LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Prima Sezione Penale 
 
    Composta da: 
        Mariastefania di Tomassi - Presidente 
        Vincenzo Siani 
        Gaetano di Giuro 
        Antonio Minchella - Rel. Consigliere - 
        Alessandro Centonze 
  ha pronunciato la seguente 
    Ordinanza sui ricorsi proposti da: 
        G. C. nato ... il ... a ... 
        M. R. nato ... il ... a ... 
        M. A. nato ... il ... a ... 
        F. E. nato ... il ... a ... 
        A. M. nato ... il ... a ... 
        TR R. nato ... il ... a ... 
    avverso la sentenza del 14 dicembre 2015 della Corte  appello  di
Bologna; 
    Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
    Udita la relazione svolta dal Consigliere Antonio Minchella; 
    Udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore
Alfredo 
    Pompeo  Viola  che  ha  concluso  per  l'inammissibilita'   sulla
sollevata questione di legittimita' costituzionale; 
  e chiede il rigetto di tutti i ricorsi 
    Udito il difensore 
    E' presente l'avvocato Diddi  Alessandro  del  Foro  di  Roma  in
difesa di: 
        M. A. e F. E. anche in sostituzione  dell'avvocato  De  Fazio
Gianluca del Foro di Roma. 
    E' presente l'avvocato Apa Nicola  del  Foro  di  Roma  anche  in
sostituzione dell'avvocato Alleva Guido Carlo del Foro di  Milano  in
difesa di M. R., giusta delega depositata in udienza. 
    E' presente l'avvocato Amodio Ennio del Foro di Milano in  difesa
di G. C. 
    E' presente l'avvocato Coppi Franco Carlo del  Foro  di  Roma  in
difesa di G. C. 
    E' presente l'avvocato Onida Valerio del Foro di Milano in difesa
di A. M. 
    E' presente l'avvocato Bana Giuseppe del Foro di Milano in difesa
di T. R. 
    E' presente l'avvocato Randazzo Barbara del  Foro  di  Milano  in
sostituzione dell'avvocato Pulitano' Domenico del Foro di  Milano  in
difesa di A. M., giusta delega depositata in udienza. 
    E'  presente  l'avvocato  Ricci  Barbini  Carlo  in  sostituzione
dell'avvocato Bottiglieri Alessandro del Foro di  Bologna  in  difesa
delle parti civili: 
        C. V., R. B., S. A.,T .D. e T. A.; 
    anche in sostituzione dell'avvocato Calderone Tommaso del Foro di
Barcellona Pozza di Gotto per le parti civili: 
        A. F., A. E. G., B. E., B. G. S., B. G. T., B. A., B. G.,  B.
S., C. L., C. S., C. T., C. S., C. S., C. G., D. P. A., F. S., F. G.,
F. C., I. S., I. F., L. R. F., L. R. G., L. A. N., M. F., M.  P.,  M.
S., P. D., P. C., Q. G., R. G., S. A., S. A., S. A., S. S., S. F. B.,
T. C., T. A. e Z. S.; giusta delega depositata in udienza. 
    E' presente l'avvocato Altana Isabella del Foro di Catania per le
parti civili M. A., P. F., F. G. e S. L.; 
    anche in sostituzione dell'avvocato Campilii  Anna  del  Foro  di
Parma in difesa delle parti civili: 
        B. A., B. A., P. F., F. E., F. L., U. P., C., G., F., L.,  C.
F. C., D. D. M., G. F., L. P. e R.D.;  giusta  delega  depositata  in
udienza. 
    E' presente l'avvocato Baj Luca del Foro  di  Bergamo  in  difesa
delle parti civili  G.  M.  R.  piu'  altri,  anche  in  sostituzione
dell'avvocato Tanza Antonio del Foro di Lecce per le parti civili  A.
G. piu' 143, giusta delega depositata in udienza e per  delega  orale
dell'avvocato  Panzeri  Luca  del  Foro  di  Milano  e  dell'avvocato
Costelli Marisa Franca del Foro di Milano. 
    L'avvocato Onida e l'avvocato  Randazzo  chiedono  che  la  Corte
sollevi la questione di leggittimita' costituzionale. 
    I difensori degli altri ricorrenti si associano alla richiesta. 
    I  difensori  delle  parti  civili  presenti  si  associano  alle
conclusioni del PG, depositano le conclusioni e la nota spese. 
    L'avvocato Diddi chiede l'accoglimento del ricorso. 
    L'avvocato Bana chiede l'accoglimento dei motivi di ricorso. 
    L'avvocato Apa  si  riporta  ai  motivi  di  ricorso  chiedendone
l'accoglimento. 
    L'avvocato Amodio chiede l'accoglimento dei motivi di  ricorso  e
l'annullamento della sentenza impugnata. 
    L'avvocato Coppi si associa alle conclusioni del codifensore. 
    L'avvocato Onida e l'avvocato Randazzo si riportano ai motivi  di
ricorso e ne chiedono l'accoglimento 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1. Gli eventi di cui al processo in esame  si  inseriscono  nella
piu' ampia vicenda relativa al tracollo del gruppo Parmalat  e  delle
societa' riconducibili alla famiglia T., il cui stato  di  insolvenza
culmino' (tra il 2003 e il 2004) nella dichiarazione di fallimento di
molte compagini (Parmalat, Parmatour, Parmalat Finanziaria ed altre);
gli  addebiti  molteplici  si  collegano  alla  concessione   di   un
prestito-ponte (destinato a soddisfare esigenze di  liquidita'  nelle
more della definizione di una complessiva ristrutturazione dei debiti
e dei flussi creditori nei confronti di istituti bancari) pari  a  50
milioni di euro da parte di Banca di Roma  a  Parmalat  S.p.a.  e  da
quest'ultima  veicolato  in  parte  al  sottogruppo  turismo  -  gia'
versante in stato di virtuale decozione - e in parte  utilizzato  per
il  pagamento  di  una  rata  del  prezzo  dell'azienda  «Ciappazzi»,
caldeggiato in modo pressante dal gruppo Capitalia - verso cui  T.  e
Parmalat erano fortemente indebitati - il  quale  era  interessato  a
ristrutturare  il  debito  del  gruppo  Ciarrapico,  che  versava  in
condizioni critiche e che  era  grande  debitore  di  Capitalia.  Gli
imputati erano appartenenti al ceto bancario  e  finanziario  da  cui
erano scaturite le operazioni incriminate:  G.  quale  presidente  di
Capitalia, T. quale responsabile dell'Area legale ed affari  generali
dapprima di Banca di Roma e poi  di  Capitalia,  A.  quale  Direttore
generale di Capitalia, F. quale responsabile  della  funzione  «Large
Corporate» di Capitalia; M. quale responsabile della funzione Crediti
di Capitalia, M. quale Direttore centrale di Banca di Roma. 
    1.1.  G.  rispondeva  del  capo  A)  della  rubrica   (bancarotta
impropria  continuata  e  fatti  di  bancarotta  semplice  per  avere
assicurato l'appoggio  finanziario  al  gruppo  turistico  Tanzi,  in
assenza dei presupposti di merito creditizio: pur consapevole che  il
gruppo emetteva bonds per fronteggiare costanti perdite e distrazioni
di fondi  occultate  in  modo  sempre  piu'  grossolano,  egli  aveva
comunque assicurato a T. un fondamentale  contributo  per  consentire
una artificiosa sopravvivenza che aggravava ancor piu' il  dissesto).
G. rispondeva anche del capo B) della rubrica  (bancarotta  impropria
fraudolenta in concorso, per avere concordato  con  T.  l'impiego  di
risorse  per  attuare  finalita'  illecite  e  realizzare   interessi
dell'istituto  di  credito  connessi  alla   ristrutturazione   delle
esposizioni vantate nei  confronti  del  Gruppo  Ciarrapico,  facendo
pressioni su T. per fargli  acquistare  l'azienda  Ciappazzi  per  un
prezzo esorbitante nonostante avesse valore nullo, profittando  della
impellente necessita' di T. di ottenere il prestito-ponte). 
    Il capo  C)  della  rubrica  comprendeva  condotte  criminose  di
bancarotta impropria e fatti di bancarotta semplice poste  in  essere
dagli altri imputati in concorso comunque con T. 
    Per il capo D) della rubrica si giungeva  alla  prescrizione  del
reato di usura, dichiarata in sede di legittimita'. 
    Quanto agli altri imputati. 
    M., F., M., A. e T. rispondevano del  capo  C)  della  rubrica  e
cioe' di bancarotta impropria continuata e  di  fatti  di  bancarotta
semplice nonche' distrattiva per avere concorso con  G.  e  T.  nella
consumazione di varie condotte criminose descritte analiticamente nel
capo A e nel capo B (ritardare la dichiarazione di  insolvenza  delle
societa'  del  gruppo  Parmalat/Tanzi;  indebitare  Parmalat  per  50
milioni di  euro  attraverso  un  finanziamento  di  Banca  di  Roma;
organizzare una convenzione  interbancaria  di  ristrutturazione  del
debito del gruppo Viaggi integralmente  basata  su  di  un  piano  di
rilancio industriale non credibile per  macroscopiche  falsificazioni
del valori patrimoniali; prorogare il finanziamento-ponte  nonostante
la palese decozione del gruppo; stipulare la convezione interbancaria
che occultava la reale situazione debitoria; distrarre  in  parte  il
patrimonio della societa' Parmalat e Cosal con operazioni strumentali
connesse  ad  una  ristrutturazione  delle  esposizioni  del   gruppo
Ciarrapico). 
    A. F. era stato contestato di avere partecipato  all'approvazione
del parere favorevole all'erogazione del finanziamento-ponte da parte
di Capitalia, contribuendo poi ad attuare una strategia dilatoria che
permetteva di fare pressione su T. per assentire ad  una  transazione
nonche' alla ritenzione di fondi necessari al pagamento della seconda
rata di vendita dell'azienda «Ciappazzi». 
    A. M. era stato contestato di avere partecipato  alle  trattative
per la definizione del piano  di  ristrutturazione,  curando  l'avvio
della procedura di  approvazione  del  finanziamento,  proponendo  al
Comitato  Crediti  di  Capitalia  di  esprimere   parere   favorevole
all'adesione di varie banche del  gruppo  alla  ristrutturazione  del
gruppo turistico Tanzi e partecipando alle trattative per la  proroga
del finanziamento-ponte. 
    A.  T.  era  stato   contestato   di   avere   coadiuvato   nella
realizzazione  della  strategia  dilatoria  che  permetteva  di  fare
pressione a T., trasmettendo le direttive per la sospensione dapprima
e la riattivazione poi dell'operativita' del finanziamento-ponte. 
    Ad A. era stato contestato di avere attivamente partecipato  alle
operazioni  necessarie  per  la  concessione   e   il   rinnovo   del
finanziamento-ponte e a quelle  di  realizzazione  della  convenzione
interbancaria relativa al progetto  di  ristrutturazione  del  gruppo
turistico Tanzi. 
    A. M. era stato  contestato  di  avere  dato  impulso  alla  fase
istruttoria  del  finanziamento-ponte,  di  avere  partecipato   alla
redazione  del  parere  della  Struttura  di  supporto  degli  Organi
deliberanti  inserendovi  un  riferimento  (strumentale)  a  presunte
esigenze stagionali della Tesoreria Parmalat e infine  proponendo  al
Comitato crediti l'approvazione del finanziamento. 
    1.2. Il Tribunale di Parma, con  sentenza  in  data  29  novembre
2011, aveva condannato gli imputati nel modo seguente: A.  alla  pena
di anni tre e mesi sette di reclusione; M. e F. alla pena di anni tre
e mesi tre di reclusione ciascuno; 
    M. ad anni tre e mesi tre di reclusione; T. ad anni  tre  e  mesi
quattro di reclusione; G. ad  anni  cinque  di  reclusione.  Tutti  i
suddetti imputati erano stati dichiarati inabilitati all'esercizio di
una impresa commerciale ed incapaci ad  esercitare  uffici  direttivi
presso qualsiasi  impresa  per  la  durata  di  anni  dieci,  nonche'
interdetti dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. A  dette
condanne si aggiungevano le statuizioni civili. 
    2. A seguito di impugnazione degli imputati, la Corte di  appello
di  Bologna  con  sentenza  in  data   7   giugno   2013   confermava
integralmente la condanna di primo grado. 
    3. La Corte di cassazione, Quinta Sezione penale, con sentenza in
data 5 dicembre 2014 dichiarava inammissibili o  infondati  per  gran
parte i ricorsi proposti dagli imputati. In particolare,  per  quanto
rileva ai  fini  della  presente  decisione,  riteneva  inammissibile
l'eccezione di legittimita' costituzionale relativa alla misura fissa
decennale della durata delle  pene  accessorie,  sulla  scorta  della
sentenza  n.  134  del   2012   della   Corte   costituzionale   che,
nell'affrontare analoga questione, l'aveva ritenuta inammissibile  in
quanto  relativa  a  materie  riservate  alla  discrezionalita'   del
Legislatore e rivolta a chiedere una pronunzia addittiva a  contenuto
non costituzionalmente obbligato, e cioe' un intervento  manipolativo
consistente   nell'inserire   la   locuzione   «fino    a»    dinanzi
all'indicazione della  durata  edittale,  cosi'  da  configurare  una
forbice  idonea  a  garantire,  in  sede  applicativa,   un'effettiva
dosimetria  della  sanzione  accessoria.  Osservava   la   Corte   di
legittimita' che la questione nuovamente promossa (dal ricorrente F.)
- pur nella diversa prospettiva di provocare l'eliminazione dal testo
della norma la formula «per la durata di  dieci  anni»,  in  modo  da
rendere indeterminata la previsione sanzionatoria e ricondurla  nella
sfera di operativita' della disposizione generale di cui all'art.  37
cod. pen. - era dunque  parimenti  inammissibile,  rilevando  che  la
sentenza n. 134 del 2012 aveva ricordato che  soltanto  in  linea  di
principio le previsioni sanzionatorie determinate in misura fissa non
erano in armonia con il «volto costituzionale» del sistema penale, ma
che, nel caso  concreto,  considerata  la  natura  dell'illecito,  la
misura della sanzione poteva anche essere considerata  proporzionata:
e comunque, anche nella nuova riproposizione, la questione tendeva  a
provocare una pronunzia a contenuto costituzionalmente non obbligato,
poiche'  l'eliminazione  prospettata  non   era   l'unica   soluzione
possibile  per  rimediare  all'eventuale  sproporzione,  potendo   il
legislatore ritenere necessaria la predeterminazione in misura  fissa
ma magari ridotta oppure utile la previsione di una cornice  edittale
con una gamma differenziata rispetto a quella della pena  principale.
La questione quindi suggeriva un intervento non soltanto demolitorio,
ma anche intrinsecamente  manipolativo,  apparendo  cosi'  funzionale
all'esercizio di un potere che esulava da  quelli  che  competono  al
giudice delle leggi. 
    Con riferimento specifico ai  reati  contestati,  riteneva,  poi,
assorbito il capo A1) - relativo al finanziamento-ponte  di  circa  €
46.500.000,00 - in quello di bancarotta per  distrazione  di  cui  al
capo B) ed annullava la sentenza con riferimento al G., al M., al  F.
e all'A. limitatamente al capo  A3)  come  richiamato  nel  capo  C).
Annullava, altresi', la sentenza della Corte di appello nei confronti
del G. limitatamente al reato di cui al capo A4), rinviando per nuovo
giudizio  e  rideterminazione  del  trattamento  sanzionatorio,   ove
necessario. 
    A ragione, osservava che  il  15  aprile  2003  il  Consiglio  di
amministrazione della Banca di Roma  aveva  deliberato  di  prorogare
l'originario finanziamento di 50 milioni di euro concesso a  Parmalat
-  considerato  distrattivo  -  sostituendolo  con  quattro  prestiti
dell'importo di 12,5 milioni di euro  ciascuno  a  scadenze  diverse,
cosi' confermando l'obbligo di restituzione gravante su Parmalat  per
un finanziamento di cui essa non aveva goduto poiche'  adoperato  per
pagamenti al gruppo Turismo  e  Cosal  (quest'ultimo  per  l'acquisto
abnormemente   sovrastimato   dell'azienda   Ciappazzi   del   gruppo
Ciarrapico). La decisione di Parmalat di chiedere una proroga onerosa
del finanziamento era certamente addebitabile  al  ceto  gestorio  di
quella societa', tuttavia, per poterlo addebitare anche al creditore,
occorreva  stabilire  quale  fosse   stato   l'effettivo   contributo
concorsuale, che non poteva identificarsi con la  mera  decisione  di
concedere la proroga.  Detto  aspetto  non  era  stato  adeguatamente
esaminato dalla sentenza di condanna. 
    4. Il giudizio di rinvio veniva definito dalla Corte  di  appello
di Bologna il 14 dicembre 2015. 
    Rilevava  la  Corte  di  merito   che   il   capo   A3)   oggetto
dell'annullamento faceva riferimento alla proroga del  prestito-ponte
e concludeva per l'assoluzione di G., i M., i F.  e  A.  poiche'  non
risultava una loro responsabilita' concorsuale. 
    Perveniva alla medesima conclusione per il capo A4 (stipula della
convenzione  interbancaria  con   cui   era   stata   consentita   la
ristrutturazione  dell'indebitamento  del  comparto  turistico  delle
societa'  del  T.),  rilevando  che  tutte  le  emergenze  probatorie
offrivano soltanto supporti indiziari di  natura  logica,  ma  nessun
altro elemento oltre quelli gia' ritenuti insufficienti  dalla  Corte
di cassazione; assolveva quindi anche con riferimento al capo A4). 
    Quanto al trattamento sanzionatorio, premesso che il capo A1)  di
bancarotta societaria era stato gia'  ritenuto  assorbito  nei  fatti
distrattivi di cui al capo B), la Corte di appello  rideterminava  le
pene complessive: per G. in anni quattro e mesi  sei  di  reclusione;
per M. in anni tre e mesi due di. reclusione; per F. in  anni  due  e
mesi due di reclusione; per A. in anni tre e mesi sei di  reclusione;
per M. in anni tre e mesi due di reclusione; per T.  in  anni  tre  e
mesi tre di reclusione. Confermava per tutti le pene accessorie sopra
indicate. 
    La Corte territoriale nella sentenza citata esaminava  nuovamente
il tema della  legittimita'  costituzionale  del  combinato  disposto
degli artt. 216 e 223 legge fallimentare nella parte in cui prevedono
che,  per  ogni  ipotesi  di  condanna  per  i  fatti  di  bancarotta
sanzionati, si  applichino  le  pene  accessorie  dell'inabilitazione
all'esercizio  di  un'impresa  commerciale  e   dell'incapacita'   ad
esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per  la  durata,
in misura fissa, di dieci anni (questione sollevata dai difensori  di
M. A. con riferimento agli  artt.  3,  4  e  27  Cost.).  La  censura
evidenziava che tali pene accessorie conseguono  a  comportamenti  di
gravita' assolutamente diversa, essendo  profondamente  differenziate
le varie condotte sussunte nella norma  incriminatrice  -  bancarotta
distrattiva, dissipativa, documentale, preferenziale -  difformi  tra
loro sul piano oggettivo e punite con  una  pena  che  spazia  in  un
ambito ampio,  e  cioe'  da  tre  a  dieci  anni  di  reclusione;  al
contrario, la misura fissa della durata delle pene accessorie  poteva
prolungarsi ben oltre la durata della pena principale,  senza  alcuna
reale giustificazione e violando  il  principio  di  eguaglianza.  La
Corte di appello, in risposta,  osservava  previamente  che  identica
questione era stata sollevata dalla  difesa  F.  (con  prospettazione
della violazione dell'art. 27, comma terzo, Cost.) con il ricorso per
Cassazione e  che  la  Corte  di  cassazione  ne  aveva  statuito  la
inammissibilita': da cio' traeva la conclusione dell'inammissibilita'
dell'identica  questione  nel  giudizio  di   rinvio,   nel   occorre
uniformarsi alla decisione rescindente per  cio'  che  concerne  ogni
questione  di  diritto  decisa;  in  proposito,  opinava   la   Corte
territoriale che i precedenti giurisprudenziali  (tanto  della  Corte
costituzionale quanto  della  Corte  di  cassazione)  non  lasciavano
spazio ad una possibilita' di deroga all'obbligo di  conformarsi  del
giudice del rinvio, prevedendo essi questa possibilita' in  relazione
ad ipotesi di  «nuovo»  dubbio  di  costituzionalita'  o  di  novelle
normative o di intervenute sentenze della Corte di giustizia europea,
e non anche nell'ipotesi di riproposizione della  medesima  questione
negli stessi termini. Nondimeno (pur considerando l'applicazione e la
durata della pena accessoria interdittiva come  un  aspetto  gia'  in
giudicato parziale per  tutti  gli  imputati  che  avevano  riportato
condanna),  la  Corte  territoriale  rilevava  che  la  questione  di
legittimita' costituzionale  poteva  considerarsi  formalmente  nuova
nella parte riferita  alla  violazione  dei  precetti  costituzionali
posti dagli artt. 3 e 4  Cost.,  in  precedenza  non  richiamati,  ma
veniva comunque ritenuta manifestamente infondata. In primo luogo, si
notava che, nel caso concreto, il  trattamento  sanzionatorio  doveva
determinarsi con riferimento ad ipotesi pluriaggravate di bancarotta,
la cui pena massima edittale era superiore  alla  durata  delle  pene
accessorie; in secondo luogo, si sottolineava che le pene  accessorie
avevano anche una  specifica  funzione  specialpreventiva  e  che  il
sistema penale conosceva sanzioni accessorie «perpetue»  (perdita  di
potesta' genitoriale, esclusione dai diritti successori, interdizione
da funzioni tutoriali) che  prescindono  dalla  commisurazione  della
pena principale e che si  connettono  a  violazioni  della  normativa
considerate particolarmente significative in senso negativo; in terzo
luogo, l'importanza della correttezza dell'agire commerciale -  posta
al centro dell'attivita' sociale  e  del  bene  comune  dei  traffici
economici   -   rendeva   non   irragionevole   (nell'ambito    della
discrezionalita' della potesta'  normativa)  che  le  norme  poste  a
presidio di quella correttezza si commisurassero  ad  un  periodo  di
durata fissa ritenuta congrua rispetto a finalita'  specialpreventive
e  risocializzanti.  Di   conseguenza,   pur   annotando   la   Corte
territoriale che il sistema complessivo necessitava di  una  riforma,
la  previsione  afflittiva  di  una  durata  fissa  anche  in  misura
superiore al minimo edittale o alla pena concretamente irrogata,  non
violava il principio di eguaglianza ne'  la  tutela  del  diritto  al
lavoro, la cui diminuzione era  giustificata  nel  bilanciamento  con
altre esigenze pubblicistiche. 
    Avverso detta  sentenza  hanno  proposto  ricorso  gli  imputati,
chiedendone l'annullamento. 
    5. Ricorso E. F. a mezzo del difensore, avv. Alessandro Diddi. 
    5.1. Con il primo motivo ripropone la questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  216,  ultimo  comma,  legge  fallimentare,
poiche' predetermina in misura fissa le pene accessorie  sganciandole
dalla considerazione della specifica gravita' dei comportamenti cosi'
accomunando condotte e situazioni molto eterogenee. 
    5.2. Con il secondo motivo deduce omessa od illogica  motivazione
circa l'aumento di pena a titolo di continuazione. 
    5.3. Con il terzo motivo deduce erronea applicazione di legge per
avere la sentenza escluso  la  circostanza  attenuante  della  minima
partecipazione a causa del numero dei partecipanti, che pero' non era
mai stato contestato formalmente. 
    5.4.  Con  il  quarto  motivo  deduce   inosservanza   di   norme
relativamente alla conferma delle statuizioni  civilistiche  poiche',
pur con una assoluzione per parte della condotta, non  vi  era  stata
modifica delle statuizioni sugli interessi civili. 
    6. Ricorso A. M. a mezzo dei difensori, avv. Gianluca De Fazio  e
avv. Alessandro Diddi. 
    6.1. Con il primo motivo ripropone la questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art.  216,  ultimo  comma,  legge  fallimentare,
poiche' predetermina in misura fissa le pene accessorie  sganciandole
dalla considerazione della specifica gravita' dei comportamenti cosi'
accomunando condotte e situazioni molto eterogenee. 
    6.2. Con il secondo motivo deduce erronea applicazione  di  legge
nel  non  avere  il  giudice  ritenuto  prevalenti   le   circostanze
attenuanti generiche. 
    6.3. Con il terzo motivo deduce omessa  od  illogica  motivazione
circa l'aumento a titolo di continuazione. 
    6.4. Con il quarto motivo deduce erronea  applicazione  di  legge
per avere la sentenza escluso la circostanza attenuante della  minima
partecipazione a causa del numero dei partecipanti, che pero' non era
mai stato contestato formalmente. 
    6.5.  Con  il  quinto  motivo  deduce   inosservanza   di   norme
relativamente alla conferma delle statuizioni  civilistiche  poiche',
pur con una assoluzione per parte della condotta, non  vi  era  stata
modifica delle statuizioni sugli interessi civili. 
    7. Ricorso C. G. a mezzo dei difensori, avv. Franco Coppi ed avv.
Ennio Amodio. 
    7.1. Con il primo motivo  deduce  mancanza  e  contraddittorieta'
della motivazione, lamentando che, nonostante il venire meno  di  ben
quattro declaratorie di colpevolezza su sette,  la  pena  complessiva
finale inflitta era di soli sei mesi inferiore a quella originaria, e
la pena-base era stata individuata non tenendo conto dell'assoluzione
per il capo A3). 
    7.2. Con il secondo motivo deduce erronea applicazione di  legge:
denuncia che il giudice di rinvio aveva ritenuto che all'interno  del
capo B)  residuassero  due  distinti  fatti  di  bancarotta,  con  la
conseguenza di rendere applicabile l'art. 219, comma secondo,  n.  1,
legge fallimentare: in realta' proprio la Corte  di  cassazione,  nel
dichiarare assorbito il capo Al) nel capo B), aveva  ritenuto  quelle
operazioni come un unicum. 
    In ogni caso, poi, il giudizio  di  equivalenza  tra  circostanze
attenuanti e circostanze aggravanti era stato  generico  e  privo  di
congrua motivazione, soprattutto alla luce delle assoluzioni per  due
capi di imputazione. 
    7.3. Con il terzo motivo deduce  mancanza  ed  illogicita'  della
motivazione:  censura  la  misura  dell'aumento  di   pena   per   la
continuazione, che  era  rimasto  uguale  nonostante  originariamente
fosse motivato dalla condanna per  due  distinti  reati,  mentre  era
ormai venuto meno il reato di cui al capo A4), con radicale mutamento
della catena di episodi ravvisati in continuazione. 
    8. Ricorso R. T. a mezzo dei difensori,  avv.  Giuseppe  Bana  ed
avv., Giorgio Perroni. 
    8.1. Con il primo motivo deduce erronea  applicazione  di  legge:
sostiene che  la  Corte  territoriale  non  si  era  uniformata  alla
decisione della Corte di legittimita', la  quale  aveva  ritenuto  la
necessita' di rimodulare  il  trattamento  sanzionatorio,  con  nuova
valutazione nel merito e non un semplice scomputo. 
    8.2. Con il secondo motivo deduce erronea applicazione  di  legge
in merito alla pena inflitta,  ritenuta  sproporzionata  per  la  non
ritenuta prevalenza delle circostanze attenuanti generiche. 
    9. Ricorso R. M. a mezzo dei difensori, avv. Guido  Carlo  Alleva
ed avv. Nicola Apa. 
    9.1. Con il primo motivo deduce erronea applicazione di  legge  e
manifesta   illogicita'   della    motivazione    relativamente    al
bilanciamento tra circostanze  ed  alla  determinazione  della  pena,
effettuata senza considerare che la  condotta  addebitata  era  stata
realizzata in un limitato arco di tempo e senza effettuare una  reale
verifica della condotta del ricorrente. 
    9.2.  Con  il  secondo  motivo  censura  poi  la  ritenuta   mera
equivalenza delle circostanze attenuanti generiche  alle  circostanze
aggravanti contestate. 
    10. Ricorso M. A. a mezzo dei difensori, avv.  Valerio  Onida  ed
avv. Domenico Pulitano'. 
    10.1. Con il primo motivo deduce, con il  primo  motivo,  erronea
applicazione di legge e manifesta illogicita' della motivazione circa
la commisurazione della pena: la pena era stata ridotta  di  un  solo
mese, senza considerare l'assorbimento di un reato in  un  altro,  la
marginalita'  di'  condotta  e  la  mancanza  di  interessi  illeciti
personali. 
    10.2. Con il secondo  motivo  denunzia  violazione  di  legge  in
relazione alla questione di costituzionalita' dell'art.  216,  ultimo
comma, legge fallimentare, proposta con riferimento all'art. 27 della
Costituzione relativamente alla durata fissa  della  pena  accessoria
interdittiva. 
    La  Corte  territoriale  aveva  ritenuto  preclusa  la  questione
poiche' gia' affrontata dalla Corte di Cassazione; ma  l'applicazione
di quella norma veniva in rilievo soltanto con la condanna,  per  cui
la questione andava affrontata in sede di rinvio.  La  questione  non
poteva   ritenersi   inammissibile   e   non    appariva    legittima
l'applicazione di una norma  basata  su  concezioni  di  tradizionale
autoritarismo,  ormai  superata  da   principi   costituzionali   che
impongono  di  rifuggire  da  sanzioni  in  misura  fissa.  La  norma
censurata appare inoltre in contrasto con  l'art.  8  CEDU  (relativo
alla vita privata, rispetto al quale le limitazioni vanno considerate
come ingerenze nel godimento  del  diritto  al  rispetto  della  vita
professionale) e con  l'art.  14  CEDU  (relativo  al  godimento  dei
diritti di proprieta' ed uso dei beni). Ripropone, per l'effetto,  la
questione menzionata. 
    Con successiva memoria,  a  firma  dei  difensori  avv.  Domenico
Pulitano' e avv. Valerlo Onida, venivano ulteriormente  sviluppati  i
denunziati   profili   di   illegittimita'   costituzionale;   veniva
illustrata  ancora  l'assenza   di   preclusione   (ritenuta   invece
sussistente dalla Corte di  appello)  all'esame  della  questione  di
legittimita' costituzionale medesima, evidenziando che la valutazione
della sussistenza dei requisiti per la sollevazione di una  questione
di legittimita' costituzionale  non  costituisce  una  «questione  di
diritto decisa» ai sensi dell'art. 627, comma 3, codice di  procedura
penale poiche' la norma indicata dalla Corte di cassazione  deve  poi
essere applicata nel giudizio di rinvio ed il giudice di  rinvio  non
puo'  non  essere  legittimato   ad   eccepire   una   illegittimita'
costituzionale (la memoria richiama l'ordinanza n. 118 del 2016 della
Corte Costituzionale). In ogni caso,  la  questione  dedotta  dinanzi
alla Corte di Appello di Bologna era diversa e piu' ampia rispetto  a
quella non accolta dalla Corte  di  Cassazione  con  la  sentenza  di
annullamento parziale, non chiedendo essa di eliminare dal  testo  di
una norma una limitata formula («per la durata di dieci anni»), ma di
dichiarare  l'illegittimita'  costituzionale  degli  articoli   2016,
ultimo comma, e 223,  ultimo  comma,  legge  fallimentare  in  quanto
comportanti l'automatica applicazione della pena accessoria in misura
fissa e senza alcun apprezzamento del caso concreto. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1. I ricorsi oggetto di esame attengono tutti, nella sostanza, al
trattamento sanzionatorio e le censure relative alle pene  principali
inflitte - ivi comprese quelle con cui si sostiene la unitarieta' del
fatto di bancarotta per distrazione riferibile  al  patrimonio  della
medesimo ente, ancorche' posto in essere con  pluralita'  di  atti  o
dando al compendio distratto  diverse  destinazioni  (Sezione  U,  n.
21039 del 27 gennaio 2011, L) - potrebbero  in  larga  misura  essere
risolte direttamente in questa sede. 
    Non altrettanto, invece, puo' dirsi  per  le  doglianze  riferite
alla durata delle pene accessorie inflitte. 
    2. Nella sentenza di annullamento con  rinvio,  a  seguito  della
quale e' stata pronunziata  la  sentenza  oggi  impugnata,  e'  stato
affermato il  principio  di  diritto  che,  «stante  l'inequivocabile
tenore letterale dell'ultimi comma dell'art. 216 legge  fallimentare,
deve  ritenersi   legittimamente   applicata   la   pena   accessoria
dell'inabilitazione  all'esercizio  di  una  impresa  commerciale   e
[dell'] incapacita' di esercitare uffici direttivi  presso  qualsiasi
impresa nella misura di dieci  anni  e,  pertanto,  anche  in  misura
superiore a quella della pena  principale  inflitta,  trattandosi  di
pene accessorie la cui durata e' fissata dal  legislatore  in  misura
determinata e fissa e, quindi, a prescindere dalla durata della  pena
principale, con conseguente inapplicabilita' dell'art. 37 del  codice
penale e del potere del giudice  di  modularne  la  durata».  E  tale
interpretazione, vincolante per il giudice di rinvio, non puo' essere
piu'  posta  in  discussione,   neppure   nel   nuovo   giudizio   di
legittimita',  rappresentando  la  regola   iuris   a   cui   occorre
conformarsi per il caso concreto in esame. 
    Tanto  posto,  deve  essere  esaminata  la  rilevanza  e  la  non
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
degli articoli 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma, regio  decreto
16 marzo 1942,  n.  267  (recante  «disciplina  del  fallimento,  del
concordato preventivo e della liquidazione  coatta  amministrativa»),
nella parte in cui prevedono  che  la  condanna  per  uno  dei  fatti
previsti in detti articoli importa l'inabilitazione all'esercizio  di
una  impresa  commerciale  e  la  incapacita'  ad  esercitare  uffici
direttivi presso qualsiasi impresa  per  la  durata  di  dieci  anni,
prospettata con riferimento agli articoli 3, 4, 41, 27 e  117,  primo
comma, Costituzione, quest'ultimo in relazione agli articoli 8 CEDU e
1 Protocollo n. 1 CEDU. 
    3. Quanto a rilevanza, non puo' condividersi la  tesi,  sostenuta
nella sentenza  impugnata,  secondo  cui  tale  questione  era  ormai
inammissibile poiche' sulla stessa si era gia' pronunziata  la  Corte
di cassazione con la sentenza di annullamento con rinvio. 
    La questione non poteva difatti intendersi riferita a  situazione
esaurita, perche', proprio in  ragione  dell'annullamento,  la  norma
doveva ancora essere applicata dal giudice del rinvio. 
    Nessuna preclusione puo' ritenersi  formata  sul  punto  poiche',
come rimarcato dalla stessa Corte costituzionale,  «Non  puo'  invero
condividersi il dubbio che il regime delle  preclusioni  proprio  del
giudizio di rinvio  impedisca  la  proposizione  della  questione  di
legittimita' costituzionale di quella norma da cui e' stato tratto il
principio di diritto cui deve uniformarsi il  giudice  di  rinvio;  e
cio' quando anche  questi  si  sia  gia'  pronunciato  con  decisione
impugnata. Infatti la  contraria  interpretazione  contrasta  con  il
chiaro disposto degli articoli 1 della legge costituzionale n. 1  del
1948 e 23 della legge n. 87 del  1953,  secondo  cui  tali  questioni
possono  essere  sollevate  nel  corso  del  giudizio,  senza  alcuna
specifica  limitazione.  In  tal  senso  e'  del  resto   la   comune
interpretazione  giurisprudenziale  e  dottrinale.  Si  puo'  inoltre
aggiungere che, altrimenti,  la  Corte  costituzionale  non  potrebbe
pronunciarsi sulle questioni di legittimita' costituzionale  relative
a norme che devono ancora ricevere applicazione nella fase di rinvio,
con conseguente violazione della  disposizione  costituzionale  sopra
indicata»  (Corte  costituzionale,  sentenza  n.  138  del  1977,   e
conformi, fra molte, n. 11 del 1981; n. 138  del  1993;  n.  257  del
1994, nonche'  con  specifico  riguardo  al  giudizio  di  cassazione
conseguente ad annullamento con rinvio, n. 305 del 2008). 
    Ed anzi, come osservato dalle difese, l'art. 24 legge n.  87  del
1963,  disponendo  al  secondo  comma  che  l'eccezione  puo'  essere
riproposta  all'inizio  di  ogni  grado   ulteriore   del   processo,
implicitamente parrebbe ammettere come unico limite quello della  sua
non riproponibilita' nell'ambito del medesimo grado. 
    Deve aggiungersi che, come pure correttamente  evidenziato  dalle
difese, da un lato  la  risoluzione  di  un  dubbio  di  legittimita'
costituzionale non puo' considerarsi questione di diritto decisa  con
effetti preclusivi dalla sentenza di annullamento  con  rinvio  della
Corte di cassazione perche' unico  organo  che  puo'  definitivamente
pronunciare sulla legittimita' costituzionale  di  una  norma  e'  la
Corte costituzionale; dall'altro che la  questione  oggi  prospettata
non  corrisponde  esattamente  a  quella  esaminata  nel   precedente
giudizio  di  legittimita',  avendo  questa  riguardo  ad  ulteriori,
differenti parametri. 
    Ne discende che unico fattore decisivo e' che la norma della  cui
legittimita' costituzionale si dubita dovrebbe essere definitivamente
applicata solo all'esito  del  presente  giudizio,  nel  quale,  come
anticipato, ogni  altra  questione  potrebbe  essere  definitivamente
risolta. 
    4.  Neppure  puo'  condividersi,  ad  avviso  del  Collegio,   la
conclusione cui e' pervenuta la sentenza di annullamento  con  rinvio
circa  l'inammissibilita'  della  questione  gia'  in   quella   sede
prospettata  facendo   riferimento   alla   pronuncia   della   Corte
costituzionale n. 134 del 2012. E cio' per plurime ragioni. 
    Con la sentenza n. 134 del 2012 la Corte  costituzionale  ritenne
inammissibile  la  questione  allora  a  lei  sottoposta  poiche'   i
rimettenti, nel prospettare la violazione degli articoli  3,  4,  27,
terzo comma, 41 e 111 della  Costituzione,  e,  in  particolare,  del
principio di eguaglianza (art. 3 della Costituzione) e del  principio
della  finalita'  rieducativa  della  pena  (art.  27,  comma  terzo,
Costituzione), sostanzialmente chiedevano «alla Corte  di  aggiungere
le parole «fino a» all'ultimo comma dell'art. 216 del  regio  decreto
n. 267 del 1942 al fine di rendere possibile l'applicazione dell'art.
37 del codice penale. In tal modo, ritenne la  Corte,  si  richiedeva
una  addizione  normativa  che  -  essendo  solo   una   tra   quelle
astrattamente   ipotizzabili   -   non   costituiva   una   soluzione
costituzionalmente obbligata, ed  eccedeva  i  poteri  di  intervento
della  Corte  costituzionale,   implicando   scelte   affidate   alla
discrezionalita' del legislatore. 
    Detta decisione si occupo', dunque, di questione di  legittimita'
costituzionale   analoga,   ma,   come   detto,   non   perfettamente
corrispondente a quella ora in esame. 
    Rileva, per altro, che nell'ambito di  tale  decisione  la  Corte
ebbe  a  «ribadire  (da  ultimo,   ordinanza   n.   293   del   2008)
l'opportunita' che il legislatore  ponga  mano  ad  una  riforma  del
sistema delle pene accessorie, che lo  renda  pienamente  compatibile
con i principi della Costituzione, ed in particolare con  l'art.  27,
terzo comma». 
    Tale proposizione, riconoscendo la non conformita'  ai  parametri
evocati della disciplina censurata, si presta ad assumere la  valenza
di monito a cui non ha  fatto  seguito,  ad  oggi,  alcun  intervento
legislativo adeguatore. Sicche' la precedente  pronunzia  non  sembra
potere esimere la Corte di cassazione dal sollecitare  nuovamente  la
Corte   costituzionale    a    porre    rimedio    all'illegittimita'
costituzionale  gia'  accertata  ma  non  dichiarata   mediante   una
pronunzia   demolitiva   strettamente   ancorata    alla    questione
sottopostale (mutatis, tra  piu',  Corte  costituzionale  n.  45  del
2015). 
    In tale contesto, appare quindi opportuno  rimettere  alla  Corte
costituzionale la valutazione circa la  fondatezza  dell'osservazione
di una delle difese,  secondo  la  quale  il  sindacato  del  giudice
ordinario sulla rilevanza e non manifesta infondatezza del dubbio  di
legittimita' costituzionale non puo'  intendersi  esteso  anche  alla
rilevazione della  eventuale  inammissibilita'  della  questione  per
discrezionalita' del legislatore. 
    5. Quanto alla non manifesta  infondatezza  della  questione,  il
Collegio stima i' dubbi di illegittimita' costituzionale  prospettati
non meramente plausibili, ma seri e meritevoli  di  vaglio  da  parte
dell'organo giurisdizionale istituzionalmente deputato  al  controllo
di costituzionalita' delle leggi. 
    In sintesi, la questione, relativa all'art.  216,  ultimo  comma,
legge  fallimentare,  attiene  alla  durata  della  pena   accessoria
dell'inabilitazione all'esercizio  di  imprese  commerciali  ed  alla
incapacita' di esercitare uffici direttivi presso qualsiasi  impresa,
fissata  inderogabilmente  -  alla  luce  del  principio  di  diritto
vincolante fissato nel presente giudizio  -  nella  misura  di  dieci
anni. 
    5.1. Sulla questione medesima  si  era  registrato  un  contrasto
giurisprudenziale  all'interno  di  questa  Corte.  La  sentenza   di
annullamento con rinvio che ha fissato la regola per il caso concreto
aderisce all'orientamento maggioritario, che ritiene  che  la  durata
delle  pene  accessorie  di  cui  all'art.  216  citato  e'   fissata
inderogabilmente nella misura di dieci anni, tanto emergendo dal dato
testuale della disposizione, e che, per conseguenza,  detta  pena  e'
sottratta alla regola prevista dall'art. 37 del codice penale (tra le
altre, Sezione 5, 20  settembre  2007,  n.  39337,  B.,  Rv.  238211;
Sezione 5, 18 febbraio 2010, n. 17690, Cassa di  Risparmio  di  Rieti
s.p.a. ed altro, Rv. 247319; Sezione 5, 10 novembre 2010, n. 269, M.,
Rv. 249500). Si e' argomentato in tal  senso  valorizzando  anche  la
diversita' del testo della norma in esame rispetto a quello  previsto
dall'art. 217, legge fallimentare per il reato di bancarotta semplice
documentale,  laddove  la  pena  accessoria,  determinata  solo   nel
massimo, sarebbe  invece  soggetta  al  principio  generale  previsto
dall'art. 37 del codice penale (Sezione 5, 15 marzo 2000, n. 4727, A.
ed altro, Rv. 215987). 
    Questa   lettura,   pur   contrastata    da    altro    indirizzo
giurisprudenziale secondo il quale anche la pena accessoria  prevista
dall'art. 216, legge fallimentare non sarebbe sottratta  alla  regola
di cui all'art. 37 del codice penale (essenzialmente sul rilievo  che
tale diversa opzione ermeneutica sarebbe necessitata da  una  lettura
costituzionalmente alla luce di Corte costituzionale n. 91 del 2008 e
della richiamata sentenza  n.  50  del  1980),  risulta,  per  altro,
assolutamente   consolidata    dopo    l'intervento    della    Corte
Costituzionale di cui alla sentenza n. 134  del  2012,  essendosi  in
piu' occasioni ritenuto  che  la  pronuncia  della  Consulta  avrebbe
«implicitamente»   confermato   la   validita'   dell'interpretazione
recepita dall'indirizzo maggioritario (Sezione 5,  n.  30341  del  30
maggio 2012, P., Rv. 253318; Sezione 5, n. 11257 del 31 gennaio 2013,
R. F., Rv. 254641; Sezione 5, n. 42731 del 20 settembre 2012, R., Rv.
254736; Sezione 5, n. 51526 del 18  ottobre  2013,  B.,  Rv.  258665;
Sezione 5, n. 628 del 18 ottobre 2013, dep. 2014, D. C., Rv. 257947). 
    5.2. Le osservazioni poste a base  dell'indirizzo  interpretativo
abbandonato - e, comunque, non coltivabile  in  questa  sede  per  le
ragioni esposte - continuano tuttavia  a  sostenere,  ad  avviso  del
Collegio, la non manifesta infondatezza del  dubbio  di  legittimita'
costituzionale prospettato. 
    Corte costituzionale sentenza n. 50 del  1980,  richiamata  dalla
sentenza n.  91  del  2008,  aveva  affermato  il  principio  che  la
«mobilita'» della pena, cioe' la sua predeterminazione tra un  minimo
ed un massimo, costituisce corollario, da una parte, del principio di
eguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, per  la  necessita'
di proporzionarla all'effettiva entita' ed alle  specifiche  esigenze
dei singoli casi, e, dall'altra,  di  quello  di  legalita',  di  cui
all'art. 25, secondo  comma,  Costituzione,  che  «da'  forma  ad  un
sistema  che  trae  contenuti  ed  orientamenti  da  altri   principi
sostanziali - come quelli indicati dall'art. 27, primo e terzo comma,
Costituzione - ed in cui «l'attuazione di una  riparatrice  giustizia
distributiva  esige  la  differenziazione  piu'  che   l'uniformita'»
(sentenza n. 104 del 1968)». Nella occasione la Corte  costituzionale
spiego' altresi' che «l'adeguamento delle risposte punitive  ai  casi
concreti  -  in  termini  di  uguaglianza  e/o  differenziazione   di
trattamento  -  contribuisce  da  un  lato,  a  rendere  quanto  piu'
possibile "personale" la responsabilita'  penale,  nella  prospettiva
segnata dall'art. 27, primo comma; e nello stesso tempo e'  strumento
per   una   determinazione   della   pena   quanto   piu'   possibile
"finalizzata",  nella  prospettiva   dell'art.   27,   terzo   comma,
Costituzione. Il  principio  d'uguaglianza  trova  in  tal  modo  dei
concreti punti di riferimento, in materia penale, nei  presupposti  e
nei fini (e nel collegamento fra gli uni e gli  altri)  espressamente
assegnati   alla   pena   nello   stesso   sistema    costituzionale.
L'uguaglianza di fronte alla pena viene a significare, in definitiva,
"proporzione" della pena rispetto alle "personali" responsabilita' ed
alle esigenze di risposta che ne conseguano, svolgendo  una  funzione
che e' essenzialmente di giustizia e anche di tutela delle  posizioni
individuali e di limite della potesta' punitiva statuale». E concluse
nel senso che «in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide
non appaiono pertanto in armonia con il  "volto  costituzionale"  del
sistema penale; ed il dubbio d'illegittimita'  costituzionale  potra'
essere, caso per caso, superato  a  condizione  che,  per  la  natura
dell'illecito sanzionato e per la  misura  della  sanzione  prevista,
questa  ultima  appaia   ragionevolmente   "proporzionata"   rispetto
all'intera gamma di comportamenti riconducibili allo  specifico  tipo
di reato». 
    La durata invariabile delle pene  accessorie  previste  dall'art.
216  della  legge  fallimentare,  che,  ancorche'  temporanee,  hanno
indubbiamente natura afflittiva,  risolvendosi  in  una  incisiva  ma
anelastica limitazione di beni di rilevanza costituzionale, quali  la
liberta' di iniziativa economica di cui all'art. 41,  il  diritto  al
lavoro di cui all'art. 35, le finalita' rieducative della pena di cui
all'art.   27,   secondo   comma,   Costituzione,   indipendentemente
dall'entita' della pena principale irrogata - che per  la  bancarotta
fraudolenta puo' essere pari  al  minimo  edittale  di  anni  tre,  o
nettamente inferiore per effetto  di  circostanze  attenuanti  e  del
ricorso a riti alternativi -, non appare, dunque, in sintonia  con  i
principi e i valori della Carta costituzionale sopra enunciati. 
    La fissita' della sanzione accessoria sembra, in  altri  termini,
contrastare con «il volto  costituzionale»  dell'illecito  penale  il
quale postula adeguati spazi alla discrezionalita'  del  giudice,  al
fine di permettere l'adeguamento della risposta punitiva alle singole
fattispecie concrete. A siffatta impostazione sembra rifarsi altresi'
Corte costituzionale sentenza n. 91 del 2008. 
    5.3.  In  questa  prospettiva,   in   particolare,   non   appare
manifestamente infondata la  denunzia  di  contrasto  dell'art.  216,
ultimo  comma,  legge  fallimentare,  laddove  fissa  per   le   pene
accessorie ivi previste la durata fissa di dieci anni, con i principi
complessivamente  ravvisabili   negli   articoli   3   e   27   Carta
fondamentale, attesa  la  rigidita'  dispositiva  della  prescrizione
penale,   a   fronte   del   variare   della   situazione   concreta,
caratteristica che determina una sostanziale ingiustizia nel trattare
allo stesso modo condotte di rilievo penale  tra  loro  differenti  e
difformemente sanzionate dal legislatore mediante la pena principale.
La norma costituzionale, nell'imporre all'ordinamento la celebrazione
di processi giusti, non pretende  soltanto  un  corretto  svolgimento
degli stessi per il rispetto della legge,  delle  garanzie  assegnate
alle parti, del contraddittorio, per l'espletamento  della  decisione
in limiti di tempo ragionevoli. Essa prefigura anche la  garanzia  di
un'equa soluzione, alla luce delle risultanze di causa che il giudice
acquisisce  nella  varie  fasi  processuali.  Non  e'  dato,  allora,
scorgere quale coerenza possa ravvisarsi in un sistema  che  annovera
un dettagliato paradigma valutativo negli  articoli  132  e  133  del
codice penale, ma impedisce al giudice di ricondurre  siffatti  esiti
ad un'equa e adeguata considerazione sanzionatoria in punto  di  pene
accessorie. E il dubbio e' rilevante nel caso  concreto,  anche  alla
luce della diversa modulazione  delle  pene  principali  inflitte  ai
ricorrenti. 
    La  violazione  dei  principi   di   eguaglianza,   colpevolezza,
proporzionalita',  sta   nella   indiscriminata   preclusione   della
possibilita' di differenziare tra situazioni diverse, secondo criteri
gia' indicati dalla Corte costituzionale con la sentenza  n.  50  del
1980, e, in definitiva, nella  impossibilita'  di  adeguare  la  pena
accessoria rispetto alle «personali» responsabilita' ed alle esigenze
di risposta che ne conseguono. Ne'  e'  dubitabile  che  la  funzione
rieducativa della pena  presupponga  anche  la  garanzia  di  un'equa
soluzione, alla luce  delle  risultanze  di'  causa  che  il  giudice
acquisisce nella varie fasi processuali, che tenga conto del tasso di
colpevolezza accertato  e  che  moduli  in  proporzione  la  risposta
punitiva. 
    L'esigenza di una articolazione legale del sistema  sanzionatorio
che,  anziche'  prevedere   una   ingiustificata   equiparazione   di
situazioni profondamente differenti, renda possibile tale adeguamento
individualizzato, proporzionale, delle pene inflitte con le  sentenze
di  condanna,  potrebbe,  d'altra  parte,  in  larga   parte   essere
soddisfatta ove, eliminandosi il riferimento  alla  misura  fissa  di
dieci anni, rivivesse la regola  generale  di  cui  all'art.  37  del
codice penale, cosi'  consentendosi  al  giudice  di  determinare  la
durata della pena accessoria in collegamento con la  pena  principale
inflitta e, quindi, in base  a  valutazioni  di  gravita'  del  fatto
concreto. 
    Del resto, nella  contigua  materia  penitenziaria,  e'  criterio
«costituzionalmente   vincolante»   quello   che   esclude    «rigidi
automatismi e richiede sia  resa  possibile  invece  una  valutazione
individualizzata caso per caso» (sentenza n. 436 del 1999). Cosi', se
si esclude  radicalmente  il  ricorso  a  criteri  individualizzanti,
«l'opzione repressiva finisce  per  relegare  nell'ombra  il  profilo
rieducativo» (sentenza n. 257 del 2006; in senso conforme sentenza n.
79 del 2007) e si instaura di conseguenza un automatismo «sicuramente
in   contrasto   con    i    principi    di    proporzionalita'    ed
individualizzazione della pena» (sentenza n. 255 del  2006;  sentenza
n. 189 del 2010). 
    5.4. Con riferimento agli articoli 3, 4 e 41 della  Costituzione,
il menzionato inflessibile  rigore  della  sanzione  interdittivi  si
risolve  in  una  ingiustificata,  indiscriminata   incidenza   sulla
possibilita' dell'interessato di esercitare il suo diritto al lavoro,
non soltanto come fonte di sostentamento ma anche come  strumento  di
sviluppo della  sua  personalita',  e  importa  una  drastica  e  non
proporzionata  compressione  del  diritto  di  iniziativa   economica
esercitabile anche attraverso l'attivita' di impresa, non  rispettosa
dei principi che indirizzano a fini  sociali  l'iniziativa  economica
privata e che ne riconoscono la liberta'. 
    5.5.  Infine,  la  disposizione  censurata   suscita   dubbi   di
conformita' a Costituzione anche con riferimento all'art.  117  della
Costituzione, in relazione agli articoli 8 CEDU  e  Protocollo  n.  1
CEDU. 
    Secondo la Corte di Strasburgo la nozione convenzionale di  «vita
privata» di cui  all'art.  8  CEDU  ricomprende  anche  le  attivita'
professionali e commerciali (sentenza Vitiello c. Italia del 23 marzo
2006), rispetto alle quali le limitazioni derivanti dall'applicazione
della  pena  accessoria  devono  considerarsi  quali  ingerenze   nel
godimento del diritto al rispetto della vita privata  e,  come  tali,
non soltanto devono essere previste dalla legge e debbono  perseguire
uno scopo legittimo, ma devono essere proporzionate rispetto a  detto
scopo, comportando la violazione del divieto di  discriminazione  nel
godimento del diritto al rispetto della vita familiare oltre che  una
ingerenza nel godimento del diritto di proprieta' garantito dall'art.
1 del Protocollo n. 1 che  ricomprende  anche  diritti  ed  interessi
patrimoniali. 
    Alla categoria  di  restrizioni  automatiche  ed  indiscriminate,
incompatibili con  i  principi  sopra  menzionati,  parrebbe  potersi
ricondurre la norma censurata che, se certamente e' prevista  da  una
disposizione legislativa, comporta una limitazione, non solo di ampia
portata ed  omnicomprensiva,  considerato  il  significato  che  deve
attribuirsi all'espressione «impresa commerciale», ma  anche  per  un
tempo predeterminato in misura fissa, allo svolgimento  di  qualunque
attivita' economica in proprio e comunque in posizioni direttive. 
    Sembrerebbero stridere, percio', con i  principi  richiamati  sia
l'automatismo conseguente alla condanna  per  bancarotta  fraudolenta
sia la fissita' in termini di durata della sanzione  medesima,  senza
alcuna possibilita' di graduarne la  misura  in  base  alla  gravita'
delle condotte accertate. 
    6. Alla stregua  delle  considerazioni  che  precedono,  deve  in
conclusione ritenersi rilevante e non manifestamente  infondata,  con
riferimento  agli  articoli  3,  4,  41,  27  e  117,  primo   comma,
Costituzione, quest'ultimo in relazione agli articoli  8  CEDU  e  1,
Protocollo  n.  1  CEDU,  la  sollevata  questione  di   legittimita'
costituzionale degli articoli 216, ultimo comma, e 223, ultimo comma,
regio  decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (recante  «Disciplina  del
fallimento, del concordato preventivo  e  della  liquidazione  coatta
amministrativa»), nella parte in cui prevedono che alla condanna  per
uno   dei   fatti   previsti    in    detti    articoli    conseguono
obbligatoriamente, per la durata di dieci anni,  le  pene  accessorie
della inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e della
incapacita' ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa. 
    Va per l'effetto disposta  l'immediata  trasmissione  degli  atti
alla Corte costituzionale, mentre il giudizio in  corso  deve  essere
sospeso. 
    A cura della cancelleria la presente ordinanza  sara'  notificata
ai ricorrenti e alle parti civili, al Procuratore generale presso  la
Corte di cassazione, al Presidente del Consiglio dei ministri e sara'
comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento.