LA CORTE DEI CONTI Sezione giurisdizionale Regionale per la Liguria Composta dai seguenti magistrati: Mario Pischedda - Presidente; Maria Riolo - Giudice; Gianluca Bragho' - Giudice relatore; Ha pronunciato la seguente ordinanza nel giudizio di responsabilita', iscritto al numero 19908 del registro di Segreteria, instaurato ad istanza della Procura regionale della Corte dei Conti per la Liguria nei confronti del signor C. V., nato a Roma il..., residente..., localita'..., alla via..., n...; Esaminati gli atti e documenti di causa; Sciolta la riserva assunta nelle camere di consiglio del 14 giugno 2017 e del 7 settembre 2017; Ritenuto in fatto Con atto di citazione depositato in data 30 novembre 2016, la Procura regionale ha convenuto in giudizio il sig. V. C. in qualita' di comandante del VII Nucleo Antisommossa del I Reparto Mobile di Roma, responsabile del comando in Genova nella zona di corso Buenos Aires, per sentirlo condannare al risarcimento in favore del Ministero degli interni della somma di euro 53.498,24 (cinquantatremilaquattrocentonovantotto/24 centesimi) per danno patrimoniale e, previa rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione circa la questione di costituzionalita' dell'art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall'art. 1 del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, della somma di euro 50.000,00 (cinquantamila/00) a titolo di danno all'immagine o della diversa somma che sara' liquidata dalla Sezione Giurisdizionale, oltre a rivalutazione monetaria e interessi legali, nonche' alle spese del giudizio. La sentenza di condanna a carico del convenuto, emessa all'esito della camera di consiglio del 14 giugno, consegue, quanto al danno patrimoniale indiretto, alle plurime condanne al risarcimento danni, in solido con il Ministero degli interni, a favore delle parti civili costituite e al rimborso delle spese legali affrontate dalle medesime nei tre gradi di giudizio penale instaurati a carico del C. per i reati di lesioni personali e di violenza privata aggravate dalla circostanza p e p. dall'art. 61 n. 9 del c.p. Nel processo penale il C. era stato rinviato a giudizio per rispondere: a) del reato di cui agli articoli 81 cpv., 582, 585, 61 n. 2 e 9 c.p. «perche', quale comandante del VII Nucleo Antisommossa del I Reparto Mobile di Roma, essendone al comando in Genova, nella zona di corso Buenos Aires, con piu' azioni esecutive del medesimo disegno criminoso ed al fine di commettere il reato di cui al capo b, cagionava lesioni personali a V. M., V. G., L. N. e S. M., consistite in urticazione degli occhi, con conseguente temporaneo accecamento, e della pelle del volto, affaticamento respiratorio per V. G.; urticazione degli occhi, con conseguente temporaneo accecamento per V. M., urticazione degli occhi, con temporaneo accecamento, forti sudorazioni per L. N., urticazione del volto per S. M... agendo per mezzo di una bomboletta spray di gas urticante C. S. in dotazione quale armamento personale di servizio, con l'aggravante di aver abusato dei poteri e di aver violato i doveri inerenti la propria funzione di pubblico ufficiale; in Genova il 20 luglio 2001»; b) del reato di cui agli articoli 81 cpv., 610, 61 n. 9 c.p. «perche', nella medesima qualita' indicata sub a), mediante violenza consistita nell'utilizzazione di una bomboletta spray di gas urticante C. S. in dotazione quale armamento personale di servizio contro V. M., V. G., L. N., S. M... in carenza dei presupposti legittimanti l'uso di tale arma, costringeva i medesimi ad allontanarsi dal viale ove sostavano; in Genova il 20 luglio 2011». Il Tribunale di Genova, con sentenza in data 11 dicembre 2008, aveva assolto l'imputato dal reato di cui al capo «a» e condannato per il reato di cui al capo «b» alla pena di mesi quattro di reclusione, con pena sospesa e non menzione. La Corte di Appello di Genova, con sentenza in data 13 gennaio 2012, aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine ai reati ascritti, in quanto estinti per prescrizione; aveva condannato il C. in solido con il responsabile civile al risarcimento dei danni nei confronti dette parti civili costituite, da liquidarsi in separata sede; aveva condannato il C. e il Ministero dell'interno in solido al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili, liquidate in euro 7.000,00 oltre iva e c.p.a. a favore della Associazione Giuristi Democratici di Genova per entrambi i gradi di giudizio, distratti a favore del difensore; in euro 7.000,00 oltre iva e c.p.a. a favore di L. N. per entrambi i gradi di giudizio, distratti a favore del difensore; in euro 7.000,00 oltre iva e c.p.a. a favore di V. M. per entrambi i gradi di giudizio, distratti a favore del difensore; in euro 8.000,00 oltre iva e c_p.a. a favore di V. G. per entrambi i gradi di giudizio, distratti a favore del difensore. La Corte di Cassazione, con sentenza n. 46787\13, aveva rigettato i ricorsi proposti da C. e dal Ministero dell'interno, condannando i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonche' «alla rifusione delle spese sostenute per questo giudizio di cassazione dalle parti civili e liquidate per ciascuna in euro 2.500,00 oltre accessori come per legge». L'ipotesi accusatoria ha trovato pieno riscontro nella sentenza della Corte di appello (confermata in Cassazione e dunque passata in giudicato), la quale, pur dovendo prendere atto del maturato termine prescrizionale, ha ritenuto comunque integrato comportamento delittuoso da parte del C., condannandolo in solido con il responsabile civile Ministero dell'interno al risarcimento danni nei confronti delle parti civili costituite e al rimborso delle spese legali affrontate da queste ultime. La condotta illecita del funzionario di Polizia ha causato quindi all'erario un danno patrimoniale «indiretto»: il Ministero dell'interno, condannato in solido quale responsabile civile, e' stato infatti costretto a versare alle controparti la somma di euro 49.483,20 a titolo di spese legali, cui si sono aggiunti euro 4.015,04 corrisposti al V (soggetto maggiormente danneggiato) in seguito ad accordo transattivo stipulato in data 26 ottobre 2015: complessivamente, euro 53.498,24 (cinquantatremilaquattrocentonovantotto/24). La Procura ha ritenuto sussistente un'ulteriore ipotesi di responsabilita' del C. a titolo di danno all'immagine della Pubblica Amministrazione, visto il rilievo assunto dall'episodio sugli organi di informazione, nonche' il grado del responsabile. La vicenda, come e' noto, e' da ascriversi nel coacervo dei terribili fatti del G8 2001 di Genova, cui risvolti giudiziari e mediatici hanno ottenuto tristemente gli onori negativi della risonanza mondiale. Nel motivare l'entita' della richiesta risarcitoria del danno all'immagine, causato dal convenuto all'Amministrazione di appartenenza e allo Stato, d requirente osserva che per gli appartenenti alle «Forze dell'ordine il rapporto di servizio viene ad assumere una particolare piu' intensa connotazione che discende dal dovere di fedelta' di cui all'art. 54 della Costituzione, da intendersi come fedelta' qualificata, con contenuto piu' ampio di quello riguardante la totalita' dei cittadini, essendo idonea a fondare doveri piu' impegnativi nei confronti di chi, essendo tenuto a prestare giuramento, contrae anche un vincolo di ordine morale, che a quelli giuridici si aggiunge» (Corte dei conti, Sez. Friuli-Venezia Giulia, n. 491/2007). Nella fattispecie, oltre al menzionato art. 54 Cost. e alle richiamate norme penali, ritiene la Procura essere stato violato in modo diretto ed immediato l'art. 97 della Costituzione, che sancisce il dovere di buon andamento ed imparzialita' della Pubblica Amministrazione. L'estrema rilevanza dei compiti istituzionalmente attribuiti alla Polizia di Stato impone che tutti gli appartenenti al Corpo mantengano una condotta assolutamente irreprensibile. Non solo. In un ordinamento democratico e' di fondamentale importanza che l'opinione pubblica abbia un'elevata considerazione delle Forze dell'Ordine: tale generale apprezzamento e' condizione necessaria per l'efficace raggiungimento delle finalita' che lo Stato attribuisce loro. Puo' aggiungersi che la Corte costituzionale (sentenza n. 112 del 2014) nel considerare non irragionevole la previsione della destituzione di diritto per gli appartenenti ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza, quale conseguenza automatica dell'applicazione di una misura di sicurezza personale, ha sottolineato che la specialita' del censurato art. 8, primo comma, lett. c), del decreto del Presidente della Repubblica n. 737 del 1981, e' dovuta alla «peculiarita' e delicatezza dei compiti affidati» alla predetta categoria di dipendenti pubblici e «connessi alla salvaguardia di diritti fondamentali». Pertanto, la Corte ha ritenuto conforme a Costituzione «una disciplina che valuti in termini rigorosi le conseguenze che discendono, sul piano del rapporto di impiego, dalla accertata pericolosita' del pubblico dipendente, in particolar modo laddove (...) tale situazione abbia determinato condotte penalmente rilevanti. Essa trasparentemente riflette la preminenza attribuita dal legislatore all'interesse della collettivita' ad essere difesa dalla pericolosita' sociale di un suo membro, allorche' questo sia un dipendente dell'Amministrazione di pubblica sicurezza ... omissis ...». Ne' puo' essere dimenticato il contenuto del «Codice Europeo di Etica per la Polizia» (adottato dal Consiglio dei Ministri del Consiglio d'Europa - Raccomandazione n. 2001/10 - nel settembre 2001, in seguito all'ondata di sdegno per i fatti del G8 di Genova) ove vengono riaffermati i divieti assoluti - gia', peraltro, presenti in tutti gli ordinamenti - di comportamenti che ledano i valori fondamentali della persona, la sacralita' della stessa, sia in termini fisici che morali. Ogni qual volta l'immagine dell'Amministrazione e' lesa da comportamenti illeciti, si verifica, dunque, una violazione del diritto all'immagine «intesa come diritto al conseguimento, al mantenimento ed al riconoscimento della propria identita' come persona giuridica pubblica» (Corte dei conti, SS.RR. n. 10/2003/QM, confermata, rispetto ai contenuti sostanziali, dalla successiva n. 1/2011/QM), violazione che e' economicamente valutabile e risarcibile. La quantificazione di tale danno, ad avviso del requirente, deve essere effettuata in via equitativa, tenuto conto di tutte le circostanze, dei fatti e del pregiudizio subito - nella specie - dalla Polizia di Stato e dallo Stato stesso alla loro reputazione con grave detrimento al prestigio acquisito attraverso la costante azione dei propri operatori. In ordine ai parametri da utilizzare per determinare il quantum del danno, la Procura richiama la pregressa giurisprudenza contabile ed in particolare la pronuncia delle SS.RR. n. 10/QM del 2003 che ha analiticamente indicato i parametri ai fini della quantificazione del danno in via equitativa. Applicando, quindi, tali parametri e criteri alle fattispecie in esame, la Procura ritiene che il danno all'immagine possa essere quantificato in euro 50.000,00 (cinquantamila\00), da risarcirsi al Ministero dell'interno, in considerazione del peculiare rilievo della funzione delle Forze dell'Ordine, cui e' affidato dall'ordinamento prioritariamente il compito di far rispettare la legge e di tutelare i cittadini, della gravita' dei fatti, del grado rivestito dal responsabile (Comandante del VII Nucleo Antisommossa del Reparto Mobile di Roma), dell'attenzione dell'opinione pubblica nazionale sui reati commessi da esponenti delle Forze dell'Ordine, della risonanza mediatica degli eventi. Circa la proponibilita' della richiesta risarcitoria per danno all'immagine, parte attorea ha osservato che il limitato novero dei reati presupposti contrasta con la Carta costituzionale sotto diversi profili, ed occorre quindi eccepire l'illegittimita' costituzionale del secondo periodo dell'art. 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, pur prendendo atto che la Corte costituzionale (sent. 355 del 2010, nonche' ord. nn. 219, 220, 221 e 286 del 2011) si e' gia' occupata della conformita' a Costituzione del combinato disposto delle predette disposizioni, giudicando - con ampia motivazione - inammissibili o non fondate le questioni di legittimita' costituzionale sollevate da alcune Sezioni giurisdizionali della Corte dei conti proprio relativamente all' aspetto in esame (esclusione del danno all'immagine della P.A. in presenza di reati diversi da quelli «contro la pubblica amministrazione» previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale). La successiva giurisprudenza della Corte dei conti non si e', tuttavia, costantemente uniformata all'interpretazione che la Corte costituzionale ha dato della norma in questione. Invero, in base al principio pacifico secondo il quale le sentenze interpretative di rigetto del Giudice delle leggi sono vincolanti (e nemmeno in assoluto) solo per il giudice a quo numerose sentenze delle Sezioni territoriali e delle Sezioni centrali di Appello hanno ammesso, in base ad una «interpretazione costituzionalmente orientata» del cosiddetto «Lodo Bernardo» l'azionabilita' del danno all'immagine della Pubblica amministrazione in presenza di reati diversi da quelli contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale (ex multis: Sezione Liguria n. 107 in data 25 giugno 2013 e n. 212 in data 6 dicembre 2013 e, da ultimo, Sez. Prima Giurisdizionale Centrale 379/2014/A in data 11 marzo 2014 e n. 522/2014/A in data 3 aprile 2014). Altre decisioni sono state, invece, di segno opposto. Anche la Corte di Cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla questione, ha adottato sentenze contrastanti. Fra le ultime si possono ricordare la sentenza n. 5481 del 4 febbraio 2014, favorevole all'interpretazione ampliativa della tutela risarcitoria del danno all'immagine della Pubblica amministrazione, e, all'opposto, la sentenza n. 14605 del 28 marzo 2014, che ha accolto l'interpretazione, adottata dalla Corte costituzionale, aderente alla lettera della legge. Da ultimo, sul contrasto giurisprudenziale interno alla Corte dei conti sono intervenute le Sezioni Riunite della stessa Corte con la sentenza n. 8/2015/QM, che ha enunciato il seguente principio di diritto: «l'art. 17, comma 30-ter, va inteso nel senso che le Procure della Corte dei conti possono esercitare l'azione per il risarcimento del danno all'immagine solo per i delitti di cui al Capo I del Titolo II del Libro Secondo del codice penale». Con tale pronuncia l'interpretazione contenuta nell'enunciato principio di diritto puo' considerarsi del tutto dominante, tale da configurarsi come «diritto vivente» a livello di legge ordinaria. Cio' determina, ad avviso del Procuratore regionale, un contrasto insanabile della disposizione in esame con la Costituzione, non potendosi piu' proporre una diversa interpretazione «costituzionalmente orientata» della norma in esame. Ne consegue che il requirente prospetta l'eccezione di incostituzionalita' proponendo esclusivamente argomentazioni non ancora scrutinate dalla Corte costituzionale ed avendo, prevalentemente, riguardo a novita' legislative e giurisprudenziali intervenute successivamente alle predette pronunce del Giudice delle leggi. Parte attorea stima necessario considerare che, successivamente al «Lodo Bernardo», sono state introdotte dal legislatore - fra le altre numerose fattispecie «tipizzate» di danno erariale - tre nuove fattispecie «tipizzate» di danno all'immagine della Pubblica amministrazione. La prima e' correlata alla previsione del reato di false attestazioni o certificazioni non ricondotto dal legislatore nei reati del codice penale, bensi' introdotto dall'art. 55-quinquies comma 2 del decreto legislativo n. 165/2001. La seconda fattispecie tipizzata e' relativa alla condotta colposamente omissiva, non costituente reato, ascritta al responsabile della prevenzione della corruzione, che viene sanzionato in caso di omessa predisposizione del piano ed omessa vigilanza ed osservanza delle prescrizioni contenute nel medesimo, in caso di commissione di delitto di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato emessa nei confronti di un pubblico impiegato interno all'amministrazione (art. 1, comma 12, della legge 6 novembre 2012, n. 190). La terza fattispecie tipizzata e' prevista dall'art. 46, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33, e pone in capo al responsabile le conseguenze derivanti dall'inadempimento degli obblighi di pubblicazione e della mancata predisposizione del Programma triennale per la trasparenza. Anche tale fattispecie di danno all'immagine non consegue da fatto di reato. A fronte del mutato quadro normativo, parte attorea ritiene che la citata sentenza della Corte costituzionale n. 355/2010 sia stata in parte superata dall'intenzione del Legislatore che ha per cosi' dire «spezzato il cerchio» della limitazione del danno all'immagine a determinati reati presupposto, estendendo le ipotesi di responsabilita' risarcitoria in presenza di' condotte omissive non costituenti reato e sanzionando comportamenti non penalmente rilevanti non connotati, persino, da gravita' della colpa. La rottura dell-a coerenza sistematica dell'assetto ordinamentale, nella tesi attorea, impone una revisione della compatibilita' costituzionale del c.d. «Lodo Bernardo» in relazione ai principi di ragionevolezza, eguaglianza, equita' sostanziale, alla luce del complesso sistematico-argomentativo derivante dalle sentenze della Corte costituzionale nn. 421/1991, 1/2012, 87/2012, 162/2014. L'irragionevolezza della limitazione della responsabilita' risarcitoria ai soli delitti commessi dal pubblico ufficiale contro la Pubblica amministrazione produce sperequazioni sanzionatorie manifestamente irragionevoli e inique, laddove sanziona fatti meno gravi rispetto a condotte causative di danni all'immagine di maggiore impatto ed estensione (ad esempio reati colposi di rilevante gravita', reati di violenza, reati commessi dal pubblico ufficiale in concorso con soggetti privati a danno delle finanze pubbliche). Limitazione ancor piu' irrazionale se si pensi all'affermazione contenuta nella menzionata sentenza n. 355/2010, a tenore della quale la Corte costituzionale ha sostenuto che l'assenza di reato presupposto qualificante non conduca ad una delimitazione della giurisdizione contabile rispetto ad altra giurisdizione, quanto piuttosto una vero e proprio confine oggettivo di' determinazione del diritto della Pubblica amministrazione di richiedere il risarcimento del danno per lesione alla propria immagine alle sole ipotesi previste dal c.d. «Lodo Bernardo». In conclusione, assume parte attorea che la disposizione recata dall'art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, deve essere dichiarata incostituzionale ed espunta dall'ordinamento per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza delle scelte del legislatore, e dell'art. 97 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di buona amministrazione, in quanto limita la risarcibilita' del danno all'immagine della pubblica amministrazione al pregiudizio scaturente da determinate fattispecie di reato e, di conseguenza, non ammette il risarcimento nel caso di reati diversi (eventualmente ugualmente gravi o addirittura piu' gravi) e net caso di comportamenti gravemente colposi, fermo restando il limite della soglia minima di gravita' della lesione (individuato dalla Corte di Cassazione nella sent. n. 26972 del 2008). Per le ragioni innanzi esposte, la Procura regionale ha eccepito l'illegittimita' costituzionale dell'art. 17, comma 30-ter, secondo periodo, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, come modificato dall'art. 1, comma 1, del decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103, convertito con modificazioni dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141, per contrasto: con l'art. 3 della Costituzione per violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza, di conformita' dell'ordinamento a valori di giustizia e di equita', di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica dell'ordinamento, di ragionevolezza intrinseca della disposizione, di congruita' della scelta legislativa rispetto alla ratio dell'intervento normativo (Corte costituzionale sent. 421 del 1991, n. 81 del 1992, n. 46 del 1993, n. 245 del 2007, n. 87 del 2012, n. 162 del 2014); ancora, con l'art. 3 della Costituzione per violazione del principio di uguaglianza sotto il profilo che a situazioni eguali deve corrispondere l'identica disciplina e, all'inverso, discipline adeguatamente differenziate andranno coniugate a situazioni differenti, ovvero sotto il profilo della doverosita' di un trattamento perlomeno uguale di situazioni a cui anzi legislatore, nella sua discrezionalita', potrebbe dare un trattamento disegnale, tal che la fattispecie meno grave non riceva un trattamento nettamente piu' sfavorevole di quella connotata da maggior disvalore (Corte costituzionale sent. n. 1009 dei 1988, n. 89 del 1996, n. 1 del 2012, n. 143 del 2014, n. 162 del 2014, n. 241 del 2014); sempre, con l'art. 3 della Costituzione per violazione dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza sotto d profilo del trattamento sanzionatorio (comparativamente) equo di situazioni uguali o diverse (Corte costituzionale sent. n. 68 del 2012, n. 47 del 2010, n. 273 del 2010, n. 251 del 2012, n. 80 del 2014); sempre, con l'art. 3 della Costituzione per violazione del principio di ragionevolezza sotto i profili dell'adeguata giustificazione della portata retroattiva della norma non penale, della certezza dell'ordinamento giuridico, della sicurezza giuridica con riguardo a situazioni sostanziali fondate su disposizioni di leggi precedenti (Corte costituzionale sent. n. 374 del 2002, n. 234 del 2007, n. 209 del 2010, n. 41 del 2011, n. 93 del 2011, n. 271 del 2011, n. 78 del 2012, n. 92 del 2013, n. 160 del 2013, n. 170 del 2013); infine, con l'art. 97 della Costituzione per violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. La Procura erariale fa presente che l'art. 17 citato e' stato gia' oggetto di rimessione alla Corte costituzionale, da parte della Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Liguria, con ordinanza 19 aprile 2016 (proc. n. 58\13, giudizio nei confronti dei signori V., N., B., C.). Per quel che concerne il richiamo alla portata precettiva del summenzionato art. 17, comma 30-ter, applicabile, in tesi, ratione temporis, va precisato che la Corte costituzionale con ordinanza n. 145/2017, depositata il 21 giugno 2017, ha disposto la restituzione degli atti a questa Sezione regionale remittente, poiche' ha ritenuto che «le sopravvenute modifiche, anche tenendo conto della data di entrata in vigore delle stesse, hanno inciso sul citato art. 17, comma 30-ter, e, comunque, hanno determinato una profonda trasformazione del quadro normativo di riferimento (soprattutto in considerazione della disposta abrogazione dell'art. 7 della legge n. 97 del 2001), realizzata con modalita' tali da influire sul contenuto e sulla prospettazione delle censure e che, quindi, ne rendono ineludibile il riesame da parte del rimettente, cui spetta valutare le ricadute delle modifiche, procedendo ad una nuova valutazione in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della sollevata questione (per tutte, ordinanze n. 25 del 2017 e n. 115 del 2016). Nulla ha dedotto il convenuto essendo rimasto contumace nel giudizio di responsabilita' a suo carico. Considerato in diritto Con riferimento alla normativa nella quale sussumere il caso in esame, il mutamento del quadro normativo che disciplina l'ammissibilita' dell'azione erariale induce Collegio a ritenere applicabile nel giudizio in atto la normativa codicistica in tema di danno erariale e non gia' il citato art. 17 comma 30-ter. L'accertamento della normativa applicabile al caso in esame si riverbera direttamente sulla verifica della rilevanza della questione, quale presupposto per sollevare il dubbio di costituzionalita'. Con decorrenza dal 7 ottobre 2016, trova applicazione il codice di giustizia contabile, introdotto con decreto legislativo 24 agosto 2016, n. 174. Al riguardo va evidenziato che il legislatore ha selettivamente determinato quale corpus di norme e' immediatamente applicabile ai giudizi in corso, alla stregua di valutazioni sulla regolazione degli assetti processuali pienamente rientranti nella potesta' normativa esercitata, che si assume scevra da scelte irrazionali o arbitrarie. La disciplina ad hoc dettata dal legislatore per il graduale inserimento applicativo delle norme codicistiche, elidendo la questione circa la valenza sostanziale o processuale della disciplina abrogante rispetto alla previgente previsione normativa, di cui all'art. 17 comma-ter del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito con modificazioni nella legge 3 agosto 2009, n. 102. E' infatti il legislatore medesimo che ha inteso regolare i casi riferiti a fatti commessi prima dell'entrata in vigore del codice, orientando l'interprete nell'individuazione della disciplina applicabile. Al contrario, laddove il legislatore ha ritenuto di applicare gli istituti codicistici, a valenza sostanziale - come gli atti interrottivi della prescrizione - ai soli fatti commessi e alle omissioni avvenute a decorrere dalla data di entrata in vigore del codice, ne ha espressamente fatto menzione (art. 2, comma 2, delle disposizioni transitorie con riferimento all'art. 66 del c.g.c.). Si evince dall'art. 2 delle norme transitorie al c.g.c. che le disposizioni di cui alla Parte II, Titolo I, Capi I, II e III del codice (articoli da 51 a 70), disciplinanti l'istruttoria del Pubblico Ministero, si applicano alla data di entrata in vigore del codice, fatti salvi gli atti gia' compiuti secondo il regime previgente, mentre le disposizioni di cui alla Parte II, Titoli II, III, IV e V (articoli da 73 a 103) si applicano anche ai giudizi in corso. Orbene, nel caso di specie, l'atto di citazione e' stato regolarmente notificato presso la residenza del convenuto, con procedimento di notifica perfezionato mediante il deposito nella cassetta postale degli avvisi successivi al primo tentativo, non andato a buon fine per la temporanea assenza del destinatario, nonche' mediante la compiuta giacenza del plico nei termini di legge presso l'ufficio postale di competenza ed allegato al fascicolo processuale con deposito avvenuto in data 30 novembre 2016. E' indubbio dunque che l'istruttoria aperta dal PM si sia manifestata in proiezione processuale, mediante l'esercizio dell'azione di danno solo dopo l'entrata in vigore del codice di giustizia contabile, con conseguente applicazione al giudizio di che trattasi dell'art. 51, commi 6 e 7, c.g.c. richiamato dall'art. 2 delle citate disposizioni transitorie (Cfr. Sezione giur. Marche, sent. 7/2017; Sezione giur. Sicilia, sent. 687/2017). Osserva ulteriormente il Collegio che il codice di giustizia contabile all'art. 4, lett. h) dell'allegato 3 (norme transitorie e abrogazioni) ha espunto, a decorrere dalla data di entrata in vigore della novella codicistica, il primo periodo dell'art. 17, comma 30-ter, decreto-legge n. 78 del 2009 cit., lasciando intatto testo successivo della norma, a tenore della quale razione per il risarcimento del danno all'immagine della Pubblica Amministrazione puo' essere esercitata dal Pubblico Ministero contabile - a pena di nullita' - soltanto a fronte di una sentenza penale definitiva di condanna del pubblico dipendente per uno dei delitti dei pubblici ufficiali contro la P.A. richiamati dall'art. 7, legge 27 marzo 2001, n. 97. Anche quest'ultima disposizione e' stata parimenti abrogata dal predetto art. 4 dell'allegato 3 del Codice (vedasi lett. g), venendo cosi' meno la previgente limitazione del novero dei delitti per i quali e' perseguibile danno all'immagine. Nel determinare la portata della disciplina relativa ai danno all'immagine, il Collegio evidenzia che il richiamo compiuto dal comma 2 del citato art. 4 identifica la norma di riferimento, necessaria ad individuare il «corrispondente istituto» codicistico che subentra in luogo di quello abrogato. Il «corrispondente istituto» e' rinvenibile in modo univoco e onnicomprensivo nella nozione di danno erariale disciplinato dagli articoli 51 e seguenti del c.g.c., ovvero, con riferimento al danno all'immagine, il danno erariale, perpetrato dai dipendenti pubblici per delitti commessi a danno delle Pubbliche amministrazioni (cfr. Sezione giur. Lombardia, sentenza n. 201/2016). Si evidenzia che danno all'immagine viene espressamente contemplato solo all'art. 51, comma 6, del codice, il quale prescrive che la nullita' per violazione delle norme sui presupposti di proponibilita' dell'azione per danno all'immagine e' rilevabile anche d'ufficio. «Sicche', in mancanza di ulteriori specificazioni normative, tali nuovi "presupposti" di proponibilita' della domanda di risarcimento del danno all'immagine (alla luce dell'abrogazione del cennato Lodo Bernardo e del menzionato art. 7 della legge n. 97 del 2001) non possono che essere individuati in quelli previsti dal medesimo art. 51, al comma 7 (unica disposizione del Codice che appare colmare il vuoto normativo determinatosi in conseguenza delle suddette abrogazioni), ai sensi del quale: La sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nonche' degli organismi e degli enti da esse controllati, per i delitti commessi a danno delle stesse, e' comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinche' promuova l'eventuale procedimento di responsabilita' per danno erariale nei confronti del condannato. Resta salvo quanto disposto dall'art. 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271». Poiche', dunque, nell'art. 51, comma 6, del Codice, si fa espresso riferimento al danno all'immagine, il contenuto di detta norma, in combinato con il generale richiamo, nel successivo comma 7, a delitti commessi a danno della P.A. accertati con sentenza penale irrevocabile, conduce a ritenere che, ai fini dell'individuazione dei "presupposti" di che trattasi, tali reati siano da individuare, sul piano testuale e logico, senza la previgente delimitazione, in tutti i delitti commessi a danno delle pubbliche amministrazioni da dipendenti pubblici (o da soggetti legati da rapporto di servizio, secondo notori approdi di questa Corte). Ad avviso della Sezione, dunque, dopo la novella del decreto legislativo n. 174 del 2016, qualsiasi delitto commesso da pubblici dipendenti (o da soggetti legati da rapporto di servizio alla P.A.) in danno della P.A., accertato con sentenza penale definitiva e' idoneo a configurare - senza piu' la limitazione tipologica di cui all'abrogato art. 7 della legge n. 97 del 2001 - il presupposto per l'eventuale promovimento dell'azione risarcitoria per il danno all'immagine di cui al comma 6 dell'art. 51 del menzionato Codice» (cosi' testualmente, Sezione giur. Lombardia cit.). L'individuazione della norma applicabile non muta, se si intenda seguire l'orientamento giurisprudenziale che identifica nella disciplina del danno all'immagine i presupposti di proponibilita' della domanda, da intendersi quali condizioni dell'azione (Cfr. Sezione giur. Veneto, sent. n. 219/2016). Orbene, le condizioni detrazione (irrevocabilita' della sentenza di condanna in sede penale per un fatto di reato commesso dal pubblico ufficiale a danno della Pubblica Amministrazione) devono essere valutate al momento della proposizione delta citazione al convenuto. In conclusione, sotto il profilo della rilevanza della questione, il Collegio ritiene di aver dimostrato, che pur applicando la disciplina codicistica (sub specie art. 51, commi 6 e 7 c.g.c.), il presupposto per il promovimento dell'azione risarcitoria a titolo di danno all'immagine della P.A. si rinviene nell'acclarata sussistenza di condanna irrevocabile pronunciata nei confronti del dipendente pubblico per i delitti commessi a danno delle stesse. La persistenza della pregiudiziale pronuncia penale di condanna, quale presupposto dell'azione erariale, e' peraltro confermata dall'attuale vigenza dell'art. 17 comma 30-ter, secondo periodo, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, a tenore del quale si prescrive che «le procure della Corte dei conti esercitano l'azione per il risarcimento del danno all'immagine nei soli casi e nei modi previsti dall'art. 7 della legge 27 marzo 2001, n. 97. A tale ultimo fine, il decorso del termine di prescrizione di cui al comma 2 dell'art. 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, e' sospeso fino alla conclusione del procedimento penale. Qualunque atto istruttorio o processuale posto in essere in violazione delle disposizioni di cui al presente comma, salvo che sia stata gia' pronunciata sentenza anche non definitiva alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e' nullo e la relativa nullita' puo' essere fatta valere in ogni momento, da chiunque vi abbia interesse, innanzi alla competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, che decide nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito della richiesta». I mutamenti legislativi conseguenti all'entrata in vigore del codice di giustizia contabile non hanno snaturato i presupposti dell'azione per far valere il danno all'immagine, ma hanno fatto convergere l'apparato risarcitorio verso forme di contrasto ordinamentale a comportamenti devianti dal corretto esercizio dei poteri funzionali. L'ottica ampliativa dell'area della risarcibilita' del danno all'immagine non comprende tutti indistintamente le condotte ascrivibili a delitti commessi dal pubblico ufficiale. Esulano dal circuito normativo le condotte delittuose commesse per fatti privati o per eventi non connessi con l'esecuzione delle funzioni istituzionali del dipendente, ma vi rientrano i fatti di reato plurioffensivi che sono commessi nei confronti di privati in occasione dello svolgimento di funzioni istituzionali incise da comportamento deviante e infedele del pubblico ufficiale (abuso delle pubbliche funzioni). E dunque nel caso sottoposto al vaglio giurisdizionale, che vede protagonista un funzionario di Polizia, nel pieno dell'esercizio delle sue funzioni di tutela dell'ordine pubblico, nell'atto di spruzzare uno spray urticante ad altezza viso (in assenza di circostanze che ne giustificassero l'utilizzo) per costringere i signori V., V., L. e S. ad allontanarsi dal luogo ove sostavano (da qui la contestazione del reato di violenza privata ex art. 610 c.p.), la condotta pregiudizievole ha, nel medesimo contesto di luogo ed azione, provocato conseguenze fisiche, nei soggetti colpiti, integranti il delitto di lesione personale (ai sensi degli articoli 582 e 585 c.p.), ed ha inferto alla reputazione pubblica dell'Amministrazione della Polizia di Stato un grave pregiudizio di immagine. Duplice e' il bene giuridico leso dal fatto di reato: l'integrita' fisica dei pacifici astanti e la reputazione dell'Autorita' di Polizia dello Stato, da intendersi quale soggetto pubblico cui e' affidata la tutela dell'ordine e della sicurezza dei cittadini nell'atto di esercitare le liberta' civili. La lesione di entrambi i beni giuridici tutelati dall'ordinamento proviene proprio dal soggetto cui era demandata la funzione pubblica di protezione. Gli esiti del processo penale hanno riscontrato l'illiceita' della condotta posta in essere dal pubblico ufficiale. La Suprema Corte di Cassazione, pur dovendo prendere atto del maturato termine prescrizionale, ha ritenuto comunque integrato il comportamento delittuoso da parte dell'imputato, condannandolo in solido con il responsabile civile Ministero dell'interno al risarcimento danni nei confronti delle parti civili costituite e al rimborso delle spese legali affrontate da queste ultime. La carenza del requisito della condanna penale irrevocabile, in presenza di una sentenza dichiarativa della prescrizione che ha, invero, pienamente accertato le responsabilita' dei fatti di reato ascritti al funzionario di Polizia, pone il remittente nel convincimento che la questione non possa essere decisa senza sollevare il dubbio di costituzionalita', poiche' l'esito del giudizio contabile muta a seconda dell'esistenza o meno del prerequisito teste' descritto, oltremodo necessario per la proponibilita' dell'azione di danno. Il riferimento testuale al prerequisito conduce ad escludere interpretazioni dell'art. 51 commi 6 e 7 c.g.c., che possano far ritenere esperibile l'azione della Procura contabile anche nei casi di danni all'immagine dell'amministrazione conseguenti a fatti di reato commessi da pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni avverso i quali e' maturato il termine prescrizionale per l'inflizione della sanzione penale. Ne' puo' soccorrere alcun'altra interpretazione convergente con i principi di eguaglianza sostanziale, di buon andamento dell'amministrazione pubblica e di effettivita' della giurisdizione contabile, che possa parificare la sentenza di proscioglimento per prescrizione alla formale irrogazione sanzione penale derivante dalla sentenza di condanna, trattandosi di esiti del giudizio penale dagli effetti, penali ed extra penali, del tutto diversificati. La previsione testuale della previa condanna penale irretrattabile si pone quale limite legislativo invalicabile e imprescindibile per l'interprete. Nessun'altro surrogato normativo e' rinvenibile nella palese intenzione del legislatore. La questione proposta e' da ritenersi rilevante nel presente giudizio, in quanto l'applicazione della disposizione censurata determinerebbe l'improponibilita' della domanda di risarcimento del danno all'immagine, per insussistenza della condanna penale irrevocabile, precludendone l'esame. Esaurito il tema della rilevanza, il Collegio procede ad analizzare il profilo della non manifesta infondatezza della questione. Alla luce dei principi che presiedono alla verifica della ragionevolezza degli interventi del legislatore, elaborati dalla stessa giurisprudenza costituzionale, il remittente ritiene che il contrasto delle disposizioni censurate con gli articoli 3, 76, 97 e 103 della Cost. non sia manifestamente infondato, con riferimento ai profili, di seguito illustrati. 1. Intrinseca irragionevolezza dell'art. 51 commi 6 e 7, nella parte in cui esclude l'esercizio dell'azione del P.M. contabile per il risarcimento del danno all'immagine conseguente a reati dolosi commessi da pubblici dipendenti a danno delle pubbliche amministrazioni, dichiarati prescritti con sentenza passata in giudicato pienamente accertativa della responsabilita' dei fatti ai fini della condanna dell'imputato al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite. E' jus receptum che la giurisprudenza costituzionale ha «desunto dall'art. 3 Cost. un canone di "razionalita'" della legge svincolato da una normativa di raffronto, rintracciato nell'esigenza di conformita' dell'ordinamento a valori di giustizia e di equita' ed a criteri di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica, che costituisce un presidio contro l'eventuale manifesta irrazionalita' o iniquita' delle conseguenze della stessa» (Corte Cost. sent. n. 87/2012). La reiterata scelta, operata dal legislatore con le censurate disposizioni, di non estendere l'azione risarcitoria in presenza di condotte infedeli costituenti un reato originato in violazione di doveri funzionati per il quale, put nel pieno accertamento dei fatti materiali e dell'elemento soggettivo doloso, l'imputato, pubblico ufficiale, e' prosciolto per maturazione del termine prescrizionale, e', infatti, smentita dallo stesso legislatore che prima della disciplina codicistica (ma in momenti successivi all'entrata in vigore dell'art. 17, comma 30-ter del decreto-legge n. 78/2009), ha introdotto ulteriori fattispecie di danno all'immagine dell'amministrazione - anche di fatti che non costituiscono reato, con conseguente irrazionalita' della disciplina dettata dal predetto art. 51 commi 6 e 7 c.g.c. L'art. 1, comma 12, della legge 6 novembre 2012, n. 190 ha previsto che «In caso di commissione, all'interno dell'amministrazione, di un reato di corruzione accertato con sentenza passata in giudicato, il responsabile individuato ai sensi del comma 7 del presente articolo risponde ai sensi dell'art. 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, nonche' sul piano disciplinare, oltre che per il danno erariale e all'immagine della pubblica amministrazione, salvo che provi tutte le seguenti circostanze: a) di avere predisposto, prima della commissione del fatto, il piano di cui al comma 5 e di aver osservato le prescrizioni di cui ai commi 9 e 10 del presente articolo; b) di aver vigilato sul funzionamento e sull'osservanza del piano». Inoltre, l'art. 46, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 (Riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicita', trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni) ha introdotto una ulteriore fattispecie di danno all'immagine risarcibile, prevedendosi che «l'inadempimento degli obblighi di pubblicazione previsti dalla normativa vigente o la mancata predisposizione del Programma triennale per la trasparenza e l'integrita' costituiscono elemento di valutazione della responsabilita' dirigenziale, eventuale causa di responsabilita' per danno all'immagine dell'amministrazione e sono comunque valutati ai fini della corresponsione della retribuzione di risultato e del trattamento accessorio collegato alla performance individuale dei responsabili». La previsione di due ipotesi di danno all'immagine risarcibile, relative a fatti che addirittura non costituiscono, di per se', reato, ma solo una condotta omissiva rilevante sotto il profilo extra penale, incrina decisamente la coerenza interna della scelta del legislatore tradottasi dapprima nell'art. 17, comma 30-ter e successivamente nel combinato disposto dell'art. 51 commi 6 e 7 c.g.c., rendendo irragionevole e, quindi, costituzionalmente illegittima, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della intrinseca irrazionalita' della disciplina e della disparita' di trattamento risultante, l'esclusione della generale azione risarcitoria nelle ipotesi di danno all'immagine causato dalla commissione di fatti di reato non piu' punibili per intervenuta prescrizione, pur nel compiuto accertamento degli eventi imputati al pubblico ufficiale responsabile. L'azione risarcitoria per danno all'immagine dell'amministrazione risulta, infatti, prevista per fatti dannosi di minore gravita', (tenuto conto del tipo di sanzione prevista dal legislatore in caso di violazione) quali quelli relativi alle due ultime fattispecie citate, che in astratto non costituiscono neppure reato (art. comma 12, della legge 6 novembre 2012, n. 190 e art. 46, comma 1, del decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33), mentre risulta esclusa per danni all'immagine causati dai piu' gravi fatti di reato, produttivi della stessa tipologia di danno e per di piu' recanti carattere plurioffensivo, derivante dalla concorrenza di aggressione a piu' beni giuridici tutelati, individuali e collettivi (integrita' personale, liberta' civili di manifestare pacificamente e senz'armi). Se a quanto evidenziato si aggiungono le diversita' di trattamento, ingiustificate sul piano giuridico, che la norma censurata determina, non puo' non dubitarsi della legittimita' costituzionale della medesima disposizione, per violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. che impone parita' di trattamento di situazioni analoghe e per violazione del canone di ragionevolezza intrinseca, desunto dallo stesso art. 3, che esige conformita' dell'ordinamento a valori di giustizia e di equita' dallo stesso tutelati ed a criteri di coerenza logica, teleologica e storico-cronologica, e che costituisce un presidio contro l'eventuale manifesta irrazionalita' o iniquita' delle conseguenze della norma (Corte Cost. sent. n. 46 del 1993 e n. 81 del 1992), principio che risulta violato nel momento in. cui la tutela dell'immagine dell'amministrazione non viene accordata o negata a seconda dell'uniforme accertamento sulla sussistenza o meno del danno, bensi' sulla diversita' del fatto generatore, rilevante ora penalmente ora extra penalmente, alla stregua di una individuazione, di fatto, affidata al mero arbitrio del legislatore ordinario. Non solo. La violazione del principio di eguaglianza sostanziale e' configurabile con riferimento al diverso trattamento giuridico riservato ai privati cittadini lesi nell'integrita' fisica rispetto al diritto alla reputazione della Pubblica amministrazione. I primi, nella vicenda sottoposta all'odierno esame, hanno potuto ottenuto il ristoro delle spese processuali di costituzione nel giudizio penale (uno di essi anche il ristoro dei danni patiti a seguito di transazione), mentre il Ministero dell'interno e' stato chiamato in sede penale, quale responsabile civile ai sensi dell'art. 28 comma 2 Cost., a rispondere dei danni cagionati dal funzionario infedele in violazione dei doveri istituzionali. In buona sostanza, il medesimo fatto storico, generatore di responsabilita' civile per contatto amministrativo, in assenza di condanna penale irrevocabile (ma in presenza di pieno accertamento sul fatto a cura del giudice penale sfociato in una pronuncia di prescrizione) inibisce alta Pubblica amministrazione razione diretta volta al ristoro dei danni alla propria pubblica reputazione, per un fatto doloso divenuto non punibile e, per l'effetto, inopinatamente non risarcibile. La irragionevole limitatezza della previsione legislativa si configura altresi' distonica rispetto al condivisibile orientamento espresso dalla Corte Europea dei diritti dell'Uomo (sentenza Rigolio vs Italia, depositata il 14 maggio 2014), la quale ha ribadito la natura risarcitoria e non sanzionatoria del danno all'immagine. Ergo, il superamento del termine prescrizionale, necessario per assicurare la punibilita' del fatto penalmente rilevante, non dovrebbe impingere alla risarcibilita' del medesimo fatto storico per danno all'immagine. In estrema sintesi sulla questione - e a tacer il rilievo che la preclusione processuale riferita alla prescrizione del delitto ingenera nel reo comportamenti processuali dilatori di indebita valenza premiale - puo' mai essere ragionevole l'esclusione di responsabilita' civile nei confronti dell'autore dell'atto doloso, solo per il sopraggiungere della prescrizione penale? 2. L'intrinseca irragionevolezza insita nella norma censurata, si rinviene inoltre nella violazione del principio di buon andamento e l'imparzialita' della Pubblica amministrazione ai sensi dell'art. 97 Cost. L'organo giurisdizionale costituzionale ha identificato il danno derivante dalla lesione del diritto all'immagine della Pubblica amministrazione nel pregiudizio recato alla rappresentazione che essa ha nella sua dimensione pubblica ed esterna (reputazione) in conformita' al modello delineato dall'art. 97 Cost., individuando, pertanto, sostanzialmente in questa norma costituzionale il fondamento della rilevanza di tale diritto (Corte Cost. sent. n. 355 del 2010). La Corte ha statuito che il riconoscimento dell'esistenza di diritti "propri" degli enti pubblici tra cui il diritto all'immagine «deve necessariamente tenere conto della peculiarita' del soggetto tutelato e della conseguente diversita' dell'oggetto di tutela, rappresentato dall'esigenza di assicurare il prestigio, la credibilita' e il corretto funzionamento degli uffici della pubblica amministrazione (sentenza n. 172 del 2005), ritenendo in questa prospettiva, non manifestamente irragionevole ipotizzare differenziazioni di tutele, che si possono attuare a livello legislativo, anche mediante forme di protezione dell'immagine dell'amministrazione pubblica a fronte di condotte dei dipendenti, specificamente tipizzate, meno pregnanti rispetto a quelle assicurate alla persona fisica». (sentenza n. 355 del 2010). Il vaglio di ragionevolezza impone pero' di verificare che il bilanciamento degli interessi costituzionalmente rilevanti non sia stato realizzato con modalita' tali da determinare il sacrificio o la compressione di uno di essi in misura eccessiva e pertanto incompatibile con il dettato costituzionale. Tale giudizio deve svolgersi «attraverso ponderazioni relative alla proporzionalita' dei mezzi prescelti dal legislatore nella sua insindacabile discrezionalita' rispetto alle esigenze obiettive da soddisfare o alle finalita' che intende perseguire» (Corte cost. sent. n. 1130 del 1988) ed ha lo scopo di «valutare se la norma oggetto di scrutinio, con la misura e le modalita' di applicazione stabilite, sia necessaria e idonea al conseguimento di obiettivi legittimamente perseguiti, in quanto tra piu' misure appropriate, prescriva quella meno restrittiva dei diritti a confronto e stabilisca oneri non sproporzionati rispetto al perseguimento di detti obiettivi» (sent. n. 1 del 2014). Il sindacato di «intrinseca irragionevolezza» assume la forma del controllo circa l'adeguatezza della scelta legislativa rispetto al caso regolato. Nel respingere le censure di illegittimita' costituzionale riferite all'art. 17 comma 30-ter del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, la Corte ha rinvenuto la ratio ispiratrice della norma sottoposta al proprio vaglio, nell'intenzione di 'limitare ulteriormente l'area della gravita' della colpa del dipendente incorso in responsabilita', proprio all'evidente scopo di consentire un esercizio dell'attivita' di amministrazione della cosa pubblica, oltre che piu' efficace ed efficiente, il piu' possibile scevro da appesantimenti, ritenuti dal legislatore eccessivamente onerosi, per chi e' chiamato, appunto, a porla in essere. (Corte cost. sent. n. 355 del 2010). La norma, infatti, intende «circoscrivere oggettivamente i casi in cui e' possibile, sul piano sostanziale e processuale, chiedere il risarcimento del danno in presenza della lesione dell'immagine dell'amministrazione imputabile a un dipendente di questa», «sulla base della considerazione secondo cui l'ampliamento dei casi di responsabilita' di tali soggetti, se non ragionevolmente limitata in senso oggettivo, e' suscettibile di determinare un rallentamento nell'efficacia e tempestivita' dell'azione amministrativa dei pubblici poteri, per effetto dello stato diffuso di preoccupazione che potrebbe ingenerare in coloro ai quali, in definitiva, e' demandato l'esercizio dell'attivita' amministrativa.» (Corte cost. sent. n. 355 del 2010). Cio' posto, il profilo di censura che viene in rilievo con riferimento alla «ragionevolezza intrinseca» della disposizione, attiene alla idoneita', alta proporzionalita' e alla necessita' del mezzo scelto per l'attuazione dell'intento legislativo; mezzo che al remittente appare non solo sproporzionato ed eccessivo rispetto allo scopo, ma anche non necessario e inidoneo al conseguimento,degli obiettivi legittimamente perseguiti. Giammai la finalita' di consentire «un esercizio dell'attivita' di amministrazione della cosa pubblica, oltre che piu' efficace ed efficiente, il piu' possibile scevro da appesantimenti» puo' essere ottenuto precludendo l'azione risarcitoria per fatti di reato dolosi commessi dal pubblico ufficiale nell'esercizio delle funzioni di ordine pubblico, sottrattosi alla sanzione penale solo per intervenuta prescrizione. Rispetto a fattispecie di ben altro tenore, al fine di valutare la ragionevolezza dell'intervento, non puo' non tenersi conto del fatto che il legislatore, allo scopo di limitare la responsabilita' dei pubblici dipendenti, e' gia' piu' volte intervenuto, con provvedimenti normativi riconosciuti legittimi dalla stessa Corte costituzionale (sentenza n. 371 del 1998; sentenza n. 453 del 1998), finalizzati a restringere la sfera di detta responsabilita', (legge 14 gennaio 1994 n. 20; decreto-legge 23 ottobre 1996 n. 543), limitando il risarcimento alle sole condotte dannose connotate da dolo o colpa grave e la trasmissibilita' del debito agli eredi solo nel caso di illecito arricchimento del dante causa e di conseguente illecito arricchimento degli eredi stessi, prevedendo l'insindacabilita' delle scelte discrezionali e l'obbligo di tenere conto dei vantaggi comunque conseguiti dall'amministrazione o dalla comunita' amministrata, fissando la regola generale della parziarieta' dell'obbligazione di risarcimento, limitando al quinquennio il termine prescrizionale (art. 1 commi 1-4 della legge 14 gennaio 1994 n. 20) e sancendo l'obbligo di rimborsare in ogni caso al dipendente prosciolto nel processo per danno erariale le spese legali sostenute (art. 3, comma 2-bis del decreto-legge n. 543/1996, art. 18, comma 1, del decreto-legge n. 67/1997 e art. 10-bis, comma 10 del decreto-legge n. 203/2005). La finalita' perseguita dal legislatore risulta gia' abbondantemente soddisfatta da strumenti piu' consorti, quali quelli teste' enunciati. La scelta di restringere ulteriormente i confini della responsabilita' per i danni causati all'amministrazione, circoscrivendo il risarcimento dei danni all'immagine nelle sole ipotesi in cui gli stessi siano conseguenti ad una condanna penale irrevocabile, peraltro non raggiunta per intervenuta prescrizione (dopo condanna nel merito), e restringendo, dunque, di conseguenza, i confini della tutela del diritto dell'amministrazione all'onore e alla pubblica reputazione, appare misura eccessiva ed esuberante rispetto allo scopo e, pertanto, secondo il parametro costituzionale dell'art. 97, intrinsecamente irrazionale. Precludere l'obbligo del pubblico dipendente di risarcire il danno all'immagine dell'Amministrazione causato, come nel caso di specie, da funzionari appartenenti alla Polizia di Stato nei confronti dei quali e' stata acclarata la responsabilita' materiale dei fatti di reato ascritti loro per avere, nell'esercizio delle loro funzioni di ordine pubblico, commesso violenza privata e lesioni in pregiudizio di pacifici manifestanti, non sembra misura idonea ad agevolare il raggiungimento dell'obiettivo del buon andamento dell' Amministrazione o strumento in qualche modo funzionale all'attuazione dei principi di legalita', di imparzialita', di economicita' e di trasparenza che costituiscono il modello fondante dell'azione amministrativa previsto dall'art. 97 Cost. Appare invero' ragionevole ritenere che l'obiettivo di una amministrazione efficiente ed imparziale avrebbe maggiori probabilita' di essere raggiunto ampliando, a scopo quanto meno dissuasivo, e non certamente restringendo, la sfera di responsabilita' del pubblico dipendente che approfitta delle funzioni svolte per delinquere (e, in tal senso, del resto, sembra muoversi lo stesso legislatore, come si evince dalle fattispecie ampliative delle ipotesi di danno all'immagine della Pubblica amministrazione). Ne consegue che l'eccessivo e sproporzionato sacrificio del diritto all'onore ed alla reputazione della Pubblica amministrazione imposto dalla disposizione normativa censurata, non trovando giustificazione nella necessita' di un bilanciamento al fine di tutelare un altro diritto costituzionalmente protetto e potenzialmente con esso confliggente, e' da ritenere costituzionalmente illegittimo. 3. La disposizione censurata viola l'effettivita' della giurisdizione contabile, sancita dal medesimo codice in base all'art. 2 «la giurisdizione contabile assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo» e all'art. 3 (principio di concentrazione «... il principio di effettivita' e' realizzato attraverso la concentrazione davanti al giudice contabile di ogni forma di tutela degli interessi pubblici e dei diritti dei soggetti coinvolti, a garanzia della ragionevole durata del processo». Nel disporre il richiamo alla condanna penale irrevocabile, l'art. 51 commi 6 e 7, del c.g.c. produce, nella materia del danno all'immagine, un ingiustificato restringimento dell'azione erariale di danno provocando un insanabile contrasto con te sopra richiamate disposizioni, che costituiscono diretta ripresa dei principi contenuti all'art. 20, comma 2, lett. a e b, della legge di delega (legge 7 agosto 2015, n. 124), a sua volta attuativa dell'art. 103 comma 2 della Costituzione, quale norma interposta (parametri normativi di riferimento costituzionale articoli 103 e 76 Cost.). L'inammissibilita' dell'azione erariale nel caso sottoposto al vaglio di costituzionalita' determina, rebus sic stantibus, l'inammissibilita' della domanda attorea, impedendo al Pubblico Ministero contabile di difendere i diritti di un soggetto coinvolto (il Ministero dell'interno), in base al principio di effettivita' della tutela e della concentrazione della giurisdizione in capo al giudice naturale precostituito per legge: il giudice contabile. La preclusione e' tanto piu' grave sol che si rifletta sul passaggio motivazionale reso dalla Corte nella nota pronuncia n. 355 del 2010 a proposito dell'allora censurata disposizione di cui all'art. 17 comma 30-ter «la norma deve essere univocamente interpretata... nel senso che al di fuori delle ipotesi tassativamente previste di responsabilita' per danni all'immagine dell'ente pubblico di appartenenza non e' configurabile siffatto tipo di tutela risarcitoria». Idem est: la Pubblica amministrazione in caso di reato doloso plurioffensivo, dichiarato prescritto, che ha cagionato un grave nocumento alla reputazione pubblica, non ha azione nei confronti del funzionario infedele. Si produce dunque uno spazio giuridicamente vuoto che rende frammentaria e non effettiva la tutela erariale e, con essa, la giurisdizione contabile che di tali fattispecie giudica. La preclusione normativa, appare dunque incidente in senso irragionevolmente limitativo del potere di delega affidato al Governo con la legge 7 agosto 2015, n. 124 (art. 1, comma 2, lett. a e b), il cui compito precipuo e' rendere effettiva la giurisdizione contabile adeguandola, anche con disposizioni innovative, ai principi della Costituzione e del diritto Europeo (che mal tollera limitazioni di responsabilita' per dolo), alla giurisprudenza della Corte costituzionale e delle giurisdizioni superiori. L'assenza di previsione di responsabilita' a titolo di danno all'immagine per un reato doloso dichiarato prescritto nei termini ivi descritti determina, ad avviso del remittente, un vizio sostanziale della legge delegata rispetto ai criteri direttivi imposti al Governo dalle Assemblee legislative, producente un'insanabile irrazionalita' sistematica, ad onta del fine dichiarato di' rendere effettiva la giurisdizione contabile a tutela degli interessi dei soggetti pubblici coinvolti (per il sindacato sulle leggi di delega, Corte Cost. sent. n. 293/2010, n. 272/2012). Non e', pertanto, manifestamente infondato il dubbio di costituzionalita' in relazione all'art. 51, commi 6 e 7, del decreto legislativo 26 agosto 2016 n. 174 nella parte in cui esclude l'esercizio dell'azione del P.M. contabile per il risarcimento del danno all'immagine conseguente a reati dolosi commessi da pubblici dipendenti a danno delle pubbliche amministrazioni; dichiarati prescritti cori sentenza passata in giudicato pienamente accertativa della responsabilita' dei fatti ai fini della condanna dell'imputato al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili costituite. Per le ragioni che precedono, in applicazione dell'art. 23 della legge costituzionale n. 87/1953, riservata ogni altra decisione all'esito del giudizio innanzi alla Corte costituzionale, la Sezione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 51, commi 6 e 7 del decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174, con riferimento agli articoli 3, 76, 97 e 103 della Costituzione e dispone la rimessione degli atti alla Corte costituzionale per la relativa decisione.