Ricorso  della  Regione  Emilia  Romagna   (codice   fiscale   n.
80062590379), in  persona  del  Presidente  della  Giunta  regionale,
legale  rappresentante  pro  tempore,   signor   Stefano   Bonaccini,
autorizzato con deliberazione della Giunta regionale n. 1910  del  12
novembre 2018 (allegato 1), rappresentata e difesa, congiuntamente  e
disgiuntamente, per mandato e procura speciale a margine del presente
atto,  dal   prof.   avv.   Giandomenico   Falcon   (codice   fiscale
FLCGDM45C06L736E) del Foro di Padova, con studio in via San  Gregorio
Barbarigo  n.  4,  telefax  per  comunicazioni   049   8776503,   Pec
giandomenico.falcon@ordineavvocatipadova.it e dall'avv.  Luigi  Manzi
(codice fiscale MNZLGU34E15H501Y) del Foro di Roma, ed  elettivamente
domiciliata presso lo studio di quest'ultimo in via  Confalonieri  n.
5,    Roma,    telefax    per    comunicazioni    06/3211370,     Pec
luigimanzi@ordineavvocatiroma.org 
    Contro la Presidenza del Consiglio dei ministri, in  persona  del
Presidente in carica, rappresentato e difeso ex lege  dall'Avvocatura
generale dello Stato; 
    Per  la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale,   nei
termini e sotto i profili illustrati nel presente ricorso,  dell'art.
13, commi 02, 03 e 04, del decreto-legge 25 luglio 2018, n.  91,  nel
testo risultante dalla legge di conversione  21  settembre  2018,  n.
108, per violazione degli articoli 3, 5, 77, 81, 97, primo e  secondo
comma, 114, 117, terzo e quarto  comma,  118,  119,  primo,  secondo,
quarto, quinto e  sesto  comma,  120,  secondo  comma,  e  136  della
Costituzione, dell'art. 5, comma 2, della legge cost. n. 1 del  2012,
e degli artt. 9 e 10  della  legge  n.  243  del  2012,  nonche'  dei
connessi principi di ragionevolezza, di tutela dell'affidamento e  di
leale collaborazione. 
 
                                Fatto 
 
    Nella Gazzetta Ufficiale - Serie generale del 21 settembre  2018,
n. 220, e' stata pubblicata la  legge  21  settembre  2018,  n.  108,
«Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 25 luglio
2018, n. 91, recante proroga  di  termini  previsti  da  disposizioni
legislative». 
    L'art. 1 di tale  legge  converte,  con  modificazioni  riportate
nell'allegato, il decreto-legge 25 luglio 2018, n.  91,  «Proroga  di
termini previsti da disposizioni legislative» e, per quanto interessa
il presente ricorso, introduce nell'art. 13 del decreto-legge i commi
02, 03, 04. 
    Tale articolo,  rubricato  «Proroga  di  termini  in  materia  di
finanziamento degli investimenti e di sviluppo  infrastrutturale  del
Paese», nel testo originario era composto da un unico comma,  che  in
effetti prorogava -  riaprendoli  -  i  termini  per  l'adozione  dei
decreti del Presidente del Consiglio  dei  ministri  di  riparto  del
fondo di cui all'art. 1, comma 140, della legge 11 dicembre 2016,  n.
232: termini che l'art. 1, comma 1072 della legge 27  dicembre  2017,
n. 205 (Bilancio di previsione dello  Stato  per  l'anno  finanziario
2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020) aveva  fissato
in sessanta giorni dalla propria entrata in vigore. 
    Tale originario art. 13, comma 1, del  decreto-legge  n.  91  del
2018, infatti, riferendosi ai predetti decreti, sostituiva  nell'art.
1, comma 1072, della legge n.  205  del  2017,  le  parole  «sono  da
adottare, ai sensi dell'art. 17 della legge 23 agosto 1988,  n.  400,
entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della  presente
legge» con le parole «sono adottati entro il 31 ottobre 2018». 
    In sede di conversione, nel corso del primo passaggio in  Senato,
il testo dell'art. 13 e' stato modificato con  l'introduzione  di  un
emendamento  aggiuntivo  che  -  benche'   contenuto   nel   «decreto
milleproroghe»  -  non  proroga  alcunche'  ma  al  contrario  blocca
l'operativita'  delle  convenzioni  finanziate  con  i   c.d.   bandi
periferie (comma 02). Di seguito, esso quantifica in 1.030 milioni di
euro il risparmio di spesa derivante negli anni da 2018 a 2021  dalla
rimodulazione degli impegni di spesa e dei  pagamenti  in  esecuzione
delle convenzioni sospese e destina tale  risparmio  ad  un  apposito
fondo del Ministero dell'economia e delle finanze (comma 03),  infine
finalizza tale fondo agli investimenti effettuati dagli  enti  locali
utilizzando il proprio avanzo di amministrazione (comma 04). 
    Testualmente, l'art. 13, comma 02, del  decreto-legge  stabilisce
ora che «l'efficacia delle convenzioni concluse sulla base di  quanto
disposto ai sensi  del  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri 29 maggio 2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale  n.  148
del  27  giugno   2017,   nonche'   delle   delibere   del   Comitato
interministeriale per la programmazione economica n. 2  del  3  marzo
2017 e n. 72 del 7 agosto 2017, adottate ai sensi dell'art. 1,  comma
141, della legge 11 dicembre 2016,  n.  232,  e'  differita  all'anno
2020"  ed  aggiunge  che,   «conseguentemente,   le   amministrazioni
competenti provvedono, ferma rimanendo la dotazione complessiva  loro
assegnata, a rimodulare i relativi impegni  di  spesa  e  i  connessi
pagamenti a valere sul Fondo per lo sviluppo e la coesione». 
    Il comma  03  quantifica  ora  gli  effetti  della  misura  e  la
destinazione del risparmio, disponendo che «gli effetti positivi  sul
fabbisogno  e  sull'indebitamento  netto  derivanti  dal  comma   02,
quantificati in 140 milioni di euro per l'anno 2018, 320  milioni  di
euro per l'anno 2019, 350 milioni di  euro  per  l'anno  2020  e  220
milioni di euro per l'anno 2021, sono destinati al fondo  di  cui  al
comma 04». 
    Il  comma  04  specifica  che  «nello  stato  di  previsione  del
Ministero  dell'economia  e  delle  finanze  e'  istituito,  con  una
dotazione, in termini di sola cassa, pari a 140 milioni di  euro  per
l'anno 2018, a 320 milioni di euro per l'anno 2019, a 350 milioni  di
euro per l'anno 2020 e a 220 milioni di  euro  per  l'anno  2021,  un
apposito fondo da utilizzare  per  favorire  gli  investimenti  delle
citta' metropolitane, delle  province  e  dei  comuni  da  realizzare
attraverso l'utilizzo dei risultati di amministrazione degli esercizi
precedenti». 
    Tali disposizioni, dunque,  da  un  lato  sottraggono  agli  enti
locali della regione risorse  gia'  ad  essi  destinate  (comma  02),
facendo confluire il corrispondente «risparmio» in un  fondo  statale
(comma 03); dall'altro, esse sembrano rimettere a disposizione  degli
enti locali le stesse risorse ad altro titolo (comma 04):  sennonche'
altro titolo e' meramente apparente, in quanto tali  fondi  sarebbero
destinati a favorire gli investimenti degli enti locali da realizzare
mediante l'utilizzo dei risultati di amministrazione  degli  esercizi
precedenti, cioe' mediante  l'utilizzo  di  fondi  gia'  propri,  che
secondo  la   giurisprudenza   costituzionale   essi   possono   gia'
liberamente utilizzare. 
    Giova rammentare che le risorse in parola - per quanto riguarda i
finanziamenti di cui alle delibere del Comitato interministeriale per
la programmazione economica n. 2 del 3 marzo  2017  e  n.  72  del  7
agosto 2017, adottate ai sensi dell'art. 1, comma 141, della legge 11
dicembre 2016, n. 232 -  erano  state  stanziate  nell'ambito  di  un
programma  di  riqualificazione  delle  periferie   urbane   previsto
dall'art. 1, commi 974-978, della legge n. 208 del 2015. 
    Il comma 974 dell'art. 1 di tale legge, infatti,  aveva  promosso
per l'anno 2016 un «Programma  straordinario  di  intervento  per  la
riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie  delle  citta'
metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia», finalizzato «alla
realizzazione di interventi urgenti per la rigenerazione  delle  aree
urbane degradate». 
    La rigenerazione doveva essere ottenuta «attraverso la promozione
di progetti di miglioramento della qualita'  del  decoro  urbano,  di
manutenzione, riuso e rifunzionalizzazione  delle  aree  pubbliche  e
delle strutture edilizie esistenti, rivolti  all'accrescimento  della
sicurezza territoriale e della capacita'  di  resilienza  urbana,  al
potenziamento delle prestazioni urbane  anche  con  riferimento  alla
mobilita' sostenibile, allo sviluppo di  pratiche,  come  quelle  del
terzo settore e del servizio civile, per l'inclusione sociale  e  per
la realizzazione di nuovi modelli di welfare metropolitano, anche con
riferimento all'adeguamento delle infrastrutture destinate ai servizi
sociali e culturali, educativi e didattici,  nonche'  alle  attivita'
culturali ed educative promosse da soggetti pubblici e privati». 
    Gli interventi nell'ambito del Programma erano scelti, tra quelli
proposti,  dal  Nucleo   per   la   valutazione   dei   progetti   di
riqualificazione, istituito presso la Presidenza  del  Consiglio,  in
base della coerenza con le finalita' del Programma e  considerando  -
tra i criteri di valutazione  -  «la  tempestiva  esecutivita'  degli
interventi e la capacita'  di  attivare  sinergie  tra  finanziamenti
pubblici e privati» (comma 976). 
    Il comma 978 aveva quindi finanziato  il  Programma,  consistente
nell'«insieme delle convenzioni e degli accordi stipulati»,  mediante
il Fondo per l'attuazione del Programma straordinario  di  intervento
per la riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie, dotato
di 500 milioni di  euro  nello  stato  di  previsione  del  Ministero
dell'economia e delle finanze, da  trasferire  al  bilancio  autonomo
della Presidenza del Consiglio dei ministri. 
    In forza di tali previsioni, in seguito ad  un  bando  e  ad  una
selezione,  erano  stati  individuati  120   interventi   meritevoli,
elencati nell'allegato al decreto del Presidente  del  Consiglio  dei
ministri  6  dicembre  2016,  «Approvazione  della  graduatoria   del
Programma straordinario di intervento per la riqualificazione  urbana
e la sicurezza delle periferie, di cui al decreto del Presidente  del
Consiglio dei ministri 25 maggio  2016»,  pubblicato  nella  Gazzetta
Ufficiale, Serie generale, del 5 gennaio 2017, n. 4. 
    Risultavano ammessi al finanziamento i primi 24 progetti. 
    Successivamente, la legge n. 232 del 2016, all'art. 1, comma 141,
aveva integrato  tali  stanziamenti,  prevedendo  che,  «al  fine  di
garantire  il  completo  finanziamento   dei   progetti   selezionati
nell'ambito  del  Programma  straordinario  di  intervento   per   la
riqualificazione urbana e la sicurezza delle periferie  delle  citta'
metropolitane e dei comuni capoluogo di provincia, di cui all'art. 1,
commi da 974  a  978,  della  legge  28  dicembre  2015,  n.  208,  a
integrazione delle risorse stanziate sull'apposito capitolo di  spesa
e di quelle assegnate ai sensi del comma 140 del  presente  articolo,
con delibera del Comitato  interministeriale  per  la  programmazione
economica (CIPE) sono destinate  ulteriori  risorse  a  valere  sulle
risorse disponibili del Fondo per lo sviluppo e la  coesione  per  il
periodo di programmazione 2014-2020». 
    La delibera del Comitato interministeriale per la  programmazione
economica 3 marzo 2017, recante «Fondo per lo sviluppo e la  coesione
2014 - 2020. Assegnazione di risorse al "Programma  straordinario  di
intervento per  la  riqualificazione  urbana  e  la  sicurezza  delle
periferie», ai sensi dell'art. 1 comma 141, legge 11  dicembre  2016,
n. 232»  aveva  quindi  integrato  le  risorse  disponibili  per  gli
interventi selezionati, in esecuzione dell'art. 1, comma  141,  della
legge n. 232 del 2016. 
    In  forza  di  tali  determinazioni  i   comuni   e   le   citta'
metropolitane  hanno  stipulato  le  convenzioni   ed   avviato   gli
interventi. 
    Il comma 02 blocca ora gli interventi  finanziati  in  esecuzione
dell'art. 1, comma 141, della legge n. 232 del 2016, impedendo - come
sembra necessario intendere - l'attuazione di  tutte  le  convenzioni
concluse  nell'ambito  dei  progetti  dal  n.  25  al  n.  120  della
graduatoria dei progetti ritenuti meritevoli di finanziamento di  cui
alla tabella approvata con decreto del Presidente del  Consiglio  dei
ministri 6 dicembre 2016. 
    Con il presente ricorso la Regione Emilia-Romagna impugna  l'art.
13, commi 02, 03 e 04, del decreto-legge n. 91 del  2018,  nel  testo
introdotto dalla legge di conversione n. 108 del 2018, ritenendo  che
tali  disposizioni,  singolarmente  e  tra  loro   combinate,   siano
costituzionalmente illegittime per i motivi di diritto che di seguito
si espongono, la cui illustrazione avra' anche cura di evidenziare il
modo nel quale  esse  si  traducano  in  indebite  restrizioni  della
capacita' amministrative degli enti locali e  della  stessa  regione,
cosi' ridondando in lesione delle sue competenze costituzionali. 
 
                               Diritto 
 
I. Legittimazione ed interesse al ricorso. 
    Le  norme  impugnate  sono  lesive,   prima   di   tutto,   delle
attribuzioni delle autonomie locali, perche' da un  lato  «congelano»
convenzioni   da   esse   stipulate,   incidendo   sulla    autonomia
amministrativa e  programmatoria  dell'ente  (comma  02),  dall'altro
sottraggono  risorse  ormai  proprie   dei   comuni   e   da   queste
contabilizzate nei  bilanci,  con  impegni  spese  e  pagamenti  gia'
programmati,  in  violazione  dell'autonomia  finanziaria   dell'ente
(commi 03 e 04). Inoltre, come si dira', il  comma  04  dichiara  una
destinazione del  Fondo  in  esso  previsto  che  si  traduce  in  un
finanziamento solo apparente degli enti locali. 
    Nonostante la lesione piu' diretta si verifichi in capo agli enti
locali, la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto,  a  partire
dal 2004, la legittimazione della  regione  a  proporre  impugnazioni
anche a tutela della autonomia comunale, sul rilievo che «la  stretta
connessione  ...  tra  le  attribuzioni  regionali  e  quelle   delle
autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze
locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle
competenze regionali» (sentenza n. 196 del 2004). La citata  sentenza
n. 196 del 2004 si  riferisce  alle  competenze  «in  particolare  in
materia urbanistica e in tema  di  finanza  regionale  e  locale»,  e
dunque esattamente le competenze specificamente implicate dalle norme
qui impugnate. 
    Sul piano sistematico, la legittimazione della regione ad agire a
tutela   delle   proprie   autonomie   locali   e'   stata   peraltro
implicitamente confermata dallo stesso legislatore ordinario, che con
l'art. 9, comma 2, della legge n. 131 del 2003, ha  novellato  l'art.
32, secondo comma, della legge n. 87 del 1953,  il  quale  stabilisce
che la questione di legittimita'  costituzionale  in  via  principale
puo'  essere   promossa   dal   Presidente   della   Giunta,   previa
deliberazione  della  Giunta  regionale,  «anche  su   proposta   del
Consiglio  delle  autonomie   locali».   Tale   proposta   del   CAL,
logicamente, si riferisce  alla  possibile  lesione  della  autonomia
degli enti locali. 
    Successivamente, con la sentenza n. 298 del 2009,  codesta  Corte
costituzionale ha ulteriormente confermato  la  legittimazione  delle
regione a far valere competenze degli enti locali, con l'affermazione
netta per cui queste «sono legittimate a denunciare la legge  statale
anche  per  la  lesione  delle  attribuzioni   degli   enti   locali,
indipendentemente  dalla  prospettazione   della   violazione   della
competenza legislativa regionale». Richiamato il principio per cui la
suddetta legittimazione sussiste in capo alle regioni, in quanto  «la
stretta  connessione,  in  particolare  [...]  in  tema  di   finanza
regionale e locale, tra le  attribuzioni  regionali  e  quelle  delle
autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze
locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle
competenze regionali», la Corte ha precisato  che  l'affermazione  si
riferisce, «in modo evidente, a tutte le attribuzioni  costituzionali
delle regioni e degli enti locali e prescinde, percio', dal titolo di
competenza   legislativa   esclusivo,   concorrente    o    residuale
eventualmente invocabile nella fattispecie» e  che  «in  particolare,
non richiede, quale condizione necessaria per la  denuncia  da  parte
della regione di un vulnus delle competenze locali, che  sia  dedotta
la violazione delle attribuzioni legislative regionali». 
    Ancora, nella sentenza n. 220 del 2013, in  tema  di  elettivita'
dei consigli provinciali, la Corte ha ribadito con decisione che  «la
giurisprudenza costituzionale  ha  ripetutamente  affermato  che  "le
regioni sono legittimate a denunciare la legge statale anche  per  la
lesione delle attribuzioni degli enti locali, indipendentemente dalla
prospettazione  della   violazione   della   competenza   legislativa
regionale" (ex plurimis, sentenze n. 311 del 2012, n. 298  del  2009,
n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del 2005 e n. 196 del 2004)». 
    Fermi  dunque  questi  principi  scolpiti  nella   giurisprudenza
costituzionale,  si  osserva  che  nel  presente   caso   e'   palese
l'interferenza  delle  disposizioni  impugnate,  anzitutto,  con   la
materia  regionale,  di  competenza  concorrente,  del  «governo  del
territorio», materia in cui rientra urbanistica, che e'  direttamente
interessata  dalle  convenzioni  stipulate  dagli   enti   locali   e
paralizzate dalle norme impugnate. 
    Se poi si considera che i diversi interventi possono  riguardare,
come si ricava dall'art. 1, comma 974, della legge n. 208  del  2015,
anche  opere  relative  -  a  titolo  di  esempio  -  alla  mobilita'
sostenibile, alla edilizia scolastica,  alla  costruzione  di  centri
culturali o biblioteche, ai centri anziani, ai mercati rionali,  alla
edilizia residenziale, risulta chiara l'interferenza, oltre che delle
potesta'  pianificatorie,  comunque  governate  e  coordinate   dalla
regione,  con  le  materie  di  competenza  residuale  dei  trasporti
pubblici  locali,  dell'istruzione,  della  valorizzazione  dei  beni
culturali, dell'assistenza sociale, dell'edilizia pubblica, coinvolte
per l'oggetto. 
    Anche  in  concreto  l'interesse  della  Regione   Emilia-Romagna
sussiste  pienamente,  visto  che  nella  graduatoria  dei   progetti
ritenuti meritevoli (e quindi finanziati), approvata con  il  decreto
del Presidente del Consiglio dei ministri 6 dicembre 2016, ci sono  -
oltre agli interventi proposti dal  Comune  di  Modena  (n.  6  della
graduatoria, finanziamento richiesto 18  milioni  di  euro)  e  dalla
Citta'  metropolitana  di   Bologna   (n.   24   della   graduatoria,
finanziamento   richiesto   €   39.721.315),   che   rientrando   nei
primi ventiquattro  posti  della   tabella   non   sono   interessati
dall'intervento qui censurato - anche  gli  interventi  proposti  dal
Comune di Forli' (n. 29 della graduatoria, finanziamento richiesto  €
8.302.616) dal Comune di Reggio nell'Emilia (n. 37 della graduatoria,
finanziamento richiesto € 17.811.853), dal Comune di Ravenna  (n.  73
della graduatoria, finanziamento richiesto € 12.808.167), dal  Comune
di Bologna  (n.  76  della  graduatoria,  finanziamento  richiesto  €
18.000.000),  dal  Comune  di  Parma  (n.   79   della   graduatoria,
finanziamento richiesto € 17.955.741,20), dal Comune di Piacenza  (n.
82 della  graduatoria,  finanziamento  richiesto  €  8.046.000),  dal
Comune di Cesena (n. 97 della graduatoria, finanziamento richiesto  €
1.800.000) e dal Comune di Rimini e di Ferrara (rispettivamente 102 e
103 della graduatoria, entrambi con un finanziamento richiesto  di  €
18.000.000). 
    Sotto altro profilo, l'esistenza  in  materia  di  uno  specifico
interesse regionale - oltre che dell'interesse degli enti locali -  a
proseguire i progetti  bloccati  dalla  norma  impugnata  e'  provato
dall'accordo raggiunto all'interno  della  Conferenza  unificata,  in
data 18 ottobre 2018,  accordo  che  ha  quindi  coinvolto  anche  le
regioni e non solo gli enti locali. 
    Per effetto di tale accordo,  il  Governo  ha  condiviso  con  le
regioni e gli enti locali l'opportunita'  che  venga  prevista  nella
legge di bilancio per il 2019 una serie di previsioni  in  base  alle
quali le convenzioni in essere con  i 96  enti  successivi  ai  primi
ventiquattro della graduatoria producano effetti finanziari a partire
dal 2019, restando acquisite ad apposito  fondo  statale  le  risorse
finanziarie derivanti dalle eventuali economie di gestioni o comunque
realizzate in fase di appalto o comunque in  corso  d'opera,  nonche'
gli eventuali ulteriori  residui  dei  finanziamenti  assegnati,  per
essere poi destinate al finanziamento di  spese  di  investimento  di
comuni e citta' metropolitane. 
    Per scrupolo di difesa  la  regione  precisa  che  essa  conserva
interesse al ricorso, nonostante il predetto accordo sancito in  sede
di Conferenza unificata il giorno 18 ottobre 2018. 
    In primo luogo,  occorre  osservare  che  l'accordo  concluso  in
Conferenza e' condizionato ad una successiva  attivita'  legislativa,
della quale ne' l'an e ne' il quando sono  nella  disponibilita'  del
Governo, trattandosi  di  introdurre  nuove  disposizioni  di  legge,
corrispondenti ad una competenza del Parlamento. 
    Per contro il potere di impugnativa della legge in via di  azione
e' soggetto a termini prestabiliti e perentori, sicche'  la  regione,
non essendo ancora stato adempiuto  l'impegno  assunto  dal  Governo,
deve comunque adire codesta ecc.ma Corte  entro  il  termine  di  cui
all'art. 127, secondo comma, Cost. 
    Inoltre,  anche  a  prescindere  da  quanto  ora  detto,   stante
l'indisponibilita' delle  competenze  costituzionali,  gli  eventuali
accordi di  livello  politico  o  amministrativi  con  lo  Stato  non
incidono sul potere  regionale  di  contestare  la  costituzionalita'
della legge ai sensi dell'art. 127, secondo comma, Cost. Come codesta
ecc.  Corte  costituzionale  ha   sempre   ribadito   nella   propria
consolidata  giurisprudenza  «l'istituto  dell'acquiescenza  non   e'
applicabile  nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale  in  via
principale» (sentenza n. 171 del 2018, con rinvio, tra le molte, alle
sentenze n. 169 del 2017, n. 231 del 2016, n. 215 e n. 124 del  2015,
n. 139 del 2013, n. 71 del 2012 e n. 187 del 2011), anche in presenza
di vere e proprie intese validamente perfezionate (in questo senso si
veda, specificamente, la sentenza n. 169 del 2017, al punto 3). 
II. Illegittimita' costituzionale dell'art. 13, commi 02,  03  e  04,
del decreto-legge n. 91 del 2018, nel testo risultante dalla legge di
conversione n. 108 del 2018, per violazione dell'art. 77  Cost.,  per
difetto di omogeneita' rispetto all'oggetto del decreto-legge. 
    Gli impugnati commi 02, 03 e 04 dell'art. 13 del decreto-legge n.
91   del   2018   sono,   ad   avviso   della   ricorrente   regione,
costituzionalmente illegittimi in primo luogo per  una  ragione  che,
secondo  la   giurisprudenza   di   codesta   Corte,   ha   carattere
pregiudiziale, sul piano logico-giuridico, rispetto ad  altri  motivi
di doglianza, in quanto «investe lo stesso corretto  esercizio  della
funzione normativa primaria», cosi' che «la sua eventuale  fondatezza
eliderebbe in radice il contenuto precettivo della norma» (in  questi
termini, e con rinvio ai precedenti, la sentenza n. 154 del 2015; nel
senso  del  carattere  logicamente  preliminare  della   censura   di
violazione dell'art. 77 Cost. si veda anche la sentenza  n.  186  del
2015). 
    Esse, infatti violano l'art. 77  della  Costituzione,  in  quanto
sono  norme   intruse   rispetto   all'oggetto   del   decreto-legge,
rappresentato, come risulta gia' dal titolo dell'atto, dalla  proroga
di termini in scadenza. 
    Secondo l'insegnamento di codesta Corte costituzionale, le  norme
aggiunte  in  sede  di  conversione  del  decreto-legge,  essendo  di
produzione parlamentare, non sono condizionate nella  loro  validita'
alla sussistenza  dei  requisiti  straordinari  di  necessita'  e  di
urgenza,  che  ai  sensi  dell'art.   77,   secondo   comma,   Cost.,
rappresentano  il  presupposto  costituzionale  per  la  decretazione
legislativa di urgenza. 
    Ma esse sono condizionate dal legame procedimentale che unisce il
decreto-legge alla legge di conversione; ed e' tale legame a  rendere
illegittimo l'inserimento nel decreto di disposizioni che  non  siano
attinenti alla materia oggetto del decreto-legge o alle finalita'  di
quest'ultimo, come richiesto dalla giurisprudenza costituzionale (tra
le molte, sentenze n. 22 del 2012, n. 237 del 2013, n. 32  del  2014,
n. 254 del 2015) e gia' prima dai regolamenti parlamentari (v. l'art.
96-bis, comma 7, della Camera,  a  mente  del  quale  «il  Presidente
dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi  che
non siano strettamente attinenti alla materia del decreto-legge»;  v.
anche  l'art.  97  del  Senato,  come,  interpretato   dalla   prassi
parlamentare). 
    Come ha chiarito in modo limpido la sentenza n. 32 del 2014,  «la
legge di conversione per l'approvazione della quale le Camere,  anche
se sciolte, si riuniscono entro cinque giorni dalla presentazione del
relativo disegno di legge (art. 77, secondo comma, Cost.) - segue  un
iter parlamentare semplificato e caratterizzato dal rispetto di tempi
particolarmente rapidi, che  si  giustificano  alla  luce  della  sua
natura  di  legge  funzionalizzata   alla   stabilizzazione   di   un
provvedimento avente forza di  legge,  emanato  provvisoriamente  dal
Governo e valido per un lasso temporale breve e circoscritto». Ed  e'
dalla connotazione di «legge a competenza tipica» - funzionalizzata e
specializzata - della legge di conversione che  discendono  i  limiti
alla emendabilita' del decreto-legge e l'impossibilita', per  questa,
di aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore: «diversamente  -  ricorda
ancora la sentenza n. 34 del  2014  -  l'iter  semplificato  potrebbe
essere sfruttato per scopi estranei a quelli che giustificano  l'atto
con forza  di  legge,  a  detrimento  delle  ordinarie  dinamiche  di
confronto parlamentare». 
    Il divieto di spezzare la sequenza con norme intruse  vale  anche
in caso di provvedimenti governativi ab origine a contenuto  plurimo,
per i  quali,  anzi,  il  collegamento  deve  essere  particolarmente
stretto  e  va  verificato  «rispetto  alla   ratio   dominante   del
provvedimento originario considerato» (sentenza n. 154 del 2015),  in
considerazione della piu'  volte  riconosciuta  problematicita',  sul
piano costituzionale, di decreti d'urgenza aventi  questa  struttura,
anche in considerazione di quanto  dispone  l'art.  15,  terzo  comma
della legge n. 400 del 1988 (che richiede  un  contenuto  «specifico,
omogeneo e corrispondente al titolo»). Tale  problematicita'  sarebbe
amplificata se la pluralita' dei contenuti potesse diventare pretesto
per   interventi   ad   ampio   raggio   nei   piu'   vari    settori
dell'ordinamento, approfittando del procedimento accelerato  previsto
per la legge di conversione. 
    Ora, se si considera  il  contenuto  delle  norme  impugnate,  e'
palese che esse costituiscono norme  intruse,  estranee  rispetto  al
contenuto del decreto-legge,  il  quale  detta  norme  parallelamente
dirette  a  prorogare  termini  in  scadenza.   In   relazione   alle
convenzioni di cui al  bando  periferie  non  vi  era  invece  alcuna
esigenza di prorogare termini in scadenza;  ne'  le  norme  impugnate
dispongono in concreto una proroga. 
    Non tragga in inganno la manipolazione  temporale  dell'efficacia
delle convenzioni, rinviata al 2020 dal comma 02.  Infatti,  come  e'
reso evidente dai successivi commi 03 e 04,  non  si  tratta  di  una
proroga dell'efficacia delle convenzioni, cioe'  di  un  congelamento
delle stesse fino al 2020; e nemmeno si tratta, a ben vedere,  di  un
differimento della efficacia delle  stesse,  giacche'  le  norme  qui
censurate tolgono sine die la copertura finanziaria a tali interventi
e riallocano tali risorse per  generali  operazioni  di  investimento
assunte dagli enti in avanzo di amministrazione, nei  limiti  coperti
da tale avanzo. 
    Ora, una tale operazione equivale ad un recesso, da  parte  dello
Stato, dalle convenzioni gia' stipulate e  gia'  finanziate;  e  tale
recesso si traduce in una diversa scelta di allocazione delle risorse
la quale, anche a  prescindere  dalla  illegittimita'  in  se'  della
decisione (per le ragioni che si argomentano  ai  punti  successivi),
non poteva comunque essere introdotta abusivamente nel  decreto-legge
«milleproroghe», avendo invece la  sua  naturale  collocazione  nella
legge di bilancio e nelle altre leggi  finanziarie  correttive  delle
manovre di finanza pubblica, cui la Corte, con la sentenza n. 61  del
2018, ha riconosciuto una capacita' di «regia di interventi complessi
e coordinati, finalizzati ad assicurare  sostenibilita'  economica  e
sviluppo, su  diverse  scale  territoriali  nel  cui  ambito  vengono
inevitabilmente coinvolte anche competenze regionali residuali». 
    Corrispondentemente, le  convenzioni  sospese  non  sono  neppure
suscettibili di tornare operative dopo il 2020. A  prescindere  dalla
circostanza che a tre anni  di  distanza  possono  essere  mutate  le
situazioni  di  fatto  sulle  quali  si  innestavano  gli  interventi
progettati, e' evidente  che  per  l'operativita'  delle  convenzioni
saranno necessarie nuove disposizioni legislative,  rientranti  nella
discrezionalita' del legislatore. Non si tratta dunque ne' di proroga
di termini ne' di mera sospensione per un periodo predeterminato,  ma
di  una  pura  decisione  di  spostare  determinate  risorse  da  una
finalita' ad un'altra: cio' che non ha - appunto - nulla a  che  fare
con il decreto milleproroghe. 
    Di cio' si  trae  conferma  se  poi  si  guarda  alla  ratio  del
decreto-legge esposta nel preambolo - elemento che la  giurisprudenza
costituzionale valorizza specificamente, ai fini  del  sindacato  dei
decreti-legge alla stregua dell'art. 77 Cost. (cosi', da  ultimo,  la
sentenza n. 5 del 2018)  -  risulta  confermata  l'estraneita'  delle
disposizioni impugnate rispetto alle finalita' del decreto. 
    Il preambolo, infatti,  giustifica  l'intervento  del  Governo  a
mezzo di decreto-legge con la «straordinaria necessita' ed urgenza di
provvedere alla proroga e definizione di termini di prossima scadenza
al fine di  garantire  la  continuita',  l'efficienza  e  l'efficacia
dell'azione amministrativa  e  l'operativita'  di  fondi  a  fini  di
sostegno agli investimenti, nonche' di  provvedere  alla  proroga  di
termini per  il  completamento  delle  operazioni  di  trasformazioni
societarie e di conclusione degli accordi di  gruppo  previste  dalla
normativa in materia di  banche  popolari  e  di  banche  di  credito
cooperativo». 
    Dunque, se sono queste le finalita' del decreto-legge,  la  norma
impugnata risulta non solo intrusa, ma persino contraria  alla  ratio
del decreto, visto che  essa,  anziche'  garantire  «la  continuita',
l'efficienza,   e   l'efficacia    dell'azione    amministrativa    e
l'operativita' di  fondi  a  fini  di  sostegno  agli  investimenti»,
vanifica  azioni  amministrative  gia'  intraprese,   pregiudicandone
continuita' ed efficienza (di qui la censura al successivo punto III)
e sterilizza fondi gia' impegnati e  gia'  investiti,  avocandoli  al
bilancio dello Stato e rendendoli inoperativi  fino  alla  successiva
riassegnazione sotto forma di autorizzazione ad  utilizzare  l'avanzo
di  amministrazione:   operazione   che   peraltro   costituisce   un
finanziamento solo apparente, che in realta' contraddice  l'esplicito
giudicato di codesta ecc.ma Corte costituzionale in  materia  di  uso
dell'avanzo, come meglio sara' esposto sotto, al punto VII. 
    Accertato il vizio, chiara ne e' la ridondanza sia sulle funzioni
amministrative dei comuni, e segnatamente sulle funzioni  in  materia
di urbanistica, e sulla finanza comunale, sia sulle competenze  della
regione, principalmente in materia  di  governo  del  territorio,  di
competenza concorrente, ai sensi dell'art. 117, terzo  comma,  Cost.,
ma anche nelle diverse  materie,  anche  residuali,  coinvolte  quoad
obiectum dagli interventi bloccati (si pensi  alla  istruzione,  alla
assistenza sociale, ai trasporti pubblici locali, alla valorizzazione
dei beni culturali,  al  turismo),  e  piu'  in  generale  di  centro
promotore e di regia dell'attivita' degli enti locali necessario  per
realizzare  quell'«efficiente  sistema  delle  autonomie  locali   al
servizio  dello  sviluppo  economico,  sociale  e  civile»   previsto
dall'art. 4, comma 4, del decreto legislativo n. 267 del 2000,  testo
unico enti  locali,  come  riconosciuto  anche  dalla  giurisprudenza
costituzionale quando ha descritto il ruolo della regione nei termini
di «centro propulsore e di coordinamento  dell'intero  sistema  delle
autonomie locali» (sentenza  n.  343  del  1991,  ripresa  poi  dalle
sentenze n. 408 del 1998 e nn. 179 e 229 del 2001). 
III. Illegittimita' costituzionale dell'art. 13, commi 02, 03  e  04,
per violazione del principio di ragionevolezza  di  cui  all'art.  3,
primo  comma,  Cost.,  e  dei  connessi  principi  costituzionali  di
certezza del diritto e di affidamento. Violazione  del  principio  di
buon andamento della pubblica amministrazione  di  cui  all'art.  97,
secondo comma, Cost. 
    Anche  nel  loro  merito  specifico,  ad  avviso  della   Regione
Emilia-Romagna  i   commi   02,   03   e   04   dell'art.   13   sono
costituzionalmente illegittimi in  quanto  essi,  nel  loro  insieme,
determinano la irragionevole ed imprevedibile revoca di finanziamenti
per progetti in corso d'opera, con lesione  anche  del  principio  di
buon andamento della amministrazione. 
    Che questo sia l'effetto dell'art. 13, comma 02, e' indubitabile,
visto  che  la  disposizione,  nel  secondo   periodo,   impegna   le
amministrazioni locali, conseguentemente,  a  rimodulare  i  relativi
impegni di spesa e i connessi pagamenti a valere  sul  Fondo  per  lo
sviluppo e la coesione. 
    La ricorrente non ignora, naturalmente, come la giurisprudenza di
codesta Corte costituzionale ha affermato in diverse  occasioni,  che
la revoca di  finanziamenti  statali,  che  non  siano  ancora  stati
utilizzati dagli enti territoriali destinatari, non e' di per  se'  e
solo percio' illegittima. 
    Tuttavia, il fatto che la revoca  non  sia  di  per  se'  e  solo
percio' illegittima non significa  certo  che  essa  debba  risultare
legittima in ogni circostanza e per qualunque ragione decisa. 
    Al contrario, le decisioni piu' recenti sono  molto  attente  nel
connettere la giustificazione della revoca di fondi ad  una  condotta
inerte  dell'amministrazione  beneficiaria,  o  comunque  al  mancato
impegno delle somme da parte di queste. 
    Si veda, in particolare, la sentenza n. 143 del  2017,  al  punto
9.2,  in  cui  una  norma  relativa  alla  revoca  dei  finanziamenti
derivanti  dal  Piano   di   azione   coesione   e'   sottoposta   ad
interpretazione   costituzionalmente    orientata,    riferendo    la
revocabilita' alle sole risorse non  impegnate,  con  la  conseguenza
«che non  saranno  disponibili,  ai  fini  della  nuova  destinazione
prevista  dal  comma  110,  le  risorse  vincolate  al  completamento
dell'intervento come scandito  dal  cronoprogramma»;  ed  e'  «nei  i
limiti indicati»  che  «l'intervento  statale,  dunque,  non  risulta
irragionevole ne' lesivo dei principi di affidamento  e  di  certezza
del diritto». In quel caso,  dunque,  e'  stata  decisiva  «l'assenza
d'impegni  giuridicamente  vincolanti  sulle  risorse»  per   rendere
«legittima la  sottrazione  delle  stesse  alle  regioni  e  la  loro
destinazione a finalita' d'interesse generale». 
    A fronte di convenzioni gia' stipulate, fonte di obbligazioni tra
pubbliche   amministrazioni,   inclusa   quella   statale,   e    tra
amministrazioni e  privati,  l'intervento  legislativo  si  configura
dunque come legge provvedimento, il cui scrutinio  sotto  il  profilo
della   ragionevolezza   e   della   tutela    dell'affidamento    e'
particolarmente intenso. 
    Nel presente  caso  alla  lesione  dell'affidamento  -  e  di  un
affidamento  particolarmente   qualificato,   perche'   l'aspettativa
fondata sulla legge precedente si era successivamente consolidata  in
atti  amministrativi  (decreto  del  Presidente  del  Consiglio   dei
ministri   e   delibere   del Comitato   interministeriale   per   la
programmazione economica) e aveva trovato sanzione nelle  convenzioni
giuridicamente vincolanti - si aggiunge  l'irrazionalita'  intrinseca
dell'azione legislativa nel suo complesso, visto che la  legge  aveva
promosso e finanziato i programmi proprio  sulla  base  dei  criteri,
previsti dall'art. 1, comma 978, della legge n. 208 del  2015,  della
«tempestiva esecutivita' degli  interventi»  e  della  «capacita'  di
attivare sinergie tra finanziamenti pubblici e privati». 
    Ora,  proprio  quei  progetti  che  erano  stati  scelti  per  la
tempestiva esecutivita' degli interventi (e quindi per  l'urgenza)  e
per  la  capacita'  di  attrarre  cofinanziamenti  privati  risultano
bloccati e rinviati (sine die, come si e' detto): il che  contraddice
sia l'urgenza gia' riconosciuta  dell'intervento,  sia  l'affidamento
del privato finanziatore, sia l'interesse pubblico ad un uso  sociale
del  capitale  privato,  interesse  costituzionalmente   riconosciuto
nell'art. 118, ultimo comma, Cost. 
    Anche in relazione alla  presente  censura,  ad  integrazione  di
quanto gia' diffusamente  allegato  nella  parte  in  Fatto  si  deve
evidenziare,  ai  fini  della  ridondanza  del  vizio,  da  un   lato
l'interferenza delle norme impugnate con le competenze  regionali  in
materia di urbanistica e nei diversi  settori  materiali  interessati
dall'intervento; dall'altro, la diretta incidenza dell'illegittimita'
sulle attribuzioni dei comuni in materia di urbanistica e sulla  loro
autonomia finanziaria, visto che e' tradito il loro  affidamento,  e'
bloccata  la  loro  attivita'  amministrativa  e  impedito  il   buon
andamento della amministrazione comunale,  con  ulteriore  ridondanza
sulla funzione della regione di governo  e  di  rappresentanza  degli
interessi anche locali, nei termini gia' sopra illustrati. 
IV. Illegittimita' costituzionale dell'art. 13, commi 02,  03  e  04,
per violazione del  principio  di  leale  collaborazione  (art.  120,
secondo comma,  Cost.)  e  dei  principi  e  metodi  di  legislazione
prescritti dall'art. 5 Cost. Violazione della autonomia politica  dei
Comuni (artt. 5 e 114, primo e secondo comma, Cost.) e dell'autonomia
amministrativa della regione e dei comuni (art. 118, primo e  secondo
comma, Cost.). 
    Il blocco degli interventi (comma 02) e la  connessa  sottrazione
di risorse (comma 03)  violano  anche,  ad  avviso  della  ricorrente
regione, il principio di leale collaborazione, in ragione  del  fatto
che  quegli  interventi  e  quei  finanziamenti  formano  oggetto  di
apposite convenzioni stipulate tra i singoli enti territoriali  e  lo
Stato. 
    Ne deriva che l'eventuale revoca unilaterale di tali fondi appare
lesiva di specifici accordi  consacrati  in  convenzioni  di  diritto
pubblico, e quindi del principio di  leale  collaborazione  che  tali
convenzioni permea e governa. 
    Non a caso, come si e'  ricordato  innanzi,  lo  stesso  Governo,
sancendo l'accordo in Conferenza unificata in data 18  ottobre  2018,
ha riconosciuto l'opportunita' di concordare con  le  regioni  e  gli
enti locali la rimodulazione delle  convenzioni  secondo  un  diverso
schema normativo, da proporre al  Parlamento  in  sede  di  legge  di
bilancio.  Tale  dato  di  prassi   conferma   che,   nel   procedere
unilateralmente, le norme impugnate avevano  impropriamente  derogato
al metodo concertativo imposto dai precedenti accordi. 
    Anche in relazione a questa censura la regione e' consapevole che
la giurisprudenza di codesta Corte  ha  in  passato  escluso  che  la
revoca  di  fondi  assegnati  agli   enti   territoriali   integrasse
violazione del principio di leale collaborazione; ma osserva che tale
compatibilita' con l'imperativo  di  collaborazione  leale  e'  stata
affermata in relazione a casi in cui i fondi erano  rimasti  a  lungo
inutilizzati. 
    Si vedano, in questo senso, la sentenza n. 83 del 2016, la  quale
ha ribadito che, «in caso di revoca di risorse assegnate alle regioni
e da tempo inutilizzate, le esigenze di leale collaborazione  possono
essere considerate recessive» - peraltro escludendo  la  lesione  del
principio anche sul  rilievo  che,  secondo  la  disposizione  allora
impugnata, «le regioni  sono  coinvolte  nell'adozione  dell'atto  di
revoca». 
    Analogamente, nella sentenza n. 105 del 2007, codesta Corte aveva
affermato  che  «ne'  la  sfera  di   competenze   costituzionalmente
garantita delle regioni, ne' il  principio  di  leale  collaborazione
risultano violati da una norma che prende  atto  dell'inattivita'  di
alcune regioni nell'utilizzare risorse poste a loro disposizione  nel
bilancio dello Stato». 
    Nel presente caso, invece,  risorse  in  corso  di  utilizzazione
vengono  rese  inutilizzabili  dal  comma  02  al  fine  della   loro
avocazione ad un apposito fondo del Ministero dell'economia  e  delle
finanze (comma 03) e della diversa destinazione che ad  esse  imprime
il comma 04. 
    Tale modo di procedere  appare  poi  incompatibile  anche  con  i
metodi di legislazione adeguati alle esigenze  dell'autonomia  e  del
decentramento prescritti dall'art. 5 Cost. Infatti tale disposizione,
se  puo'  apparire  come  meramente  programmatica  e  bisognosa   di
specificazione da parte delle diverse fonti  statali  competenti  ove
riferita alla legislazione in genere, non puo' invece (se non si vuol
privare di qualunque significato  operativo  una  delle  disposizioni
portanti della Costituzione) non operare  come  ostacolo,  quando  la
legge  abbia  gia'  destinato  al  sistema  locale  risorse  ritenute
necessarie, in applicazione dell'art. 119, quinto comma, nel quale il
Programma  periferie  (che  di  per  se'  interviene  in  materie  di
competenza regionale) trova il suo fondamento. 
    Ora, una volta compiuta questa destinazione, sembra evidente  che
non corrisponde alle esigenze dell'autonomia e del  decentramento  un
«metodo di legislazione» che si esprime nella mera revoca unilaterale
delle risorse, mediante  legge  provvedimento,  in  violazione  degli
impegni concordati. 
    Le norme impugnate violano poi l'autonomia politica  dei  comuni,
riconosciuta e promossa dall'art. 5 Cost. e garantita dall'art.  114,
primo e secondo comma, disposizioni che rispettivamente individuano i
comuni come enti costituitivi della Repubblica e come enti dotati  di
propri statuti, poteri e funzioni, secondo i principi  fissati  dalla
Costituzione. 
    Tale violazione e' determinata  dalla  strumentalizzazione  degli
enti territoriali, trattati  dalle  norme  impugnate  non  come  enti
capaci di scelte autonome, bensi' come enti strumentali o  propaggini
dello Stato, meri mezzi attraverso i  quali  passano  liberamente  le
decisioni della maggioranza di governo, fino alla demolizione -  allo
scopo di una diversa allocazione delle risorse - di scelte che invece
sono costituzionalmente riservate agli enti locali (come  ad  esempio
le scelte in materia di urbanistica). 
    Tale incisione  diretta  sull'efficacia  di  atti  gia'  perfetti
deliberati  dal  comune  comporta  inoltre  lesione  della  autonomia
amministrativa dei comuni, con esorbitanza  dalla  stessa  competenza
statale ex art. 117, secondo comma, lett.  p),  Cost.,  la  quale  e'
limitata alla cornice legislativa delle funzioni  fondamentali  degli
enti locali e non si estende alla adozione  di  atti  legislativi  in
sostituzione di provvedimenti amministrativi di competenza comunale. 
    Stanti   le   strettissime   connessioni   tra   le    competenze
amministrative dei Comuni e quelle regionali - si pensi,  ancora,  al
caso del governo del territorio - l'incisione  delle  competenze  dei
Comuni si riflette sulle competenze regionali ad esse collegate. 
V. Illegittimita' dell'art. 13, commi 02, 03 e 04, per violazione del
principio di certezza del diritto e degli artt. 81 e 97, primo comma,
Cost., sotto il profilo dell'elusione delle regole di copertura delle
spese e di veridicita' dei bilanci. 
    L'art. 13, commi 02, 03 e 04, e'  altresi'  illegittimo,  perche'
tali norme avocano al bilancio dello  Stato  il  risparmio  di  spesa
derivante dalla rimodulazione dei cronoprogrammi e degli  impegni  di
spesa da esse stessa imposta, ma nello stesso tempo mantengono  ferma
la  dotazione  complessiva  dei  finanziamenti  assegnata  agli  enti
beneficiari, considerati come categoria. 
    Tale dotazione, pero', e' solo apparente, perche'  il  successivo
comma  04  non  restituisce   ai   comuni   tali   somme,   confluite
nell'apposito fondo istituito nello stato di previsione del Ministero
dell'economia e delle finanze, bensi'  prevede  che  tale  fondo  sia
destinato genericamente a  favorire  gli  investimenti  delle  citta'
metropolitane, delle province e dei  comuni  -  e  dunque  anche  gli
investimenti di enti, quali le province, non  partecipanti  ai  fondi
del  Programma  periferie;   e   prevede,   soprattutto,   che   tali
investimenti siano realizzati «attraverso l'utilizzo dei risultati di
amministrazione degli esercizi precedenti»,  cioe'  con  risorse  che
sono gia' proprie dei singoli comuni in avanzo. 
    Dalla combinazione delle tre disposizioni,  dunque,  risulta  una
apparenza di copertura che invece non sussiste  oppure  che  sussiste
soltanto ove  il  comune  vada  a  finanziare  l'intervento  mediante
l'avanzo di amministrazione. 
    Ne risulta violato il  principio  di  chiarezza  normativa  e  di
certezza  del   diritto,   aspetto   specifico   del   principio   di
ragionevolezza. Infatti, essendo l'avanzo di amministrazione  gia'  a
disposizione dell'ente che ne e' titolare, non si  comprende  come  e
per quale ragione le assegnazioni previste dal  comma  04  potrebbero
«favorirne» l'uso. Se esse fossero necessarie per consentirlo sarebbe
violato il principio della sua libera disponibilita'; ove  invece  si
trattasse di risorse aggiuntive  non  si  comprenderebbe  la  ragione
della loro sottrazione ad una precedente destinazione gia' definita e
della  loro  riassegnazione  meramente  discrezionale  da  parte  del
Ministero dell'economia (v. anche oltre, punto VII). 
VI. Illegittimita' costituzionale dell'art. 13, commi 03  e  04,  per
violazione della autonomia finanziaria dei comuni (art. 119 Cost.). 
    Le disposizioni impugnate risultano poi ulteriormente illegittime
per violazione della autonomia finanziaria dei comuni, riconosciuta e
garantita dall'art. 119 Cost., e segnatamente dal  primo  comma,  che
attribuisce a tali enti «autonomia finanziaria di entrata e di spesa,
nel rispetto dell'equilibrio dei relativi bilanci»; al secondo comma,
che garantisce ai comuni «risorse autonome», la facolta' di stabilire
ed  applicare  «tributi  ed  entrate  propri,  in  armonia   con   la
Costituzione e secondo i  principi  di  coordinamento  della  finanza
pubblica  e   del   sistema   tributario»,   la   disponibilita'   di
«compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al  loro
territorio»;  al  quarto  comma,  che  stabilisce  il  principio   di
sufficienza  delle  risorse   per   l'integrale   finanziamento   per
l'esercizio delle funzioni loro  attribuite;  al  quinto  comma,  che
prevede le risorse aggiuntive e gli interventi  speciali;  al  sesto,
che riconosce il patrimonio dei comuni, attribuito secondo i principi
generali determinati dalla legge Stato. 
    Le risorse del Programma, infatti, una volta acquisite dal comune
mediante la stipula della convenzione con la Presidenza del Consiglio
dei ministri sono a tutti gli effetti risorse  comunali,  iscritte  a
bilancio e costituenti elementi del patrimonio del comune. 
    Il fatto che tali risorse, ai sensi dell'art. 119, quinto  comma,
Cost., si atteggino  a  risorse  aggiuntive  -  cioe'  finalizzate  a
promuovere la coesione e la solidarieta'  sociale,  a  rimuovere  gli
squilibri economici e sociali, a favorire l'effettivo  esercizio  dei
diritti della persona, o in generale per provvedere a  scopi  diversi
dal normale esercizio delle funzioni comunali - non toglie che  esse,
quanto lo Stato le ha destinate a particolari comuni, siano in  senso
proprio risorse del comune. 
    Ed e' dunque chiaro che la  sottrazione  unilaterale  di  risorse
determinate attribuite ai comuni  comporta  lesione  della  autonomia
finanziaria  e  puntualmente  contrasta,  nello  specifico,  con   la
previsione dell'art. 119, quinto comma, Cost. 
    La violazione della autonomia  finanziaria  non  e'  evitata  dal
fatto che l'impugnato comma 04 parrebbe restituire agli enti  locali,
sia pure genericamente presi e non  individualmente  considerati,  le
somme avocate  al  fondo  statale.  Tale  restituzione,  infatti,  e'
meramente contabile e  in  ultima  analisi  fittizia,  posto  che  il
finanziamento degli investimenti,  di  cui  ragiona  la  disposizione
contestata,   avviene   utilizzando   l'avanzo   di   amministrazione
dell'ente, e quindi impiegando risorse proprie dell'ente stesso. 
VII. Illegittimita' dell'art. 13,  commi  02  e  03,  per  violazione
dell'art. 5, comma 2, della legge cost. n. 1 del 2012, e degli  artt.
9 e 10 della legge n. 243 del 2012,  e  per  elusione  del  giudicato
costituzionale, con violazione dell'art. 136 Cost. 
    Il  rilievo  da  ultimo  svolto  mette  in  luce  una   ulteriore
illegittimita'. 
    La giurisprudenza di codesta Corte costituzionale ha chiarito che
l'avanzo di amministrazione di  un  ente,  una  volta  accertato  nel
bilancio,  costituisce  a  tutti  gli  effetti  una  risorsa  propria
dell'ente che lo ha realizzato, da esso  liberamente  impiegabile,  e
non necessariamente utilizzabile solo attraverso il meccanismo  delle
intese o dei patti di solidarieta' di cui all'art. 10 della legge  n.
243 del 212, nel testo oggi vigente. 
    Tali chiarimenti sono stati forniti prima con le sentenze n.  247
del 2017 e 252  del  2017,  che  hanno  offerto  una  interpretazione
costituzionalmente orientata dell'art. 9, comma  1-bis,  e  10  della
legge n. 243 del 2012, come modificata dalla legge n. 164  del  2016:
poi,   a   fronte   della   inerzia   dello   Stato   nel    recepire
l'interpretazione adeguatrice degli artt. 9 e 10 della legge  n.  243
del 2012, con la sentenza di accoglimento n. 101  del  2018,  che  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art.  1,  comma  466,
della legge n. 232 del 2016, «nella parte  in  cui  non  prevede  che
l'inserimento dell'avanzo di amministrazione e del fondo  pluriennale
vincolato nei bilanci dei medesimi enti  territoriali  abbia  effetti
neutrali rispetto alla determinazione dell'equilibrio  dell'esercizio
di competenza» (punto 1 del dispositivo). 
    Ora, le norme qui impugnate eludono queste indicazioni ricavabili
dalla  giurisprudenza  costituzionale  e  sono  incompatibili  con  i
principi sanciti dalla legge n. 243 del 2012, in attuazione dell'art.
5 della legge cost. n. 1  del  2012,  perche',  dopo  aver  sottratto
risorse ai comuni, le rimettono  a  disposizioni  degli  enti  locali
(globalmente considerati) sotto forma di  avanzo  di  amministrazione
degli enti stessi,  quasi  che  tale  avanzo  non  fosse  gia'  nella
disponibilita' dell'ente. 
    Se tale e' il significato  da  attribuire  alle  disposizioni  in
questione, ne conseguirebbe una duplice illegittimita', in quanto  da
un lato gli enti locali si vedrebbero assegnare discrezionalmente dal
Ministero la possibilita' di utilizzare fondi che in quanto avanzi di
amministrazione sono gia' disponibili per gli enti interessati (anche
in forza di quanto dispone l'art. 9, commi 1 e 1-bis della  legge  n.
243  del  2012),  dall'altro  in  quanto   la   stessa   disposizione
implicitamente affermerebbe  gli  l'avanzo  di  amministrazione  puo'
essere  utilizzato  solo  con  una  sostanziale  autorizzazione   del
Ministero dell'economia e finanze. 
VIII. In subordine. Illegittimita' costituzionale dell'art. 13, comma
04,  per  violazione  del  principio  di  ragionevolezza  e  di  buon
andamento di cui all'art. 97, secondo comma, Cost., degli artt.  117,
terzo e quarto comma, 118, secondo comma,  e  dell'art.  119,  quinto
comma, Cost., nonche' del principio di leale collaborazione. 
    In subordine, qualora la riassegnazione a Comuni e province fosse
effettiva, cioe' aggiuntiva rispetto  all'avanzo  di  amministrazione
del beneficiario, la  regione  deve  osservare  che  l'operazione  e'
comunque illegittima,  perche'  la  revoca  delle  destinazioni  gia'
assegnate, con successiva devoluzione agli  enti  locali  apparirebbe
soltanto come una operazione rivolta a  consentire  all'esecutivo  di
riallocare, in piena liberta', risorse comunali riportate allo  stato
dall'impugnato comma 02. 
    In tale  caso  va  contestata  la  violazione  del  principio  di
ragionevolezza e di buon andamento, per l'irrazionale  stravolgimento
dell'attivita' amministrativa in corso, corrispondente a  ragioni  di
pubblica  utilita'  attestata  dalla   legge   e   dai   procedimenti
amministrativi svolti, a favore  di  azioni  generiche  e  ancora  da
determinare. 
    In secondo luogo, va contestata l'assenza di competenza  statale,
e quindi la violazione dell'art. 117, terzo e  quarto  comma,  Cost.,
dal momento che se  gli  interventi  speciali  di  cui  al  Programma
periferie trovavano copertura nell'art. 119, quinto comma, Cost.,  un
generico finanziamento  degli  investimenti  comunali  e  provinciali
nelle materie di competenza regionale dovrebbe passare attraverso  le
regioni, pena la violazione dell'art.  117,  terzo  e  quarto  comma,
Cost. e dell'art. 118, primo e  secondo  comma,  Cost.  In  ulteriore
subordine, tale riparto dovrebbe essere oggetto di concertazione. 
    Al di la' della procedura concorsuale gia' svolta ai sensi  della
precedente legislazione non sussiste  alcuna  ragione  per  la  quale
interventi   in   materia   regionale   debbano   essere   finanziati
direttamente   dal   centro,   in   violazione   del   principio   di
sussidiarieta', anziche' attraverso il  previo  riparto  territoriale
tra le regioni competenti. E se pure vi  fossero  ragioni  -  che  ad
avviso della ricorrente regione palesemente non vi  sono  -  per  una
attrazione al centro del  finanziamento,  sembra  evidente  che  tale
attrazione dovrebbe essere corretta con lo strumento  dell'intesa  in
sede di Conferenza Stato-Regioni o Unificata. 
    Poiche' il comma 04 prevede una destinazione diretta  e  in  ogni
caso non contempla alcuna forma di  coinvolgimento  delle  regioni  e
degli  enti  locali,  risulta  evidente  l'incostituzionalita'  della
disposizione  per  violazione  della  competenza  regionale   e   del
principio di leale collaborazione.