IL TRIBUNALE DI TARANTO 
           Ufficio del giudice per le indagini preliminari 
 
    Il Giudice per le indagini preliminari, dott. Benedetto  Ruberto,
letti gli atti dei procedimenti n. 7297/17 RG mod.  44  a  carico  di
ignoti, n. 5568/17 R.G. mod. 44 a carico  di  ignoti  e  n.  10093/16
R.G.N.R. (proveniente dal n. 2242/16 RG mod. 44) a carico di C R e  P
N, in  atti  generalizzati,  a  scioglimento  delle  riserve  assunte
all'esito delle udienze camerali del 6 luglio 2018 e del 18 settembre
2018, ha emesso la seguente 
 
                              Ordinanza 
 
    In data 3 marzo 2016 veniva iscritto,  presso  la  Procura  della
Repubblica di Taranto, il procedimento a carico di ignoti, avente  n.
2242/16 mod. 44, per il reato ex art. 434 c.p. 
    L'avvio   del   procedimento   era   stato   determinato    dalla
trasmissione, da parte dell'allora difensore di ILVA S.p.a. in  A.S.,
di una relazione - datata 23 dicembre 2015 - contenente  i  risultati
dell'analisi  sulla  emissione  di  inquinanti  espletata,   per   lo
stabilimento industriale, dall'ing. O M e relativa al periodo  agosto
2013-febbraio 2015; il predetto difensore, premesso che sulla  stampa
nazionale  erano  comparse  notizie  su  livelli  di  diossina   (nel
territorio tarantino) definiti «allarmanti», riteneva che, sulla base
dell'analisi condotta dall'ing. O,  quelle  emissioni  non  potessero
essere ricondotte all'attivita' dello stabilimento. 
    Gli articoli  di  giornale,  che  il  difensore  di  ILVA  S.p.a.
depositava con successiva nota del 4 marzo 2016 (a cui  era  allegato
anche il contratto di comodato per l'utilizzazione e  gestione  delle
centraline per il monitoraggio  dell'aria  tra  ARPA  Puglia  e  ILVA
S.p.a.), nonche' l'8  marzo  2016,  facevano  infatti  riferimento  a
elevati livelli di diossina rilevati nei  mesi  di  novembre  2014  e
febbraio 2015 nel quartiere Tamburi di Taranto. 
    A tale riguardo appare opportuno evidenziare che nell'agosto 2013
sono  state  installate,   in   prossimita'   del   perimetro   dello
stabilimento ILVA di Taranto - il  quale,  come  e'  noto,  e'  stato
sottoposto a sequestro preventivo ex art.  321  codice  di  procedura
penale nell'ambito del procedimento  n.  938/2010  RGNR,  ma  la  cui
produzione di fatto non e' mai cessata, essendo stata poi concessa ex
lege la facolta' d'uso ex articoli 1 e 3, comma 3,  decreto-legge  n.
207/2012  conv.  con  modif.  dalla  legge  n.  231/2012  -   quattro
«stazioni» per il monitoraggio della qualita' dell'aria,  mentre  una
stazione e'  stata  collocata  all'interno  dell'area  «Cockeria»  ed
un'altra in via Orsini (quartiere Tamburi, ubicato  a  ridosso  della
fabbrica). 
    Nel medesimo procedimento confluivano, inoltre: 
        una informativa dei Carabinieri del N.O.E.  di  Lecce  del  4
marzo 2016, con cui veniva trasmessa una nota  proveniente  dall'ARPA
Puglia, da cui si evince che i valori di PCDD/F (diossine)  risultati
«pericolosamente  superiori  ai  limiti»   erano   inequivocabilmente
riconducibili,  per  qualita'   e   quantita',   agli   impianti   di
sinterizzazione dello stabilimento ILVA di Taranto; 
        una nota dell'ARPA Puglia avente  ad  oggetto  «campionamenti
deposimetrici effettuati da ILVA S.p.a. -  stabilimento  di  Taranto.
Riscontro a nota Presidente Regione Puglia prot.  n.  933/sp  del  26
febbraio 2016 (acquisita al protocollo ARPA n. 13060 del 29  febbraio
2016), indirizzata, tra le varie autorita' e istituzioni, anche  alla
Procura di Taranto; nella stessa  veniva  confermato  che,  nell'area
intorno al sito, in cui e'  collocato  il  deposimetro  ILVA  di  via
Orsini, erano state rilevate concentrazioni molto elevate di diossina
a novembre 2014 e febbraio 2015; 
        un verbale di sopralluogo del 26 febbraio 2016 eseguito da un
dirigente chimico dell'ARPA Puglia presso il laboratorio  di  analisi
«Merieux  Nustisciences  (Chelab)»  di  Resana,  prodotto  da  M   A,
attivista dell'associazione Peacelink, correlato alla  vicenda  delle
rilevazioni di diossina  da  parte  dei  deposimetri  della  rete  di
monitoraggio dell'ILVA; 
        una nota a firma,  tra  gli  altri,  del  direttore  di  ARPA
Puglia,  A  G,  rivolta  a  varie  Autorita',  contenente   possibili
spiegazioni  del  fenomeno  emissivo  (ricondotto   all'impianto   di
sinterizzazione dello stabilimento siderurgico), cui e' seguita altra
comunicazione in cui si ribadisce la  riconducibilita'  all'attivita'
dell'ILVA delle emissioni e si contestano le conclusioni del prof. O; 
        una segnalazione, datata 11 marzo 2016, da parte del comitato
«Cittadini e lavoratori liberi e pensanti», sugli elevati livelli  di
diossina  che  si  depositerebbero  sui  terreni   circostanti   allo
stabilimento e all'interno delle mense aziendali; 
        un esposto a firma di B A,  membro  dell'esecutivo  nazionale
della Federazione dei  Verdi,  presentato  (con  allegati  documenti)
presso la sezione di PG della Procura di Taranto il  17  marzo  2016,
avente ad oggetto la medesima questione, ossia la  rilevazione  degli
elevati livelli di diossina in via Orsini; nell'esposto si denunciava
anche il comportamento omissivo del Sindaco di Taranto p.t., per  non
aver preso i provvedimenti idonei alla salute pubblica  o,  comunque,
per non aver  informato  adeguatamente  la  popolazione  del  rischio
sanitario  derivante   dall'inquinamento   da   I.P.A.   (idrocarburi
policiclici aromatici); 
        la denuncia presentata il 19 agosto 2016 da D'A F,  il  quale
contestava l'approvazione, con determina regionale, del  progetto  di
ampliamento della cava «Mater Gratiae» presentato da ILVA spa, il cui
piano di coltivazione sarebbe da mettere in collegamento, a suo dire,
con gli altissimi valori di diossina rilevati nel rione  Tamburi  tra
la fine del 2014 e l'inizio del 2015; riteneva peraltro che il  piano
di coltivazione avrebbe, nel futuro, determinato l'inquinamento della
falda acquifera con sostanze nocive. 
    In data 28 aprile 2016 veniva trasmessa dalla sezione di PG della
Procura  di  Taranto  una  relazione  dell'ARPA  Puglia,   contenente
l'aggiornamento delle analisi sui microinquinanti  organici  rilevati
presso il quartiere Tamburi di Taranto (effettuate  tramite  la  rete
deposimetrica  utilizzata  dalla   stessa   ARPA   e   dallo   stesso
stabilimento ILVA). 
    Seguivano indagini delegate dal  PM  alla  sezione  di  PG  della
Guardia di  Finanza  (escussione  a  s.i.t.  del  direttore  generale
dell'agenzia ARPA Puglia, A G,  dei  funzionari  ARPA  F  S  e  S  S,
acquisizione di  documenti)  e,  all'esito,  il  procedimento  veniva
iscritto a modello  21,  acquisendo  il  numero  RGNR  10093/16,  con
successiva identificazione dei soggetti indagati, individuati in C  R
e P N, i quali - nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2015 ed il 31
marzo 2015 - ricoprivano, rispettivamente, i ruoli di direttore e  di
capo area agglomerato dello stabilimento ILVA di Taranto (al medesimo
procedimento veniva riunito quello n. 1917/17 RGNR, gia'  n.  8855/16
mod. 44, aperto - prima a carico di ignoti e, poi, con iscrizione nel
registro degli indagati del C e del P  -  dopo  la  trasmissione,  da
parte del D'A di una integrazione della denuncia gia'  presentata  il
19 agosto 2016). 
    In data 26 luglio 2017 veniva, invece,  depositata  l'informativa
dei Carabinieri del N.O.E.  di  Lecce  (corredata  da  18  allegati),
riguardante gli accertamenti eseguiti sulla  cava  denominata  «Mater
Gratiae», nonche' gli esiti di un sopralluogo eseguito il  14  luglio
presso  l'area   agglomerato   dell'ILVA,   nelle   adiacenze   degli
elettrofiltri MEEP e ESP e presso i depositi dei «big bag» contenenti
le rispettive polveri. 
    In sintesi, dalla predetta informativa emergeva che: 
        alla data del sopralluogo, eseguito nella  cava  l'11  luglio
2017, non erano in corso attivita' di  escavazione,  ne'  all'interno
dell'area oggetto della  richiesta  di  ampliamento,  ne'  su  quelle
oggetto  di  provvedimento  di  sospensione  dei  lavori  emesso  dal
Servizio attivita' estrattive regionale del 20 gennaio  2014,  mentre
tali attivita' erano in corso  sulle  aree  autorizzate  dall'ufficio
minerario regionale; 
        negli anni 2014-2015 il Comune di Statte aveva fatto eseguire
una  attivita'  di  caratterizzazione  del  territorio  comunale  per
verificare la qualita'  del  terreno  superficiale,  con  particolare
riferimento ai microinquinanti organici (PCB e diossine) presenti sui
terreni  ricadenti  nella  cava  in  argomento,  conclusasi  con   un
relazione a cura della ditta «Pianeta Studio Associato»  di  Chivasso
(TO); 
        le analisi dei campionamenti di terreno  avevano  evidenziato
in tre punti (A109 - A110 e A123) il superamento delle Concentrazioni
di soglia di contaminazione (CSC)  relativamente  a  diossine  e  IPA
(tali rilevazioni sono state, pero', contestate dall'ILVA  perche'  i
superamenti avrebbero preso come riferimento i valori previsti per le
aree a uso  verde  pubblico  e  residenziale,  in  luogo  delle  aree
industriali); in ogni caso le analisi risultavano validate  dall'ARPA
Puglia; 
        per  quanto  concerne  l'inquinamento  della  falda,   quelle
analisi avevano esaminato un  unico  pozzo,  ricadente  nell'area  di
ampliamento della cava (punto P20), rilevando il superamento  di  CSC
per i parametri manganese e nitriti; 
        per quanto riguarda i fenomeni emissivi, dopo il 2015 non  si
sarebbero piu'  verificati  allarmanti  superamenti  dei  livelli  di
diossine nei deposimetri all'uopo installati; 
        durante il sopralluogo eseguito il 14 luglio  2017  nell'area
agglomerato non  erano  state  rilevate  dispersioni  o  depositi  di
polveri nell'area e sugli impianti, essendo anche in atto la  pulizia
dell'area a cura della ditta incaricata che raccoglieva le polveri in
un big-bag  all'uopo  destinato;  i  metodi  utilizzati  erano  stati
giudicati «appropriati» dai CC intervenuti. 
    Ulteriori documenti venivano poi trasmessi, dai  Carabinieri  del
N.O.E., con  informativa  del  27  luglio  2017,  tra  cui  una  nota
dell'ARPA Puglia del 21 luglio  2017,  gia'  indirizzata  anche  alla
locale Procura, con allegati  10  rapporti  di  prova  per  gli  anni
2016-2017  relativi  agli  episodi  in  cui  erano  stati  registrati
superamenti dei livelli di diossina in agro di Taranto e Statte. 
    All'esito delle indagini il PM, in data 1° marzo  2018,  chiedeva
l'archiviazione  del  procedimento,  rilevando  che  il  livello   di
diossina, eccessivamente elevato, rinvenuto durante  i  campionamenti
di novembre 2014 e febbraio 2015, fosse da  ricondurre  alle  polveri
degli  elettrofiltri  dell'impianto  di   agglomerazione,   per   cui
l'anomalia era strettamente legata al ciclo produttivo dell'ILVA. 
    Evidenziava, tuttavia, che il decreto-legge 5 gennaio 2015, n.  1
(convertito  con  modifiche  dalla  legge  n.  20/2015)   autorizzava
l'attivita' produttiva anche in presenza di deficienze impiantistiche
che potevano determinare emissioni nocive, a condizione che venissero
rispettate  le  prescrizioni  temporali  per  gli  adeguamenti  degli
impianti previsti dalla  nuova  A.I.A.,  confluite  nel  decreto  del
Presidente del Consiglio dei ministri del 14 marzo  2014,  che  aveva
stabilito il termine del 31 luglio 2015 per l'adozione dell'80% delle
prescrizioni (con termine di completamento  prorogato  al  30  giugno
2017 con la legge n. 13/2016). 
    Pertanto, tenuto conto che gli eventi accertati  riguardavano  un
periodo antecedente al 31 luglio  2015  e  in  virtu'  della  «chiara
esimente»  per  i  soggetti  delegati  all'attivita'  produttiva  del
siderurgico contenuta nell'art. 2, comma 6 del  citato  decreto-legge
n. 1/2015, le condotte che avevano determinato  quei  gravi  fenomeni
emissivi dovevano considerarsi «pienamente scriminate». 
    Alcun cenno veniva, pero', fatto alle questioni (inquinamento dei
suoli e della falda acquifera)  relative  alla  gestione  della  Cava
Mater Gratiae. 
    Non ritenendo di dover emettere  de  plano  il  provvedimento  di
archiviazione, questo giudice per le indagini preliminari ha  fissato
udienza camerale ex art. 409 codice di procedura penale, a cui  hanno
presenziato solo i difensori degli indagati C e P  che,  riportandosi
ad una memoria depositata in cancelleria  (con  allegati  documenti),
hanno insistito per l'accoglimento della richiesta formulata dal PM. 
    In  particolare  la  difesa  degli  indagati,  da  un  lato,   ha
contestato che quei superamenti dei valori di diossina registrati nel
novembre  2014  e  nel  febbraio  2015  potessero  essere  ricondotti
all'attivita' dello stabilimento  (in  ragione  degli  esiti  di  una
propria consulenza tecnica  depositata  in  allegato  alla  memoria);
dall'altro ha ritenuto che l'eccezionalita'  dei  fenomeni  emissivi,
vuoi  per  dimensione,  vuoi  per  scarsa  offensivita'  del   fatto,
escludesse la configurabilita'  del  reato  di  disastro  innominato,
ipotizzato dalla pubblica accusa. 
    Il procedimento n. 10093/16 RGNR presenta  evidenti  elementi  di
connessione con altri due fascicoli, iscritti a carico di ignoti  nel
2017, in  relazione  ai  quali  la  Procura  di  Taranto  ha  chiesto
emettersi provvedimento  di  archiviazione  e  l'odierno  giudicante,
ritenendo anche stavolta di non poter decidere de plano,  ha  fissato
la relativa udienza prevista dall'art. 409 codice di procedura penale
(a cui nessuna delle parti avvisate ha inteso partecipare). 
    Il primo, avente n. 5568/2017 mod. 44, era stato aperto  dopo  la
trasmissione, da parte del Comune di Statte, della determina  n.  247
del 15 marzo 2017, con cui il predetto ente concludeva  la  Procedura
di V.I.A. per il progetto di ampliamento della Cava Mater Gratiae  di
proprieta' di Ilva S.p.a. 
    Si specifica, nel corpo della motivazione  della  determina,  che
l'ILVA stava comunque continuando a scavare «in regime di proroga»  e
che erano in atto «attivita' estrattive su aree  inquinate,  come  se
non lo fossero,  con  rilevanti  dispersioni  di  polveri  contenenti
microinquinanti depositatisi su  suolo,  a  danno  di  operai,  della
collettivita', soprattutto dei cittadini residenti a poche  centinaia
di metri dal sito», aggiungendo peraltro che la falda  acquifera  era
«conclatamente inquinata dalle sostanze lasciate dal dilavamento  dei
terreni di riporto». 
    Il  PM  procedente  si  e'  limitato  ad   acquisire   la   copia
dell'informativa del 20 luglio 2017 depositata  dai  Carabinieri  del
N.O.E.  di  Lecce   nel   procedimento   10093/16   RGNR,   chiedendo
l'archiviazione del procedimento non essendo emerse,  a  suo  avviso,
ipotesi di reato. 
    Il procedimento n. 7297/2017 mod. 44  e'  stato,  invece,  aperto
dopo la trasmissione, da parte dell'ARPA Puglia,  di  un  report  per
l'anno 2016 riguardante il monitoraggio della qualita' dell'aria  nei
pressi dello stabilimento ILVA,  attraverso  i  rilevatori  istallati
lungo il perimetro dello stesso stabilimento, nell'area Cockeria e in
via Orsini (rione Tamburi). Secondo quella  relazione  non  vi  erano
stati,  nell'anno  in  questione,  sforamenti  dei  limiti  di  legge
previsti  per  le  emissioni   degli   inquinanti   monitorati   (sul
presupposto che quelli previsti dal decreto legislativo  n.  155/2010
non fossero comunque  applicabili  all'interno  del  perimetro  dello
stabilimento), ma dall'analisi del  report  emerge  inconfutabilmente
che: 
        i livelli di PM 10 sono stati sempre superiori al  limite  di
40 μg/m3 in area cockeria, con superamenti consistenti (oltre  le  35
volte l'anno) anche in area parchi e in area direzione; 
        i livelli di PM 2,5 sono stati sempre superiori al limite  di
25 μg/m3 in area cockeria con superamenti consistenti  (oltre  le  35
volte l'anno) anche in area parchi e in area direzione; 
        i livelli di benzene sono stati sempre superiori al limite di
5 μg/m3 in area cockeria; 
        e' stato registrato un valore medio annuale molto alto,  pari
a 1748, con riferimento al Black Carbon (il cui limite  di  emissione
non e' normato) nel quartiere Tamburi, superiore  a  quello  rilevato
nelle aree dello stabilimento comunque compreso tra 922  (rilevazione
piu' bassa in area portineria) e 1407 (rilevazione piu' alta, in area
Direzione); il  Black  Carbon  si  forma  in  seguito  a  combustione
incompleta di combustibili fossili  e  biomassa  e  viene  emesso  da
sorgenti naturali ed antropiche sotto forma di fuliggine. 
    Anche in  questo  caso  il  PM  ha  chiesto  l'archiviazione  del
procedimento per assenza  -  a  suo  avviso  -  di  fatti  penalmente
rilevanti. 
    Ebbene ritiene in prima battuta l'odierno giudicante  che  i  tre
procedimenti vadano riuniti, per indiscutibili ragioni di connessione
oggettiva e parzialmente soggettiva. 
    E', infatti, evidente che il procedimento n. 5568/17 r.g. mod. 44
costituisce una inutile duplicazione di  quello  avente  n.  10093/16
R.G.N.R.,  dal  momento  che  in  quest'ultimo  fascicolo  era   gia'
confluita la  questione  dell'inquinamento  cagionato  dall'attivita'
estrattiva praticata nella Cava  Mater  Gratiae  e  delle  criticita'
evidenziate dal Comune di Statte con riferimento alla prosecuzione ed
all'ampliamento di quella attivita' (cfr. denuncia querela del D'A  e
informativa dei Carabinieri del N.O.E di Lecce del  20  luglio  2017,
documento di cui peraltro si e' avvalso il  PM  del  procedimento  n.
5568/17 per chiederne l'archiviazione). 
    Va, altresi', rilevato che il procedimento n. 7297/17  r.g.  mod.
44, riguardando le  emissioni  potenzialmente  inquinanti  registrate
dall'ARPA Puglia nel 2016, costituisce la  naturale  prosecuzione  di
quello n. 10093/16 R.G.N.R., ove sono stati esaminati i  fenomeni  di
inquinamento verificatisi tra la fine del 2014 e  l'inizio  del  2015
nel quartiere Tamburi di Taranto (pure valutati dalla stessa ARPA). 
    Pertanto,  appare  opportuno  e   finanche   necessario   che   i
procedimenti aventi n. 5568/17 R.G. mod. 44 e n. 7297/17 R.G. mod. 44
vadano riuniti a quello avente n. 10093/16 R.G.N.R.,  sussistendo  le
condizioni previste dall'art. 17 codice di  procedura  penale,  fatta
salva la necessita', ove si dovesse procedere oltre, di  identificare
compiutamente  i  soggetti  indagabili  per  quegli  ulteriori  fatti
(astrattamente) illeciti e fermo restando  le  ulteriori  valutazioni
che  potranno  essere  assunte  per  quanto  concerne  la   posizione
processuale del C e del P 
    E' vero, infatti, che la riunione in senso tecnico,  ex  articoli
17 e 19 codice di procedura  penale,  puo'  avere  per  oggetto  solo
processi e non procedimenti, ma secondo costante  orientamento  della
Suprema Corte il PM «ha  sempre  la  facolta'  di  svolgere  indagini
contestuali  e  congiunte  relativamente  a  distinti   procedimenti,
unificando, a tal  fine,  i  numeri  identificativi  degli  stessi  e
formando  un  unico  fascicolo  delle  indagini  preliminari,   fermo
restando che, ai fini della disciplina di citi agli art.  405  codice
di procedura penale, cio' che fa fede e' la  data  di  iscrizione  di
ogni singola  notizia  di  reato  nei  confronti  di  ciascuno  degli
indagati ex art. 335 codice di  procedura  penale»  (cfr.  Cassazione
Sez. 5, Sentenza n. 2174 del 18 dicembre 2013). 
    Comune,  peraltro,  ai  suddetti  procedimenti  e'  la  questione
sostanziale  di  fondo,  decisiva  ai  fini  della  loro   decisione,
riguardante la applicabilita', in tutte quelle vicende 
        a) delle norme che hanno  consentito  e  che  stanno  tuttora
consentendo  allo  stabilimento  ILVA  di  Taranto  la   prosecuzione
dell'attivita' produttiva in costanza di sequestro  penale  (art.  3,
comma 3, decreto-legge n. 207/2012  convertito  con  modifiche  dalla
legge  n.  231/2012,  art.  2,  comma  5,  decreto-legge  n.   1/2015
convertito con modifiche dalla legge n. 20/2015 e art.  1,  comma  8,
decreto-legge n. 191/2015 conv. con modifiche dalla legge n. 13/2016,
disposizioni in forza delle quali, come vedremo,  «la  societa'  ILVA
S.p.a.  di  Taranto  e  l'affittuario  o  acquirenti   dei   relativi
stabilimenti sono immessi nel possesso dei beni dell'impresa  e  sono
in  ogni  caso  autorizzati  ...  alla  prosecuzione   dell'attivita'
produttiva  dello  stabilimento  e   alla   commercializzazione   dei
prodotti», con termine ad oggi previsto sino al 23 agosto 2023); 
        b) della speciale causa di non punibilita'  -  dogmaticamente
inquadrabile, per taluni,  come  immunita'  e,  secondo  altri,  come
scriminante - prevista dall'art. 2, comma 6, decreto-legge n.  1/2015
(conv. dalla  legge  n.  20/2015),  come  da  ultimo  modificato  dal
decreto-legge n. 244/2016 (conv. con modif. dalla legge n.  19/2017),
secondo cui le condotte poste  in  essere  in  attuazione  del  Piano
ambientale approvato con decreto del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri 14 marzo 2014 (il Piano delle misure e  delle  attivita'  di
tutela ambientale e sanitaria previsto  dal  decreto-legge  4  giugno
2013, n. 61,  sul  commissariamento  dell'Ilva  di  Taranto,  ove  e'
riportato anche l'esito  dei  procedimenti  di  riesame  e  modifiche
dell'AIA  del  26  ottobre  2012)   «non   possono   dare   luogo   a
responsabilita'   penale    o    amministrativa    del    commissario
straordinario, dell'affittuario o acquirente e dei soggetti da questi
funzionalmente delegati, in quanto  costituiscono  adempimento  delle
migliori regole preventive in materia  ambientale,  di  tutela  della
salute e dell'incolumita' pubblica e di sicurezza sul lavoro». 
    Prima ancora infatti di risolvere la  questione,  tutt'altro  che
pacifica, relativa all'assenza di fatti  penalmente  rilevanti  nelle
emissioni  di  sostanze  inquinanti  negli  anni  2014-2017  e  nella
gestione della  Cava  Mater  Gratiae  (dal  momento  che  il  PM  del
procedimento n. 10063/16 RGNR ha rinunciato all'esercizio dell'azione
penale esclusivamente per la sussistenza della citata norma  ex  art.
2, comma 6, decreto-legge  n.  1/2015,  ritenendo  i  fatti  da  essa
scriminati, mentre per  gli  altri  due  procedimenti,  dissentendosi
dalle  valutazioni  espresse  dai  PP.MM.  titolari  dei   fascicoli,
appaiono   certamente   meritevoli   di   ulteriore   approfondimento
investigativo le questioni  portate  alla  loro  attenzione,  essendo
potenzialmente configurabili, nei fatti sopra  descritti,  i  delitti
previsti dagli articoli 434 e 437 codice penale  e,  per  gli  eventi
successivi al 29 maggio 2015, quelli previsti dagli articoli  452-bis
codice penale e 452-quater codice penale, fatta salva la  fattispecie
residuale dell'art. 674  codice  penale,  con  la  precisazione  che,
trattandosi di reati permanenti,  potrebbe  essere  necessario  anche
accertare  la  attuale  e  duratura  prosecuzione   delle   attivita'
inquinanti),  occorre  in  primo  luogo  stabilire  se   i   soggetti
responsabili delle relative condotte, attive e/o omissive, che  hanno
cagionato o contribuito a  cagionare  quegli  eventi,  potenzialmente
dannosi e pericolosi per la salute ed incolumita'  pubblica,  debbano
andare esenti da responsabilita', in virtu' delle citate  norme  che,
da  un  lato,  consentono  tuttora  la  prosecuzione   dell'attivita'
produttiva  pur  in  presenza  di  gravi  deficienze  impiantistiche,
dall'altro  hanno   introdotto   -   limitatamente   al   commissario
straordinario di ILVA S.p.a.,  all'affittuario  o  acquirente  ed  ai
soggetti da questi funzionalmente delegati - quella speciale causa di
non punibilita'. 
    Tanto premesso, le norme in questione presentano, a parere di chi
scrive, evidenti profili di criticita' e di  incompatibilita'  con  i
valori costituzionali, ritenendosi  pertanto  doveroso  sollevare  la
questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, co. 5 e co.  6,
decreto-legge n. 1/2015 (conv. con modif. dalla  legge  n.  20/2015),
nel testo attualmente in vigore dopo le successive modifiche  operate
dal decreto-legge  n.  98/2016  (conv.  con  modif.  dalla  legge  n.
151/2016) e dal decreto-legge n. 244/2016  (conv.  con  modif.  dalla
legge n. 19/2017). 
 
                   Sulla rilevanza della questione 
 
    Il  giudizio  di  rilevanza  della  questione   di   legittimita'
costituzionale che l'odierno giudicante intende  sollevare  d'ufficio
si fonda sulla applicabilita', nella  vicenda  sottoposta  al  vaglio
dell'A.G., delle norme che si sospettano incostituzionali. 
    Ed  a  tale  riguardo  appare  utile  una   breve   ricostruzione
cronologica  delle   varie   disposizioni   che   hanno   interessato
l'attivita' dello stabilimento ILVA di Taranto, sottoposto sin dal 25
luglio 2012, come gia' detto, a provvedimento di sequestro preventivo
emesso dal giudice per le indagini preliminari di Taranto nell'ambito
del procedimento n. 938/2010 RGNR. 
    Con il decreto-legge 3 dicembre  2012,  n.  207,  convertito  con
modificazioni  in  legge  n.  231/2012  (la  prima  legge  cosiddetta
«salva-Ilva»), gli impianti siderurgici della  (allora)  ILVA  S.p.a.
venivano  individuati  ex  lege  quali  stabilimenti  «di   interesse
strategico  nazionale»  (art.  3,  comma  1),  categoria  prevista  e
disciplinata dal precedente art.  1;  si  specificava,  nell'art.  3,
comma 2, che la nuova A.I.A. riesaminata (quella  cioe'  del  decreto
ministeriale 26 ottobre 2012, il cui originario termine  di  scadenza
era il 23 agosto 2017) conteneva «le prescrizioni volte ad assicurare
la  prosecuzione   dell'attivita'   produttiva   dello   stabilimento
siderurgico della societa' ILVA S.p.a. di Taranto a  norma  dell'art.
1», e nel successivo comma 3 dello stesso art. 3 si stabiliva che  «a
decorrere dalla data  di  entrata  in  vigore  del  presente  decreto
(n.d.e., 3 dicembre 2012), per un periodo di trentasei mesi, (n.d.e.,
dunque sino al 3 dicembre 2015) la societa' ILVA S.p.a. di Taranto e'
immessa nel possesso  dei  beni  dell'impresa  ed  e'  in  ogni  caso
autorizzata, nei limiti consentiti dal provvedimento di cui al  comma
2, alla prosecuzione dell'attivita' produttiva nello  stabilimento  e
alla commercializzazione dei prodotti, ivi compresi quelli realizzati
antecedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto,
ferma restando l'applicazione di tutte le disposizioni contenute  nel
medesimo decreto». 
    La suddetta norma, che in sostanza ha stabilito la facolta' d'uso
dello stabilimento  siderurgico  di  Taranto  anche  in  costanza  di
sequestro penale, e' stata poi modificata dall'art. 1,  comma  3  del
decreto-legge  9  giugno  1998,  conv.  con  modif.  dalla  legge  n.
151/2016, che ha esteso quella autorizzazione anche all'affittuario o
all'acquirente degli impianti. 
    Nel medesimo decreto-legge n. 207/2012, all'art. 1, comma  3,  e'
poi  contenuta  la  seguente  norma:  «la  mancata  osservanza  delle
prescrizioni contenute nel provvedimento di cui  al  comma  1  (ossia
dell'AIA riesaminata), fermo restando quanto previsto dagli  articoli
29-decies e 29-quattuordecies del decreto legislativo n. 152 del 2006
(ossia con riferimento alle sanzioni e ai provvedimenti  da  adottare
in via amministrativa in caso di inosservanza dell'AIA) e dalle altre
disposizioni  di  carattere  sanzionatorio  penali  e  amministrative
contenute  nelle  normative  di  settore  e'  punita   con   sanzione
amministrativa pecuniaria, escluso il pagamento in misura ridotta, da
euro 50.000 fino  al  10  per  cento  del  fatturato  della  societa'
risultante dall'ultimo bilancio approvato». 
    In sostanza, con tali norme, lo stabilimento ILVA era stato,  per
legge, autorizzato a continuare la produzione per un periodo di  soli
trentasei mesi, rispettando le prescrizioni della nuova  A.I.A.,  tra
cui quelle riguardanti la messa a norma  degli  impianti  nocivi  per
l'ambiente  e  la  salute  e  le  eventuali  violazioni   dell'A.I.A.
riesaminata, oltre a determinare la assoggettabilita' delle  condotte
alle preesistenti sanzioni amministrative e penali, comportavano  una
specifica disciplina sanzionatoria, ossia quella prevista dal  citato
art. 1, co. 3 decreto-legge n. 207/2012. 
    Tale disciplina, come e' noto, e' stata ritenuta legittima  dalla
Corte costituzionale, con la  sentenza  n.  85  del  9  maggio  2013,
ritenendo che la stessa assicurasse un ragionevole contemperamento di
interessi riguardanti beni  di  rango  costituzionale  (la  salute  e
l'ambiente, da un  lato,  l'occupazione  e  la  liberta'  di  impresa
coinvolgente   un   settore   strategico   dell'economia   nazionale,
dall'altro) entro un periodo temporale contenuto,  pari  a  trentasei
mesi, che - lo si ripete - sarebbe dovuto scadere il 3 dicembre  2015
(sulle motivazioni della Consulta  ci  si  diffondera'  innanzi,  nel
paragrafo riguardante la fondatezza della questione  di  legittimita'
costituzionale che si intende sollevare). 
    Con il successivo decreto-legge 4 giugno 2013, n. 61,  convertito
con modifiche nella legge 3 agosto 2013, n. 89,  viene  istituito  il
«commissariamento» dell'ILVA, per la durata di  12  mesi  prorogabili
sino ad un massimo di 36 mesi; cio' avviene,  per  stessa  ammissione
del  legislatore,  per  una  situazione  di  «inosservanza  reiterata
dell'autorizzazione  integrata  ambientale»  in  relazione   ad   una
attivita' produttiva che ha  comportato  e  comporta  «oggettivamente
pericoli gravi e rilevanti per  l'integrita'  dell'ambiente  e  della
salute (art. 1 co. 1). 
    Con il suddetto decreto-legge viene prevista  la  stesura  di  un
«piano  delle  misure  e  delle  attivita'  di  tutela  ambientale  e
sanitaria dei lavoratori e della popolazione  e  di  prevenzione  del
rischio  di  incidenti  rilevanti»,  provvedimento  che  sara',  poi,
emanato con decreto del Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  14
marzo 2014. 
    Ai sensi del combinato disposto dei  commi  5  e  7  dell'art.  1
l'approvazione  del  Piano  ambientale  con  apposito   decreto   del
Presidente del  Consiglio  dei  ministri  «...  equivale  a  modifica
dell'a.i.a., limitatamente alla modulazione dei tempi  di  attuazione
delle relative prescrizioni,  che  consenta  il  completamento  degli
adempimenti previsti non oltre trentasei mesi dalla data  di  entrata
in vigore della legge di conversione del presente decreto», ossia  il
4 agosto 2013; per  effetto  di  tale  norma  il  termine  ultimo  di
adeguamento dell'impianto alle prescrizioni  dell'A.I.A.  riesaminata
viene dunque differito al 4 agosto 2016 (otto mesi  dopo  l'originano
termine del 3 dicembre 2015). 
    E proprio con riferimento ai limiti  temporali,  il  comma  3-ter
dell'art. 2 del citato decreto-legge n. 61/2013, prevedeva che  entro
il 31 luglio 2015 dovesse essere attuato almeno «l'80 per cento delle
prescrizioni in scadenza a quella data». 
    Inoltre ai sensi del comma 8 dell'art. 1 «La predisposizione  dei
piani di cui ai commi 5 e 6 nei termini  ivi  previsti,  l'osservanza
delle prescrizioni dei piani di cui ai medesimi commi, e, nelle  more
dell'adozione degli stessi piani, il rispetto delle previsioni di cui
al comma 8, equivalgono e  producono  i  medesimi  effetti,  ai  fini
dell'accertamento di  responsabilita'  per  il  commissario,  il  sub
commissario e gli esperti del comitato, derivanti  dal  rispetto  dei
modelli di organizzazione dell'ente in relazione alla responsabilita'
dei soggetti in posizione apicale  per  fatti  di  rilievo  penale  o
amministrativo di cui all'art. 6 del  decreto  legislativo  8  giugno
2001, n. 231, per gli illeciti strettamente  connessi  all'attuazione
dell'a.i.a. e delle  altre  norme  a  tutela  dell'ambiente  e  della
salute». 
    Con il  decreto-legge  5  gennaio  2015,  n.  1,  convertito  con
modifiche dalla legge  4  marzo  2015,  n.  20,  l'ILVA  viene  fatta
rientrare nell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese  in
crisi;  viene  previsto  (art.  1,  comma  4)  che   il   commissario
straordinario individui «l'affittuario o l'acquirente,  a  trattativa
privata, tra i soggetti che garantiscono,  a  seconda  dei  casi,  la
continuita'  nel  medio  periodo  del  relativo   servizio   pubblico
essenziale  ovvero  la  continuita'  produttiva  dello   stabilimento
industriale di interesse strategico nazionale anche  con  riferimento
alla  garanzia  di  adeguati  livelli  occupazionali»,  e  che   tale
affittuario o acquirente dovra' presentare un'offerta  corredata  «di
un piano industriale e finanziario nel quale devono  essere  indicati
gli investimenti, con le risorse finanziarie necessarie e le relative
modalita' di copertura, che si intendono effettuare per garantire  le
predette finalita' nonche' gli obiettivi strategici della  produzione
industriale degli stabilimenti del gruppo». 
    Al comma 5 dell'art. 2 viene dettata la seguente disposizione «Il
piano di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri  14
marzo 2014 si intende attuato se entro il 31 luglio  2015  sia  stato
realizzato, almeno nella misura  dell'80  per  cento,  il  numero  di
prescrizioni in scadenza a quella data. Entro il 31 dicembre 2015, il
commissario straordinario presenta al Ministero dell'ambiente e della
tutela del territorio e del mare  e  all'ISPRA  una  relazione  sulla
osservanza delle prescrizioni del piano di cui al primo periodo.  Con
apposito decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  su
proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del  territorio  e
del mare, e' stabilito il termine ultimo per l'attuazione di tutte le
altre prescrizioni». 
    Come si vede, tale  ultima  previsione  spostava  addirittura  ad
libitum il termine  ultimo  per  la  completa  messa  a  norma  degli
impianti, ma la stessa  e'  stata  poi  corretta  per  effetto  della
modifica  apportata  dall'art.  1,  comma  7  del  decreto-legge   n.
191/2015, convertito con modifiche dalla legge 13  gennaio  2016,  n.
13, che ha fissato il  termine  ultimo  per  l'attuazione  del  Piano
ambientale «al 30  giugno  2017»,  conseguentemente  prorogando  alla
medesima data il termine di cui all'art. 3, comma 3, decreto-legge n.
207/2012, ossia quello della facolta' d'uso dello  stabilimento,  pur
in  costanza  di  sequestro  penale   (differito   dunque,   rispetto
all'originario termine del 3  dicembre  2015,  di  circa  un  anno  e
mezzo). 
    Sennonche' il decreto-legge 9 giugno 2016, n. 98, convertito  con
modifiche dalla legge  1°  agosto  2016,  n.  151,  ha  ulteriormente
modificato il citato art. 2, comma 5 del decreto-legge n. 1/2015,  il
cui testo, per maggiore chiarezza, viene di  seguito  riportato:  «Il
piano di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri  14
marzo 2014 si intende attuato se entro il 31 luglio  2015  sia  stato
realizzato, almeno nella misura  dell'80  per  cento,  il  numero  di
prescrizioni in scadenza a quella data. Entro il 31 dicembre 2015, il
commissario straordinario presenta al Ministero dell'ambiente e della
tutela del territorio e del mare  e  all'ISPRA  una  relazione  sulla
osservanza delle prescrizioni del piano  di  cui  al  primo  periodo.
Fermo restando il rispetto dei limiti  di  emissione  previsti  dalla
normativa europea, il termine  ultimo  per  l'attuazione  del  Piano,
comprensivo  delle  prescrizioni  di  cui  al  decreto  del  Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio e  del  mare  3  febbraio
2014, n. 53, e' fissato al 30 giugno 2017. Tale termine  puo'  essere
prorogato, su istanza  dell'aggiudicatario  della  procedura  di  cui
all'art. 1 del decreto-legge 4 gennaio 2015, n. 191, convertito,  con
modificazioni, dalla legge 1° febbraio 2016, n. 13, formulata con  la
domanda prevista al comma 8.1 del medesimo art. 1, con il decreto del
Presidente del Consiglio dei ministri di approvazione delle modifiche
del Piano delle misure e  delle  attivita'  di  tutela  ambientale  e
sanitaria e per un periodo non superiore  a  18  mesi,  conformemente
alle risultanze dell'istruttoria svolta ai sensi del  comma  8  dello
stesso art. 1.  Tale  termine  si  applica  altresi'  ad  ogni  altro
adempimento,  prescrizione,  attivita'  o  intervento   di   gestione
ambientale e di smaltimento e  gestione  dei  rifiuti  inerente  ILVA
S.p.a. in amministrazione straordinaria e le altre societa'  da  essa
partecipate anch'esse in amministrazione straordinaria e  sostituisce
ogni altro diverso termine intermedio o finale  che  non  sia  ancora
scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto, previsto
da  norme  di  legge  o  da  provvedimenti  amministrativi   comunque
denominati. E'  conseguentemente  prorogato  alla  medesima  data  il
termine di cui all'art. 3, comma  3,  del  decreto-legge  3  dicembre
2012, n. 207, convertito, con modificazioni, dalla legge 24  dicembre
2012, n. 231. Il comma 3-ter dell'art. 2 del decreto-legge  4  giugno
2013, n. 61, convertito, con  modificazioni,  dalla  legge  3  agosto
2013, n. 89, e' abrogato». 
    In sostanza, con tale intervento  normativo  e'  stata  concessa,
all'aggiudicatario della procedura di cessione dello stabilimento, la
possibilita'  di  chiedere  la  modifica  del  Piano  ambientale,  da
adottarsi con apposito  decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri, in tale evenienza prorogandosi il termine ultimo di messa a
norma degli impianti per un periodo di ulteriori 18 mesi (il cui dies
a quo non era pero' chiaro). 
    Ed il termine ultimo per l'attuazione del Piano  e'  stato,  poi,
ulteriormente differito con l'art. 6, comma 10-bis, lettere a)  e  c)
del decreto-legge 30 dicembre 2016, n. 244, convertito con  modifiche
dalla legge 27 febbraio 2017, n. 19; e invero: 
        con la norma contenuta nella citata  lettera  a)  «i  termini
previsti dall'art. 2, comma 5, del decreto-legge 5 gennaio  2015,  n.
1, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 marzo 2015,  n.  20»,
cioe' proprio quelli per l'attuazione definitiva del  piano,  vengono
«adeguati» alla scadenza dell'autorizzazione integrata ambientale  in
corso di validita' che, si precisa, e' ad oggi fissata al  23  agosto
2023; 
        con la norma contenuta nella citata lettera  e),  nelle  more
della procedura di aggiudicazione dell'ILVA al nuovo  acquirente,  il
termine originario del 30 giugno 2017 viene prorogato al 30 settembre
2017,  oppure  alla  data  di  entrata  in  vigore  del  decreto  del
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri  di  modifica   del   Piano
ambientale. Tale ultimo provvedimento e' il  decreto  del  Presidente
del Consiglio dei ministri 29 settembre 2017 (in Gazzetta Ufficiale -
Serie generale - n. 229 del 30 settembre 2017) che, all'art. 2, comma
2, fissa il termine ultimo del 23 agosto 2023 per la definitiva messa
a norma degli impianti. 
    Nonostante il succedersi convulso e non sempre chiarissimo  delle
norme, il risultato finale  non  puo'  che  essere  il  seguente:  il
termine ultimo  per  la  realizzazione  degli  interventi  del  piano
ambientale coincide addirittura con la  scadenza  dell'autorizzazione
integrata ambientale che, lo si ripete, e' fissata al 23 agosto 2023. 
    Se allora il legislatore ha dato termine sino a quella  data  per
la definitiva messa a norma degli impianti,  l'attivita'  produttiva,
quand'anche cagioni fenomeni di inquinamento e sforamenti dei livelli
di emissione nonche' contaminazioni  dell'aria,  della  falda  e  del
territorio circostante lo  stabilimento,  ponendo  potenzialmente  in
pericolo la vita dei lavoratori e degli abitanti, la  loro  salute  e
l'ambiente,  deve  ritenersi  autorizzata  fino  all'agosto  2023,  a
condizione che vengano rispettate le prescrizioni del  piano  (mentre
condotte omissive o violative del Piano devono continuare  ad  essere
perseguite); ma cio'  comporta,  inevitabilmente,  che  condotte  che
potrebbero acquisire rilievo penale, non lo sono perche'  sono  state
autorizzate per questo lunghissimo arco di tempo, ben undici anni dal
provvedimento di sequestro emesso dall'Autorita' giudiziaria,  datato
25 luglio 2012 e con un  differimento  di  circa  6  anni  e  9  mesi
dell'originario termine previsto dall'art. 3, co. 3 decreto-legge  n.
207/2012. 
    Ebbene, le condotte su cui si  sta  indagando  o  che  potrebbero
essere oggetto di potenziali nuove indagini non  sono  esclusivamente
quelle poste in essere nel  biennio  2014-2015,  periodo  antecedente
alla  prima  scadenza  temporale  prevista  dal  legislatore  per  la
prosecuzione dell'attivita' produttiva dello stabilimento  e  per  la
sua messa a norma, ma riguardano anche il 2016 (in particolare quelle
del procedimento n. 7297/17 R.G. mod. 44) e, astrattamente, anche gli
anni  successivi,  ove  si  consideri  che  si  tratta  di   condotte
riguardanti reati permanenti, la  cui  consumazione  e'  strettamente
connessa  al  ciclo  produttivo  dello  stabilimento,  di  fatto  mai
interrottosi. La  eventuale  permanenza  dei  fenomeni  emissivi  e',
infatti, uno dei terni di indagine che l'odierno  giudicante  intende
approfondire, ex art. 409 co. 4 c.p.p. 
    Ma  tutte  le  indagini  sui  fenomeni  emissivi  prodotti  dallo
stabilimento ILVA non potrebbero non tenere conto del  fatto  che  si
tratta  di  un'attivita'  autorizzata   per   legge   a   proseguire,
indisturbata,  sino  al  23  agosto  2023,   nonostante   lo   stesso
legislatore l'abbia ritenuta fonte di «pericoli gravi e rilevanti per
l'integrita'  dell'ambiente  e  della  salute»   (art.   1,   co.   1
decreto-legge n. 61/2013). 
    Appare dunque  doveroso  accertare  se  quelle  norme  che  hanno
autorizzato lo stabilimento a proseguire,  nonostante  le  deficienze
impiantistiche, ben oltre l'originario termine di  36  mesi  previsto
dall'art.   3,   co.   3   decreto-legge   n.   207/2012    (ritenuto
costituzionalmente legittimo dal Giudice  delle  leggi)  non  abbiano
clamorosamente violato i precetti costituzionali e quei  paletti  che
la  stessa  Consulta  aveva  posto  per  ritenere  non   viziate   le
disposizioni della prima legge «Salva Ilva». 
    Il secondo aspetto  da  prendere  in  considerazione  e'  quello,
strettamente correlato alla prosecuzione  dell'attivita'  produttiva,
riguardante la esenzione da responsabilita' penale dei gestori  dello
stabilimento (e dei soggetti  da  essi  delegati),  esimente  che  il
legislatore ha inteso  esplicitare  con  apposita  formulazione,  pur
essendo, per le ragioni sopra esposte,  un  logico  corollario  della
facolta' d'uso  dello  stabilimento  autorizzata  ex  lege  anche  in
costanza di sequestro e di deficienze impiantistiche. 
    Se  infatti,  dopo  l'entrata  in  vigore  del  decreto-legge  n.
207/2012 doveva considerarsi «lecita la continuazione  dell'attivita'
produttiva di aziende sottoposte a sequestro  (n.d.e.:  di  interesse
strategico  nazionale),  a  condizione  che  vengano   osservate   le
prescrizioni dell'AIA  riesaminata,  nelle  quali  si  riassumono  le
regole che limitano,  circoscrivono  e  indirizzano  la  prosecuzione
dell'attivita' stessa» e  se  il  controllo  di  legalita',  in  quel
contesto  normativo,  doveva   essere   ricondotto   «alla   verifica
dell'osservazione delle prescrizioni di tutela dell'ambiente e  della
salute contenute nell'AIA riesaminata»,  (cosi'  si  e'  espressa  la
Corte costituzionale nella  citata  sentenza  n.  85/2013),  il  mero
rispetto delle suddette  prescrizioni  da  parte  dei  gestori  dello
stabilimento avrebbe consentito  agli  stessi  di  andare  esenti  da
responsabilita', pur in presenza di situazioni penalmente rilevanti -
ove commessi in altri contesti aziendali - per violazione delle norme
penali comuni di salvaguardia della salute e dell'ambiente. 
    L'art. 2, comma  6  del  decreto-legge  5  gennaio  2015,  n.  1,
convertito con modifiche  dalla  legge  4  marzo  2015  n.  20  (come
modificato dall'art. 1 comma 4 decreto-legge n.  98/2016,  conv.  con
modif.  dalla  legge  n.  151/2016  e  dall'art.  6,  comma   10-ter,
decreto-legge n. 244/2016 conv. con modif. dalla legge  n.  19/2017),
nella sua attuale formulazione, cosi' dispone: «  L'osservanza  delle
disposizioni contenute nel Piano di cui al decreto del Presidente del
Consiglio dei ministri 14 marzo 2014, nei termini previsti dai  commi
4 e 5  del  presente  articolo,  equivale  all'adozione  ed  efficace
attuazione  dei  modelli  di  organizzazione  e  gestione,   previsti
dall'art. 6 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n.  231,  ai  fini
della valutazione delle condotte strettamente connesse all'attuazione
dell'A.I.A. e delle altre norme a tutela dell'ambiente, della  salute
e  dell'incolumita'  pubblica.  Le  condotte  poste  in   essere   in
attuazione del Piano di cui al periodo precedente  non  possono  dare
luogo a  responsabilita'  penale  o  amministrativa  del  commissario
straordinario, dell'affittuario o acquirente e dei soggetti da questi
funzionalmente delegati, in quanto  costituiscono  adempimento  delle
migliori regole preventive in materia  ambientale,  di  tutela  della
salute e dell'incolumita' pubblica e di  sicurezza  sul  lavoro.  Per
quanto  attiene  all'affittuario   o   acquirente   e   ai   soggetti
funzionalmente da questi delegati, la disciplina di  cui  al  periodo
precedente si applica con riferimento alle condotte poste  in  essere
fino alla scadenza del 30 giugno 2017 prevista dal terzo periodo  del
comma 5 ovvero per un periodo ulteriore  non  superiore  ai  diciotto
mesi decorrenti dalla data di  entrata  in  vigore  del  decreto  del
Presidente del Consiglio dei ministri di approvazione delle modifiche
del Piano delle misure e  delle  attivita'  di  tutela  ambientale  e
sanitaria secondo quanto ivi stabilito a norma del comma 5». 
    L'interpretazione che  si  puo'  dare  della  predetta  norma  e'
univoca: vige una vera e propria presunzione  iuris  et  de  iure  di
conformita' e  di  legalita'  circa  le  azioni  (ed  omissioni)  del
Commissario p.t. e degli altri soggetti menzionati  nel  testo  della
norma impegnati ad attuare il Piano delle misure e delle attivita' di
tutela ambientale e sanitaria di cui al decreto  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri 14 marzo 2014, trattandosi  di  condotte  che,
secondo l'insindacabile giudizio ex ante  dell'esecutivo  (ratificato
dal  legislativo),  costituirebbero  l'adempimento  delle   «migliori
regole preventive in materia ambientale, di  tutela  della  salute  e
dell'incolumita' pubblica e di  sicurezza  sul  lavoro»;  il  rischio
ambientale e tecnologico legato a tali attivita' viene inquadrato  in
via presuntiva nel cosiddetto rischio  consentito;  le  condotte  dei
soggetti che si muovono per l'attuazione del  piano  delle  misure  e
delle attivita' di  tutela  ambientale  e  sanitaria  approvato,  per
l'allora ILVA S.p.a., dal decreto del Presidente  del  Consiglio  dei
ministri  del  14  marzo  2014  sono  sostanzialmente  sottratte   al
sindacato del giudice penale; a riguardo si e', non a torto,  parlato
di una  vera  e  propria  «immunita'  penale»  concessa  ai  predetti
soggetti, riferita alle azioni  attuative  previste  dall'A.I.A.  per
l'Ilva  del  2014  (cfr.,  pero',  infra  sull'esatto   inquadramento
dogmatico della fattispecie). 
    Gli eventi dannosi che, comunque, l'attuazione del Piano potrebbe
determinare vengono considerati ex lege una male necessario,  essendo
imperativamente sottratti  all'ordinario  sindacato  giurisdizionale.
Una vera e propria deresponsabilizzazione degli autori di  eventuali,
tra gli altri, disastri ambientali o delle situazioni di pericolo per
la salute dei lavoratori dell'impresa. 
    Facendo dunque applicazione della norma in questione nel caso  di
specie, la riconducibilita' all'attivita' dello stabilimento: 
        del grave fenomeno di inquinamento registrato  nel  quartiere
Tamburi di Taranto tra la fine del 2014 e gli inizi del 2015 (periodo
che comunque ricade nella fase temporale  in  cui  non  erano  ancora
scaduti i termini per l'adeguamento degli impianti alle  prescrizioni
A.I.A. ex art. 3 co. 3 decreto-legge n. 207/2012); 
        dell'emissione elevatissima di Black  Carbon  nell'anno  2016
(ove ne venisse  accertata  la  nocivita'  per  la  salute  umana)  e
dell'esposizione  dei  lavoratori  dello  stabilimento  che   operano
nell'area cockeria a quegli ingentissimi livelli di  inquinanti  pure
registrati nel 2016; 
        dell'inquinamento della falda acquifera del Comune di  Statte
(fenomeno, quest'ultimo, in verita' ancora da accertare); 
        dei fatti di inquinamento successivi al 2016,  potenzialmente
accertabili  nell'ambito  del  presente  procedimento,  in  caso   di
svolgimento di ulteriori indagini ordinate dall'odierno giudicante ex
art. 409, co. 4 codice di procedura penale; 
        non potrebbe determininare l'esercizio dell'azione penale  da
parte  del  PM  (rendendo  dunque  superflue  quelle   investigazioni
suppletive che dovessero essere disposte dal GIP) perche' gli  autori
delle condotte, attive ed omissive, che hanno cagionato quegli eventi
possono godere della speciale causa di non punibilita' prevista nella
citata disposizione di legge. 
    In prima battuta occorre evidenziare che, ad avviso  dell'odierno
giudicante, la fattispecie prevista dall'art. 2, co. 6  decreto-legge
n. 1/2015 (conv. dalla legge  n.  20/2015)  e  ss.mm.,  debba  essere
dogmaticamente   inquadrata   nella   categoria   delle   scriminanti
(speciali) e non quale fonte di immunita'. La differenza non e' priva
di rilievo, ove si consideri, tra le altre cose, che  le  scriminanti
si applicano anche ai concorrenti del reato, attesa la  loro  valenza
oggettiva, a differenza delle immunita' che hanno esclusiva rilevanza
soggettiva. 
    Come e' noto, secondo la dottrina dominante, le immunita'  mirano
a garantire e proteggere l'espletamento di determinate  funzioni  e/o
uffici di particolare importanza per il corretto funzionamento  dello
Stato   e   si   risolvono   nella   sottrazione   di   un   soggetto
all'applicazione della sanzione penale per  aver  commesso  un  fatto
tipico, antigiuridico e  colpevole,  come  prevede  l'art.  3  codice
penale che sancisce l'obbligatorieta' della legge penale  per  tutti,
fatte salve «le eccezioni stabilite dal diritto  pubblico  interno  e
internazionale» (tali  eccezioni  vengono  individuate,  ad  esempio,
nell'art. 90 Cost. a tutela delle prerogative  del  Presidente  della
Repubblica, nell'art.  68  Cost.  per  tutelare  le  prerogative  dei
parlamentari, mentre il diritto internazionale  tutela  la  posizione
dei Capi di Stato esteri presenti sul territorio nazionale). 
    Le scriminanti (o  cause  di  giustificazione)  rendono,  invece,
lecito un fatto tipico contemplato da una norma incriminatrice  e  il
loro fondamento risiede nel bilanciamento tra interessi in conflitto.
Quindi l'attenzione dell'ordinamento e' qui rivolta al  fatto,  nella
sua dimensione oggettiva, escludendosi la sua antigiuridicita'  (cfr.
art. 50 e ss. codice penale, con riferimento alla  legittima  difesa,
allo stato di necessita', ecc.) o, secondo i fautori della cosiddetta
teoria della bipartizione, la stessa tipicita' del fatto  (nel  senso
che le scriminanti  sarebbero  elementi  negativi  del  fatto,  cioe'
elementi che devono mancare perche' il fatto risulti punibile). 
    Nel caso di specie, prevedendo per i soggetti chiamati ad attuare
il Piano delle misure  e  delle  attivita'  di  tutela  ambientale  e
sanitaria approvato con decreto  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri del 14 marzo 2014 l'assenza  di  responsabilita'  penale  (e
amministrativa), il legislatore ha ritenuto  di  dover  spiegare  che
tale conseguenza deriva dal presupposto che  le  misure  previste  in
quel Piano sono le «migliori regole preventive in materia ambientale,
di tutela della salute e dell'incolumita' pubblica e di sicurezza sul
lavoro». Adempiendo alle prescrizioni  del  Piano,  dunque,  verrebbe
meno  il  contrasto  tra  un  fatto  eventualmente  conforme  ad  una
fattispecie incriminatrice (l'inquinamento e/o il disastro ambientale
ad es., ma  anche  la  meno  grave  ipotesi  dell'art.  674  c.p.)  e
l'ordinamento  giuridico,  poiche'  a  insindacabile   giudizio   del
legislatore  l'attuazione  del  Piano  e'  il   miglior   mezzo   per
raggiungere  uno  scopo  comunque  meritevole  di  tutela,  quale  la
prosecuzione dell'attivita' aziendale, o perche' ritenuto  prevalente
su altri interessi in conflitto, o perche' le misure  di  quel  Piano
costituiscono, ex lege, il giusto contemperamento tra interesse  alla
produzione e contro-interessi lesi dall'attivita' di impresa (salute,
ambiente, integrita' dei luoghi di lavoro ecc.). 
    Tra la regola penale  generale  che  impone  di  non  mettere  in
pericolo la salute e l'ambiente e quelle, altrettanto  generali,  che
consentono l'attivita' produttiva, anche se rischiosa, entro i limiti
delle  autorizzazioni  all'esercizio  di  una  certa  industria,   la
soluzione e' stata imposta a livello oggettivo, con prevalenza  della
regola autorizzatoria su quella penale, privando  il  fatto  (tipico)
della sua antigiuridicita'. 
    Il fatto che l'efficacia della disposizione sembra limitata  solo
a particolari categorie di soggetti - il commissario straordinario di
ILVA, l'affittuario o acquirente dello stabilimento ed i soggetti  da
questi funzionalmente delegati - non appare decisivo per  un  diverso
inquadramento   della   norma,   poiche'   tali   soggetti    vengono
«deresponsabilizzati» non perche' la loro funzione in quanto tale  e'
meritevole di tutela, ma perche', rivestendo ruolo apicale  o  agendo
su delega dei ruoli apicali, vedrebbero a se'  imputata  l'attuazione
del Piano e le scelte di gestione dello stabilimento. 
    E, per i motivi  sopra  indicati,  si  e'  voluto  stabilire  una
presunzione di liceita' delle condotte poste in essere in  attuazione
del «Piano ambientale». 
    Va poi aggiunto che, in via  ipotetica,  quella  esimente,  cosi'
come  la  prosecuzione  dell'attivita'  produttiva  in  costanza   di
sequestro, ha un ambito di operativita' temporale predeterminato. 
    Gia'  si  e'  detto  che  le   prescrizioni   dell'Autorizzazione
integrata ambientale riesaminata contenute nel  decreto  ministeriale
del 26 ottobre 2012 (e successivamente del Piano delle misure e delle
attivita' di tutela ambientale e sanitaria approvato con decreto  del
Presidente del Consiglio dei ministri del  14  marzo  2014)  dovevano
essere attuate entro il 31 luglio 2015 (data entro cui doveva  essere
rispettato l'80% delle prescrizioni, con termine finale di attuazione
dell'A.I.A. al 3 dicembre 2015), termine prorogato al 30 giugno  2017
dall'art. 1, co. 7 decreto-legge n. 191/2015  come  modificato  dalla
legge n. 13/2016 e poi differito al 30 settembre  2017  dall'art.  6,
co. 10-bis decreto-legge n. 244/2016, conv. con modifiche dalla legge
n. 19/2017. Ad oggi, salvo ulteriori  proroghe,  il  termine  per  la
realizzazione  degli  interventi  coincide  con  quello  di  scadenza
dell'A.I.A., ossia il 23 agosto 2023, ai sensi del combinato disposto
degli articoli 6, co. 10-bis decreto-legge  n.  244/2016,  conv.  con
modif. dalla legge n. 19/2017 e 2, co. 2 del decreto  del  Presidente
del Consiglio dei ministri del 29 settembre 2017  (che  ha  apportato
modifiche al Piano). 
    Invece «per quanto attiene  all'affittuario  o  acquirente  e  ai
soggetti funzionalmente da questi delegati», a mente dell'art. 2, co.
6 ultimo periodo decreto-legge n. 1/2015 attualmente in vigore e dopo
l'entrata in vigore del predetto decreto del Presidente del Consiglio
dei ministri del 29 settembre 2017,  l'operativita'  dell'esimente  -
inizialmente prevista con il limite temporale delle condotte poste in
essere fino al 30 giugno 2017 ovvero fino all'ulteriore termine di 18
mesi eventualmente concesso per  l'attuazione  del  Piano  ambientale
«decorrenti  dalla  data  di  entrata  in  vigore  del  decreto   del
Presidente del Consiglio dei ministri di approvazione delle modifiche
del Piano», ex art. 4,  co.  1  decreto-legge  n.  98/2016  (conv.con
modif. dalla legge n. 151/2016) - e' stata prorogata sino al 30 marzo
2019  (diciotto  mesi  dall'approvazione  delle  modifiche  al  Piano
ambientale, apportate tramite il citato decreto  del  Presidente  del
Consiglio dei ministri del 29 settembre 2017). 
    Non sono chiare le ragioni di questo «scollamento» tra il periodo
dell'attivita' autorizzata (sino al 23 agosto 2023)  e  la  copertura
temporale della esimente (30 marzo 2019) e non si comprende in  forza
di quali norme l'Avvocatura di Stato, nel parere reso  il  21  agosto
2018 al Ministero  dello  sviluppo  economico,  del  lavoro  e  delle
politiche sociali  (pubblicato  sul  sito  del  MISE  e  visibile  al
seguente                                                   indirizzo:
https://www.mise.gov.it/index.php/it/198-notizie-stampa/2038583-ilva-
disclosure-il-parere-dell-avvocatura-dello-stato-e-il-provvedimento-d
i-conclusione-del-procedimento),  richiamando  il  contenuto  di   un
precedente  parere  del  14  settembre  2017,  abbia  dichiarato  che
«l'esimente di cui all'art. 2, comma 6 cit. operi  per  tutto  l'arco
temporale in  cui  l'aggiudicatario  sara'  chiamato  ad  attuare  le
prescrizioni  ambientali  impartite  dall'amministrazione»,  per  cui
«detto arco temporale risultera' quindi coincidente con  la  data  di
scadenza  dell'autorizzazione  integrata  ambientale  in   corso   di
validita' (23 agosto 2023)». 
    In ogni caso, sia  interpretando  la  norma  secondo  il  dettato
letterale, sia aderendo all'interpretazione dell'Avvocatura di Stato,
l'esimente copre le condotte attualmente al vaglio  di  questa  A.G.,
ove si consideri che il PM del procedimento n. 10093/16  R.G.N.R.  ne
ha invocato l'applicazione per chiedere l'archiviazione del fascicolo
e che i procedimenti n. 5568/17 R.G. mod. 44 e n. 7297/17  R.G.  mod.
44 riguardano le condotte poste in essere nel 2016 e, potenzialmente,
nel  periodo  successivo,  dunque  nell'ambito  di  piena   validita'
temporale dell'art. 2, co. 6 cit. 
    Ebbene,  in  punto   di   fatto,   con   riguardo   agli   eventi
potenzialmente   delittuosi   verificatisi   durante   la    gestione
commissariale e  in  relazione  ad  analoghi  fatti  successivi,  che
potrebbero   essere   accertati   nel   prosieguo   delle    indagini
eventualmente disposte ex art.  409,  comma  4  codice  di  procedura
penale, rileva l'odierno giudicante che occorrerebbe verificare: 
        a)  se  le  emissioni  fuori   limite   di   diossina   dagli
elettrofiltri  dell'impianto  di   agglomerazione   fossero   davvero
anomalie legate al ciclo produttivo dell'ILVA, come dichiarato dal PM
nella richiesta di archiviazione del procedimento n.  10093/16  RGNR,
dovute  a  condotte  poste  in  essere   «in   attuazione»   dell'AIA
riesaminata (e dunque  non  perseguibili  ex  articoli  3,  comma  3,
decreto-legge n. 207/2012 e 2, comma  6,  decreto-legge  n.  1/2015),
ovvero consistano in violazioni, anche di natura omissiva del  Piano,
perche' in tale caso non dovrebbe essere operante l'esimente; 
        b) se per i fatti successivi al febbraio 2015, pur se  ancora
da accertare in questa fase embrionale delle  indagini,  non  essendo
stati oggetto, ad avviso dello scrivente, di adeguato approfondimento
(l'inquinamento dei suoli e della falda acquifera, relativamente alla
gestione della Cava Mater  Gratiae,  gli  elevati  livelli  di  Black
Carbon nel quartiere Tamburi e i preoccupanti livelli  di  inquinanti
all'interno dello stabilimento,  rilevati  dall'ARPA  e  oggetto  del
rapporto per l'anno 2016), fosse stato rispettato il termine  di  cui
al primo periodo del comma 5 del citato art. 2,  e  cioe'  se  al  31
luglio 2015 fosse stato realizzato almeno  l'80%  delle  prescrizioni
del Piano (perche' anche in tale  evenienza  dovrebbe  ritenersi  non
operante l'esimente); 
        c) se le condotte causative di quei fenomeni fossero  o  meno
attinenti al normale ciclo produttivo dell'Ilva, ex lege autorizzato,
ovvero  si  fosse  trattato,  anche  stavolta,  di  vere  e   proprie
violazioni del Piano; 
        d) se persistono fenomeni emissivi legati all'attuazione  del
Piano, quale sia la loro entita' e pericolosita' per  la  salute  dei
lavoratori dello stabilimento e per la popolazione circostante. 
    E' chiaro  pero'  che  tutto  cio'  costituisce  oggetto  di  una
indagine piu' approfondita, rispetto alla  quale  appare  preliminare
chiarire anzitutto, anche in rapporto alle richieste di archiviazione
gia' formulate dai pubblici ministeri (con particolare riferimento  a
quella del procedimento n. 10093/16  RGNR  che,  come  detto,  invoca
l'applicabilita'  dell'esimente   prevista   dall'art.   2,   co.   6
decreto-legge n. 1/2015) ed anche ai probabili sbocchi  delle  stesse
indagini (sopra ipotizzati), se quelle norme che  stanno  consentendo
all'Uva di continuare  a  produrre,  con  garanzia  di  esenzione  da
responsabilita' penale per le sue figure apicali (o soggetti da  essi
delegati) possano considerarsi costituzionalmente legittime. 
    Ora, questo giudice per le indagini preliminari non ignora che le
norme che hanno prorogato l'attivita' produttiva  dello  stabilimento
ben oltre l'originaria scadenza del  3  dicembre  2015  e  che  hanno
introdotto l'esimente per le condotte poste in essere  in  attuazione
del Piano ambientale sono norme penali di favore, la  cui  espunzione
dell'ordinamento giuridico, in  caso  di  eventuale  declaratoria  di
incostituzionalita', non potra' che avere effetto per l'avvenire  (ex
art. 30 legge n. 87/1953 e 2 c.p.). 
    Gli autori dei reati commessi sotto l'impero di quelle norme  non
potranno dunque essere perseguiti,  anche  in  caso  di  accoglimento
della questione sollevata dall'odierno giudicante. 
    Cio' non rende, tuttavia, irrilevante nel  presente  procedimento
la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2,  comma  5  e
comma 6 decreto-legge n. 1/2015 (e succ. modif.). 
    E invero il principio della riserva di legge in materia penale  e
di irretroattivita' della norma penale sfavorevole non  preclude,  in
senso  assoluto,  l'adozione  di  pronunce,  da  parte  della   Corte
costituzionale, aventi effetti  in  malam  partem,  allorquando  tale
effetto  non  discende  dall'introduzione  di  nuove  norme  o  dalla
manipolazione di norme esistenti da parte  della  Corte,  ovvero  dal
ripristino  di  una  norma   abrogata   espressiva   di   scelte   di
criminalizzazione non piu' attuali, presentandosi  ciascuna  di  tali
operazioni chiaramente invasiva del monopolio del  legislatore  nella
materia penale (cfr. Corte costituzionale, sentenza n. 394 del  2006,
che ha riconosciuto la sindacabilita' proprio delle c.d. norme penali
di favore,  ossia  delle  norme  che  stabiliscono,  per  determinati
soggetti o ipotesi, un trattamento  penalistico  piu'  favorevole  di
quello  che  risulterebbe  dall'applicazione  di  norme  generali   o
comuni). 
    Infatti, «altro ... e' la garanzia che  i  principi  del  diritto
penale-costituzionale possono offrire agli  imputati,  circoscrivendo
l'efficacia spettante alle dichiarazioni d'illegittimita' delle norme
penali di favore; altro e' il sindacato cui le  norme  stesse  devono
pur sempre. sottostare, a pena di istituire zone  franche  del  tutto
impreviste   dalla   Costituzione,   all'interno   delle   quali   la
legislazione  ordinaria  diverrebbe  incontrollabile»   (cfr.   Corte
costituzionale sentenza n. 148 del 1983). 
    Nel caso in  esame  l'effetto  in  malam  partem  costituisce  il
risultato della ri-espansione della norma generale o comune (le norme
incriminatrici a tutela dell'ambiente e della sicurezza sui luoghi di
lavoro,  ovvero  poste  a  tutela  della  salute  e  dell'incolumita'
pubblica) conseguendo, pertanto, alla decisione ablativa di norme che
vorrebbero, invece, sottrarre  un  gruppo  di  soggetti  (commissario
straordinario ILVA, affittuari e acquirenti  e  soggetti  da  costoro
delegati) alla sfera applicativa della prima; quell'effetto e'  cioe'
conseguente alla  eliminazione  di  disposizioni  qualificabili  come
norme penali di favore ritenute incompatibili con  l'attuale  assetto
costituzionale. 
    E' da aggiungere che, secondo il consolidato  orientamento  della
Consulta, le questioni incidentali di legittimita'  sono  ammissibili
«quando la norma impugnata e' applicabile nel processo  d'origine  e,
quindi, la decisione della Corte e' idonea a determinare effetti  nel
processo stesso; mentre e' totalmente ininfluente sull'ammissibilita'
della questione il «senso» degli  ipotetici  effetti  che  potrebbero
derivare  per  le   parti   in   causa   da   una   pronuncia   sulla
costituzionalita' della legge» (cfr. Corte  costituzionale,  sentenza
n. 98 del 1997). 
    Premessa dunque la sicura  applicabilita',  nel  procedimento  in
corso, dell'art. 2, comma 5 decreto-legge n. 1/2015 - che ha in parte
modificato  nei  termini  innanzi  esplicitati  l'art.   3,   co.   3
decreto-legge n. 207/2012  -  e  della  norma  ex  art.  2,  comma  6
decreto-legge  n.  1/2015,  competera',  in  definitiva,  al  giudice
rimettente valutare le conseguenze applicative che potranno  derivare
da una eventuale pronuncia di accoglimento della  proposta  questione
di legittimita' costituzionale di quelle disposizioni di legge. 
 
          Sulla non manifesta infondatezza della questione 
 
    Gia'  in  passato  la  Corte  costituzionale  ha  avuto  modo  di
occuparsi della conformita'  ai  precetti  della  Costituzione  delle
norme  partorite  dal  legislatore  per  garantire   la   continuita'
produttiva dello stabilimento ILVA di Taranto - ritenuto di interesse
strategico nazionale ai sensi dell'art. 3 decreto-legge  n.  207/2012
(convertito con modificazioni dalla legge 24 dicembre 2012, n.  231),
per il tipo di produzione ed i livelli occupazionali - nonostante  la
situazione   di   gravissima   criticita'    dei    suoi    impianti,
sostanzialmente accertata durante l'incidente probatorio  che  si  e'
svolto nell'ambito del noto procedimento n. 938/2010 RGNR (che si sta
tuttora celebrando, in fase dibattimentale, presso la Corte  d'assise
di Taranto). 
    La  copiosa  produzione  normativa,  innanzi  riassunta,  sovente
estrinsecatasi - come  visto  -  attraverso  frettolosa  decretazione
d'urgenza, le cui disposizioni sono state volta per volta  modificate
dal  Parlamento,  e'  stata  sempre  caratterizzata  dallo  scopo  di
garantire,  attraverso  una  discutibile  disciplina  di  favore,  la
prosecuzione dell'attivita' dello stabilimento,  colpito  nel  luglio
2012 da provvedimento di  sequestro  dell'area  a  caldo  emesso  dal
giudice per  le  indagini  preliminari  di  Taranto  (confermato  dal
Tribunale del riesame), in virtu' delle ipotesi di reato di  disastro
ambientale, avvelenamento di sostanze alimentari e  omissione  dolosa
di cautele contro gli infortuni sul lavoro, per cui erano indagati  i
vertici  dell'acciaieria:  quel  provvedimento  giudiziario  si   era
fondato, fra l'altro, sulle conclusioni della perizia  epidemiologica
disposta in sede di incidente probatorio,  che  ha  evidenziato  come
l'esposizione prolungata alle emissioni  inquinanti  fosse  la  causa
dell'aumento della percentuale di diffusione di particolari  malattie
fra gli operai dell'ILVA e gli abitanti del circondano. 
    Tali  norme  hanno,   infatti,   consentito   allo   stabilimento
siderurgico la prosecuzione dell'attivita'  produttiva,  finanche  in
costanza di sequestro  penale  (art.  3,  comma  3  decreto-legge  n.
207/2012)  e  nella   consapevolezza   che   la   stessa   comportava
oggettivamente  pericoli   gravi   e   rilevanti   per   l'integrita'
dell'ambiente e della  salute  (art.  1,  comma  1  decreto-legge  n.
61/2013); l'azienda, prima sottoposta alla vigilanza  di  un  Garante
(art. 3 decreto-legge n. 207/2012) e poi a quella di  un  commissario
straordinario  (art.  1  decreto-legge  n.  61/2013),  e'  stata  poi
assoggettata alla procedura di  amministrazione  straordinaria  delle
grandi imprese in crisi con il decreto-legge n.  1/2015,  mentre  nel
2016 si e' dato avvio al procedimento di aggiudicazione ai fini della
sua cessione a terzi, conclusosi con decreto del 5 giugno 2017. Nelle
more, con decreto del Presidente del Consiglio dei  ministri  del  14
marzo 2014, e' stato approvato il Piano ambientale,  in  sostituzione
della A.I.A. riesaminata con il decreto ministeriale 26 ottobre 2012,
Piano che, da ultimo, e' stato modificato con decreto del  Presidente
del Consiglio dei ministri del 29 settembre 2017. 
    La varieta' degli interventi normativi e le palesi  deroghe  alle
norme  comuni  (e  finanche  ai  principi  generali  dell'ordinamento
giuridico, disinvoltamente elusi al fine di consentire all'azienda di
mantenere i  livelli  produttivi  ed  occupazionali:  si  pensi  alla
possibilita'  ad  essa  concessa  di  commercializzare  prodotti   in
sequestro), presenti nella  legislazione  speciale  che  riguarda  lo
stabilimento ILVA di Taranto, portano a domandarsi se non  sia  stato
creato un sottosistema penale connesso a questa  particolare  realta'
industriale, confinata in zone di difficile perseguibilita',  se  non
di sostanziale irrilevanza penale, dove la  tutela  di  beni  primari
(quali la salute e lo stesso diritto alla vita) deve  subire  vistose
deroghe per garantire la continuita'  di  impresa  e,  comunque,  per
ragioni economiche. Taluni commentatori hanno,  infatti,  parlato  di
aree di liceita' condizionata alla produttivita' ed al  profitto,  al
cui interno il disvalore del macrodanno ambientale  viene  ridotto  a
«risultato  del  collasso   di   precauzioni   adeguate»   o   «della
impossibilita' di adottare sistemi di prevenzione o  neutralizzazione
del rischio efficaci». 
    Ebbene la Corte costituzionale, con la sentenza n. 85  del  2013,
chiamata ad esprimersi sulla conformita'  all'assetto  costituzionale
degli articoli 1 e  3  del  citato  decreto-legge  n.  207/2012,  che
sostanzialmente consentivano all'impresa di continuare a produrre  ed
a commercializzare il  prodotto  finito,  in  costanza  di  sequestro
preventivo, ha affermato che tale disciplina realizzava il  difficile
(n.d.e.:  possibile?)  equilibrio  tra  l'interesse  nazionale   alla
produzione  ed  all'occupazione  e   la   tutela   della   salute   e
dell'ambiente, ritenendo che nessuno dei citati valori costituzionali
- essendo parte di un  tessuto  piu'  ampio  -  dovesse  assumere  un
rilievo preminente (cd. diritto «tiranno») e che, pertanto, rientrava
nelle prerogative  legislative  garantire  la  salvaguardia  di  quei
beni/interessi,   attraverso   «specifici   contrappesi   normativi»,
presenti in quel provvedimento, costituiti dalla subordinazione della
prosecuzione     dell'attivita'     di     impresa     all'osservanza
dell'autorizzazione integrata ambientale,  dalla  predisposizione  di
una  precisa  procedura  di  monitoraggio  e   sanzionatoria,   dalla
temporaneita' delle deroghe alle norme ordinarie. 
    Di contro, con la  sentenza  n.  58  del  2018,  la  Consulta  ha
dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 3  decreto-legge
n. 92/2015, nonche' degli articoli 1, comma 2 e 21-octies,  legge  n.
132/2015, che consentivano all'impresa di continuare  a  servirsi  di
impianti sottoposti a sequestro anche quando lo stesso si riferiva ad
ipotesi di reato inerenti alla sicurezza  dei  lavoratori,  «per  non
aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze  di  tutela  della
salute,  sicurezza  e  incolumita'  dei  lavoratori,  a   fronte   di
situazioni che espongono questi ultimi a rischio stesso della  vita»,
dal momento che il legislatore aveva finito con  privilegiare  -  non
prevedendo adeguati meccanismi di controllo sull'attivita'  economica
-   l'interesse   alla   prosecuzione   dell'attivita'    produttiva,
trascurando le esigenze di tutela della  salute,  della  vita  e  del
lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso. 
    Infine, con la sentenza n. 182/2017 la  Corte  costituzionale  ha
ritenuto non fondata  la  questione  di  legittimita'  costituzionale
dell'art. 1, co. 1, lettera b) decreto-legge  9  giugno  2016  n.  98
promossa dalla Regione Puglia; tale disposizione prevedeva una  serie
di adempimenti per la cessione dei  complessi  aziendali  del  Gruppo
ILVA, con possibilita' di apportare modifiche o integrazioni al Piano
delle misure e delle attivita' di' tutela ambientale e  sanitaria  e,
secondo la Regione Puglia, pregiudicando il diritto di partecipazione
alla procedura delle istituzioni locali, in violazione  dei  principi
di uguaglianza, del riparto di competenze tra Stato e Regioni  e  del
principio di leale collaborazione tra Enti  dello  Stato.  La  Corte,
dopo aver premesso che tutti gli interventi  legislativi  riguardanti
lo stabilimento ILVA di Taranto, «seppur diversi nel loro  contenuto,
sono  accomunati  dalla  medesima  ratio,  quella  di  realizzare  un
ragionevole   bilanciamento   tra   una   pluralita'   di   interessi
costituzionalmente rilevanti: da un lato, l'interesse nazionale  alla
prosecuzione  dell'attivita'  di  uno  stabilimento   avente   natura
strategica e al mantenimento dei livelli  occupazionali;  dall'altro,
l'interesse  a  che  l'attivita'  produttiva  prosegua  nel  rispetto
dell'ambiente  circostante  e  della  salute  degli  individui»,   ha
valutato - dando risposta positiva - se vi fosse stata, da parte  del
Governo, la predisposizione di uno spazio  di  confronto  con  l'ente
Regione  che   potesse   dare   effettiva   attuazione   alla   leale
collaborazione, consentendo anche all'ente locale una  partecipazione
alla valutazione degli interessi pubblici coinvolti. 
    Non resta a questo punto che esaminare le disposizioni di  legge,
oggi  al  vaglio  di  questa  A.G.  (art.  2,  comma  5  e  comma   6
decreto-legge n. 1/2015 nel testo attualmente in vigore), al fine  di
verificare se i principi sanciti dalle sentenze della Consulta che si
sono gia' occupate dell' «ordinamento» ILVA siano  applicabili  anche
nel caso di specie e se il legislatore, nell'emanare quelle norme, li
abbia adeguatamente rispettati. 
    Va altresi' verificato, in ogni caso, se quelle norme  rispettano
l'orientamento della giurisprudenza costituzionale  secondo  cui  «le
scelte  legislative  aventi  ad  oggetto  la   configurazione   delle
fattispecie criminose e il relativo orientamento  sanzionatorio  sono
censurabili .... nel  caso  in  cui  la  discrezionalita'  sia  stata
esercitata  in  modo  manifestamente   irragionevole»   (cfr.   Corte
costituzionale ordinanza n. 41/2009 e Corte  costituzionale  sentenza
n. 250/2010). 
    La valutazione che si andra' ad operare non puo' non tenere conto
del fatto  che  l'attuazione  del  Piano  di  risanamento  ambientale
avrebbe dovuto avere una portata temporale circoscritta (il 31 luglio
2015 era quello previsto al momento della prima sentenza della  Corte
costituzionale n. 85/2013) e che,  invece,  si  e'  dilatata  sino  a
giungere al 23 agosto 2023, senza alcuna garanzia della definitivita'
di quest'ultimo termine, considerate le numerosi proroghe che si sono
succedute in questi anni. 
    La  stessa  operativita'  dell'esimente,  per   quanto   concerne
l'affittuario, l'acquirente ed i soggetti da essi delegati,  e'  oggi
fissata al termine di «diciotto mesi decorrenti dalla data di entrata
in vigore del decreto del Presidente del Consiglio  dei  ministri  di
approvazione delle modifiche del Piano delle misure e delle attivita'
di tutela ambientale e sanitaria»  (dunque  al  30  marzo  2019),  ma
alcuna norma ne impedisce la proroga e, come  desumibile  dal  parere
reso dall'Avvocatura di Stato al MISE,  potrebbe  avere  il  medesimo
ambito temporale dell'autorizzazione integrata  ambientale  (coprendo
cioe' tutte le condotte poste in essere sino al 23 agosto 2023). 
    Come gia' detto l'art. 2, comma 5, decreto-legge n. 1/2015,  come
da ultimo modificato dall'art. 6, comma 10-bis, lettera a) e  c)  del
decreto-legge n. 244/2016, conv. con modif. dalla legge  n.  19/2017,
autorizza lo stabilimento a  continuare  la  produzione  sino  al  23
agosto 2023 anche in costanza di sequestro penale, mentre  l'art.  2,
comma  6,  decreto-legge  n.  1/2015  introduce   espressamente   una
presunzione di liceita' delle condotte del commissario  straordinario
dell'Ilva, dell'affittuario o  acquirente  e  dei  soggetti  da  essi
delegati, purche' le condotte siano finalizzate a dare attuazione  al
Piano ambientale del 14 marzo 2014, osservandosi  in  particolare  le
disposizioni in esso contenute  relative  alle  attivita'  di  tutela
ambientale e sanitaria. 
    Anche nel 2012, con l'emanazione della norma  che  consentiva  ad
ILVA S.p.a. di rientrare  in  possesso  degli  impianti  posti  sotto
sequestro e di continuare a produrre (articoli 1 e 3 decreto-legge n.
207/2012 conv. con modif. dalla legge  n.  231/2012)  il  legislatore
aveva  stabilito   una   presunzione   di   liceita'   dell'attivita'
produttiva, ma la Consulta - dopo aver richiamato  le  norme  per  il
rilascio dell'A.I.A. e gli articoli 29-decies e  29-quaterdecies  del
codice  dell'ambiente   (riguardanti   i   controlli   e   l'apparato
sanzionatorio   previsto   dall'ordinamento   per    le    violazioni
dell'A.I.A.) - aveva  ritenuto  costituzionalmente  legittima  quella
disciplina perche': 
        le  sanzioni  previste  per  la  violazione  dell'A.I.A.  non
escludevano la  rilevanza  penale  delle  condotte  rientranti  nelle
fattispecie del diritto penale comune, in caso di inosservanza  della
scansione graduale degli interventi previsti per il risanamento degli
impianti; 
        il legislatore  aveva  concesso  un  termine  (36  mesi)  per
consentire all'impresa  di  adeguare  la  propria  attivita'  all'AIA
riesaminata, senza stabilire «alcuna immunita' penale» per il periodo
sopra indicato, poiche' la  norma  «rinvia  esplicitamente  sia  alle
sanzioni penali previste dall'ordinamento per i reati ambientali, sia
all'obbligo di trasmettere, da parte  delle  autorita'  addette  alla
vigilanza  ed  ai  controlli,   le   eventuali   notizie   di   reato
all'autorita' competente»; 
        e invero, durante i  trentasei  mesi  concessi  (allora)  dal
legislatore per adeguare lo  stabilimento  alle  condizioni  previste
dall'AIA riesaminata, «l'attivita' produttiva e' ritenuta lecita»,  a
condizione che vengano osservate  quelle  prescrizioni,  per  cui  il
controllo   di   legalita'   viene    ricondotto    «alla    verifica
dell'osservanza   delle   prescrizioni   ...    contenute    nell'AIA
riesaminata», dal momento che «quest'ultima fissa modalita'  e  tempi
per l'adeguamento dell'impianto produttivo rispetto alle regole della
protezione  dell'ambiente  e   della   salute,   entro   il   periodo
considerato, con una scansione  graduale  degli  interventi,  la  cui
inosservanza deve ritenersi illecita e quindi perseguibile  ai  sensi
delle leggi vigenti»; 
        quelle  norme  tracciavano  un   «percorso   di   risanamento
ambientale ispirato al bilanciamento» tra la tutela dei beni ambiente
e  salute  e  quella  dell'occupazione,  nessuno  dei  quali   poteva
considerarsi preminente sull'altro, poiche'  la  tutela  deve  essere
sempre «sistemica  e  non  frazionata  in  una  serie  di  norme  non
coordinate ed in potenziale conflitto tra loro»; 
        il  punto  di  equilibrio  tra   tali   beni,   trovato   dal
legislatore,  era  il  procedimento  che  culmina  con  il   rilascio
dell'AIA.; «in definitiva l'AIA riesaminata indica un nuovo punto  di
equilibrio che consente ... la prosecuzione dell'attivita' produttiva
a diverse condizioni, nell'ambito delle quali l'attivita' stessa deve
essere ritenuta lecita nello  spazio  temporale  massimo  (36  mesi),
considerato dal legislatore necessario e sufficiente a rimuovere  ...
le cause dell'inquinamento ambientale e dei pericoli conseguenti  per
la salute delle popolazioni»; 
        la combinazione dunque tra  atto  amministrativo  (A.I.A.)  e
previsione legislativa (art. 1 decreto-legge n. 207/2012) determinava
le condizioni ed  i  limiti  della  liceita'  della  prosecuzione  di
un'attivita'  produttiva  per  un  tempo  definito,   pur   essendosi
accertato  che   lo   stabilimento   aveva   procurato   inquinamento
ambientale; l'attivita' poteva dunque  continuare  a  condizione  che
l'autorita'  amministrativa  e  giudiziaria   potessero   controllare
l'osservanza delle prescrizioni «con tutte le conseguenze  giuridiche
previste  in  generale  dalle  leggi  vigenti  per  i   comportamenti
illecitamente lesivi della salute e dell'ambiente». 
    Premesso dunque che, quella sentenza rappresenta, allo stato,  un
indiscutibile punto  di  riferimento  per  l'interprete  delle  leggi
singolari riguardanti lo stabilimento ILVA,  emanate  nel  successivo
quinquennio,  corre  l'obbligo  di  evidenziare   come   il   Giudice
costituzionale avesse tracciato, in quella sede, dei precisi paletti,
che consentivano di ritenere quelle norme  coerenti  con  i  principi
fondamentali  del  nostro  ordinamento,  ritenendo  giustificate   le
deroghe  al  diritto  comune  stabilite  dalle  disposizioni   allora
censurate, perche' realizzavano il difficile  equilibrio  tra  valori
costituzionali  di  pari  rango,  quali  la  tutela  della  salute  e
dell'ambiente,  da  una  parte  e  la   tutela   dell'occupazione   e
dell'attivita' economica di una impresa ritenuta  strategica  per  la
nazione, dall'altra: e tale equilibrio era stato  individuato,  dalla
Consulta, nell'AIA riesaminata che consentiva, in forza  del  dettato
legislativo, la prosecuzione dell'attivita' dello stabilimento ILVA a
certe condizioni, in uno «spazio temporale massimo (36 mesi)»  e  con
lo scopo di rimuovere le cause  dell'inquinamento  ambientale  e  dei
rischi per la salute dei lavoratori e della popolazione. 
    Questi paletti,  sostanziali  e  temporali,  vengono,  ad  avviso
dell'odierno  giudicante,  disinvoltamente  oltrepassati,  in   prima
battuta con la dilatazione dell'attivita' autorizzata  ben  oltre  il
limite di 36  mesi  originariamente  previsto  dall'art.  3,  co.  3,
decreto-legge n. 207/2017 - limite, come detto, elevato  sino  al  23
agosto 2023 in base al combinato disposto del predetto art. 3, co. 3,
decreto-legge n. 207/2012 e dell'art.  2,  co.  5,  decreto-legge  n.
1/2015 come da ultimo modificato dall'art. 6, comma  10-bis,  lettere
a) e c) decreto-legge n. 244/2016; in secondo luogo con  la  espressa
previsione della causa di non punibilita' prevista dall'art. 2, comma
6, decreto-legge n. 1/2015. Il Giudice delle leggi del 2013 aveva  un
orizzonte temporale ben limitato e definito (36 mesi),  avendo  cioe'
giudicato implicitamente congruo il tempo  concesso  dal  legislatore
all'impresa per procedere al risanamento degli impianti, in  modo  da
ridurre (o eliminare) i rischi per la salute e l'ambiente, per cui la
continuazione della produzione, in costanza di sequestro,  era  stata
ritenuta lecita (e la relativa  norma  costituzionalmente  legittima)
perche'  quello  spazio  temporale  massimo  era  necessario  per  il
raggiungimento del duplice obiettivo, costituito  dalla  salvaguardia
dei processi produttivi e dei  conseguenti  livelli  occupazionali  e
dalla tutela degli altri diritti (salute  e  ambiente)  fino  a  quel
momento compromessi. 
    Di contro, la legislazione successiva ha spostato sempre piu'  in
avanti il termine per l'attuazione del Piano ambientale e, cioe', per
la  realizzazione  degli  interventi  necessari  per  il  risanamento
dell'impresa, tanto da giungersi, dopo il differimento al  30  giugno
2017, addirittura al 2023; conseguentemente, da un  lato  l'attivita'
produttiva  inquinante  (pericolosa  e  nociva  per   la   salute   e
l'ambiente) e' proseguita indisturbata, dall'altro non e' mai spirato
il termine per la deresponsabilizzazione  delle  condotte  realizzate
nella conduzione dello stabilimento, anche a voler concedere  che  le
stesse siano coerenti con le previsioni del Piano medesimo  (perche',
se cosi' non fosse, ad esempio in caso di inerzia, quella  norma  non
potrebbe essere in alcun modo invocata). 
    Come si e'  gia'  sottolineato,  per  i  nuovi  acquirenti  ed  i
soggetti da essi delegati il termine di operativita' dell'esimente e'
stato differito ai diciotto mesi successivi all'entrata in vigore del
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri  del  29  settembre
2017, secondo l'avvocatura  di  Stato  coincide  addirittura  con  la
scadenza dell'autorizzazione integrata ambientale (23  agosto  2023),
ma nulla impedisce al legislatore una  ulteriore  proroga  di  queste
scadenze. 
    Cio'  significa  che  per  undici  anni   dal   sequestro   dello
stabilimento - 25 luglio 2012 - quell'impresa (che, lo si ripete,  e'
stata gia' ritenuta, in forza di provvedimenti emessi da giudici  del
tribunale fonico, pericolosissima per la  salute  della  popolazione,
dei lavoratori e dell'ambiente  circostante)  e'  stata  messa  nelle
condizioni di continuare a produrre, con  la  garanzia,  per  i  suoi
gestori (e soggetti da essi delegati), di non dover essere chiamati a
rispondere dei  reati  eventualmente  commessi  in  violazione  delle
norme,  di  diritto  comune,   poste   a   presidio   della   salute,
dell'incolumita' pubblica e della sicurezza sul lavoro! 
    E questo sebbene anche la Commissione  europea,  in  persona  del
direttore del settore «qualita' della vita» della direzione  generale
«ambiente», abbia ritenuto, invece, che in riferimento alla attivita'
produttiva  di  quello  stabilimento  «L'operatore   rimane   l'unico
responsabile di eventuali danni causati  a  terzi  o  all'ambiente  a
seguito dell'utilizzo dell'impianto» (cfr.  lettera  trasmessa  dalla
dr.ssa    Veronica    Manfredi     ad     uno     degli     originari
«custodi-amministratori»   dello   stabilimento,   dott.ssa   Barbara
Valenzano,  in  risposta  ad  una  missiva  di  quest'ultima  del  10
settembre 2018, ampiamente  pubblicizzata  sui  quotidiani  locali  e
nazionali e comunque reperibile online). 
    Devono allora ritenersi clamorosamente assenti  quei  criteri  di
proporzionalita'  e  ragionevolezza  che,  in   precedenza,   avevano
consentito il sacrificio  di  preminenti  valori  costituzionali  (la
salute e l'ambiente)  per  contemperarli  -  senza  essere  «tiranni»
rispetto ad altri - con altri  beni  e  interessi  costituzionalmente
tutelati. 
    Viene anzi da chiedersi se, attualmente, sia proprio  l'interesse
economico ad essere  divenuto  «tiranno»  rispetto  al  diritto  alla
salute,  che  pure  il   legislatore   Costituente   aveva   definito
«fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettivita'»
. E che il legislatore abbia  finito  con  il  privilegiare,  con  le
ultime norme contenute nei cosiddetti decreti «salva Ilva»,  in  modo
eccessivo l'interesse alla  prosecuzione  dell'attivita'  produttiva,
trascurando  del  tutto  le  esigenze   di   diritti   costituzionali
inviolabili quali la salute e la vita stessa, nonche' il  diritto  al
lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso, lo ha sancito  la  stessa
Corte  costituzionale  nella  sentenza  n.  58/2018,  allorquando  ha
dichiarato   l'illegittimita'   costituzionale   dell'art.   3    del
decreto-legge n. 92/2015 e degli articoli  1,  comma  2  e  21-octies
della  legge  n.  132/2015  che  consentivano  all'impresa  di  poter
continuare ad usare impianti in sequestro, anche se il  provvedimento
cautelare si riferiva ad ipotesi di reato inerenti alla sicurezza dei
lavoratori. 
    Le norme oggi impugnate presentano, allora, evidenti  profili  di
contrasto innanzitutto con l'art. 3 della Costituzione, ossia con  il
principio  di  uguaglianza,  dal  momento  che  identici  fatti-reato
(quali, in ipotesi, quelli contestati nel presente procedimento),  se
commessi  da  alcune   imprese,   possono   determinare   il   blocco
dell'attivita' produttiva  e  la  responsabilita'  dei  loro  massimi
dirigenti o proprietari, se commessi, invece, dai  soggetti  preposti
allo stabilimento ILVA di Taranto  non  comportano  analogo  effetto,
determinandosi in questo modo, ad avviso dell'odierno giudicante, una
inammissibile disparita' di trattamento. 
    A riguardo la Corte costituzionale ha, da tempo, statuito che  il
principio di eguaglianza e' violato anche quando la legge,  senza  un
ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso a cittadini che  si
trovino in situazione eguale (cfr. Corte costituzionale  sentenza  n.
15 del 1960). 
    Nella sentenza n. 1009 del 1988, quasi si trattasse di  enunciare
una regola generale,  la  Corte  costituzionale  esprime  chiaramente
questo concetto: «il principio di cui all'art. 3 Cost. e' violato non
solo  quando  i  trattamenti  messi  a  confronto  sono   formalmente
contraddittori in ragione dell'identita' delle fattispecie, ma  anche
quando la differenza di trattamento e' irrazionale secondo le  regole
del discorso  pratico,  in  quanto  le  rispettive  fattispecie,  pur
diverse, sono ragionevolmente analoghe». 
    Ebbene, nel caso di specie la impugnata disciplina contrasterebbe
con il principio di eguaglianza, in  quanto  sottrae  ai  criteri  di
ordinaria perseguibilita' di un reato commesso nella gestione di  uno
stabilimento  industriale,  per  un  prolungato   lasso   di   tempo,
esclusivamente i proprietari e i commissari dello  stabilimento  ILVA
di Taranto (ovvero i loro delegati), mentre lascia  assoggettabili  a
sanzioni penali tutti i dirigenti e/o proprietari  di  altre  imprese
che,  nelle  stesse  condizioni,  esercitino  un'attivita'  economica
potenzialmente pericolosa per la  salute  pubblica  (ma  analogamente
importante  per  l'economia  e/o  i  livelli  occupazionali   di   un
territorio). 
    Se, infatti, e' sufficiente il rispetto  delle  prescrizioni  del
Piano ambientale per  considerare  lecita  l'attivita'  produttiva  e
«irresponsabili» i proprietari/gestori  dello  stabilimento,  in  tal
modo autorizzati  a  porre  in  essere  condotte  che  potenzialmente
pericoloso per  l'ambiente  e  la  salute  e  che  altrove  sarebbero
perseguite anche penalmente, in forza delle norme di «diritto comune»
(limitandosi, il controllo di  legalita'  consentito  all'A.G.,  alla
verifica di eventuali omissioni o  trasgressioni  delle  prescrizioni
del piano e/o al controllo del rispetto della tempistica prevista per
l'adeguamento  degli  impianti),  l'avere   eccessivamente   dilatato
l'ambito temporale di questo «percorso  di  risanamento  ambientale»,
apparentemente ispirato al bilanciamento tra beni  costituzionalmente
protetti,  rompe  -  ad  avviso  dello  scrivente  -  quel  punto  di
equilibrio che era stato fissato  con  l'originario  art.  3  co.  3,
decreto-legge  n.  207/2012,  valutato  costituzionalmente  legittimo
proprio perche' la facolta' d'uso dello stabilimento  e  la  liceita'
della  prosecuzione  dell'attivita'  produttiva  dovevano  avere  uno
«spazio temporale massimo» e  «un  tempo  definito»;  e  cio'  viola,
conseguentemente,  il  principio   costituzionale   di   uguaglianza,
giacche' ormai quelle norme  appaiono  un  ingiustificato  privilegio
concesso   esclusivamente   ad   una   sola    realta'    produttiva,
nell'adeguamento  agli  standard  di  sicurezza  per  la  salute  dei
lavoratori e dei cittadini, rispetto  alla  generalita'  delle  altre
imprese. 
    La previsione di un trattamento penale di assoluto favore  per  i
presunti responsabili di  illeciti  che  contribuiscono  a  creare  o
mantenere  una  situazione   di   emergenza   ambientale   (incidendo
gravemente su beni di rilevanza costituzionale, quali l'ambiente e la
salute dei cittadini, esposti a grave pericolo proprio per effetto di
quei comportamenti) appare manifestamente irragionevole  e  si  pone,
altresi', in contrasto con il criterio di scelta comunemente adottato
dal  legislatore,  nella  regolamentazione   penale   della   materia
ambientale, allorquando ha predisposto una tutela rafforzata al  fine
di garantire le popolazioni coinvolte [si pensi all'art.  6,  lettera
a) e d ), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito,  con
modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 30 dicembre 2008, n.
210, nella parte in cui, limitatamente alle aree geografiche  in  cui
vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti,
configura  come  delitto  condotte  che,  nel   restante   territorio
nazionale, non sono penalmente rilevanti (lett. a) o  sono  punite  a
titolo di contravvenzione (lett. d)]. 
    Il principio di uguaglianza appare, altresi',  violato  sotto  il
profilo della «ragionevolezza -  razionalita'»  della  disparita'  di
trattamento (aderendo a quell'orientamento dottrinario secondo cui la
ragionevolezza, in questa  differente  prospettiva,  sembra  esigere,
piu'   nettamente,   «razionalita'»   nelle    scelte    legislative,
confondendosi, piu' propriamente, con la piu'  generale  esigenza  di
coerenza  dell'ordinamento  giuridico:  cfr.   Corte   costituzionale
sentenza n. 204/1982). 
    Se le condotte non punibili sono quelle in attuazione  del  Piano
ambientale,  perche'  rappresentano  ex  lege,  con  presunzione  non
superabile da valutazione  di  segno  contrario,  «adempimento  delle
migliori regole preventive in materia  ambientale,  di  tutela  della
salute e  dell'incolumita'  pubblica  e  di  sicurezza  sul  lavoro»,
perche' prevedere  una  scriminante  ad  hoc,  quando  sarebbe  stato
sufficiente, per l'autore del  fatto,  invocare  la  esimente  comune
prevista dall'art. 51 codice penale (esercizio del diritto)? 
    In realta' l'applicazione degli  articoli  2,  co.  5  e  co.  6,
decreto-legge n. 1/2015 sembra violare, anche sotto altro aspetto, il
principio costituzionale di uguaglianza, nei termini  sopra  indicati
(per la  ingiustificata  disparita'  di  trattamento  tra  situazioni
analoghe  e  per  la  irrazionalità-incoerenza  della  diversita'  di
disciplina). 
    Le norme inserite nei predetti articoli di legge introducono solo
per  ILVA  S.p.A.,  tra  gli  stabilimenti  di  interesse  strategico
nazionale (categoria introdotta,  guarda  caso,  proprio  nell'ambito
delle cosiddette leggi «salva-Ilva» dal  decreto-legge  n.  207/2012,
conv. in legge n. 231/2012),  una  disciplina  di  favore  prevedendo
espressamente la prosecuzione dell'attivita' produttiva  in  costanza
di sequestro per un periodo superiore ai trentasei mesi e per il  suo
commissario straordinario, l'acquirente/affittuario e  loro  delegati
l'esenzione da responsabilita'  penale  per  le  condotte  tenute  in
attuazione del piano ambientale, laddove tali  analoghe  possibilita'
non sono concesse  ad  altri  stabilimenti  di  interesse  strategico
nazionale,  ai  quali  sia  stata  concessa  analoga   autorizzazione
ambientale. 
    In virtu' di tali considerazioni emerge, dunque, chiaramente  una
ingiustificata disparita' di trattamento anche tra singole situazioni
aziendali «particolari», che  sono  state  ritenute  dal  legislatore
meritevoli di disciplina derogatoria, rispetto alle comuni  attivita'
imprenditoriali - cioe'  gli  stabilimenti  di  interesse  strategico
nazionale regolamentati dal decreto-legge n. 207/2012 - in quanto, in
forza   delle   suddette   previsioni   legislativi,   solamente   lo
stabilimento  ILVA  di  Taranto  puo'  proseguire   cosi'   a   lungo
l'attivita'  produttiva  pur  in  presenza  di  impianti  palesemente
inquinanti e soltanto i suoi proprietari e/o dirigenti possono godere
di quella scriminante speciale. 
    La Corte costituzionale  nella  sentenza  n.  80  del  1969,  nel
delineare i  profili  di  legittimita'  delle  «leggi  singolari»  ha
rilevato che esse devono corrispondere  a  una  obiettiva  diversita'
della situazione considerata, rispetto a realta' omogenee,  la  quale
giustifichi razionalmente  la  disciplina  differenziata  per  questa
adottata: «occorre percio' che la  ratio  della  legge  si  esaurisca
nella  fattispecie  da  essa  disciplinata,  e  non  si   estenda   a
situazioni,  concrete  o  ipotizzabili,  le  quali,  pur  presentando
elementi comuni con essa, se ne diversifichino in modo da non rendere
giustificabile l'applicazione ad esse della normativa disposta per il
caso singolo. Ove queste condizioni non esistano, vale a dire ove  la
ratio della legge sia tale da coprire situazioni omogenee rispetto  a
quella singolarmente considerata, si' avra' violazione del  principio
di eguaglianza, perche' si determineranno  ingiustificate  condizioni
di vantaggio o di svantaggio per i soggetti della  situazione  e  del
rapporto regolato dalla legge, in relazione ai soggetti  della  serie
delle situazioni o dei rapporti che ne sono stati esclusi». Nel  caso
di specie, se la ratio ispiratrice della legge e' la salvaguardia dei
livelli produttivi ed occupazionali di  una  industria  di  interesse
strategico nazionale, si deve pertanto riconoscere  che  nella  legge
impugnata si e' provveduto in merito a una  situazione  singola,  che
risulta non  obiettivamente  diversa  da  altre  situazioni  per  cui
varrebbe la medesima ratio ispiratrice della legge stessa (ossia, gli
altri  stabilimenti   di   interesse   strategico   nazionale),   con
conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione. 
    Non  puo',  inoltre,  non  ravvisarsi,  in  quelle   disposizioni
legislative, una evidente violazione dell'art. 35 della Costituzione,
laddove si prevede la tutela del lavoro «in tutte  le  sue  forme  ed
applicazioni», in combinato disposto con l'art. 32 Cost,  che  tutela
il diritto alla salute. 
    Le norme in  questione,  consentono,  di  fatto,  di  imporre  ai
lavoratori dello stabilimento ILVA di Taranto  condizioni  lavorative
che   altrove    determinerebbero    l'interruzione    dell'attivita'
produttiva, l'attivazione dei meccanismi di controllo  della  A.G.  e
adeguate sanzioni  penali,  perche'  compromettono  la  loro  salute,
esonerando da responsabilita' penale il  datore  di  lavoro  che  «in
attuazione  del  Piano»  non   rimuove   livelli   di   inquinamento,
all'interno dell'azienda, manifestamente intollerabili (e  pericolosi
per l'integrita' psicofisica dei lavoratori). Si e'  gia'  detto  che
quell'esonero di responsabilita'  non  e'  temporalmente  delimitato,
poiche' alcuna norma impedisce al legislatore di prorogare il termine
di  attuazione  del  Piano  e  l'ambito  di  operativita'   temporale
dell'esimente, rischiando di lasciare  la  popolazione  fonica  ed  i
lavoratori dello stabilimento  nell'assurda  duratura  esposizione  a
livelli davvero intollerabili di inquinamento! 
    Certamente e clamorosamente leso e' anche il diritto alla  salute
di coloro che abitano nei pressi dello  stabilimento,  essendo  stato
accertato che elevati livelli di inquinamento aumentano il rischio di
contrarre malattie mortali. Anche per costoro l'assurdo prolungamento
dell'attivita' autorizzata compromette irrimediabilmente  un  diritto
fondamentale e inviolabile. 
    Appare altresi' violato l'art. 41 della Costituzione, che  impone
all'attivita' di impresa di non recare  danno  alla  sicurezza,  alla
liberta' ed alla dignita' umana. Non poter perseguire, per  un  lasso
di tempo  potenzialmente  indefinito,  i  soggetti  che  espongono  a
pericolo la salute, l'incolumita' e la vita dei  lavoratori  e  della
popolazione che vive  in  prossimita'  dello  stabilimento  confligge
apertamente con il dettato costituzionale,  non  potendo  l'attivita'
produttiva essere  esente  da  controlli  giurisdizionali  e  dovendo
essere attenta alle esigenze basilari della persona. 
    Costante e' la giurisprudenza costituzionale nel ribadire che  le
norme di cui agli ant. 32 e 41 Cost. impongono ai datori di lavoro la
massima  attenzione  possibile  per  la   protezione   della   salute
dell'integrita' dei lavoratori (cfr. Corte costituzionale sentenza n.
399/1996). 
    E la stessa Corte costituzionale  ha  affermato  che  «la  tutela
dell'iniziativa economica privata si arresta  quando  l'attivita'  di
impresa ponga in pericolo la sicurezza del  lavoratore»  (cfr.  Corte
costituzionale sentenza 29 ottobre 1999, n. 405). 
    Di fronte dunque ad un  rischio  produttivo  e  tecnologico  e  a
disastri che, per legge, non possono essere sanzionati penalmente, il
diritto alla  salute,  all'ambiente  salubre,  ad  un  lavoro  sicuro
vengono seriamente compromessi, per tutelare una realta' economica. 
    La Consulta, nel sindacare la legittimita' delle  scelte  operate
dal legislatore del 2012 - in  riferimento  alla  possibilita'  dello
stabilimento ILVA di continuare a produrre in costanza  di  sequestro
preventivo e pur essendo  state  accertate  (sia  pure  in  una  fase
incidentale del procedimento)  situazioni  di  gravissima  criticita'
ambientale - aveva salvato la costituzionalita' di quelle norme,  sul
presupposto che la legge impugnata non rendeva  lecito  a  posteriori
cio' che era  illecito,  ne'  sterilizzava  il  comportamento  futuro
dell'azienda rispetto a infrazioni delle norme di salvaguardia  della
salute  e  dell'ambiente,  tracciando  piuttosto   un   percorso   di
risanamento ambientale «ispirato al bilanciamento ...tra  beni  tutti
corrispondenti a diritti costituzionalmente protetti». 
    Nel caso di specie come  si  puo'  parlare  di  bilanciamento  di
diritti, allorquando l'attuazione del Piano e' stata prorogata  prima
al 2017, poi al 2023 e nessuna norma  sancisce  la  definitivita'  di
quel termine, gia' di per se' eccessivo? 
    Nel 2013 la Corte costituzionale aveva scritto: «Sia la normativa
generale che quella particolare si muovono quindi nell'ambito di  una
situazione  di  emergenza  ambientale,  dato  il  pregiudizio  recato
all'ambiente e alla salute degli abitanti del territorio circostante,
e di emergenza occupazionale, considerato  che  l'eventuale  chiusura
dell'Uva potrebbe determinare la perdita  del  posto  di  lavoro  per
molte migliaia  di  persone  (tanto  piu'  numerose  comprendendo  il
cosiddetto indotto). La temporaneita' delle misure adottate risponde,
inoltre, ad una delle condizioni poste dalla giurisprudenza di questa
Corte perche' una legislazione speciale fondata sull'emergenza  possa
ritenersi costituzionalmente compatibile (sentenza n. 418 del 1992)». 
    La Corte aveva dunque  riconosciuto  espressamente  ed  a  chiare
lettere come la disciplina scrutinana  fosse  stata  imposta  da  una
situazione «grave  ed  eccezionale»  di  vera  e  propria  «emergenza
ambientale», sancendo che, nell'ottica di necessario  contemperamento
tra la situazione  di  emergenza  occupazionale  che  sarebbe  potuta
derivare dalla chiusura dell'impianto, solo la  «temporaneita'  delle
misure adottate» poteva far ritenere  quella  disciplina  compatibile
con i principi costituzionali, circoscrivendo l'efficacia delle norme
entro un orizzonte temporale contenuto e delimitato, pari ai 36  mesi
decorrenti dal 3 dicembre 2012. 
    Per converso tutti gli interventi non-nativi successivi non hanno
fatto  altro  che  spostare  continuamente  in  avanti  quel  termine
«ragionevole» e, deve ritenersi, tassativo, individuato  dalla  Corte
costituzionale, fino a fissarlo addirittura  al  23  agosto  2023  e,
correlativamente, spostando in avanti il  termine  per  l'esonero  da
responsabilita' per l'attivita' inquinante derivante dalla non ancora
completata messa a norma definitiva degli impianti. 
    Il pregiudizio ai valori costituzionali tutelati  dagli  articoli
32,  35  e  41  della  Costituzione   appare   dunque   palese,   per
l'irragionevole «sbilanciamento» che quella dilatazione temporale  ha
provocato. 
    Le suddette norme di legge (art. 2, comma 5 e 6, decreto-legge n.
1/2015)  violerebbero,  ancora,  gli  articoli   24   e   112   della
Costituzione, perche' si pongono in netto  contrasto  con  il  dovere
dell'ordinamento di reprimere e prevenire reati che pure  il  Giudice
delle  leggi  ha  riconosciuto  come  bene  oggetto   di   protezione
costituzionale  (cfr.  Corte  costituzionale  sentenza  n.  34/1973),
attraverso   l'azione   dei   pubblici   ministeri   e    l'eventuale
sollecitazione del privato leso nei suoi diritti. 
    Nel caso di specie l'intervento legislativo censurato  incide  su
diritti  processuali  e,  dunque,  vulnera  il  diritto  alla  tutela
giurisdizionale,  a  presidio  del  quale  la  norma   costituzionale
invocata e' posta. 
    La disciplina censurata, infatti,  compromette  irragionevolmente
e, dunque, illegittimamente,  la  predetta  potesta'  costituzionale,
consentendo  il  perpetuarsi  di  situazioni   penalmente   rilevanti
(articoli  434,  437  codice  penale,  674  c.p.)  senza   l'adeguata
possibilita' di prevenire e reprimere tali situazioni. 
    Da ultimo, le norme censurate si pongono  in  evidente  contrasto
con  l'art.  117  della  Costituzione  (secondo  cui   «la   potesta'
legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle  Regioni  nel  rispetto
della Costituzione, nonche' dei  vincoli  derivanti  dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali»),  perche'  violano  gli
obblighi internazionali  assunti  dall'Italia,  con  l'adesione  alla
Convenzione  europea  sui  diritti  umani  e,  segnatamente,   quelli
derivanti dagli articoli 2 («il diritto alla vita di ogni persona  e'
protetto dalla legge»), 8 («ogni persona ha diritto al rispetto della
propria vita privata e familiare, nel proprio domicilio») e 13 («ogni
persona i cui diritti e le cui liberta' riconosciuti  nella  presente
Convenzione siano stati violati, ha diritto a  un  ricorso  effettivo
davanti a un'istanza nazionale») della Convenzione,  come  da  ultimo
sancito  dalla  Corte  Europea  di  Strasburgo  nel  procedimento  n.
54413/13 (F. Cordella e altri c/Italia), definito con sentenza del 24
gennaio 2019. 
    E invero la Corte europea dei diritti dell'uomo  ha  recentemente
stabilito «che il persistente inquinamento  causato  dalle  emissioni
dell'Uva ha messo in pericolo la salute dell'intera  popolazione  che
vive nell'area a rischio» e  ha  condannato  l'Italia  per  non  aver
adottato «tutte le misure necessarie per proteggere efficacemente  il
diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti». Nello  stesso
tempo la Corte specifica che le misure per assicurare  la  protezione
della salute e dell'ambiente devono essere  messe  in  atto  il  piu'
rapidamente possibile. 
    In altri termini i giudici sovranazionali hanno gia' ritenuto  la
normativa attualmente in vigore inidonea a garantire diritti primari,
quali la salute, la vita privata in ambiente salubre  e  quello  alla
tutela effettiva dei diritti medesimi. Dopo aver premesso che  «gravi
attacchi all'ambiente possono influenzare il benessere delle  persone
e privarle del godimento della loro casa in modo tale da pregiudicare
la loro privacy» e che gli Stati hanno l'obbligo positivo,  nel  caso
di attivita' pericolose,  di  introdurre  regolamenti  adeguati  alla
natura specifica dell'attivita', in particolare per  quanto  riguarda
il  rischio  che   puo'   derivarne,   finalizzati   a   disciplinare
l'autorizzazione, l'esercizio, il funzionamento, la  sicurezza  e  il
controllo  dell'attivita'  in  questione,  assicurando   «l'effettiva
protezione dei cittadini la  cui  vita  potrebbe  essere  esposta  ai
pericoli insiti nel settore in questione», la Corte di' Strasburgo ha
sottolineato che: 
        dal 1970 sino  a  tutto  il  2016,  studi  scientifici  hanno
dimostrato   gli   effetti   letali   degli   inquinanti    dell'Ilva
sull'ambiente e sulla salute umana; 
        «nonostante i tentativi delle autorita' nazionali per portare
a disinquinamento la zona  interessata,  i  progetti  realizzati  non
hanno, ad oggi, prodotto i risultati attesi»; 
        «le misure raccomandate dal  2012  nel  quadro  dell'AIA  per
migliorare  l'impatto  ambientale  dell'impianto   non   sono   state
realizzate... Inoltre, l'attuazione del  piano  ambientale  approvato
nel 2014 e stata posticipata fino all'agosto del 2023 ...La procedura
per raggiungere gli obiettivi  di  risanamento  perseguiti  e  quindi
estremamente lenta»; 
        nonostante cio' e' stata concessa «l'immunita' amministrativa
e  penale  ai  responsabili  della  conformita'   con   i   requisiti
ambientali»,  tra   cui   l'acquirente,   autorizzato   a   rimandare
ulteriormente il risanamento dell'impianto. 
    Per cui, a fronte «di una situazione di  inquinamento  ambientale
che minaccia la salute dei richiedenti e, piu' in generale, quello di
tutta la popolazione che vive in zone a  rischio,  che  rimane  nello
stato attuale, privato delle informazioni sullo stato di  avanzamento
del risanamento del  territorio  in  questione,  in  particolare  per
quanto riguarda i termini per l'attuazione dei relativi  lavori»,  si
rileva che «le autorita' nazionali non hanno adottato tutte le misure
necessarie per garantire l'effettiva tutela del diritto delle persone
interessate al rispetto della loro vita privata» . E  le  norme  oggi
censurate, che autorizzano l'attivita' produttiva pur in presenza  di
situazioni di grave compromissione dell'ambiente e della salute e che
esentano i potenziali responsabili della perpetrazione di gravi fatti
di inquinamento ambientale dalla responsabilita' penale, continuano a
privare i soggetti potenzialmente lesi della possibilita' di ottenere
in sede giurisdizionale la  tutela  dei  loro  diritti  primari  (con
conseguente violazione dell'art. 13 della C.E.D.U.). 
    Si impone conseguentemente, a mente dell'art. 23, comma 2°, legge
n. 87/1953, la sospensione del presente procedimento in attesa  della
decisione della Consulta.