IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE PER IL LAZIO (Sezione Terza Quater) Ha pronunciato la presente ordinanza sul ricorso numero di registro generale 9329 del 2007, proposto da Nardelli Assunta, rappresentata e difesa dagli avv. Salvatore Scala e Sabatino Rainone, coi quale ha eletto domicilio in Roma, via Ottaviano n. 9, presso S.G.E. - Studio giuridico economico; Contro Azienda USL Roma C, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Barbara Bentivoglio e Gabriella Mazzoli, con domicilio eletto presso questi in Roma, viale dell'Arte n. 68; Per l'accertamento della responsabilita' dell'Azienda convenuta nella causazione dell'infortunio sul lavoro subito dalla ricorrente il 2 luglio 1997 e per il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali dalla stessa patiti; Visti il ricorso e i relativi allegati; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Azienda USL Roma C; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 aprile 2016 il dott. Alfredo Storto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; 1. La ricorrente ha adito questo Tribunale chiedendo il risarcimento dei danni subiti per un c.d. «infortunio in itinere». 1.1. Ha allegato a tale fine: a) di essere dipendente a tempo determinato dell'AUSL Roma C (poi ASL Roma C) sin dal 20 giugno 1997 con la qualifica di operatore professionale, prima categoria, collaboratore infermiere; b) che, il 2 luglio 1997, mentre percorreva la via Palombarese per raggiungere la propria abitazione di ritorno dal posto di lavoro, era rimasta vittima di un incidente stradale, nel quale, perduto il controllo della propria autovettura, era uscita fuori strada andando a sbattere contro un albero e riportando numerose lesioni fisiche a causa delle quali, soltanto il 2 settembre 1997, era stata dimessa dall'Ospedale CTO; c) di aver ottenuto dal Giudice del lavoro del Tribunale di Roma una sentenza (6 febbraio 2002, n. 3932) che, riconosciuto l'infortunio in itinere, aveva condannato l'INAIL a corrisponderle per quei fatti una rendita per malattia professionale per infortunio sul lavoro, commisurata ad una inabilita' permanente del 32%, oltre interessi e rivalutazione; d) che, con un ulteriore ricorso notificato l'8 luglio 2002, aveva adito il giudice del lavoro del Tribunale di Roma agendo contro la predetta AUSL per il risarcimento del danno biologico, da liquidarsi in € 64.702,72, o nella maggiore o minore somma di giustizia, oltre rivalutazione monetaria ed interessi sulle somme rivalutate, da riconoscerle in quanto effetto dell'inadempienza del datore di lavoro agli obblighi imposti dall'art. 2087 del codice civile; e) che il predetto Tribunale, con sentenza del 9 ottobre 2002, n. 33018, accogliendo un'eccezione formulata in tal senso dalla convenuta AUSL, aveva declinato la propria giurisdizione, sussistendo quella del giudice amministrativo, in conseguenza della opzione manifestata in ricorso per la responsabilita' contrattuale del datore di lavoro il quale, in tesi, avrebbe serbato un comportamento violativo degli obblighi contrattuali, imponendo un orario di lavoro massacrante. 1.2. Quindi, con l'atto introduttivo del presente giudizio, notificato alla controparte pubblica il 12 ottobre 2007 e depositato nella segreteria il successivo 8 novembre 2007, la ricorrente riproponeva la controversia dinanzi a questo Tribunale, deducendo la violazione da parte dell'Azienda sanitaria locale Roma C degli obblighi scaturenti dall'art. 2087 del codice civile, per averle imposto dei turni massacranti di lavoro nel precedente giorno del 1° luglio 1997 (ore 6,40-22,45) e il 2 luglio 1997 (ore 6,40-14,30) giorno nel quale, di ritorno a casa dal posto di lavoro alla fine di tale turno e nell'obbligato percorso verso la propria residenza sita in Mentana, alle 15.20, sulla via Palombarese perdeva come detto il controllo della macchina che, uscita di strada, andava a sbattere contro un albero. La ricorrente veniva quindi portata all'Ospedale Sandro Pertini di Roma dove le venivano riscontrate gravi lesioni fisiche (trauma toracico, frattura 1ª e 2ª costola, astragalo, radio e ulna sx, contusioni, sfondamento acetabolo, sospetta lussazione anca sx) ed era formulata una prognosi di novanta giorni; veniva successivamente sottoposta a interventi chirurgici e dimessa il 10 luglio 1997 per essere poi ricoverata al CTO e da li' nuovamente dimessa solo il 2 settembre 1997. 1.3. La ricorrente, ritenuti sussistenti tutti i presupposti per raccoglimento della domanda risarcitoria (tra i quali il nesso eziologico e la violazione dell'art. 2087 del codice civile, la necessita' dell'uso del veicolo privato, il sinistro avvenuto nel percorso obbligato lavoro-casa in orario strettamente conseguente a quello di fine turno) e di aver assolto l'onere probatorio su di lei gravante, chiedeva la condanna dell'ASL al risarcimento del danno biologico permanente (€ 135,709,55) e temporaneo (€ 7.228,80), del danno patrimoniale (€ 162.617,95), di quello esistenziale (€ 100.000,00) e del danno morale soggettivo (€ 50.879,27). 2. Ha resistito l'Azienda USL Roma C eccependo, in via pregiudiziale, il «difetto di giurisdizione» del g.a. ex art. 45, comma 17, del decreto legislativo n. 80/1998 e, in via preliminare di merito, la prescrizione dei crediti azionati, nonche' infine l'infondatezza del ricorso per carenza del nesso di causalita', con richiesta di chiamata in garanzia di Assitalia - Le Assicurazioni d'Italia. La ricorrente ha effettuato ulteriori produzioni documentali e ha depositato una memoria difensiva. 3. All'udienza del 13 aprile 2016, per come risulta dal relativo verbale, la Sezione ha trattenuto la causa in decisione dopo aver avvisato, ai sensi dell'art. 73, comma 3, codice del processo amministrativo, le parti comparse in ordine alla sussistenza di una questione di ricevibilita' del ricorso alla luce dell'art. 69, comma 7, del decreto legislativo n. 165/2001. 4. Quanto alla rilevanza della questione che viene sollevata con questa ordinanza, ritiene infatti il collegio che, nel caso di specie, debba essere fatta applicazione di tale ultima norma la quale - sul punto in termini non sostanzialmente innovativi rispetto al comma 1.7 dell'art. 45 del decreto legislativo n. 80/1998 - dispone testualmente che «Sono attribuite al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, le controversie di cui all'art. 63 del presente decreto, relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro successivo al 30 giugno 1998. Le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore a tale data restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000». 4.1. Secondo la giurisprudenza consolidata delle Sezioni unite della Cassazione, ai fini del riparto di giurisdizione di cui al citato disposto occorre, nello specifico, aver riguardo ai fatti materiali o ai provvedimenti della cui giuridica rilevanza si discute, ossia ai fatti o a provvedimenti sui quali si fonda, o da cui dipende, la pretesa dedotta in giudizio (cfr. Cass. SS.UU. 21 giugno 2010, n. 14895; 15 aprile 2010, n. 8984; 11 marzo 2008, n. 6418); sicche' secondo la Cassazione, se la lesione del diritto del lavoratore e' prodotta da un atto provvedimentale o negoziale deve farsi riferimento all'epoca della sua emanazione, mentre qualora la pretesa abbia origine, come nella fattispecie, da un comportamento illecito del datore di lavoro, deve farsi riferimento al momento della realizzazione del fatto dannoso (cfr Cass. SS.UU. 24 febbraio 2000, n. 41). 4.2. Cio' premesso, nel caso di specie e' emerso che il sinistro stradale e' avvenuto in data 2 luglio 1997, mentre il ricorso con il quale il ricorrente ha manifestato per la prima volta la propria pretesa risarcitoria dinanzi all'autorita' giurisdizionale (giudice del lavoro del Tribunale di Roma) - al quale occorre far risalire gli effetti sostanziali e processuali della domanda introduttiva del presente giudizio in base al principio della conservazione di cui alla c.d. traslatio iudicii - risale alla data dell'8 luglio 2002, e quindi ben oltre il giorno fissato dal legislatore nel 15 settembre 2000 a pena di decadenza (cfr. su caso analogo Tar Sicilia - Catania, sent. 13 febbraio 2015, n. 459). 5. Peraltro, la norma in questione e' ormai costantemente interpretata, sia dalla Cassazione sia dal Consiglio di Stato, nel senso che la scadenza del termine del 15 settembre 2000 preclude definitivamente alla parte la possibilita' di far valere il diritto dinanzi ad un giudice (cfr. SS.UU. 30 gennaio 2003, n. 1511 e 3 maggio 2005, n. 9101, nonche' Ad. plen. 2 febbraio 2007, n. 4). 5.1. Questo orientamento, per la verita', e' gia' stato sottoposto al vaglio della Corte costituzionale che non l'ha ritenuta in contrasto: a) con l'art. 3 della Costituzione, in quanto «la disparita' di trattamento tra i dipendenti privati e quelli pubblici, soggetti - relativamente ai diritti sorti anteriormente alla data del 30 giugno 1998 - ad un termine di decadenza, e' ragionevolmente giustificata dall'esigenza di contenere gli effetti, temuti dal legislatore come pregiudizievoli per il regolare svolgimento dell'attivita' giurisdizionale, prodotti dal trasferimento della competenza giurisdizionale al giudice ordinario e dal temporaneo mantenimento di tale competenza in capo ai tribunali amministrativi, ed in quanto e' ampia la discrezionalita' del legislatore nell'operare le scelte piu' opportune, purche' non manifestamente irragionevoli e arbitrarie, per disciplinare la successione di leggi processuali nel tempo»; b) con l'art. 24 della Costituzione, «dal momento che, da un lato, non e' certamente ingiustificata la previsione di un termine di decadenza e, dall'altro lato, tale termine (di oltre ventisei mesi) non e' certamente tale da rendere oltremodo difficoltosa la tutela giurisdizionale» (cfr., tra le altre, ord. n. 382 del 2005). 5.2. Tuttavia, rileva questo Tribunale, conformemente a quanto considerato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con la recente ordinanza di rimessione 8 aprile 2016, n. 6891, che queste conclusioni si rivelano oggi in contrasto con il principio declinato dall'art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, secondo l'interpretazione datane dalla Corte EDU di Strasburgo con le sentenze del 4 febbraio 2014 rese nel caso Mottola e altri C. Italia (29932/07) e nel caso Staibano e altri C. Italia (29907/07), nel senso che la legge italiana, nel fissare la decadenza prevista dal richiamato art. 69, comma 7, pone un ostacolo procedurale che costituisce una sostanziale negazione del diritto invocato ed esclude un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco. In particolare, in quelle pronunce la Corte di Strasburgo, preso atto dell'evoluzione giurisprudenziale, sia civile sia amministrativa, nell'interpretazione della norma in parola (in un primo momento orientatasi nel senso di ritenere che i ricorsi per questioni attinenti al periodo di rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998, dopo il 15 settembre 2000, avrebbero dovuto essere proposti non al giudice amministrativo, ove operava la decadenza, ma al giudice ordinario, in modo da garantire la fruizione della giurisdizione, e successivamente evolutasi nel senso che la decadenza comminata aveva carattere sostanziale, con il conseguente difetto assoluto di giurisdizione e la definitiva perdita del diritto di coloro che non avessero agito prima del 15 settembre 2000), considerava il difetto di un giusto equilibrio tra gli interessi pubblici e privati in gioco, cosicche' la decisione del Consiglio di Stato, nel ritenere realizzata la decadenza aveva privato i ricorrenti della legittima aspettativa di vedere riconosciuto, in quel caso, il loro diritto al trattamento previdenziale. Tenuto inoltre conto che il diritto a pensione, pur dando luogo ad un credito prestazione, avrebbe costituito un bene della persona ove stabilmente riconosciuto, la Corte riteneva violati l'art. 6, comma 1, della Convenzione e l'art. 1 del Protocollo aggiuntivo n. 1. 5.3. Rileva in proposito il collegio come, a seguito delle pronunce della Corte EDU, i ricorrenti in quei processi abbiano adito il Consiglio di Stato chiedendo a quel giudice di prendere atto della sentenza della Corte europea per i diritti umani e da essa trarre tutte le conseguenze che, nell'ordinamento italiano, ne derivano ai sensi dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, come interpretato dalla Corte costituzionale e, in conformita' al sistema di tutela dei diritti convenzionali previsto come interpretato dalla Corte europea, di essere rimessi nei termini di legge con applicazione dell'art. 45, comma 17, del decreto legislativo n. 80 del 1998, oggi art. 69, comma 7, del testo unico n. 165/2001, nella sola interpretazione resa possibile dalla sentenza della Corte europea, e cioe' nel senso della perdurante giurisdizione amministrativa, delle controversie riguardanti vicende del pubblico impiego, precedenti la traslazione della giurisdizione (cfr. la ricostruzione in fatto di Ad. plen. n. 5 del 2015 che, per parte sua, ha rimesso alla Consulta la questione di costituzionalita' dell'art. 106 del codice del processo amministrativo e degli articoli 395 e 396 del codice di procedura civile, in relazione agli articoli 117, primo comma, 111 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono un diverso caso di revocazione della sentenza quando cio' sia necessario, ai sensi dell'art. 46, paragrafo 1, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, per conformarsi ad una sentenza definitiva della Corte europea dei diritti dell'uomo). 5.4. Ora, essendo l'evidente contrasto tra norma nazionale e norma convenzionale insuperabile in sede interpretativa, in ragione della ormai consolidata interpretazione sopra riferita che costituisce diritto vivente, viene in rilievo la questione relativa ad un insanabile contrasto della norma di cui all'art. 69, comma 7, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 con l'art. 117, primo comma, della Costituzione nella parte in cui prevede che la potesta' legislativa sia esercitata dallo Stato nel rispetto degli obblighi internazionali, quale l'obbligo assunto con l'adesione alla Convenzione EDU, ratificata e posta in esecuzione con la legge 4 agosto 1955, n. 848. 5.5. Di fronte a tale dubbio il giudice e' tenuto a risolvere il contrasto sollevando apposita questione di legittimita' costituzionale della disposizione di legge, in ragione del noto principio piu' volte affermato dalla Corte costituzionale, secondo cui le norme della Convenzione, cosi' come interpretate dalla corte di Strasburgo, assumono rilevanza nell'ordinamento interno quali norme interposte, assumendo esse un'efficacia intermedia tra legge e Costituzione, idonea a dare corpo agli «obblighi internazionali» costituenti parametro normativo cui l'art. 117, primo comma, della Costituzione ricollega l'obbligo di conformazione (vedi le sentenze numeri 348 e 349 del 2007, nonche' Ad. Plen. n. 2 del 2015). 6. In conclusione, e' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 69, comma 7, del decreto legisaltivo, 30 marzo 2001, n. 165, per contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevede che le controversie relative a questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro anteriore al 30 giugno 1998 restano attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo qualora siano state proposte, a pena di decadenza, entro il 15 settembre 2000.