stato,  di
regole che prevedano criteri di  riparto  delle  somme  «in  base  al
rendimento individuale, secondo criteri oggettivamente misurabili che
tengano  conto  tra  l'altro  della  puntualita'  negli   adempimenti
processuali». 
    Sicche', trova ulteriore conferma il  dubbio  circa  la  concreta
sussistenza del caso straordinario di necessita'  e  di  urgenza,  il
solo che puo' legittimare il Governo  ad  avvalersi  dell'eccezionale
potere di esercitare la funzione legislativa senza previa delegazione
da parte del Parlamento» (cfr. TRGA Trento, ord. n. 138/2016). 
    IV.2.  Accanto  alla  suddetta  questione,  il   Collegio,   come
anticipato, condivide le perplessita' espresse  da  parte  ricorrente
anche in ordine ad ulteriori profili. 
    Parte ricorrente ha, infatti, dedotto la violazione del principio
della tutela dell'affidamento, di cui  agli  articoli  3,  25  e  117
Cost.; quest'ultimo per  violazione  dell'art.  6  della  Convenzione
Europea dei Diritti  dell'uomo,  atteso  che  la  stessa,  una  volta
superato il concorso da procuratore  dello  Stato,  ha  espressamente
optato per l'Avvocatura dello Stato,  con  conseguente  cancellazione
dal ruolo dell'organico della magistratura ordinaria, ragionevolmente
indotta dalla previsione contenuta nello stesso bando di concorso, di
corresponsione dello stipendio annuo lordo, «oltre agli emolumenti di
cui all'art. 27 della legge n. 103/1979 e art. 2, legge n. 425/1984»,
emolumenti cancellati pero' dall'art. 9, decreto-legge n. 90/2014. 
    Il Collegio ritiene che tale  disposizione  si  ponga  invero  in
contrasto con le norme costituzionali richiamate, atteso che  sia  la
Corte costituzionale, che quella Europea, hanno sempre  censurato  la
violazione del principio di affidamento allorquando  le  disposizioni
«trasmodino in un regolamento irragionevole, frustrando, con riguardo
a situazioni sostanziali fondate su disposizioni di leggi precedenti,
l'affidamento dei cittadini nella sicurezza giuridica, da  intendersi
quale elemento fondamentale dello Stato di diritto» (Corte cost.,  n.
92/2013). 
    Il Giudice  di  legittimita'  infatti,  pur  affermando  che,  ad
eccezion fatta per  la  materia  penale  ove  vige  il  principio  di
irretroattivita' della legge di cui  all'art.  25  Cost.,  non  possa
ritenersi interdetto  al  legislatore  di  intervenire  in  peius  su
diritti  soggettivi  perfetti  relativi  a  rapporti  di  durata,  ha
comunque piu' volte evidenziato la necessita' che tale  modifica  sia
in ogni caso  giustificata  da  esigenze  eccezionali  ed  idonee  ad
imporre  «sacrifici  eccezionali,   transeunti,   non   arbitrari   e
consentanei allo scopo prefisso» (Corte cost., n. 223/2012). 
    L'art. 9 del decreto-legge n. 90 e'  invece  intervenuto  in  via
definitiva, introducendo  una  modifica  «a  regime»  tutt'altro  che
transeunte, di disposizioni che disciplinano, da oltre un secolo,  il
trattamento  economico   dell'Avvocatura   erariale,   imponendo   un
sacrificio  arbitrario,  in  quanto  richiesto  ai  soli  avvocati  e
procuratori dello Stato - per un organico di poco piu' di 300  unita'
- e non gia' agli altri  avvocati  dipendenti  delle  amministrazioni
pubbliche. 
    La  lesione  del  legittimo  affidamento  comporta   inoltre   la
violazione  dell'art.  117  Cost.,   quale   norma   interposta   con
riferimento all'art. 6 CEDU. 
    La Corte Europea ha  infatti  affermato  che  i  principio  della
preminenza del diritto e lo stesso concetto di processo equo  di  cui
all'art. 6 CEDU, ostano ad un intervento legislativo  retroattivo,  a
meno che esso  non  sia  giustificato  da  un  motivo  imperativo  di
interesse  generale,   motivo   che   non   puo'   pero'   ravvisarsi
nell'ottenimento di un beneficio finanziario per lo Stato. 
    La disposizione censurata  nella  specie  comporta,  invece,  con
effetti retroattivi,  un'irragionevole  ingerenza  nei  diritti  gia'
assicurati dalla legge, all'unico  scopo  di  ottenere  un  beneficio
finanziario. 
    Invero, da un  lato,  l'aver  azzerato  i  compensi  in  caso  di
compensazione delle spese comporta un  indubbio  beneficio  economico
per l'Erario non piu' tenuto al versamento all'Avvocatura della meta'
delle competenze che sarebbero  state  liquidate  nei  confronti  del
soccombente;  dall'altro,  l'aver  previsto  che  una   parte   delle
competenze liquidate in caso di sentenza favorevole, e riscosse dalla
stessa Avvocatura, vada devoluta al  fondo  per  la  riduzione  della
pressione fiscale, configura  sicuramente  un  arricchimento  per  le
casse dello Stato. 
    IV.3. Non manifestamente infondata e' poi la questione  sollevata
con riferimento agli articoli 3 e 53 Cost. 
    Sul punto, il Collegio concorda infatti con le argomentazioni  di
parte sulla natura tributaria del prelievo  degli  onorari  applicato
nei confronti degli avvocati e dei procuratori dello stato. 
    In tal senso, depongono in primo luogo le formule utilizzate  dal
legislatore. 
    Un riconoscimento esplicito e' invero contenuto  nella  Relazione
governativa,  nella  quale  si  legge  espressamente   «il   compenso
(relativo alle  ipotesi  di  compensazione  e  transazione)  viene  a
gravare interamente sulle finanze pubbliche», e  «l'avocazione  della
maggiore  percentuale  del  90  per  cento  residuo  (degli   onorari
recuperati dalla controparti)  alle  finanze  pubbliche  comporta  un
comprensibile vantaggio per le stesse». 
    Lo  stesso  art.  9  ha  previsto,  nelle  ipotesi  di   sentenza
favorevole  con  recupero  delle  spese   legali   a   carico   delle
controparti, che una  parte  delle  somme  prelevate  (in  precedenza
spettanti per intero all'Avvocatura dello Stato), sia oggi incamerata
dallo Stato e destinata per il 25% a borse di studio per  la  pratica
forense, ed il restante 25% al fondo per la riduzione della pressione
fiscale. 
    Deve ritenersi quindi che  la  decurtazione  in  oggetto  rivesta
carattere tributario, «trattandosi all'evidenza  di  una  prestazione
patrimoniale imposta, realizzata attraverso un atto  autoritativo  di
carattere ablatorio, destinata a sovvenire  le  pubbliche  spese.  La
ratio della disposizione censurata, in altri termini,  e'  quella  di
reperire risorse per l'erario» (Corte cost. n. 223/2012). 
    La  Corte   costituzionale   ha   piu'   volte   affermato   che,
indipendentemente dal nomen iuris attribuito dal legislatore, al fine
di valutare se una decurtazione patrimoniale  definitiva  integri  un
tributo,  occorre  interpretare  la  disciplina  sostanziale  che  la
prevede  alla  luce  dei  criteri   indicati   dalla   giurisprudenza
costituzionale come caratterizzanti la nozione unitaria di tributo; e
cioe':  doverosita'  della  prestazione,  mancanza  di  un   rapporto
sinallagmatico tra le parti, nonche' collegamento di tale prestazione
con la pubblica spesa, in relazione ad un presupposto  economicamente
rilevante (explurimis, sentenze n. 141/2009, n. 335 e n. 64/2008,  n.
334/2006, n. 73/2005). 
    Un tributo consiste, quindi, in  un  «prelievo  coattivo  che  e'
finalizzato al concorso alle pubbliche spese ed e' posto a carico  di
un soggetto passivo in base ad  uno  specifico  indice  di  capacita'
contributiva» (sentenza  n.  102/2008);  indice  che  deve  esprimere
l'idoneita' di tale soggetto all'obbligazione tributaria (sentenze n.
91/1972, n. 97/1968, n. 89/1966, n. 16/1965, n. 45/1964). 
    I tre criteri, come visto, ricorrono tutti nella  fattispecie  in
esame, atteso che gli onorari percepiti dagli avvocati e  procuratori
dello Stato hanno indubbia natura retributiva e la loro  decurtazione
corrisponde «alle urgenti  necessita'  di  contenimento  della  spesa
pubblica». 
    Inoltre,  alla  decurtazione  non  corrisponde  alcuna   modifica
proporzionale  del  rapporto  sinallagmatico,   perche'   i   carichi
lavorativi sono rimasti inalterati, quando non aumentati. 
    Infine,  le  maggiori   risorse   conseguite   dall'Erario   sono
espressamente destinate alle finanze pubbliche. 
    Ravvisata dunque  la  natura  tributaria  della  decurtazione  in
esame, il Collegio non ritiene che questa sia immune dalle censure di
illegittimita' prospettate con riferimento agli articoli 3 e 53 sopra
visti. 
    Come ricordato dalla Corte in merito al blocco dei meccanismi  di
adeguamento retributivo dei magistrati, «la Costituzione  non  impone
affatto una tassazione fiscale uniforme,  con  criteri  assolutamente
identici e  proporzionali  per  tutte  le  tipologie  di  imposizione
tributaria;  ma  esige  invece  un  indefettibile  raccordo  con   la
capacita' contributiva, in un quadro di sistema informato  a  criteri
di progressivita', come svolgimento ulteriore, nello specifico  campo
tributario, del principio di eguaglianza,  collegato  al  compito  di
rimozione degli ostacoli economico-sociali esistenti  di  fatto  alla
liberta' ed eguaglianza dei cittadini-persone umane,  in  spirito  di
solidarieta' politica, economica e sociale  (articoli  2  e  3  della
Costituzione)» (sentenza n. 341 del  2000).  Pertanto,  il  controllo
della Corte in ordine alla lesione dei principi di  cui  all'art.  53
Cost., come specificazione del fondamentale principio di  uguaglianza
di  cui  all'art.  3  Cost.,  consiste  in  un   «giudizio   sull'uso
ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto  dei  suoi
poteri discrezionali in materia tributaria, al fine di verificare  la
coerenza interna della struttura dell'imposta con il suo  presupposto
economico,   come   pure   la    non    arbitrarieta'    dell'entita'
dell'imposizione»  (sentenza  n.  111  del  1997).  (Corte  cost.  n.
223/2012). 
    Nella specie, pure considerando  al  giusto  la  discrezionalita'
legislativa in materia, non puo' non rilevarsi come l'introduzione di
una imposta speciale, sotto forma di decurtazione degli  onorari,  in
relazione soltanto alle competenze degli avvocati e procuratori dello
Stato - che costituiscono una buona parte del loro reddito da  lavoro
- si ponga in contrasto con il principio della parita' di prelievo, a
parita' di presupposto d'imposta economicamente rilevante. 
    Analogamente infatti a quanto rilevato dalla Corte nel  caso  del
blocco    degli    adeguamenti    retributivi     dei     magistrati,
l'irragionevolezza  risiede  nella  disposizione   in   esame   nella
ingiustificata limitazione della platea dei soggetti passivi. 
    La difficolta' della  situazione  economica  che  lo  Stato  deve
affrontare, infatti, non  puo'  giustificare  una  deroga,  anche  in
queste   condizioni,   del   rispetto   dei   principi   fondamentali
dell'ordinamento   costituzionale,   in   primo   luogo   quello   di
uguaglianza, sul quale fonda lo stesso ordinamento. 
    In altre parole, la decurtazione in questione si ritiene illogica
laddove si tenga conto che, non solo incide  su  una  platea  davvero
ristretta di soggetti passivi pari a soli 320 unita',  ma  la  stessa
opera nei soli casi di sentenza favorevole con spese a  carico  delle
controparti private, non gia' dell'Erario - ipotesi che si verificava
semmai nel precedente regime per il caso di compensazione delle spese
o successiva transazione. 
    Trattenendo infatti il 50 % delle somme spettanti agli avvocati e
ai procuratori dello Stato, per destinarlo a borse di  studio  ed  al
fondo per la riduzione della pressione fiscale, lo  Stato  non  attua
una misura di riduzione di spese gravanti  sulle  risorse  pubbliche,
piuttosto si  arricchisce  (ingiustificatamente)  del  corrispondente
ammontare, in quanto tali somme in precedenza non sarebbero  comunque
state elargite dall'Erario, venendo invece  riscosse  dall'Avvocatura
stessa in danno della controparte privata. 
    Pertanto,  piu'  che  contenimento  della  spesa   pubblica,   la
decurtazione realizza di fatto un'avocazione di maggiori  somme  alle
finanze pubbliche, con evidente vantaggio delle stesse, al  di  fuori
di  ogni  rapporto  sinallagmatico,  determinando  un   irragionevole
effetto discriminatorio. 
    Invero,  il  contenimento  e  la  razionalizzazione  della  spesa
pubblica, attraverso cui puo' attuarsi una politica  di  riequilibrio
del  bilancio,  possono  implicare,  come  riconosciuto  dalla  Corte
costituzionale  (sent.  n.  310/2013),  sacrifici  gravosi   che   si
giustificano in relazione alla crisi economica in cui versa il  Paese
e alla necessita' di rispettare gli impegni assunti in sede europea. 
    Gli interventi che ne derivano pero', per superare il  vaglio  di
legittimita',  devono  applicarsi  all'intero  comparto  pubblico  ed
imporre, sia pur con provvedimenti modulati sulla  base  dei  diversi
statuti professionali delle categorie che vi appartengono,  limiti  e
restrizioni generali, «in una dimensione solidaristica». 
    Nella specie, i commi 3 e 6  dell'art.  9  del  decreto-legge  n.
90/2014 hanno di fatto previsto la  decurtazione  degli  onorari,  si
ribadisce, solo per gli avvocati e i procuratori dello Stato,  atteso
che mentre agli  avvocati  delle  amministrazioni  pubbliche  diverse
dallo Stato e'  accordata  la  possibilita'  di  acquisire  le  somme
liquidate in favore dell'ente patrocinato anche in misura  integrale,
secondo quanto previsto nei rispettivi regolamenti, per  l'Avvocatura
erariale una tale possibilita' e' limitata ex ante al 50%, quando non
del tutto esclusa per i casi di sentenza favorevole con compensazione
delle spese (ove invece gli altri  avvocati  pubblici  incontrano  il
solo limite dello stanziamento di bilancio per l'anno 2013). 
    Tale disparita' di trattamento non pare trovare tuttavia  la  sua
ratio negli obiettivi di perequazione perseguiti con riferimento alle
categorie  dirigenziali  della  pubblica  amministrazione,  ne'  pare
potersi  giustificare  con  la  circostanza  addotta   dalla   difesa
erariale, secondo cui tutte le altre categorie di dipendenti pubblici
sarebbero state destinatarie di interventi di riduzione o  di  blocco
retributivo. 
    In primo luogo, infatti, l'attivita' svolta dagli avvocati  dello
Stato e degli altri enti pubblici ha natura professionale e non  puo'
essere assimilata a  quella  di  impiegato  ovvero  dirigente,  senza
violare il principio di uguaglianza. 
    In secondo luogo - come  gia'  evidenziato  dal  TAR  Molise  nel
rimettere la questione alla Corte - non va trascurato il  particolare
statuto che regola l'attivita' degli avvocati dello Stato i quali,  a
differenza  di   quelli   pubblici,   appartengono   ad   un   plesso
organizzativo distinto rispetto a quello  dell'ente  (lo  Stato)  che
essi sono chiamati difendere; particolare  statuto  che,  se  vale  a
garantire al plesso una posizione di maggiore indipendenza rispetto a
quella degli altri avvocati, non puo'  giustificarne  un  trattamento
economico deteriore rispetto a  questi  ultimi,  nei  cui  ruoli  non
mancano difensori, specie in posizione apicale, che godono spesso  di
un trattamento economico superiore  a  quello  degli  avvocati  dello
Stato. 
    Ne deriva che «I dubbi  di  costituzionalita'  non  si  sarebbero
posti qualora  il  provvedimento  contestato,  anziche'  identificare
specificamente negli Avvocati dello Stato i destinatari della deroga,
avesse stabilito la limitazione del riconoscimento  delle  competenze
nei confronti di tutti gli avvocati di enti pubblici che  superassero
nella quota fissa una determinata retribuzione; cio' in linea con  la
richiamata giurisprudenza costituzionale secondo cui  la  prioritaria
azione di risanamento delle finanze, pur legittimando  l'adozione  di
misure che comportano sacrifici per le categorie di  volta  in  volta
incise, non puo' non essere condotta nel  rispetto  del  fondamentale
principio di ragionevolezza e deve avere riguardo a tutto il comparto
del pubblico impiego sia pure valorizzando le distinzioni  statutarie
esistenti» (TAR Molise, n. 161/2016 cit.). 
    V. Le considerazioni fin qui esposte fondano, quindi, il giudizio
di  rilevanza  e  non  manifesta  infondatezza  della  questione   di
legittimita' costituzionale dell'art. 9 del decreto-legge n.  90  del
2014, di «Riforma degli onorari dell'Avvocatura generale dello  Stato
e delle avvocature  degli  enti  pubblici»,  per  contrasto  con  gli
articoli 77, 3, 25, 53 e 117 Cost. con riferimento all'art.  6  CEDU,
nei termini e per le ragioni sopra esposte. 
    VI.  Tanto  premesso,  questo  Tribunale  solleva  questione   di
legittimita'  costituzionale  nei  termini   sopra   enunciati,   con
rimessione degli atti di causa alla Corte e sospensione del  giudizio
fino alla sua decisione  e  pubblicazione  nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica italiana, ai sensi e per gli  effetti  di  cui  agli
articoli 79 e 80 c.p.a. e 295 c.p.c.