TRIBUNALE ORDINARIO DI VERCELLI 
                           sezione civile 
 
    Il Tribunale  di  Vercelli,  in  composizione  collegiale,  nella
persona dei magistrati: 
        dott. Giovanni Campese Presidente; 
        dr.ssa Simona Francese Giudice; 
        dr.ssa Maria Elena Ballarini Giudice relatore; 
    riunito in camera di consiglio all'esito dell'udienza svoltasi in
data 14 febbraio 2019 ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  nella
causa civile iscritta al numero 2595-2018 del  ruolo  generale  degli
affari contenziosi dell'anno 2015 promossa da: 
        P    T    elettivamente  domiciliato  in   Vercelli,   Piazza
Bichieri n. 8, presso lo studio dell'avv. Andrea Corsaro dal quale e'
rappresentato e difeso unitamente agli avv.ti Katia  Loro  e  Stefano
Delsignore in virtu' di procura a margine del ricorso ricorrente; 
        contro Prefettura  -  Ufficio  territoriale  del  governo  di
Vercelli, in persona del Prefetto pro tempore rappresentata e  difesa
ex lege dall'avvocatura Distrettuale dello Stato di Torino  presso  i
cui uffici e' domiciliata ope legis resistente; 
    e  con   l'intervento   obbligatorio   del   Pubblico   Ministero
intervenuto; 
    Visti gli atti e la documentazione prodotta, sentite le parti' ed
il PM 
 
                               Osserva 
 
    Il ricorrente, onorevole P   T   , nell'ambito  del  procedimento
rg. 2595/2018 in cui ha chiesto l'annullamento del  decreto  adottato
dal Prefetto della Provincia di Vercelli n.  35129  del  20  dicembre
2018 che ha disposto la sospensione  del  medesimo  dalla  carica  di
Sindaco di Borgosesia in applicazione di quanto previsto dall'art. 11
del D.Lgs. n.  235/2012,  ha  proposto  ricorso  cautelare  ai  sensi
dell'art. 700  cpc  finalizzato  ad  ottenere  la  sospensione  degli
effetti dell'impugnato provvedimento. 
    Sostiene  in  particolare  il  ricorrente  che  il  provvedimento
impugnato sarebbe: 
        a.  illegittimo  perche'  adottato  sulla   base   del   solo
dispositivo della sentenza del 24 luglio 2018 della  Corte  d'Appello
di Torino; 
        b. illegittimo perche' adottato in  violazione  dell'art.  11
co. 5 D.lgs. n. 235 del 31 dicembre 2012 a seguito  di  comunicazione
fatta da un soggetto normativamente non legittimato a compierla; 
        c. illegittimo per assenza dei requisiti essenziali  relativi
alla decorrenza e alla  durata  della  sospensione  della  carica  di
Sindaco di Borgosesia; 
        d. illegittimo in quanto gli effetti della sospensione  dalla
carica di Sindaco di Borgosesia sarebbero  cessati  a  seguito  della
pubblicazione della sentenza di assoluzione del Tribunale  di  Torino
all'albo pretorio e della  comunicazione  al  Consiglio  Comunale  di
Borgosesia. 
    Il ricorrente approfondendo,  poi,  il  profilo  di  impugnazione
indicato sub d. solleva: 
        1. questione di illegittimita'  costituzionale  dell'art.  11
commi 1 e 6 D.Lgs. 235/2012 in relazione all'art. 3 Cost.; 
        2. questione di illegittimita'  costituzionale  dell'art.  11
commi 1 lett. a) e 4 D.Lgs. 235/2012 per violazione  degli  artt.  3,
13, 27 co. 2, 51  Cost.  laddove  prevede  l'applicazione  automatica
della sospensione dalla carica di Sindaco, per la durata fissa di  18
mesi, a seguito  di  condanna,  ancorche'  non  definitiva,  per  uno
qualunque dei delitti indicati dall'art. 10, comma 1 lettera a), b) e
c). 
    Quanto  al  periculum  in  mora  il  ricorrente   -   dopo   aver
sottolineato l'urgenza di ottenere il  provvedimento  di  sospensione
richiesto connessa alla ritenuta fondatezza dei prospettati motivi di
illegittimita'  costituzionale,  atteso  che   in   difetto   di   un
provvedimento  di  sospensione  si   vanificherebbe   l'utilita'   di
un'eventuale pronuncia favorevole della  Corte  Costituzionale  -  ha
sottolineato l'esistenza di importanti adempimenti per  la  comunita'
di Borgosesia da compiersi nei prossimi  mesi  puntualmente  elencati
nel  ricorso  introduttivo  del   presente   giudizio,   nonche'   le
difficolta' tecniche e personali dell'attuale vicesindaco, dr.ssa B  
 ,  nel  concreto  adempimento  degli  incombenti   richiesti   dallo
svolgimento della funzione di sindaco. 
    Nel termine concesso si sono costituiti il Prefetto di Vercelli e
l'Amministrazione dell'Interno, in persona del Ministro pro  tempore,
contestando puntualmente quanto dedotto da controparte e chiedendo il
rigetto del ricorso cautelare. 
    All'udienza  del  17.1.2019  parte   resistente   ha   depositato
controdeduzioni del Ministero dell'interno  -  Dipartimento  per  gli
affari  interni  e  territoriali.  Il  ricorrente   si   e'   opposto
all'acquisizione di tali controdeduzioni. 
    Le controdeduzioni in parola non possono essere acquisite  atteso
che parte resistente aveva  gia'  depositato  memoria  difensiva  nel
termine concesso e tali controdeduzioni costituiscono un'integrazione
della memoria difensiva gia' depositata. 
    A scioglimento della riserva assunta all'udienza  del  17.1.2019,
e' stata fissata nuova udienza svoltasi in data 7.2.2019  davanti  al
Collegio, nel corso  della  quale  sono  state  altresi'  assunte  le
conclusioni del Pubblico Ministero che  ha  chiesto  il  rigetto  del
ricorso alla luce delle argomentazioni svolte dalle parti. 
    Concesso breve termine  alle  parti  per  il  deposito  di  brevi
memorie, il Collegio ha riservato la decisione all'esito dell'udienza
del 14.2.2019. 
    Preliminarmente, occorre ribadire  l'ammissibilita'  del  ricorso
cautelare proposto ai sensi  dell'art.  700  c.p.c.  nell'ambito  del
presente procedimento che, a seguito della sentenza  della  Corte  di
Cassazione a Sezioni  unite  n.  11131/2015,  e'  stato  ritenuto  di
competenza dell'autorita' giudiziaria ordinaria e ricondotto  tra  le
controversie previste e disciplinate dall'art. 22 D.Lgs. n. 150/2011,
controversie regolate dal rito sommario di cognizione. 
    Infatti, come sottolineato anche  dal  Tribunale  di  Napoli  con
l'ordinanza n. 323 del 22 luglio 2015, la tutela  cautelare  prevista
dall'art.  700  c.p.c.  e'  compatibile  con  il  rito  sommario   di
cognizione di cui all'art. 702 bis c.p.c.,  atteso  che  esso  e'  un
procedimento a cognizione piena, mentre la sommarieta'  attiene  solo
alla deformalizzazione. 
    Segnatamente  nel  procedimento   sommario   di   cognizione   la
sommarieta' non riguarda il contenuto dell'accertamento posto a  base
della decisione, la quale deve tendere alla verifica della fondatezza
delle allegazioni di parte in termini di verita' (processuale) e  non
gia' di mera  verosimiglianza,  attraverso  un'attivita'  istruttoria
che,  seppur  deformalizzata,  conduce  ad  una  pronuncia  idonea  a
divenire  cosa  giudicata  ex  art.  2909  del  codice   civile.   La
sommarieta' del procedimento cautelare e' invece connessa al  diverso
tipo di  accertamento  prodromico  all'emanazione  del  provvedimento
cautelare richiesto: la verifica della sussistenza  del  fumus  bonis
iuris e del periculum in mora. 
    Inoltre  nel  rito  sommario,  a  differenza   del   procedimento
cautelare uniforme, non e' previsto un  contradditorio  anticipato  e
pertanto non sono previsti provvedimenti inaudita  altera  parte,  ma
deve  essere  fissata  la  comparizione  delle  parti.  La  Corte  di
Cassazione ha altresi' escluso che il  rito  sommario  di  cognizione
abbia natura cautelare, nonostante la  collocazione  delle  norme  ad
esso inerenti nella stessa sezione del codice, essendo esclusa per la
sua instaurazione il periculum in mora ed essendo la natura cognitiva
risultante esplicitamente dalla rubrica del capo III bis  del  codice
di procedura civile introdotto dall'art. 51 della  legge  n.  69/9009
(cfr. Cass. Civ. a Sezione Unite n. 11512/12). 
    Deve altresi' essere preliminarmente ribadita la  necessita'  che
la  presente  pronuncia  cautelare  sia  assunta  dal  Tribunale   in
composizione  collegiale  e  con  la  partecipazione  necessaria  del
Pubblico Ministero. 
    Si richiama sul punto quanto  gia'  affermato  dal  Tribunale  di
Napoli con la richiamata ordinanza n. 323 del 22 luglio 2015, dove si
specifica  che  il  necessario  intervento  del  Pubblico   Ministero
comporta la riserva di cognizione collegiale  del  rito  sommario  ex
art. 702 bis c.p.c. e quindi anche del ricorso cautelare in corso  di
causa, attesa anche la mancanza della figura del  giudice  istruttore
nel rito sommario di cognizione collegiale. 
    Passando  ai  profili  sostanziali,  si  osserva  che   in   data
20.12.2018 la Prefettura di  Vercelli  ha  notificato  al  Segretario
Comunale di Borgosesia il provvedimento n. 35129, prot.  n.  0035131,
con il quale e' stato dichiarato l'accertamento della sussistenza  di
una causa di  sospensione  dalla  carica  di  Sindaco  nei  confronti
dell'odierno ricorrente ai sensi  dell'art.  11  comma 1  lettera  a)
D.Lgs. 31.12.2012 n. 235. 
    Nel caso di specie,  in  particolare,  il  ricorrente  era  stato
assolto dall'imputazione di concorso in peculato, di cui  agli  arti.
110, 314 c.p.. dal Tribunale di Torino,  Terza  Sezione  Penale,  con
sentenza n. 4978/2016 depositata in data 5.1.2017, "perche' il  fatto
non sussiste" ex art. 530 c.p.p. 
    Successivamente la Corte d'Appello di Torino, IV Sezione, in data
24.7.2018,  in  riforma  della  predetta  sentenza,   ha   condannato
l'odierno ricorrente, ritenendo l'ipotesi accusatoria fondata solo in
relazione a taluni dei fatti oggetto di contestazione. 
    Ora, sostiene il ricorrente che l'art. 11 comma 6 del  D.Lgs.  n.
235/2012 sia incostituzionale nella parte in cui prevede  un'identica
disciplina  della  sospensione  dalla  carica  di  sindaco  per   due
situazioni diverse: sia per il caso in cui la  sentenza  di  condanna
venga pronunciata dal giudice penale all'esito  del  primo  grado  di
giudizio, sia per il caso in cui la condanna  sopravvenga,  all'esito
del giudizio di appello,  in  riforma  di  una  precedente  pronuncia
assolutoria. 
    Secondo  il  ricorrente  si   tratterebbe   di   due   situazioni
significativamente diverse,  ma  trattate  dal  legislatore  in  modo
identico  cosi'  violando  il  principio  di  ragionevolezza  di  cui
all'art. 3 della Costituzione. 
    Ritiene questo Collegio che non sia manifestamente  infondata  la
questione di legittimita'  costituzionale  sollevata  dal  ricorrente
anche se per motivazioni parzialmente differenti  rispetto  a  quelle
indicate nel ricorso  introduttivo  del  presente  giudizio  e  nella
memoria autorizzata.  Il  Collegio  ritiene,  infatti,  che  sia  non
manifestamente infondata la questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 11, commi 1 lett. a) e  4,  D.Lgs.  235/2012  in  relazione
all'art. 3 Cost., nella parte in cui  prevede  la  sospensione  dalle
cariche indicate al comma 1 dell'art. 10 per la  durata  di  diciotto
mesi anche a carico di coloro che, essendo stati assolti con sentenza
di primo  grado,  abbiano  riportato  in  appello  una  condanna  non
definitiva per uno dei delitti indicati dall'art. 10, comma 1,  lett.
a), b) e c) del D.Lgs. 235/2012. 
    Si tratta di una questione nuova rispetto a quelle sino  ad  oggi
esaminate dalla Corte Costituzionale. 
    Tale  questione  deve   essere   valutata   nell'ambito   di   un
procedimento    cautelare    promosso    in    corso    di     causa:
sull'ammissibilita'  della   proposizione   di   una   questione   di
legittimita' costituzionale nell'ambito di un procedimento  cautelare
si veda quanto chiarito dalla Corte Costituzionale con la sentenza 20
maggio 2008 n. 161. 
    Quanto   alla   rilevanza   della   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    Va premesso che, nell'ambito del giudizio preliminare  di  filtro
affidato al giudice a quo  per  l'accesso  alla  giurisdizione  della
Corte Costituzionale ai sensi dell'art. 23 legge 11 marzo 1953 n. 87,
il  requisito  della  rilevanza  della  questione   di   legittimita'
costituzionale  sollevata  esprime  l'indissolubile  suo  legame  con
l'esercizio della funzione giurisdizionale, potendo il giudice  delle
leggi  essere  investito  soltanto  di  questioni  relative  a  norme
legislative di cui  il  giudice  a  quo  debba  necessariamente  fare
applicazione ai fini della definizione del  giudizio  dinanzi  a  lui
pendente. 
    La questione e' certamente rilevante nel presente giudizio. 
    Ed invero il provvedimento prefettizio impugnato  dal  ricorrente
non ha indicato la durata del periodo di sospensione dalla carica  di
sindaco. Cio' non rende illegittimo il provvedimento, in quanto  esso
rimane integrato dal disposto del comma 4  dell'art.  11,  il  quale,
tuttavia, applicato al caso di  specie,  comporta  una  irragionevole
disparita' di trattamento per le motivazioni di seguito indicate. 
    Quanto alla non manifesta infondatezza. 
    Affermata  la  sussistenza  del   requisito   preliminare   della
rilevanza della questione prospettata, occorre accertare  l'ulteriore
requisito previsto dall'art. 23 della legge n. 87/1953, ossia la  non
manifesta infondatezza del motivo stesso,  intesa  quale  delibazione
(non della probabile incostituzionalita', ma)  della  mera  esistenza
del dubbio di  costituzionalita'  della  norma  impugnata,  senza  la
possibilita'  di  una   risoluzione   della   questione   sul   piano
interpretativo. 
    Non puo' sottacersi in proposito che il giudice a quo non  ha  il
compito di sindacare le norme censurate, ma solo di verificare che  i
rilievi sollevati non siano del tutto pretestuosi o del  tutto  privi
di fondamento. 
    Cio'  premesso,  si  osserva  che  il  provvedimento  prefettizio
impugnato dal ricorrente non ha indicato la  durata  del  periodo  di
sospensione dalla carica  di  sindaco.  Tale  circostanza  non  rende
illegittimo il provvedimento, in quanto  esso  rimane  integrato  dal
disposto del comma 4 dell'art. 11, il quale prevede  speeificatamente
e in misura fissa la durata della  sospensione.  Ai  sensi  di  detto
comma, infatti, "la sospensione cessa di diritto di produrre  effetti
decorsi diciotto mesi". 
    Peraltro il medesimo comma 4 prosegue stabilendo che "nel caso in
cui  l'appello  proposto  dall'interessato  avverso  la  sentenza  di
condanna sia rigettato anche con sentenza non definitiva, decorre  un
ulteriore periodo  di  sospensione  che  cessa  di  produrre  effetti
trascorso il termine di dodici mesi dalla sentenza di rigetto", 
    Viene cosi' delineato un assetto normativo nel quale la  condanna
in grado di appello per uno dei delitti richiamati dal comma 1  lett.
a)  dell'art.  11  (tra  cui,  appunto,  il  peculato)  comporta  una
sospensione  dalla  carica  di   durata   differente,   secondo   che
l'amministratore pubblico in primo grado sia  gia'  stato  condannato
per lo stesso reato ovvero sia stato assolto. In caso  di  precedente
condanna la sospensione e' di soli dodici mesi,  mentre  in  caso  di
precedente assoluzione e' di diciotto mesi. 
    Una siffatta diversita' evidenzia una irragionevole disparita' di
trattamento, che appare confliggere con i principi di  uguaglianza  e
di ragionevolezza sanciti dall'art. 3 Cost. 
    Come  piu'  volte  ribadito  dalla   Corte   Costituzionale,   il
legislatore   ben   puo'   dettare   disposizioni    particolari    e
differenziate, ma queste devono  essere  giustificate  in  base  alle
condizioni soggettive e oggettive alle quali le norme  giuridiche  si
riferiscono. Ne consegue che  il  principio  di  uguaglianza  risulta
violato non solo allorche' vengono  regolate  in  modo  differenziato
situazioni analoghe, ma anche quando il legislatore assoggetta a  una
disciplina indifferenziata situazioni che  egli  stesso  considera  e
dichiara diverse. 
    Al principio di  uguaglianza  e'  coessenziale  il  principio  di
ragionevolezza della legge,  in  virtu'  del  quale  le  disposizioni
normative contenute in atti aventi  valore  di  legge  devono  essere
adeguate  e  congruenti  rispetto  alla  finalita'   perseguita   dal
legislatore.  In  quanto  tale   il   principio   di   ragionevolezza
costituisce un limite alla discrezionalita' del legislatore. Esso  e'
violato  quando   emerga   che   la   disposizione   legislativa   e'
contraddittoria rispetto all'interesse pubblico perseguito. 
    Orbene, come reso  evidente  anche  dai  lavori  preparatori,  la
finalita' perseguita dal legislatore con l'introduzione  delle  norme
contenute  nel  D.Lgs.  235/2012  e'  stata  quella  di   allontanare
dall'amministrazione della cosa pubblica -  anche  in  via  cautelare
mediante la sospensione dalla carica, in attesa  della  definitivita'
della condanna - chi per effetto  della  commissione  di  determinati
reati  (tra  cui,  in  particolare,  i  delitti  contro  la  pubblica
amministrazione) si sia reso moralmente indegno o  comunque  inidoneo
ad assicurare una corretta e onorevole gestione della cosa  pubblica.
Questa  esigenza  di  tutela  della  pubblica   amministrazione   va,
tuttavia, contemperata con un altro diritto di rango  costituzionale,
garantito dall'art. 51  Cost.,  ossia  il  diritto  di  accesso  alle
cariche elettive e di esercizio delle funzioni connesse  alla  carica
conseguita in virtu' di libere elezioni. 
    In relazione agli scopi perseguiti  dal  legislatore  con  D.Lgs.
235/2012, si deve rilevare che la posizione di chi sia stato  assolto
in primo grado e condannato in appello per la commissione di un reato
quale  peculato  non  e'  certamente  piu'  censurabile,   ne'   piu'
pericolosa per la pubblica amministrazione, rispetto a quella di  chi
sia stato condannato per lo stesso reato tanto  in  primo  quanto  in
secondo grado. 
    Appare dunque irragionevole  prevedere  che,  per  effetto  della
pronuncia della sentenza di  condanna  in  appello,  l'allontanamento
dalla carica pubblica sia di dodici mesi per chi  ha  gia'  riportato
una precedente condanna e di diciotto mesi per chi sia stato  assolto
in primo grado. 
    In   tal   modo,   a   seguito   della   condanna   in   appello,
all'amministratore con la  posizione  processuale  piu'  lieve  viene
consentito di rientrare nell'esercizio della  carica  sei  mesi  dopo
l'amministratore con la posizione processuale piu' gravosa. 
    Cio' appare contraddittorio  e  confligge  con  la  finalita'  di
tutela della cosa pubblica perseguita dal D.Lgs. 235/2012. 
    In tal modo, inoltre, l'amministratore pubblico che ha  riportato
un'assoluzione    e    una    condanna     viene     sottoposto     a
un'ingiustificatamente    eccessiva    compressione    del    diritto
all'elettorato passivo garantito dall'art. 51 Cost. 
    La costituzionalita' della disciplina in esame non  puo'  neppure
essere giustificata considerando l'esigenza di evitare  a  chi  abbia
gia' riportato una sospensione  dalla  carica  per  diciotto  mesi  a
seguito della condanna in  primo  grado  l'infiizione  di  una  nuova
sospensione di pari durata. Se  infatti  la  previsione  puo'  essere
ragionevole avendo riguardo alla complessiva posizione di  colui  che
riporta    una    doppia    condanna,    permane     comparativamente
l'irrazionalita'  della  disposizione  normativa  che   infligge   al
condannato soltanto in secondo grado  una  sospensione  maggiore  (di
diciotto mesi, anziche' dodici). 
    Non si vede, infatti, alcuna  ragione  perche',  all'esito  della
pronuncia di una condanna in grado di  appello,  l'assolto  in  primo
grado sia trattato piu' severamente del  condannato  anche  in  primo
grado. 
    Alla ravvisata ingiustificata disparita' di trattamento non  puo'
ovviarsi  neppure  mediante  una  interpretazione  costituzionalmente
orientata del comuta 4 dell'art. 11 del D.Lgs. 235/2012. 
    In effetti il giudice investito dell'impugnazione del decreto che
dispone la  sospensione  dalla  carica  non  ha  la  possibilita'  di
modificare o graduare la durata della medesima, in quanto  questa  e'
prevista dalla norma in misura fissa e predeterminata. 
    Gli altri profili di incostituzionalita' sollevati dal ricorrente
appaiono invece privi del requisito della non manifesta infondatezza. 
    Non si ritiene, infatti, corretta l'interpretazione  della  norma
in esame fornita dal ricorrente per cui nell'ipotesi di condanna solo
in appello per i reati richiamati dalla lettera a) dell'art.  11  del
D.Lgs. 235/2012 non dovrebbe operare la sospensione o  essa  dovrebbe
cessare per effetto della  sentenza  di  assoluzione  pronunciata  in
primo grado. 
    Infatti, l'art. 11  comma  1  lett.  a)  parla  genericamente  di
condanna non definitiva, sicche' il dato normativo  non  consente  di
distinguere tra sentenze di condanna pronunciate  in  primo  grado  e
sentenze di condanna pronunciate in secondo grado. 
    Cio' si desume altresi' dalla lett. b) del comma in esame dove il
legislatore ha espressamente considerato la possibilita' di  disporre
la sospensione per i reati  ivi  indicati  e  considerati  di  minore
lesivita' sociale solo qualora la sentenza di primo grado  sia  stata
confermata in appello per la stessa imputazione. 
    Il legislatore, poi,  volutamente  non  parla  di  giudicato  con
riferimento alle ipotesi disciplinate dall'art. 11, comma 1 lett. a),
sicche' non e' possibile distinguere  tra  condanna  in  primo  grado
seguita da una condanna in secondo grado e assoluzione in primo grado
seguita da una condanna in grado di appello. 
    Cio' posto dalla lettura della norma si ricava che per i soggetti
condannati  per  i  reati  richiamati  dal  comma  1  lettera  a)  la
sospensione di diritto debba operare tanto nell'ipotesi  in  cui  gli
stessi siano stati condannati all'esito del primo grado  di  giudizio
quanto  nell'ipotesi  in  cui  gli  stessi  siano  stati   condannati
all'esito del secondo grado di giudizio. 
    Non si ritiene, inoltre, fondata  l'interpretazione  fornita  dai
ricorrenti per cui la sospensione cesserebbe di diritto  di  produrre
effetti  anche  qualora  la  sentenza  di  assoluzione  fosse   stata
pronunciata in  primo  grado,  in  applicazione  di  quanto  previsto
dall'art. 11 comma 6 del D.Lgs. n. 235/2012. 
    Preliminarmente si osserva che la norma in esame non puo' trovare
applicazione  nel  caso  di  specie,  atteso  che  la   sentenza   di
assoluzione n. 4978/2016 del 5.1.2017  del  Tribunale  di  Torino  e'
stata pubblicata all'albo pretorio del Comune di Borgosesia  in  data
14.12.2018 e comunicata al Consiglio Comunale in data  17.12.2018,  e
quindi  in  data  antecedente   rispetto   alla   notificazione   del
provvedimento di sospensione al Segretario Comunale avvenuta solo  in
data 20.12.2018. 
    La sentenza n. 4978/2016, dunque, non puo' spiegare alcun effetto
interruttivo di una sospensione non ancora decorsa. 
    Si osserva poi che, dovendo essere  disposta  la  sospensione  in
presenza di una sentenza di condanna non definitiva, la  sentenza  di
assoluzione  che  comporta  la   cessazione   degli   effetti   della
sospensione non puo' che essere successiva. 
    E  analogamente,  sotto  un  profilo  logico  prima  ancora   che
giuridico, tutti i provvedimenti elencati dal comma  6  dell'art.  11
D.Lgs. n. 235/2012 possono far cessare la  sospensione  solo  qualora
essa sia gia' stata disposta. 
    Non   risulta,   infine,   fondata   l'ulteriore   questione   di
illegittimita' costituzionale sollevata dal ricorrente,  secondo  cui
la disciplina prevista dall'art. 11 D.Lgs. 235/2012 ai commi 1  lett.
a) e 4 - comportando che alla condanna ancorche' non definitiva per i
delitti indicati dall'art. 10 comma 1 lett. a), b), c)  del  medesimo
decreto legislativo consegue la sospensione di diritto  dalla  carica
di sindaco  -  contrasterebbe  con  il  principio  di  ragionevolezza
enunciato dall'art. 3 Cost. (determinando un trattamento identico per
situazioni tra loro assai disomogenee, in forza di una previsione non
legittimata dall'id quod  plerumque  accidit),  con  l'inviolabilita'
della liberta' personale  tutelata  dall'art.  13  Cost.  (prevedendo
l'applicazione di una  misura  cautelare  limitativa  della  liberta'
personale), con la presunzione di non colpevolezza di cui all'art. 27
comma 2 Cost. (comportando la limitazione di un diritto  fondamentale
prima che sia stata accertata una  responsabilita'  penale),  con  il
rispetto del diritto di elettorato passivo sancito dall'art. 51 Cost.
(impedendo lo svolgimento del mandato elettivo). 
    Tale censura non  risulta  condivisibile,  avuto  in  particolare
riguardo ai  principi  enunciati  dalla  Corte  Costituzionale  nelle
sentenze che hanno gia' affrontato  le  questioni  di  illegittimita'
costituzionale sollevate con riferimento al D.Lgs. n.  235/2012,  che
hanno tutte chiaramente affermato la natura non  sanzionatoria  della
sospensione prevista dall'art. 11. 
    Infine, quanto al periculum in  mora,  osserva  il  Collegio  che
qualora dovesse essere ritenuta fondata la questione di  legittimita'
costituzionale sollevata  in  questa  sede,  ne  deriverebbe  altresi
l'illegittimita' del provvedimento prefettizio impugnato, atteso  che
tale provvedimento -  non  prevedendo  espressamente  la  durata  del
periodo di sospensione - deve essere integrato  proprio  dalla  norma
oggetto di censura di costituzionalita'. 
    L'applicazione del provvedimento prefettizio, nel dubbio circa la
sua legittimita', comporterebbe un'indebita ed eccessiva  restrizione
dell'esercizio dell'elettorato passivo e del libero  svolgimento  del
mandato elettorale, con  conseguente  danno  per  il  ricorrente  non
riparabile ne' risarcibile, tenuto  altresi'  conto  che  il  mandato
elettivo e' temporalmente limitato nel tempo. 
    Si impone  pertanto,  nell'attesa  della  decisione  della  Corte
Costituzionale, la  sospensione  cautelativa  del  provvedimento  del
Prefetto, con previsione della prosecuzione del giudizio  all'udienza
che verra' fissata successivamente alla  pronuncia  della  Corte.  Il
regolamento delle spese processuali sara' dettato a  conclusione  del
giudizio.